A-scuola per una pedagogia emotiva

Un alfa privativo per rimuovere, smeccanizzare e decostruire un sistema dato. Dietro a quella singola “A” si nasconde un mondo, attraverso una lettera diamo a noi stessi la possibilità di rivalutare completamente quel che sembrava certo, non bisognoso di cambiamento. In effetti la scuola dal 1978 ad oggi non ha mai pensato seriamente di dover mettere in discussione se stessa. Una scuola senza la parola “scuola” per come la intendiamo oggi, per come viene ormai banalizzata, e non vuol dire un’eliminazione totale. Certi termini rischiano di diventare obsoleti, forse, quando essi iniziano a corrispondere ad un’immagine mentale comune, una rappresentazione statica per ognuno di noi. Scuola senza scuola non è dunque un inno all’anarchia pedagogica, bensì un terremoto contro lo status quo, contro la prigionia di una parola e di un’istituzione indifferente allo sguardo del cittadino accomodato, dello studente in crisi, dell’insegnante rassegnato.

Proporre uno stravolgimento teoretico del termine per metterlo in discussione, per interrogarlo su cosa realmente esso significhi ora. Che cosa vuol dire scuola? Le risposte potrebbero essere tra le più fantasiose e creative, mentre la realtà dei fatti ci ricondurrebbe sempre in quell’aula, con una media di venti o trenta banchi, in fila per due o per tre, di fronte ad un banco ben più grande, imponente ma non più importante, ovvero la cattedra. Già in questa disposizione vi è una disparità, un gap incolmabile tra il servo e il padrone, hegelianalmente parlando. La conseguente metodologia spesso ricade in un’esposizione, l’incontrovertibile lezione frontale, una trasmissione delle conoscenze acquisite dal padrone, il professore, nei vasi vuoti rappresentati da quegli studenti-schiavi. Fermandoci qua con questi sufficienti dati vi chiederei: vale davvero  la pena di identificare l’apprendimento e la crescita dei bambini prima e ragazzi poi con la parola “scuola”? La risposta e la ribellione non sono poi così scontate perché intraprendere un percorso di cambiamento, una via alternativa a quel “si è sempre fatto così” è un passo troppo lungo per molti.

Se andassimo a chiedere ai “grandi”, a chi è coinvolto in questo sistema da tempo, riceveremmo sempre la solita risposta rassegnata, l’annichilimento di sé per una mezza vita e mezze soddisfazioni, fino ad una mezza scuola. “I grandi sono così”, direbbe anche Antoine de Saint-Exupery, autore de Il piccolo principe, e proprio con questo suo breve romanzo molti si scontrano troppo tardi oppure in modo puramente teoretico. Anche qui è palese l’arretratezza del nostro paese rispetto ad altri come Finlandia e Norvegia ove pratica e teoresi trovano un equilibrio in funzione del problem solving. Partire dal problema in questione per elaborare strategie di risoluzione, partire dalla pratica per un apprendimento esperienziale. In Italia pochi capiscono le parole de Il piccolo principe e si abbandonano alla nostalgia, all’esaltazione per dei concetti semplici e che andrebbero praticati ed incarnati, non solo ammirati.

Difatti la scena seguente a quella dell’aula-tipo, dell’immagine comune che abbiamo della scuola, è data dal sempre crescente individualismo. Si entra nella logica dell’appartamento, del singolo soggetto, nel proprio angolo di tavolo in biblioteca, sui propri libri per il proprio risultato. Si perde il dialogo, cooperazione e team working, oltre all’interazione e la realizzazione dell’intersoggettività, fino all’abbandono all’iper-specializzazione come trionfo della divisione umana. Il tutto si conforma, nulla fuori posto, verso un omologazione di ogni componente in funzione di una sfera perfetta. La perfezione, la sicurezza a cui tende l’uomo sono pagate al caro prezzo della fantasia, dell’immaginazione e dell’emotività.

Questa la via che si prende fin da bambini, per ogni mattina, ricoprendo metà della nostra vita e del nostro essere come studenti, come teorici sempre più specializzati, sempre più orientati in modo eteronomo, attraverso una mano altrui. Piano piano entriamo a far parte del mondo dei grandi, delle dinamiche serie, impegnative, in cui non è possibile ridere, scherzare, nemmeno giocare. Il gioco e l’emotività vengono relegate nella soffitta della nostra mente, della nostra esistenza, come oggetti d’antiquariato in un mondo in continua evoluzione, sempre alla ricerca del progresso. In questo scenario le persone che incontrerete saranno automi inespressivi, terrorizzati dal cambiamento, incapaci di visione prospettica. Alla semplice domanda “che cosa ti piace davvero?” risponderanno con difficoltà, con un’apatia di fondo nelle parole “non lo so, per me è indifferente”. Si pensi che ne I demoni Dostoevskij scrive dell’indifferenza come il peggiore dei mali, così da avere in cambio un mondo estraneo all’emotività, all’espressione di sé e dei propri interessi. Lo scrivo da ventenne che sente risposte del genere dai propri coetanei, da persone che dovrebbero ugualmente seguire una linea di vitalità, di emozione e “I care” nei confronti del mondo ma in primo luogo di loro stessi.

Dal contesto scolastico dunque si delineano in modo effettivo tali dinamiche. Si costituisce un palcoscenico di un oscuro teatro rappresentante figure informi. Vasi, contenitori vagamente umanizzati che vengo riempiti di nozioni con annesse le battute di un copione pre-costituito, fino a non riconoscere più il bambino che è in noi, quella parte infantile e allo stesso tempo libera, gioiosa e giocosa capace di vedere un boa che mangia un elefante e non un semplice cappello.

Grazie a V.B.

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da www.filosofiaesecutiva.com]

 

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Prendi una mamma e aggiungi un po’ di filosofia. Intervista a Vittoria Baruffaldi

Donna, filosofa, madre, insegnante. Quattro identificazioni che offrono le linee guida per iniziare a conoscere Vittoria Baruffaldi. Nella vita, Vittoria insegna filosofia e storia ai ragazzi del liceo e suggerisce a se stessa di fare la mamma con filosofia. Queste ultime le parole che fanno da sottotitolo al suo libro, Esercizi di meraviglia 1, un testo che dimostra il profondo legame che esiste tra quotidianità e filosofia (punto di partenza e al contempo obiettivo del nostro stesso progetto editoriale). La realtà che trapela dalle pagine del libro della Baruffaldi è la realtà quotidiana di una mamma come tutte le altre. Solo, con un pizzico di filosofia in più, la quale fa da insaporitore alle piccole-grandi osservazioni e riflessioni di ogni giorno. In questo modo, nelle pagine scritte dalla Baruffaldi, Socrate insegna alle lettrici a non usare troppo dogmatismo nei confronti dei figli; la lezione del Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein offre spunti interessanti per un approccio con le prime paroline proferite dai nostri bambini; le massime eleatiche 2 fungono da interpretazione dell’egocentrismo che i bambini sviluppano attorno ai due anni; e via così dicendo. Se questi accostamenti vi incuriosiscono, vi suggeriamo la lettura del testo, e nel frattempo vi offriamo questa breve intervista all’autrice. Buona lettura!

