A lezione di vita. O di morte?

Ultimi giorni di scuola.
I ragazzi entrano in classe, buttano lo zaino a terra vicino al banco e si siedono. La loro mente è già proiettata al di là di questi muri. C’è un dopo che li attende. Ma stamattina ho in serbo per loro un compito importante, ho una domanda che incombe.

“Che cos’è per te la felicità?” 

Mi guardano stupiti. Cercano conferma nel compagno di banco. Non è una domanda facile, lo so. Nel giro di pochi minuti le mani inforcano la penna e cominciano a scivolare leggere sul foglio. Ogni tanto si inceppano e il loro sguardo incrocia il mio, poi via di nuovo a intessere questa inconsueta ragnatela di significati.

Quando tutti hanno finito, incalzo con il secondo quesito. Ora scrivi che cosa fai per essere felice. “Ah… questa è più facile, prof!”, dice qualcuno. C’è chi scrive senza alzare mai lo sguardo, chi invece ha bisogno di prendere fiato.

Ultimo compito. Ora scrivi tre cose che ti tolgono la felicità. Nessuno obietta. Tutti hanno qualcosa da dire e il mio obiettivo è in parte raggiunto. Quando raccolgo i fogli in una scatola, l’emozione è palpabile. Ci rendiamo conto che qui dentro c’è qualcosa di importante, qualcosa che va trattato con cura. Ridistribuisco i fogli a caso e incominciamo a leggere.

“La felicità è stare con la mia famiglia e con gli amici; la felicità è far contento un amico; è giocare a carte con i miei genitori, la sera. La felicità è raggiungere un risultato importante, prendere un bel voto. E’ rendere felici i miei….La felicità è…”. Ci sono tante parole preziose in questi fogli volanti ed è difficile passare oltre, ma quando affrontiamo la seconda domanda succede qualcosa di inatteso. Un ragazzo alza la mano e mi dice: “Prof, io per essere felice voglio pensare bene della morte”. Ho un attimo di smarrimento. “Cosa intendi di preciso?” ribatto.

“La morte è un fatto certo. Tutti dobbiamo morire. Se ci penso, mi spavento molto, è una cosa terribile sapere che ti accadrà. Se, invece, impari ad amare la morte, la tua vita sarà più serena e rilassata, darai più importanza alle cose che fai“.

Non posso credere che abbia detto proprio questo. “Vivere tenendo conto della morte è importantissimo, quanto difficile” gli dico, “e tu l’hai intuito ora, a soli 14 anni. Bravo.”

Mi guarda inorgoglito e io ripenso alle bellissime pagine di uno dei più grandi filosofi del ‘900, Heidegger. Nel suo libro Essere e Tempo, un progetto ambizioso rimasto però incompiuto, egli fa un’analisi profonda dell’uomo come Essere gettato nel tempo. La sua esistenza è destinata a finire perché è proprio la morte a caratterizzare il suo Esserci qui e ora. L’uomo per definizione è un essere mortale. Ma l’angoscia che lo attanaglia, quando comprende questo, è un sentimento  tanto doloroso quanto necessario. Vivere il vuoto, accusare il non senso di una vita che è destinata a finire, può causare smarrimento all’inizio, ma poi diventa la chiave di volta per iniziare a vivere in modo autentico

Vivere sapendo di morire ci mette davanti a una scelta fondamentale. Continuare a tirare avanti come se fossimo immortali, sprecando il tempo in chiacchiere, facendo cose inutili, basando la nostra felicità su oggetti che non ci apparterranno mai del tutto, oppure prendere in mano la vita e decidere ogni mattina dove orientare il timone.

«Prima di tutto bisogna caratterizzare l’essere-per-la -morte in quanto essere-per una possibilità, e precisamente per la possibilità più specifica dell’Esserci stesso. Essere-per  una possibilità, cioè per un possibile, può significare: avere a che fare con un possibile nel senso di prendersi cura della sua realizzazione» (Martin Heidegger, Essere e Tempo, 1970).

La morte è l’unica certezza, tutto il resto è possibilità. Siamo artefici del nostro quotidiano,  ogni giorno siamo chiamati a dare un senso a ciò che facciamo, a prenderci cura delle nostre possibili vie da percorrere.

Io avrei potuto entrare in classe e fare la mia solita lezione. Non l’ho fatto. Ho scelto di porre una domanda importante e tutto ciò ha dato un senso inaspettato alla mia quotidianità. Questa è la nostra grandezza, la scelta che facciamo ogni volta che iniziamo le nostre giornate. Tutte.