 

Parliamo del suo libro, Esercizi di meraviglia. In questo testo lei propone una riflessione eminentemente filosofica riguardo i vari momenti che caratterizzano la vita di una donna che sta per diventare, o è diventata, madre: dall’attesa e dalle speranze tipiche della gravidanza alle gioie e alle preoccupazioni proprie dell’infanzia dei figli. Com’è nata, dunque, l’idea di accostare alcune pagine di storia della filosofia alla sua quotidianità di donna e di mamma?

esercizi-di-meraviglia-vittoria-baruffaldi-la-chiave-di-sophiaEsercizi di meraviglia è la storia di una madre e un bambino che si fanno delle domande, e provano a illuminare il senso del loro rapporto, e delle cose che accadono intorno a loro. Il bambino si meraviglia di fronte al mondo, e la madre prova a re-imparare a meravigliarsi insieme a lui, e così dà un nome nuovo alle cose, persino a se stessa. Il tratto d’unione tra la filosofia e l’essere madre è proprio la meraviglia, quel primo passo, verso le domande, i capovolgimenti, le possibilità.

La nostra società è fortemente intrisa, forse più che in passato, di stereotipi e pregiudizi, non sempre valicabili. A questo proposito vorrei chiederle: che significato ha per lei il concetto di maternità? Crede si possa andare oltre alla costruzione prettamente culturale di questo concetto?

Quello che mi interessava era proprio parlare della maternità dal punto di vista del “pensiero”. La filosofia non è un farmaco: fornisce chiavi di lettura, pone domande, sconvolge credenze cristallizzate. È una possibilità per trovare noi stessi, insomma, e abbandonare stereotipi e modelli imposti (che sulle mamme abbondano da ogni fonte). È una possibilità per essere la madre che si è, una madre complessa, fluida, in fieri.

Potremmo dire che il suo percorso di studio e di vita (da studentessa ad insegnante di filosofia) ha condizionato il suo essere madre e la sua personale riflessione riguardo questo suo nuovo “ruolo sociale”. Capovolgendo la prospettiva, ritiene che la maternità abbia altrettanto condizionato il suo modo di guardare la filosofia?

Fare la mamma con filosofia è l’opposto di fare la mamma che “la prende con filosofia”. La prima è colei che si complica la vita, a suon di domande, dubbi e capovolgimenti. Vantaggi? Imparare a sbagliare, capire; diventare la madre che si sceglie di essere. La maternità non ha cambiato il mio modo di guardare la filosofia, forse solo un maggiore interesse per il pensiero femminile, per una filosofia ben piantata dentro l’esistenza. Prediligo le strutture frammentarie, le “piccole illuminazioni”.

Solitamente questa è l’ultima domanda che rivolgiamo ai nostri interlocutori, ma con lei mi permetto di anticiparla. Che cos’è “filosofia”, che cosa ha rappresentato e cosa significa per lei ora?

Una grande passione, sin dai tempi del liceo. Un modo d’illuminare l’esistenza quotidiana, senza alcuna pretesa di riduzione a una qualche verità. Avere il coraggio di pensare – dare voce agli interrogativi che tutti ci poniamo prima o poi –, stare presso di sé e uscire fuori da sé.

Veniamo ora al suo lavoro: lei è professoressa di filosofia e storia al liceo. L’insegnamento è per lei una passione o in passato si prospettava una diversa posizione professionale?

È il mestiere che volevo fare e che mi piace fare: dopo dodici anni entro ancora in classe sorridendo. Le materie che insegno esercitano un grande fascino sugli studenti.

A proposito degli studenti, lei lavora con gli adolescenti, ragazzi al contempo fragili e determinati. Tornando con la mente a quando io stessa ero studentessa della scuola superiore, mi rendo conto che instaurare un dialogo proficuo con i ragazzi di questa fascia d’età non sia affatto semplice. Considerando il fatto che l’insegnante in questione è chiamato a parlare di storia e filosofia, materie che al giorno d’oggi sembrano collocarsi agli antipodi degli interessi dei giovani, la questione si complica. Che osservazioni ci propone a questo proposito?

Io ho una visione molto positiva dei ragazzi d’oggi: li trovo curiosi, intuitivi. Personalmente li vedo coinvolti dalle mie materie, soprattutto dalla filosofia, che dà loro gli strumenti per comprendere l’architettura, la complessità – anche di informazioni – in cui vivono. Per essere buoni insegnanti bisogna aggiornarsi, usare le tecnologie didattiche in maniera sensata, saper facilitare i processi d’apprendimento in maniera attiva. È necessario essere flessibili e creativi anche nell’insegnamento, essere in grado di adattare quest’ultimo a seconda degli studenti (si creano alchimie differenti di classe in classe, da alunno a alunno) e agganciare ciò che si spiega con la loro contemporaneità. Bene, oggi ti spiego la Fenomenologia dello spirito di Hegel, ma ti spiego anche perché è importante, a cosa ti può servire, come si lega col tuo vissuto. Oppure parto da cose relative al senso comune per mostrar loro come si possa fare filosofia anche attraverso la vita.

Facciamo infine un passo indietro al periodo dell’infanzia. Sulla spinta delle influenze provenienti per lo più da altri paesi europei, anche l’Italia, negli ultimi anni, ha iniziato ad abbracciare la causa della filosofia applicata ad attività e laboratori rivolti ai bambini. Alla luce della sua esperienza di “mamma-filosofa”, cosa pensa del binomio filosofia-infanzia? Nel suo piccolo ha provato a giocare con la filosofia assieme alla sua bambina?

Ho avuto dei contatti con ragazzi e ragazze che si occupano di P4C: mi piace l’idea della filosofia come scoperta formativa, e spero che mia figlia possa partecipare a uno di questi laboratori. Per ora mia figlia va all’asilo, impara con naturalezza e gioca. Quando la vado a prendere le chiedo: ti sei divertita? “Sì”, mi risponde, e questo mi basta. A casa mi vede spesso leggere e scrivere, e quindi gioca a leggere e scrivere. Le racconto miti platonici rivisitati e storielle ambientate ai tempi di Napoleone. Le do quello che conosco. “Ti diverti?” le chiedo, e mi risponde: “Sì”. Per ora mi basta questo.

 

Federica Bonisiol

 

NOTE:
1. Vittoria Baruffaldi, Esercizi di meraviglia. Fare la mamma con filosofia, Giulio Einaudi Editore, Torino 2016
2. L’essere è e non può non essere. Il non essere non è e non può essere. (Parmenide, Poema Sulla natura)

 

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L’esperimento sociale della bombetta

La psicologia ci dice che mediamente impieghiamo dai sette secondi fino a quattro minuti per costruire un’idea della persona che ci sta di fronte. Tu quanto ci metti? Sicuramente ti sarà capitato di impiegarci quell’indicazione minima, quei brevissimi sette secondi all’interno dei quali pensi di aver capito tutto del comportamento, del carattere e delle intenzioni del tuo interlocutore. In un lasso di tempo così ristretto è impossibile cogliere la vera essenza di una persona (inutile dirlo), eppure inconsciamente ci costruiamo delle idee, delle immagini mentali che con forza si impongono nel nostro sguardo verso qualcuno. Il primo impatto si fa così pesante e determinante che spesso facciamo fatica ad essere noi stessi, tendiamo a presentarci al meglio delle nostre possibilità tra linguaggio del corpo ed abbigliamento. Quanta superficialità viene permessa! Quanto terreno che viene conquistato dall’apparenza! Un completo elegante, un viso curato, un orologio di classe al polso pronto a mostrarsi in una stretta di mano. Siamo tutto questo? Sei solo questo? La risposta deve essere “No!” in nome dell’amor proprio.