 

Erica Pradal

 

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la chiave di sophia 2022

Libertà come responsabilità: intervista ad Antonio Calò

Quello dei migranti sembra un tema irrisolvibile ed è soprattutto molto divisivo tra chi accoglierebbe indiscriminatamente e chi allo stesso modo respingerebbe. Il tratto in comune tra queste due posizioni sembra quello di non avere però a portata di mente una soluzione al problema – o almeno un tentativo di risoluzione – né nell’uno né nell’altro caso. 

Così ne abbiamo parlato con qualcuno che una soluzione invece sembra averla: Antonio Silvio Calò, professore di religione e filosofia al liceo classico di Treviso, molto amato tra gli studenti ma balzato qualche anno fa anche agli onori della cronaca. Ne avevamo già parlato in questa intervista e, agli albori del 2022 e con un libro fresco di stampa (Senza distogliere lo sguardo. Una storia di impegno civile, UTET) lo abbiamo risentito per fare “il punto della situazione”.

 

Giorgia Favero – Si può fare. L’accoglienza diffusa in Europa (nuovadimensione, 2021) è uno dei suoi ultimi libri e racconta la sua esperienza personale quando la sua famiglia ha aperto le porte a sei ragazzi del Nord Africa. Un modello che ha portato in Europa e che si è tradotto nel progetto EMBRACIN di cui è capofila il Comune di Padova ma coinvolge sei Paesi europei. Qual è la sua proposta per affrontare la delicata questione migratoria?

Antonio Calò – È una proposta che può funzionare solo laddove c’è la volontà politica, perché in termini “tecnici” ha tutte le carte in regola per funzionare. L’accoglienza diffusa è un modo di accogliere le persone riportando il tutto a dei nuclei molto ristretti, da 3 a 6 persone; un’accoglienza più decorosa, sia per chi è accolto ma anche per chi accoglie, rispetto a queste grandi caserme da grandi numeri, i cosiddetti hub, in cui tutti subiscono grande pressione psicologica e sociale. Per me l’accoglienza diffusa – e il mio modello 6+6×6 – è un graduale inserimento, e sia chiaro che accogliere non significa solo dare da dormire e da mangiare – che sono sicuramente importanti – ma significa offrire un luogo dove dare effettivamente la possibilità di un inserimento professionale reale e concreto, affinché la persona si possa realizzare nel nostro contesto. Per questo è un’accoglienza che deve assolutamente contemplare l’accompagnamento. EMBRACIN ha già avuto l’approvazione della Commissione Europea ed è partito l’anno scorso ma il Covid naturalmente lo ha molto rallentato. L’idea di fondo è fare in modo che questa accoglienza diffusa e il conseguente graduale inserimento si possa applicare in sei paesi europei (Cipro, Grecia, Spagna, Italia, Slovenia e Svezia, con osservazione da parte della Germania). Ogni Comune di al massimo 5mila abitanti accoglie un nucleo di sei persone, ogni Comune di 10mila abitanti due nuclei e così via: se lo moltiplichiamo per i 58 milioni di italiani, e poi per i 500 milioni di europei, io vi garantisco che l’accoglienza diffusa limiterebbe moltissimo il tema dei migranti. Se c’è riuscita la famiglia Calò a ospitare sei persona in casa propria, sarebbe grave che non riuscisse a farlo un Comune.

 

G.F. – Questo libro raccoglie anche due importanti firme: quella di Romano Prodi e quella di David Sassoli, probabilmente uno dei suoi ultimissimi scritti. Chi era per lei l’ex Presidente del Parlamento Europeo?

A. C. – David Sassoli era un amico, un’ispirazione. Di lui apprezzavo particolarmente quella sua volontà di essere in sintonia con i giovani, in ascolto: tutte le questioni legate ai giovani per lui erano primarie. E poi, certo… chi è che ha fatto la proposta che Antonio Calò diventasse Cittadino Europeo 2018? David Sassoli. Chi è che ha messo in piedi una tavola rotonda alla sede dell’Onu a Ginevra sulla questione del rapporto Unione Europea e Unione Africana? David Sassoli. Chi è che veniva ad accoglierci quando venivamo con le classi a Bruxelles o a Strasburgo? David Sassoli. E chi si prendeva con Antonio Calò un panino con la porchetta e una birra in una trattoria a discutere di famiglia, di figli e del futuro dell’Europa? David Sassoli. Piango un grande amico e farò di tutto perché la sua testimonianza, il suo essere veramente cittadino europeo, possa continuare a esserci in modo attivo, ma non celebrando una persona – quando si celebrano le persone le seppelliamo due volte! Il cuore di David deve ancora pulsare tra di noi perché ha tantissime cose da dirci e da realizzare. La prefazione al mio libro è un manifesto sull’Europa, su cosa fare e cosa non fare, sull’importanza che per lui ha sempre avuto il tema dei migranti. Così si legge alla fine del suo scritto: «Questo libro ci fa capire che l’accoglienza è possibile, che si può accettare l’altro in modo rispettoso, che si può lavorare bene insieme ed essere persone capaci di creare delle relazioni senza pregiudizi e senza schemi. Tutto questo è possibile ed è indispensabile».

 

Giorgia Favero – Libertà è una parola molto amata ma forse addirittura abusata: sembra che l’altro (a maggior ragione se diverso, straniero, di altro genere, altra fede, altro orientamento sessuale, altra opinione) con il suo semplice esistere soffochi la propria libertà. Mi affido alle parole di un grande filosofo, Emmanuel Lévinas, secondo il quale bisogna abbandonare la logica della libertà dell’io per abbracciare la libertà come responsabilità. Responsabilità, per Lévinas, significa prendersi cura della libertà altrui. Secondo lei è un modello che può funzionare?

Antonio Calò – È un’idea del tutto condivisibile: per me l’unica libertà possibile è la libertà nella responsabilità. Io dico sempre ai miei studenti che nel momento in cui sono dentro a quella scuola, nel momento in cui conoscono, la conoscenza vera implica sempre una responsabilità: sapere è già essere responsabili e già muoversi all’interno della responsabilità, perché non puoi dire a te stesso di non sapere, se hai conosciuto non puoi dire a te stesso di non aver conosciuto. Se non pratichi la libertà nella responsabilità tu stai praticamente uccidendo l’individuo, nel senso che quell’individuo non può vivere senza questo atto che è l’atto di coscienza vero, il sapere di sapere, e che non può essere sterile: è fecondo, è un sapere nel noi, non nell’io. Il problema fondamentale è che oggi il mondo è chiuso dentro un Io che è diventato un gigante infinito, mentre il Tu e il Noi sono stati messi da parte e rischiano di essere oggetti semi-sconosciuti. Non solo nei confronti dei migranti, che sono semplicemente dei poveri in terra straniera. Anche nei confronti dei poveri italiani voltiamo la testa, pur essendo in realtà aumentati moltissimo ultimamente: eppure per noi non esistono, non dobbiamo vederli, non dobbiamo sentirli. Quindi vanno benissimo le caserme, vanno benissimo i luoghi dove non si vedono, non si sentono, non si toccano, non ci disturbano la vista.

 

G. F. – Spesso accade che di fronte fenomeni di grande portata in molti si sentano troppo piccoli per poter fare la differenza: le migrazioni, i cambiamenti globali, le discriminazioni di genere. Per citare Bauman, «i problemi globali si risolvono con soluzioni globali». Ma allora qual è (ammesso che ci sia) il potere del singolo?

A. C. – Io non ho la presunzione di cambiare le cose, io so solo una cosa: che sono cambiato io e questo per me è tantissimo. Io ho sentito urlare la mia coscienza di credente e di civile, e questa mi ha portato insieme a mia moglie ed ai miei figli ad aprire una porta, eppure di certo non posso pretendere che tutti sentino e provino che quello che ho sentito io. Ci sono tantissime cose che si potrebbero fare, partendo dal donare quello che si può – non solo in base ai possedimenti materiali ma anche in base alla propria sensibilità. Si può donare qualcosa di materiale ma anche semplicemente il proprio tempo e/o la propria professionalità. Sicuramente ci si può informare, che è già un primo passo per far andare meglio le cose. Ci sono mille modi per far capire che non ci siamo voltati dall’altra parte, che non siamo figure omertose, che non facciamo finta di non vedere e di non sentire. Sentirsi testimoni di qualcosa è già una presa d’atto importantissima nella coscienza di una persona. Essere cittadini attivi vuol dire essere partecipi di quello che sta succedendo.