«Tu non sei il tuo lavoro. Non sei la quantità di soldi che hai in banca; non sei la macchina che guidi né il contenuto del tuo portafogli. Non sei i tuoi vestiti di marca».

Lo afferma Tyler Durden nel romanzo Fight Club di Chuck Palahniuk; forse un po’ banalmente, si potrebbe controbattere. Eppure ci vestiamo di un habitus non nostro, improprio per quel che possiamo davvero mostrare, lo indossiamo e lentamente lo diventiamo. È un’etichetta, un costrutto che non si genera a partire da noi, bensì da una vox populi che si presenta come verità, come via corretta da intraprendere in massa. Il risultato che ne consegue è un non-essere, o meglio una via di mezzo tra quello che essenzialmente siamo e ciò che non è assolutamente parte di noi. Siamo e non siamo allo stesso tempo, una sottile contraddizione che va a minare l’iscrizione sul tempio di Apollo a Delfi «gnōthi sautón» ovverosia conosci te stesso. Se mi faccio carico di un comportamento, di un essere tramandato dalla società, da un qualcosa di altro da me, annichilendomi e togliendo ciò che sono, la conoscenza di me viene assolutamente deviata. La mia essenza verrà data e presentata in modo eteronomo, non più autonomo direbbe Kant, divenendo secondo una volontà altrui, un’influenza esterna.

La verità è che non facciamo realmente ciò che vogliamo, non siamo veramente chi vorremmo essere, assoggettandoci ad una massa capace di includerci, inglobarci e farci omologare. Grandi marche, mode preimpostate, salotti ed interi appartamenti preimpostati. Formazione unilaterale, sempre più iper-specializzata, dalle tabelline all’ingegnere scontento, dalle bocciature al lavoratore manovale sottopagato. Anche la scuola stessa, un percorso obbligatorio, almeno in parte, ci conduce verso una via che si fa sempre più strettoia, sempre più povera di possibilità, di potenzialità secondo l’accezione della dynamis. Il lunedì inietta una prima dose di insoddisfazione, di lamentela generale da maturare sempre di più nel corso della settimana, il tutto in attesa di un sabato sera o di una domenica allo stadio per sfogare tutto quel risentimento, in realtà, diretto verso noi stessi, per non essere davvero sereni, per non essere noi stessi e felici. Il libero arbitrio crolla sempre più sotto il peso di questo parole, il tempo si fa Grande Inquisitore, ogni soggetto si rivela assassino di se stesso, della propria essenza. È una visione tragica, molto interpretativa, che non va posta come accusa al genere umano, come critica dall’alto di un piedistallo che non potrei proprio reggere, che non fa per me.

La soluzione, o meglio la confutazione da promuovere, può trovare ragione o almeno divertimento nel titolo di questo articolo. La bombetta a cui mi riferisco in realtà è solo un escamotage, una metaforica rappresentazione di un possibile atteggiamento. Uscire di casa con un bombetta in stile Charlie Chaplin o Hercule Poirot, poiché si presta bene per la propria assurdità e stravaganza agli occhi curiosi e giudicanti dei passanti, a meno che non ci si ritrovi in Inghilterra. Proprio ritornando da Londra, mi resi conto di quale cambiamento di sensazione poteva esserci nell’andare in giro con una bombetta, passando da un contesto all’ altro. L’obiettivo, però, è arrivare all’ indifferenza rispetto al contesto, slegarsi dalla dipendenza del giudizio, o meglio, del pregiudizio altrui, rivelandone il peso assolutamente inconsistente. Il risultato non può che essere un alleggerimento esistenziale, una leggerezza pari a quella che descrive Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, promuovendo se stessi come essere che corrisponde realmente alla sua essenza ultima.

Dunque, come esperimento, la prossima volta che uscirai di casa prova ad esser davvero chi vorresti essere, vestiti dell’habitus che senti davvero tuo, prova ad indossare la bombetta anche solo per un giorno.

Alvise Gasparini

 

La nuova rivista La Chiave di Sophia #2 dedicata al rapporto tra Uomo e Ambiente. Speciale intervista a Zygmunt Bauman prima della sua scomparsa: "L'arte del dialogo".

 

 

Il caldo amore di un genitore, asfissiante

A un certo punto ci siamo svegliati la mattina del 25 dicembre senza attesa per i regali, senza quel senso di curiosità straripante che ci faceva volare giù dal letto. Non ci siamo più fiondati dai regali che un misterioso Babbo Natale ci aveva lasciato di notte.

Non è più accaduto perché quei due che di solito si prendevano cura di noi ci hanno dato una delusione straziante.
Non esiste alcun simpatico signore che vola con le renne di casa in casa.

Li abbiamo odiati, probabilmente, se ci ricordiamo il momento della scoperta.

Quella forse è stata la prima volta in cui abbiamo messo in discussione i nostri genitori. D’un tratto non erano più il riferimento massimo per la nostra vita, ma una minaccia, una fonte di delusione.

Da allora è stato un susseguirsi di litigi, lotte per ottenere un gioco, un motorino, un’uscita con la compagnia.

I figli sono sempre scontenti, sembra che ogni comportamento non sia quello giusto, che si sbagli sempre qualcosa.

Eppure i genitori fanno sempre tutto per amore dei figli. Non c’è momento in cui non siano davanti a ogni cosa, nel gradino più alto del podio. Ogni atto è un modo per dar loro qualcosa di buono: un’istruzione, un’educazione che li supporti. Un sostegno e una struttura per affrontare il resto della vita nel migliore dei modi.

Dall’altra parte però non tutto viene visto allo stesso modo. Spesso si crea un solco e da una parte e dall’altra schierate due visioni opposte di una realtà impossibile da valutare in modo unilaterale.

L’unico punto di contatto sta nell’intenzione ultima: entrambe le parti vogliono il benessere e la realizzazione del figlio, a qualunque età. Ma in modi diversi.

Il modo, appunto, fa la differenza. Non basta l’aiuto economico, non bastano le scuole migliori, il cibo e i regali. Tutto molto interessante, direbbero gli adolescenti. Ma sterile.

Il rapporto poi non decolla, i figli cercano altro e i genitori si perdono a distribuire beni di qualunque tipo, come fossero un’Ikea di articoli di sussistenza.

Ma in fondo il figlio di che ha bisogno? La maggior parte dei tentavi dei genitori finisce per soddisfare bisogni del genitore stesso, per placare paure e timori di mamme e papà.

Eppure l’articolo 315 bis del Codice Civile è piuttosto chiaro sulla modalità con cui un figlio dovrebbe essere cresciuto. Per una volta la legge non è fredda e sterile, ma ci indica la via di un comportamento che cambierebbe le sorti dell’educazione.

«Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. (…)
Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano».

Ai ragazzi interessa questo, ai bambini ancora di più. Non è tanto il regalo da scartare, l’entusiasmo dei figli è legato alla presenza. Alla condivisione del tempo. L’affetto che percepiscono sapendo che i genitori sono lì da qualche parte pronti ad avvolgerli.

Se non ci fidiamo della legge, chiediamo alla natura, che non sbaglia mai.

L’esperimento di Harry Harlow (psicologo statunitense del Novecento) ci illumina su quello che un cucciolo di scimmia può provare rispetto alla presenza di un genitore. Harlow ha preso delle scimmie e con un gesto di temporanea crudeltà le ha separate dalla mamma. Questi cuccioli di scimmia sono stati poi lasciati in una gabbia: da una parte una “mamma metallica”, cioè un fantoccio in metallo con un biberon annesso, e dall’altra una “mamma morbida” fatta di panni di stoffa su cui appoggiarsi.

Niente, non è il cibo la cosa che le scimmie hanno voluto.

Non è la sopravvivenza fisiologica che istintivamente viene cercata da una piccola scimmia. Questi esemplari si stringevano al fantoccio di stoffa per trovare conforto.

Una coccola non vale un sorso di latte.

Le scimmie al massimo correvano a bere per pochi secondi, e poi tornavano a cercare affetto da quella cosa morbida, calda, accogliente.

Insomma, che sia Babbo Natale o un genitore a portare regali o biberon di latte, la cosa importante è assecondare i bisogni e le inclinazioni dei figli, o, mal che vada, ricoprirsi di stoffa.

 

Giacomo Dall’Ava

[Immagine tratta da Google immagini]

Il diabete infantile: intervista a Giovanni Fusco -Associazione Diabete Junior

Il diabete è una malattia silenziosa di cui spesso si sente parlare ma che in pochissimi conoscono davvero.
Specialmente il diabete junior, che colpisce i bambini piccoli, anche di 2 o 3 anni, è diffuso eppure non si conosce o non si vuole approfondire.
La civiltà di un Paese si dovrebbe misurare sulla capacità di consentire a tutti i suoi abitanti di avere una vita normale, dignitosa che rispecchi i diritti che a tutti sono concessi; eppure il progresso tecnologico e scientifico non va di pari passo con l’evoluzione della mente umana, così succede che le scuole accettino, storcendo il naso, bambini diabetici, per il solo motivo che sono ‘complicati’ da gestire: insulina, glucosio, ipoglicemia…tutte cose che spaventano, ma quando è che si ha paura di qualcosa? Quando non la si conosce.

Ecco che allora con questa intervista a Giovanni Fusco, membro dell’Associazione Diabete Junior Campania nonché padre di una bambina diabetica, vogliamo dirvi di cosa si tratta, quali sono i sintomi da non sottovalutare, come gestire la malattia ma soprattutto il proprio stato d’animo.

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Egr. Dottoressa, in nome dell’Associazione Diabetici Junior Campania Le porgo un caloroso e sentito Grazie per la disponibilità e sensibilità che ci sta mostrando rispetto al tema della tutela del diritto alla salute, alla cura, all’istruzione e alla migliore qualità della vita dei bambini e giovani diabetici.

Grazie a lei, oggi cercheremo di compiere un ulteriore passo avanti nella conoscenza, sensibilizzazione e prevenzione del Diabete Mellito di Tipo 1.

Si sente spesso parlare di diabete nei giovani e nei bambini ma poche volte qualcuno spiega esattamente cosa sia questa malattia, quali sono i sintomi con i quali si manifesta. Ce lo può spiegare?

In merito alla sua prima domanda, Le dico subito che il Diabete che interessa l’età evolutiva è, nella quasi totalità dei casi, un Diabete Mellito di tipo 1 (DM1), caratterizzato dalla distruzione, su base autoimmune, delle beta cellule pancreatiche con conseguente deficit d’insulina.

Il Diabete Mellito di tipo 1 è una delle più frequenti malattie croniche dell’infanzia, purtroppo, la sua incidenza è in aumento. Tale tipo di Diabete (DM1) non deve essere assolutamente confuso con il Diabete di Tipo 2 che generalmente insorge dopo i 40 anni di età ed è causato da un deficit parziale di secrezione insulinica, che in genere progredisce nel tempo ma non porta mai a una carenza assoluta di ormone e che si instaura spesso su una condizione, più o meno severa, di insulino-resistenza su base multifunzionale. Il Diabete Mellito di Tipo 1 rientra nella categoria delle malattie autoimmuni perché è causata dalla produzione di autoanticorpi (anticorpi che distruggono tessuti ed organi propri non riconoscendoli come appartenenti al corpo ma come organi esterni) che attaccano le cellule Beta che all’interno del pancreas sono deputate alla produzione di insulina.

Come conseguenza, si riduce, fino ad azzerarsi completamente, la produzione di questo ormone il cui compito è quello di regolare l’utilizzo del glucosio da parte delle cellule. Si verifica, pertanto, una situazione di eccesso di glucosio nel sangue identificata con il nome di iperglicemia. La mancanza o la scarsità d’insulina, quindi, non consente al corpo di utilizzare gli zuccheri introdotti attraverso l’alimentazione che vengono così eliminati con le urine. In questa situazione l’organismo è costretto a produrre energia in altri modi, principalmente attraverso il metabolismo dei grassi, il che comporta la produzione dei cosiddetti corpi chetonici. L’accumulo di corpi chetonici nell’organismo, se non si interviene per tempo, può portare a conseguenze molto pericolose fino al coma.

I principali sintomi clinici del diabete di tipo 1 sono:

-aumento del volume urinario;

-aumento della sensazione di sete;

-dimagrimento improvviso non dovuto a variazioni nella dieta;

-alito “fruttato”, ecc.

Le cause del diabete di tipo 1 non sono ancora state individuate con certezza. Di sicuro ci sono dei fattori che contribuiscono alla sua comparsa:

–fattori genetici

–fattori immunitari (legati ad una particolare difesa del nostro organismo contro le infezioni)

–fattori ambientali (dipendono dall’azione contro il nostro organismo di batteri, virus, sostanze chimiche, etc.)

Una volta, scoperto, quali sono le tappe da seguire per poter avere una vita normale?

A seguito dell’insorgenza del diabete di tipo 1, le tappe da seguire sono innanzitutto un buon controllo glicemico seguito da una adeguata terapia insulinica il tutto accompagnato da una corretta alimentazione e da tanta attività fisica.

-Il controllo della glicemia è una pratica fondamentale per raggiungere un buon equilibrio glicometabolico, esso consente di regolare la dose di insulina e di prevenire o trattare adeguatamente eventuali diminuzioni o aumenti eccessivi della glicemia.

Il tradizionale metodo effettuato per il controllo della glicemia avviene mediante una piccolissima goccia di sangue, ottenuta abitualmente da un polpastrello, tramite un apposito pungidito.

La piccola goccia di sangue viene analizzata da un glucometro che in 5 secondi fornisce il risultato.