 

Giorgia Favero – Nella rivista numero 16 dedicata all’educazione abbiamo parlato anche di scuola, evidenziando come nei programmi scolastici attuali manchi la componente del “tirare fuori” e si lavori soprattutto nell’ “istruire” i bambini e i ragazzi. Lo scrittore Alessandro D’Avenia nei suoi libri scrive che ogni insegnante nella sua ora di lezione può fare la rivoluzione: lei prova a fare la rivoluzione nella sua ora di lezione?

Antonio Calò – A dire la verità io ho sempre fatto la rivoluzione, e penso che la rivoluzione stia nella passione e nella relazione. La passione, quello in cui credi, che porti avanti con studi e aggiornamenti continui, non è sufficiente se non si è in grado di trasmetterla e di relazionarsi con gli altri – in questo caso con i tuoi studenti. Se non si è capace di fare questo, la scuola è già fallita. La rivoluzione – che è una cosa bellissima – avviene ogni giorno nel momento in cui creiamo questo ponte con gli altri e ogni giorno ne dobbiamo creare uno nuovo: ogni lezione deve permettere a ciascun ragazzo e ciascuna ragazza di sentirsi accolto nella sua ricerca come studente, per crearsi un’identità, alimentare quella voglia di porsi delle domande. Ma la rivoluzione deve essere dentro di noi affinché la coscienza continui a crescere.

 

Per approfondire, vi lasciamo la lettura del libro Senza distogliere lo sguardo. Una storia di impegno civile (UTET, 2022):

“Calò, professore di storia e di filosofia, attraverso la sua esperienza costruisce un decalogo civile, una nuova educazione pubblica, indissolubilmente legata alle nostre radici cristiane, in cui lo stato di diritto non travalica mai l’empatia, in cui l’indifferenza non è più una opzione”
(dalla quarta di copertina)

Buona lettura e grazie ad Antonio Calò per questa intervista!

 

Giorgia Favero

 

[Immagine tratta da Facebook.com]

la chiave di sophia

Caro Giacomo…quando un poeta può salvarti la vita

Insegnare letteratura alla scuola media è un’impresa ardua. Rispetto ai tempi del web, ai video che trasmettono immagini ad alta velocità, la lentezza di una poesia o la fatica che richiede un passo dei Promessi Sposi possono risultare alquanto difficili. 

Eppure molti di noi giurano di aver trovato proprio nelle opere di un poeta o di uno scrittore quel sollievo esistenziale che ci ha fatto sperare, quando non vedevamo una via d’uscita. Tra le righe di un’opera spesso abbiamo ricevuto consolazione ai nostri mali e ci siamo risollevati.

Ma è ancora possibile oggi, che un poeta salvi la vita a un adolescente?

La risposta è sì. Molti ragazzi trovano conforto alle proprie insicurezze, alle delusioni nelle parole di una canzone, parente stretta della poesia. Ma anche i grandi poeti possono ancora affascinare. Tutto sta nel modo con cui noi educatori decidiamo di presentarli, nel luccichio che i ragazzi possono vedere nei nostri occhi. Se le antologie e i manuali scolastici preferiscono togliere le immagini e utilizzare caratteri sempre più ridotti, quasi a voler dire che si tratta di un affar serio e che non si può mica scherzare, noi di rimando dobbiamo esaltarne la bellezza. Dobbiamo ridare colore ad autori che spesso vengono relegati come pessimisti e tristi, quando invece hanno vissuto passioni straordinarie.

Nel suo libro ‘L’arte di essere fragili’ del 2016 Alessandro D’Avenia finge di dialogare con Giacomo Leopardi e si rivolge a lui con delicatezza e audacia, facendone emergere i tratti più intimi e profondi. Il legame che si crea tra l’autore del libro e il poeta non può lasciare indenne il lettore, il quale, attingendo agli aspetti meno conosciuti di Leopardi, viene coinvolto in un vortice emotivo cui è davvero difficile sottrarsi. Ci si innamora di Leopardi, della caparbietà con cui si è aggrappato a questo mondo, ma soprattutto del modo con cui egli ha affrontato la vita e l’ha esaltata. 

“Una luna, un passero, un gregge, una ragazza, una siepe, un cespuglio di ginestra ti bastavano, Giacomo, per farvi risuonare il canto dell’universo intero”.

Per chi è abituato a considerarlo un poeta triste e pessimista arriva la grande novità. Egli amava la vita, guardava ogni cosa con sguardo appassionato perché sapeva “quanto un dolore, un amore, un sogno, una lettura possono ‘accelerare’ un uomo, destarlo e restituirlo a se stesso”.

Ad un certo punto del suo libro (pag. 42) D’Avenia parla proprio dell’esperienza scolastica.  

Quando affrontiamo la vita e le opere di un autore, afferma, è bello immaginare che costui o costei entri realmente in classe. Come si comporterebbe ad esempio Dante, se lo facessimo accomodare in aula? Sicuramente ci guarderebbe uno a uno senza profferire parola, ma pensando già a dove collocarci nell’aldilà. Petrarca parlerebbe di sé. E Leopardi? Cosa farebbe, invece, Leopardi?

Tu apriresti la finestra, guarderesti per qualche istante fuori (…) poi ti volteresti e ci inviteresti a fare lo stesso, per ricordarci che c’è un fuori (…) ci chiederesti a che punto siamo con il contatto con questa realtà così ricca e piena di possibilità.(Ibidem)

Quando i ragazzi sentono queste parole, si rendono conto che i grandi della letteratura sono o sono stati innanzitutto delle persone con un forte sentire; uomini e donne capaci di penetrare il reale e restituircelo più bello. A volte più oscuro, ma grazie alla maestria con cui hanno saputo narrarlo, anche noi possiamo avvertirne l’intensità. 

Dopo aver ascoltato la poesia ‘A Zacinto’ di Ugo Foscolo, una ragazza un giorno alzò la mano e mi disse: “Professoressa, mi piace tanto questa poesia perché parla anche di me, parla della mia terra. Io capisco  il dolore del poeta perché lo provo ogni giorno. Ho vissuto la mia infanzia in Albania e lì ho lasciato molte persone care. Anch’io ho paura di non poterci più tornare, ho paura di morire lontana dai miei parenti e di essere dimenticata”.

“Tu non altro che il canto avrai del figlio, 
o materna mia terra; a noi prescrisse 
il fato illacrimata sepoltura.” (U. Foscolo, A Zacinto)

Credo che la letteratura abbia questa peculiarità, di riuscire a mantenersi fuori dal tempo. I sentimenti di poeti e scrittori viventi o del passato, possono davvero arrivare fino a noi e salvarci. Questa è la funzione principale di ogni opera d’arte.

 

Erica Pradal

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Il bisogno di contatto: scuola e pandemia

È passato poco più di un anno dall’inizio della pandemia e dal primo lockdown nazionale, nonché dalla chiusura delle scuole – un anno da quando tutto ci sembrava irreale e assurdo ma, così speravamo, probabilmente temporaneo.

All’inizio si guardava alla scuola via Meet o agli aperitivi tra amici via Zoom con curiosità ed entusiasmo, ma ora queste modalità di contatto fanno parte delle nostre vite quotidiane.
Ma si tratta davvero di “contatto”?
Prendiamo ad esempio l’ambiente scolastico.
C’è una certa intimità insita nell’aula: la porta si chiude e il docente sta con gli studenti, in uno spazio identificabile e delimitato. Si fa lezione ma si crea anche un legame, fatto di sguardi, di richiami all’attenzione, di domande e di risposte, ma anche di battute scherzose e di rimproveri che sanno di normalità – quando gli studenti mangiano in classe cercando di non farsi scoprire, quando ridono con i compagni.
Tutto questo nella didattica a distanza non c’è.
In classe l’insegnante sale in cattedra, che è come un palco (i teatri: un’altra cosa che ora non possiamo esperire), e da lì inizia il suo spettacolo quotidiano.
Parlare ad una classe reale è tutt’altra esperienza rispetto a quella di rivolgersi ad uno schermo. Dà un senso di realtà, tangibilità. Si possono osservare le reazioni dei ragazzi e delle ragazze, l’impatto immediato che le nostre parole hanno su di loro. Si comprende dal loro sguardo se stanno recependo, se stanno davvero comprendendo ed entrando in gioco con noi o se, al contrario, sono annoiati o persi nei loro pensieri.