La frequenza del controllo glicemico dovrà essere riportato nel piano individuale di trattamento, solitamente deve essere effettuato prima e dopo i pasti e l’attività sportiva. Verrà inoltre effettuato tutte le volte che il bambino, adolescente e giovane presenterà sintomi riferibili ad ipoglicemia (rapido abbassamento al di sotto dei valori normali del livello di zucchero nel sangue) o iperglicemia (eccesso di glucosio nel sangue).

È evidente che il controllo glicemico è uno strumento che permette di prevenire le ipoglicemie gravi così come le iperglicemie.

-La terapia insulinica prevede la somministrazione di insulina tramite l’iniezione fatta nel sottocutaneo mediante dispositivi preriempiti d’insulina detti anche penne, perché ne ricordano la forma, con degli aghi piccolissimi lunghi da 4 a 6 mm all’estremità.

Le dosi d’insulina da praticare sono indicate nel piano individuale di trattamento e aggiornate periodicamente in base alle esigenze.

In ogni caso, un bambino/adolescente/giovane diabetico dovrà necessariamente praticare un minimo di 4/5  punture al giorno d’insulina al fine di coprire i pasti, più una puntura di insulina ,detta basale, che in genere controlla la glicemia fuori dai pasti, senza considerare poi i casi di iperglicemia in cui si richiede una ulteriore puntura di insulina.

Un altro modo di somministrare l’insulina è quello che utilizza il microinfusore, in questo caso non sarà necessario praticare alcuna puntura perché l’insulina viene iniettata attraverso una cannula che connette il microinfusore al sottocutaneo, per cui basterà spingere un pulsante per erogare insulina.

-L’alimentazione.

Le indicazioni nutrizionali di un bambino, adolescente e giovane con diabete sono le stesse di quelle di qualsiasi altro soggetto di pari età e fabbisogni che non abbia il diabete e si alimenti in modo corretto.

L’alimentazione del diabetico così come del non diabetico deve essere sana ed equilibrata.

Ovviamente per il diabetico va tenuto in considerazione il rapporto carboidrati/insulina al fine di avere un buon bilanciamento tra i due fattori.

L’attività fisica.

L’attività fisica è di fondamentale importanza per la vita del bambino, adolescente e giovane con diabete in quanto brucia gli zuccheri ed automaticamente abbassa la glicemia.

Il Diabete non impedisce ad un bambino diabetico di praticare attività sportive né individuali né di squadra.

Si dice che il diabete sia una malattia che va monitorata 24 ore su 24: per un bambino che deve frequentare la scuola, come i suoi coetanei, cosa succede? Le scuole hanno le attrezzature ma soprattutto la formazione adatta per la supervisione dei bambini affetti da diabete?

In merito al rapporto bambino, adolescente e giovane con Diabete(DM1) con la scuola.

Ebbene, la scuola gioca un ruolo fondamentale nel permettere al bambino con diabete di raggiungere il benessere psicofisico e il completo sviluppo delle sue potenzialità e peculiarità.

La scuola è il contesto in cui il bambino confronta e costruisce se stesso al di fuori dell’ambiente protetto della famiglia; è il contesto in cui verifica se i messaggi rassicuranti che il team curante gli ha dato, rispetto alla gestione e al vivere con il diabete, corrispondono a verità.

La modalità con cui il bambino, adolescente e giovane si rassicura sul suo essere adeguato è legata alla risposta che riceve dall’ambiente, anche e soprattutto rispetto alla sua condizione di malattia.

Lo stato psicologico e la qualità di vita del bambino con diabete non sono estranee al controllo metabolico, anzi lo condizionano in modo importate.

Detto ciò, purtroppo, bisogna affrontare la triste realtà in cui viviamo, dove la scuola, sempre più in difficoltà negli ultimi anni per i tagli alle risorse ed il continuo cambiamento, si trova di fronte all’inserimento di un bambino che vive una condizione di vita spesso sconosciuta alla società e confusa con il Diabete di tipo 2, ben diverso dal Diabete di tipo 1 nelle cause e nella terapia medica: l’insegnante, priva di qualsiasi formazione e strumento, si trova spesso di fronte all’ignoto, e l’ignoto per sua natura fa paura, al pari di quella provocata dalle responsabilità a cui si trova di fronte, da affrontare in un contesto fatto nella maggior parte dei casi di classi sempre più numerose e/o con meno insegnanti ed in cui ogni bambino può essere a proprio modo portatore di una problematica specifica, sia essa di tipo medico o psicologico.

Per tali motivi, molte volte le strutture scolastiche utilizzano metodi devastanti nei confronti dei bambini/giovani con il Diabete, ricorrendo a comportamenti discriminatori e di totale emarginazione.

Sa quante volte è capitato che genitori di bambini diabetici si son trovati ad implorare la collaborazione degli insegnanti per poter stare, non dico sereni, ma almeno un tantino tranquilli mentre i loro figli si trovavano a scuola, ma che non sempre-purtroppo- trovavano la collaborazione che si aspettavano da un educatore.

In realtà è difficile integrare chi ha una diversità che non è immediatamente visibile, ma noi non dobbiamo elemosinare una disponibilità che dovrebbe essere scontata.

Detto ciò, è evidente la necessità di diffondere e consolidare la condivisione istituzionale delle politiche sanitarie e scolastiche su temi che riguardano la garanzia della frequentazione educativa, scolastica e formativa dei bambini e ragazzi con diabete.

La sofferenza di questa malattia è spesso avvertita più dai genitori che dai bambini; una volta scoperta la malattia quali sentimenti si accavallano nel proprio animo e come si riesce a tenerli sotto controllo?

La sofferenza della malattia avvertita dai genitori? Come si controlla?

Sono un papà di una bimba con diabete, la stessa che ha avuto l’esordio alla tenera età di anni due e mezzo e che da due anni viene costantemente seguita durante la sua quotidianità, diurna e notturna.

Posso dirle che il diabete anche se non colpisce in prima persona i genitori, quando il diabete entra in casa, di diabete si ammala tutta la famiglia e i genitori lo vivono quasi quanto i figli.

Dopo l’esordio del diabete si vive una condizione di completa disperazione, di abbandono, di paura mista ad ansia per il futuro del proprio figlio/a, di dolore nel cercare di accettare la cronicità di una malattia come il diabete.

Non riesco ad esprimere i sentimenti che provo quando mi trovo a misurare la glicemia, pungendo il ditino della mia piccola,  anche più di 10/11 volte al giorno, alle notti in bianco al fine di controllare la glicemia per la paura di una ipoglicemia notturna, alle crisi di pianto che spesso accompagnano le mie giornate, perché in fondo quello che penso è che mia figlia può assolutamente fare le cose che fanno gli altri ma con una “normalità” diversa……la sua normalità.

Con il diabete si può convivere, si deve “convivere” si possono raggiungere obiettivi ambiziosi ed importanti, magari persino più “importanti” di quelli che molti non diabetici raggiungano, ma a costo di un impegno, di una dedizione, di un’attenzione che è “per sempre”, come il diabete.