Sia chiaro che, con il presente articolo, non si intende affatto screditare la didattica a distanza, che è anzi uno strumento utile ed imprescindibile al quale è necessario ricorrere in caso di emergenza.
Ma è indubbio che essa, sebbene abbia il merito di tenerci vicini anche quando non lo siamo fisicamente, abbia svariate conseguenze negative, che si stanno facendo sentire su studenti e insegnanti.
Ne risente la relazione, ne risente la didattica e i rapporti interpersonali, sociali. Manca soprattutto la sacrosanta divisione tra spazio familiare e scolastico, tra casa e scuola. Cattedra, banco e sedia, le finestre dell’aula, la lavagna (che sia una Lim o quella classica): tutti elementi fisici, tangibili, che non ci sono più. Elementi che richiedono una certa cura e che al contempo danno vita a processi che rientrano nell’automatismo – apro la finestra e la chiudo, sposto il banco o ci appoggio gomiti, mani, testa, sposto la sedia e mi alzo, mi ci siedo, scrivo alla lavagna o cancello quello che c’è già scritto.
Ma questo automatismo è diventato anch’esso qualcosa di perduto, dimenticato, vagheggiato. Lo si ritrova a pezzi, in questa terra di mezzo chiamata didattica mista, in cui la presenza è al 50%. Oggi ci siamo, ci guardiamo negli occhi, siamo insieme per davvero e quasi non ci sembra reale. Domani, invece, Ci vediamo online, collegatevi alle 9″.
Domani i confini saranno di nuovo labili e incerti: qua c’è il mio letto, il mio divano, il mio gatto e la mia scrivania, accendo il computer e di colpo c’è la scuola, ci sono gli insegnanti, i compagni, una lezione intangibile, impalpabile.

È una scuola che non si riesce a toccare, anche se paradossalmente ne resta traccia, ma è una scia virtuale.
Tutto questo ci confonde, ci stordisce. E un ulteriore elemento complica le cose: in presenza i nostri volti sono parzialmente coperti dalla mascherina, ci sorridiamo solo con gli occhi, i docenti sentono i loro studenti prendere la parola ma a volte, nel normale caos di una classe, non si comprende chi sia stato a parlare, perché le labbra sono celate. Da casa, durante le videolezioni, rivediamo i nostri visi interamente: ci scopriamo, al sicuro dietro uno schermo. Per vederci in faccia dobbiamo allontanarci, e questo disorienta.
Il tocco resta precluso in entrambi i casi. Niente pacche sulle spalle se uno studente appare sconfortato o in ansia per una interrogazione. Niente scambi di fogli (se non necessario) o di libri. In teoria, nemmeno gli studenti possono scambiarsi nulla – oggetti, penne, astucci, quaderni, tanto meno cibarie o bevande.

È tutto un esserci, senza esserci per davvero, in toto. Un esserci a metà, una presenza sospesa tra preoccupazioni e virtualità, tra gel disinfettante e mascherina da sistemare bene sul volto, tra mouse, tastiera, microfono e webcam.
Si possono toccare solo le cose di nostra proprietà: non si toccano quelle degli altri, si deve coesistere solipsisticamente, come tante monadi leibniziane che non comunicano autenticamente tra loro.
È una scuola asettica, che ci rende asettici.
Ma possiamo esserlo per davvero?
No, mi sento di rispondere di no. Aneliamo, al contrario, un ritorno: il ritorno alla concretezza, alla spensieratezza, a un tocco che sia con-tatto e scambio concreto.

 

Francesca Plesnizer

 

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La scuola dimenticata: una vera tragedia italiana

Per rilevare la temperatura che indichi lo stato di benessere o malessere di un paese non sempre è sufficiente servirsi dei termometri del mercato e della finanza che si basano sui dati del PIL, sul volume degli acquisti e sull’indice dei consumi. Talvolta, sarebbe più interessante muovere da indicatori di natura culturale. Il primo e più importante riferimento in questo senso è lo stato dell’arte della scuola. Teoricamente la prima e più importante istituzione di un paese che ambisce a definirsi democratico. In Italia, di fatto, la più marginalizzata. Lo stato di malessere della scuola italiana non è certamente una patologia acuta, recente. Il cancro che la paralizza è un male cronico che si trascina da moltissimo tempo. Venti, forse trent’anni, nei quali il paziente che più di tutti dovrebbe essere stato accudito e curato è stato invece completamente dimenticato e fiaccato da riforme esito di incompetenza e incapacità di lungimiranza. Il messaggio che emerge, da diverso tempo a questa parte, è quello di una scuola che non conta più nulla.