Per cui posso dire che i sentimenti ai quali facevo riferimento non si controllano, impari a convivere con loro, con la speranza di un futuro migliore, che la scienza possa un giorno bussare alla tua porta per ridare al tuo cucciolo ciò che in qualche modo la vita gli ha tolto.

Ma di una cosa sono sicuro, che il bambino, giovane e adolescente con diabete è un essere speciale, non perché ha il diabete, ma perché grazie al diabete vive più consapevolmente e sa cosa vuol dire non arrendersi mai.

Come si spiega ad un bambino piccolo la propria malattia e il fatto che questa non deve prendere il sopravvento su di lui ma deve al contrario essere il suo punto di forza?

Giustamente bisognerà pur dirlo al bambino che è diabetico, compito arduo del genitore,  ma basterà pensare che un bambino diabetico necessita di tutto quello di cui  ha bisogno un bambino, quindi soprattutto di amore, fiducia, speranza nel futuro.

Un ambiente familiare sereno, tranquillo e ricco di valori è fondamentale perché impari a gestire il proprio diabete in autonomia, relazionandosi in modo sano con la malattia, ovvero controllando la glicemia regolarmente senza esserne ossessionato, rispettando la dieta e gli orari dei pasti, adottandoli come uno stile di vita salutare, senza viverli come una punizione o una costrizione. Il dialogo non può mancare, anche per affrontare insieme quelle domande senza risposta che sono il principale serbatoio della rabbia e delle altre emozioni negative.

Adottare uno stile educativo equilibrato è una vera sfida: la tendenza ad essere iperprotettivi è quasi naturale, perché gestire la propria ansia può essere più difficile che gestire la glicemia. E’ difficile, ma importante, trovare il giusto compromesso tra educare alla responsabilità e “vigilare” senza essere percepiti come oppressivi, allora bisognerà giocare con lui, mostrargli la malattia da una prospettiva più accettabile…

Per i bambini più piccoli, può essere utile affrontare il percorso verso la gestione autonoma della malattia come un gioco, con allegria. Esistono molti libri che cercano di spiegare il diabete ai bambini e ai loro coetanei, utilizzando favole e fumetti, come la storia dell’orsetto Lino, un orsacchiotto protagonista di un libro. La storia di Lino è in realtà quella di un bambino che scopre di avere il diabete, racconta l’impatto di questo cambiamento nella sua vita, impara a conoscerlo e ad affrontarlo con coraggio e serenità con l’aiuto di chi sta intorno, genitori, medici ed amici.
Tramite il gioco, i bambini acquisiscono una prospettiva di malattia più facile da accettare e riescono ad attivare in tempi più rapidi i comportamenti quotidiani necessari per l’autogestione. Non si può pretendere tutto subito, la gestione del diabete non fa parte del repertorio comportamentale dell’essere umano.

C’è appena stata la giornata mondiale del diabete e l’Associazione Diabete Junior Campania ha partecipato organizzando nel centro di Napoli una serie di attività per sensibilizzare l’opinione pubblica; quali sono i compiti di questa associazione e come si riesce ad ‘educare’ il popolo?

L’ Associazione Diabete Junior Campania che da anni opera sul territorio si batte costantemente al fine di dare voce e tutela ai bambini e giovani con Diabete di Tipo 1, mediante l’informazione, l’educazione e la propaganda.

Le giornate mondali del Diabete rappresentano per noi dei momenti di fondamentale importanta al fine di istruire il popolo alla prevenzione, all’importanza della diagnosi precoce.

Perchè in fondo noi non possiamo arrenderci, noi ci dobbiamo essere, per tutti, soprattutto per gli ultimi della fila. Dovremmo esserci, dobbiamo esserci, ci saremo.

Il Diabete non ci toglierà il sorriso!!!!!

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Vorrei sentitamente ringraziare Giovanni per le informazioni che ci ha dato e per avere condiviso la sua esperienza, sottolineando la missione dell’Associazione Diabete Junior: fare prevenzione, perché solo una diagnosi precoce può salvare i nostri bambini e questo può essere fatto solo attraverso la conoscenza della malattia e dei suoi rischi.

 

Riferimenti:
-Documento strategico AGDI
-www.diabete.com

Valeria Genova

Vi è traccia di divertimento nello studio della storia?

Puntualmente, per esperienza personale, quando chiedo ai bambini un indice di gradimento numerico per l’insegnamento di Storia, il valore che ottengo solitamente è prossimo allo 0. Nel migliore dei casi. Motivi? La Storia è noiosa e vecchia così come il maestro che la insegna, anche se magari ha 35 anni. Una sorta di consustanzialità fra il documento storico ammuffito e il classico pile sgualcito dell’insegnante. In pratica una crisi d’identità assicurata intorno ai 40 anni per chi come me è in procinto di laurearsi in Storia e non disdegna una carriera futura da passare dietro la cattedra.

Quali sono i motivi di tale declino? Perché piace addirittura più la Matematica e soprattutto l’ora di Religione con i suoi film pieni di amore e lieti fine stucchevoli?

Innanzitutto è necessario premettere due cose: in primo luogo ogni fascia d’età possiede esigenze e capacità differenti e specifiche. Quindi è assolutamente improprio far imparare migliaia di date a memoria agli adolescenti; tanto il giorno dopo scambieranno la caduta dell’Impero Romano d’Oriente con quello d’Occidente. Tranne per i nerd: loro le sapranno grazie alle mille ore passate davanti ai giochi di strategia per il Pc.
In secondo luogo, invece, si deve ammettere che non tutte le epoche hanno sentito la mancanza di volgere lo sguardo verso il passato per studiarlo. Basti pensare a oggi, dove la modalità classica di trasmissione del sapere – dall’anziano al giovane, dal maestro all’alunno, dai genitori ai figli, dal passato al futuro – si sta rapidamente invertendo: ora sono i figli ad imprecare contro i genitori, colpevoli nel 2016 di non sapere utilizzare la tecnologia.

Oh Clio, come fare allora per recuperare quel divertimento che lo studio della Storia recava a Marc Bloch?1

Sicuramente compiendo azioni rivoluzionarie.
Togliamo la cattedra! Le lezioni frontali producono un’insensata voglia di giocare a Snake e per chi ha il cellulare scarico appisolarsi risulterebbe la miglior opzione. A parte l’ironia, credo che una disposizione a cerchio delle sedie faciliti il dibattito perché mancherebbero riferimenti spaziali – gerarchici. In questo modo, da un lato gli studenti parteciperebbero attivamente senza timore dell’entità suprema confinata dietro la cattedra e dall’altro il maestro migliorerebbe la propria relazione con i propri allievi ed emergerebbe nella discussione in ogni caso come fonte di sapere, visto le sue maggiori conoscenze.

La Storia è vita vissuta! La Storia è fatta di carne e di ossa! Molte volte i manuali raccontano le guerre, le scoperte e le rivoluzioni come fossero di altri mondi. La Terra ne sembra incolume.
Beh, aggiornamento dell’ultima ora: noi tutti facciamo parte della Storia. Sono convinto che esserne consapevoli sia estremamente utile e affascinante per due ragioni: da un lato pungolerebbe la curiosità di coloro che vedono nel sussidiario con copertina verde – la Storia l’ho sempre associata a questo colore. Retaggi delle scuole elementari – un potenziale allergenico; dall’altro pensarsi all’interno del flusso storico stimolerebbe le riflessioni sul rapporto che intercorre tra l’individuo e gli eventi, sia passati che contemporanei. Alla fine lo studio della Storia non è altro che un’intervista continuamente aggiornata rivolta al passato, un interlocutore difficile da capire, ma allo stesso tempo affascinante per la molteplicità di punti di vista che può darti.

Solo attuando queste modifiche (le idee sarebbero molte di più), la Storia da disciplina marginale di un’ora alla settimana, diventerebbe azione quotidiana di comprensione della società.
Alla fine anche Euclide e il suo maledetto teorema sono stati concepiti in questo mondo.

Marco Donadon

NOTE:
1. M. Bloch, Apologie pour l’histoire ou Métier d’historien, 1949.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Un illogico teorema di incompletezza

In quel corridoio ho lasciato una parte di me. È rimasta lì, come anche sui banchi, su ogni foglio utilizzato, ogni riga scritta, ogni parola proferita. Sono tante piccole parti che in un qualche modo mi mancano, sento la loro mancanza, come se fossero tasselli del puzzle che sono e che lentamente sto smontando. Sento di avere delle parti mancanti, sento questo desiderio nostalgico, il pensiero di qualcosa che avevo, che ho vissuto e altro non è che un ricordo, una cosa passata che non può tornare. Nel ricordare un’esperienza come il mio esame di maturità quando è ormai già passato un anno, mi sento quasi come un Ulisse consapevole di non poter tornare alla sua Itaca, consapevole di aver intrapreso un viaggio più grande di lui. Ricordo con piacere o con un’invariata emozione ogni singolo dettaglio, ogni singola scena di quel che è stato, di quel che ho fatto in quel periodo per me così importante, mentre per altri era un semplice ed indifferente mese di giugno, proprio come dovrebbe esserlo per me ora.

Il tempo passa e non lo possiamo fermare, non possiamo relegare noi stessi in una forma congeniale, in un corpo e in una mente che non siano soggetti al divenire, non me ne voglia Parmenide. Siamo costretti ad andare avanti anche se alla nostra testa piace voltarsi per guardare ciò che ormai è stato, ritrovandoci spesso in un’impossibilità, in un paradosso da noi creato per andare contro al mondo, alla vita stessa piena di regole preimpostate. Siamo noi questo paradosso, ci rinchiudiamo da soli in una gabbia di ricordi, pensando di poterci trattenere nel passato, nelle emozioni che già abbiamo vissuto e che sempre vorremo aver presenti. È un desiderio capace di distruggerci, di lacerarci nel nostro io più profondo, un io che non si sente a suo agio e vaga nella temporalità, che tende al passato apparentemente paradisiaco. Ciò che già abbiamo superato, che ormai ci è lontano e si presenta come ricordo è una figura subdola, non poi così veritiera come può apparirci. Nel nostro criticare la realtà, cercando di fuggire dalla scomodità del presente, dimentichiamo così velocemente la medesima condizione che caratterizzava tutte le altre esperienze che non sono più attuali per noi. Non ci toccano più nelle loro particolari difficoltà, nella loro pesantezza nel viverle, perché ormai distanti dalla nostra percezione. La falsificazione del ricordo qui rischia di essere effettiva, causata soprattutto da una mentalità attualizzante che nell’andare a ritroso elegge sempre il passato e ogni sua immagine come i momenti più belli da noi vissuti, la condizione migliore in cui sentiamo di non esserci crogiolati abbastanza.

Sarà sempre così, nella nostra impossibilità o non accettazione di vivere il presente appieno, questo istante irripetibile in ciò che può darci nel qui ed ora, finiremo sempre a rimpiangere il passato. La nostra condizione risulterà essere sempre quella di una figura incompleta per sua volontà, un puzzle che, come ho detto ad inizio articolo, si sta smontando lentamente lasciandosi deficitario dei propri tasselli. Ed è pur vero che non possiamo fermare quest’inesorabile scorrere, questo tempo fluido che tutto si porta appresso, ma non ne possiamo neanche rimanere in balia. Possiamo accettare tutto ciò, accettare il tragico nella nostra vita e diventare ciò che siamo, parafrasando Nietzsche, rendendoci conto che ciò che veniva visto come il lento declino, la costante perdita di qualcosa, di una parte di noi è sempre compensata da qualcosa che deve ancora arrivare. Come costruttori di questo puzzle che noi stessi siamo, dobbiamo poter accettare di inserire nuovi pezzi ad una sagoma che altrimenti rischierebbe di rimanere vuota, andando addirittura a cancellare la sagoma stessa.

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

Una mattina a scuola…

Le cose che accadono sono molte. Quelle che possono accadere, ancora di più.

Tutto quello che riusciamo a immaginarci è ipoteticamente possibile, il modo in cui potrebbe manifestarsi è addirittura infinito.

Le cose, quando avvengono, si verificano sotto forma di eventi. Di essi ne abbiamo un vasto assortimento: dire «grazie» a qualcuno, regalare un mazzo di fiori, tirare un schiaffo, perdere un treno, rispondere al telefono, scrivere un libro, e così via.

Gli eventi, però, ci fanno pensare. A volte non sappiamo quali siano i loro confini temporali o spaziali, ma siamo certi che sono avvenuti, che stanno accadendo ora o che si svolgeranno nel futuro.

«Federico si è preso il raffreddore!». Sì, ma, quando? Dove?» 

«M’innamorerò!» D’accordo, ma esattamente quando avverrà? »

Un evento può essere semplice, complesso, universale, particolare, ma a fare la differenza è principalmente il modo con cui lo si guarda. È la prospettiva da cui lo spiamo che conta maggiormente.

Evento I, Scenario I, Visione I

Scuola primaria: l’insegnante entra in classe alle 08.25 e termina la lezione alle 12.30.

Ci troviamo di fronte a un unico grande evento, con un inizio e una fine? Davvero possiamo dire che l’insegnante ha fatto lezione in un preciso luogo e in un preciso momento? E quali sono le conseguenze se considero questo evento solo da un punto di vista generale? Di certo perderò una grande quantità di elementi che mi avrebbero aiutato a comprendere meglio ciò che nei fatti è davvero avvenuto nella classe.

Già, ma cosa?

Gli accadimenti, anche quelli più semplici, non sono così innocui se si ha la pazienza di starli a guardare. Se il nostro obiettivo consiste nell’analizzare alcune dinamiche che sappiamo essere comprese all’interno di un certo evento, dunque, dobbiamo guardarci dal semplificarlo. Dobbiamo sostare fra le spaccature delle cose, dei minuti, dei secondi, dei banchi e dei gessetti, per vedere cosa funziona e cosa invece occorre lasciar andare.

Tale atteggiamento ci porta a rivalutare la nostra opinione sull’ordinarietà di certi eventi. Lo scenario I, che credevamo povero di dettagli, è invece un universo d’informazioni fondamentali per chi sa guardare, ovvero per chi sa cosa cercare.

Evento I, Scenario I, Visione II

Scuola primaria: l’insegnante entra in classe alle 08.25 e termina la lezione alle 12.30.

Ma lì dentro vi è un continuo susseguirsi di eventi, di ogni tipo, tutt’altro che slegati tra loro.

A albero, B barca, C camion; la lavagna, prima vuota, ora è piena di regoline scritte.

C’è lo starnuto di Giovanna e c’è Sara che accartoccia un foglio per far canestro nel cestino.

E poi Veronica che presta un colore a Federico, ma ecco un evento diverso dal precedente: quello in cui Federico le  chiedeva in prestito il colore.

C’è Luca che parla ininterrottamente con Vittoria disturbando i compagni di banco, ma anche quello dove, penna in mano e occhi sul quaderno, troviamo tutti i bambini concentrati a svolgere le somme sui loro quaderni a quadretti.

Carolina che dà un pizzicotto a Marco e Marco che scoppia a piangere.

 Daniele che offende i compagni, e quest’ultimi che vogliono che lui la smetta.

 Margherita che chiede di andare in bagno e Lorenzo che si avvicina alla cattedra lamentandosi per il mal di testa…

Tutti questi piccoli eventi sono dei particolari ai nostri occhi. Particolari che in egual misura dovrebbero esser presi in considerazione da chi si appresti a lavorare in classe. L’apprendimento è una cosa seria. Il buon apprendimento lo è ancora di più.

Se è vero che è meno faticoso conservare una visione base di ciò che ci circonda, gustandosi la realtà per eventi generali e separati tra loro (Visione I), è pur vero che ogni maestro che si rispetti non ignora alcun accadimento e come dice (scherzando) ai bambini: ha gli occhi anche dietro la testa! (Visione II).

Giorgia Aldrighetti

[immagine di proprietà di FCB]

L’ambiente ‘Classe’ (E quello che vi sta dentro)

«Ognuno sempre e dappertutto, più o meno coscientemente, impersona una parte… È in questi ruoli che ci conosciamo gli uni gli altri; è in questi ruoli che conosciamo noi stessi»

R. E. Park, Race and Culture

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«Che cosa ci fai qua?»

Chiedono incuriosite le maestre a G.

Sono intente a terminare la loro riunione di classe, tutte accerchiate intorno alla cattedra.

G. è appena entrata nella sua II^ B.

Si è scordata sotto il banco il quaderno per svolgere i compiti dell’indomani e la mamma l’ha accompagnata a scuola per recuperarlo.

Sono le 17.00 del pomeriggio e G. non dovrebbe essere lì. La mattina si, ma il tardo pomeriggio no. Effettivamente in quella seconda elementare manca qualcosa di essenziale; le sedie sono vuote e i pavimenti perfettamente puliti. I banchi, allineati e in ordine, non sono ricoperti d’astucci, colori o trucioli di matite e per la stanza c’è un silenzio inusuale.

C’è qualcosa di strano. La classe continua a presentare un tono magico, nonostante la sua funzione mattutina d’apprendimento sia entrata in pausa.

L’aula scolastica, a quell’ora di tardo pomeriggio, senza i bambini, senza la campanella, senza l’ora di matematica e la ricreazione perde la sua normale rappresentazione e G., senza la cartella sulle spalle, mette da parte il suo ruolo d’alunna.

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L’idea dell’ambiente “classe” ruota attorno a una serie di simboli che si ripetono ovunque, in qualsiasi scuola, in qualunque città. Riconoscerli aiuta a capire come funzionano le dinamiche scolastiche, le identità che si creano e le rappresentazioni che si inscenano.

La classe non è un “contenitore” assoluto o vuoto, ma presenta precisi confini spaziali. La porta che separa la classe dalle altre, così come il sipario in un teatro, è il simbolo dell’entrata e dell’uscita, del dentro e del fuori, del palcoscenico e del dietro le quinte. Ogni singola componente all’interno di un’aula rappresenta un elemento di un copione; ha la sua storia, la sua funzione, il suo fine.  I muri abbelliti di cartelloni delle tabelline e di lettere, le finestre, la cattedra, i banchi con le sedie: tutto ciò è indispensabile a creare l’ambientazione opportuna.

La campanella suona.

I bambini corrono dentro la porta della propria classe. C’è chi entra per primo, in silenzio, sistemando con ordine le cose sul proprio banco, c’è chi arriva rincorrendosi con qualcun altro e c’è chi viene già svogliato lanciando per terra lo zaino. C’è sempre il ritardatario, l’ultimo ad arrivare, ed ecco che infine il richiamo all’ordine della maestra dà il via allo spettacolo dell’educazione.

Si vengono a creare fin da subito una serie di interazioni che danno libera espressione al Sé di ogni bambino, composto da risa, offese, battute e spirito di narrazione:

«Sai, alla festa di compleanno di mamma…»;

«Guarda, il dente che ho perso ieri…»;

«Maestra, lui mi ha nascosto il colore arancione…».

Molto spesso si celano anche ghigni, sguardi silenziosi, gesti e posizioni del corpo che sanno dire molto di più delle parole. Tutti questi ingredienti mescolati e combinati fra di loro creano dinamiche di classe particolarmente complesse.

Ognuno di noi, inserito in un particolare contesto, personifica un ruolo e anche i bambini, in classe, finiscono per avene uno. Il ruolo, se voluto e sentito limpidamente, può divenire pretesto per esprimere la propria identità al fine di un diretto contatto con le proprie emozioni. Se imposto da qualcun altro si trasformerà però in un fardello da trascinarsi dietro, un compito, un lavoro da portare a termine. Il bambino più introverso, etichettato dagli altri come “il timido”, deve far sì che tutto quello che farà combacerà con l’immagine attribuitogli. Lo stesso vale per “Il maleducato”, “il rompiscatole” “il piagnone”, etc.

Ma la fissazione di ruolo è sbagliata.

I bambini, specialmente, sono in fase di cambiamento continuo e devono sperimentare diversi modi d’essere prima di arrivare a capire chi siano davvero, con l’obiettivo di crearsi una sana e solida identità personale.

Quand’è che a parlare è Lorenzo o il personaggio di Lorenzo? Quand’è che i bambini dicono davvero quello che pensano senza limiti all’immaginazione? Quando, invece, ripetono solo quello che maestri, compagni e l’istituzione “scuola” vogliono sentirsi dire?

Bambini totalmente assorbiti dal ruolo che gli è stato attribuito finiscono per diventare quella cosa, convincendosi di essere davvero così.  Tenderanno a soffocare il proprio vero io, compiacendo l’idea che gli altri hanno.

E in tutto ciò l’insegnante? Quest’ultimo ha un compito molto importante. Deve far sì che i bambini giochino con i vari ruoli senza saturarsi con uno in particolare. L’occhio dell’insegnante è vigile e attento. Lo sguardo, come la luce di un faro, si sofferma continuamente e ripetutamente da un bambino all’altro, senza mai dimenticarsi di tutto ciò che vi sta attorno.

Il bambino deve sentirsi libero di saggiare i propri limiti affinché a emergere e vincere sia l’originalità, non la convenzionalità.

Giorgia Aldrighetti

[Filosofiacoibambini]