Non considerata dai politici e dal legislatore, finisce per perdere di valore e riconoscimento nei più diversi strati sociali. L’edilizia scolastica pressoché stagnante ci regala edifici vetusti e in molti frangenti fatiscenti. Gli insegnanti – un tempo professione ampiamente riconosciuta e rispettata – sono umiliati e frustrati per remunerazioni inadeguate e per l’impossibilità di accedere in maniera chiara e lineare al loro ruolo, spendendo le proprie competenze e capitalizzando i sacrifici economici e di studio di una parte considerevole della loro vita. I rilevamenti statistici ritraggono un crescente abbandono scolastico e un sensibile calo nelle iscrizioni alle più diverse facoltà universitarie. Non v’è da stupirsi. Il tutto è la logica conseguenza di una mala gestione dell’intero apparato dell’istruzione e della formazione che ha segnato la propria rovina anni addietro e, diabolicamente, continua a perseverare con riforme pasticciate e interventi più propagandistici che funzionali. In un siffatto scenario, dove gli insegnanti si trovano a lavorare sempre più spesso in un contesto precario, umiliante e decadente, gli studenti appaiono sempre più svogliati e demotivati. Fra questi, i più fragili sono quelli che ne pagano il prezzo più alto. Tutto questo è il riflesso di un discorso sociale e politico che, bistrattando la scuola da decenni, misconosce il valore imprescindibile dell’educazione e della cultura. È l’esito, infausto, di una comunicazione di massa che premia veline, soubrette, calciatori, influencer e youtuber, piuttosto che valorizzare, remunerare adeguatamente e così riconoscere coloro che con dedizione e sacrificio hanno dedicato e magari, eroicamente (sic!) continuano a dedicare la loro vita allo studio e alla ricerca, non tanto per loro esclusivo interesse personale, ma in vista dell’interesse collettivo.

La scuola presenta lesioni profonde, decisamente preoccupanti, in tutto il suo immenso e articolato corpo. Viene da chiedersi quale possa essere non solo il presente ma piuttosto il destino di un corpo così malato. Che ne può essere di una istituzione alla quale, anno dopo anno, riforma dopo riforma, sono stati appesi legacci burocratici soffocanti e limitanti il suo movimento e le sue espressioni? Che ne è di un corpo al quale sono state cinicamente tagliate le risorse? Forse, se non è già morta, la scuola sopravvive, tira a campare. Se l’attenzione nei confronti dell’istruzione emerge solo per opportunismo propagandistico nelle stagioni elettorali e, una volta girato l’angolo dei seggi, ci se ne dimentica, allora il messaggio è chiaro: non curarsi seriamente dell’istituzione scolastica significa che i governanti non credono nell’importanza della cultura che, principalmente a scuola, deve essere trasmessa, incentivata e difesa.

I motivi per argomentare in favore dell’importanza di un’istituzione scolastica che funzioni al meglio sono molteplici e molti affondano le proprie radici nelle straordinarie civiltà che ci hanno preceduti, quella ellenistica su tutte, e ai periodi storici, l’Umanesimo e il Rinascimento in particolare, che hanno inondato di cultura, genialità, innovazione, pensiero e bellezza soprattutto il nostro bel Paese. Senza scomodare ulteriormente questi presupposti e ricollocandoci nel presente dobbiamo sottolineare, privi di ogni retorica, che dalla scuola passa il futuro del Paese poiché ragazzi e ragazze saranno uomini e donne che avranno a loro volta la responsabilità adulta di operare scelte individuali e collettive tese al bene comune, nella direzione dell’interesse, della crescita e della promozione umana. In un mondo che cambia repentinamente, la scuola è necessaria per fornire competenze che permettano di orientarsi nella complessità della conoscenza e dell’informazione. In una civiltà che sembra sgretolarsi sotto i colpi dell’assenza di etica è ancora una volta essenziale la scuola che, a partire dalle fondamenta poste dalle famiglie, educhi ai principi primi del rispetto sacro della vita dell’altro nella sua unicità e irripetibilità e al valore della conoscenza. Una scuola che, proprio in una società assuefatta di informazioni e verità a buon mercato, educhi all’esercizio del pensiero critico, che diviene esercizio di libertà interiore che si riverbera anche nelle scelte esteriori.

Trascurare la scuola significa cedere il passo ad un abissale vuoto culturale. Lo aveva denunciato con lucidità Pier Paolo Pasolini, ormai quarantacinque anni or sono, riflettendo sul fenomeno dilagante della droga consumata dai giovani e intuendo quanto essa fosse un vero e proprio surrogato della cultura1. Il vuoto lascia spazio alla disgregazione, alla distruzione, alla pulsione di morte. Gli esiti sono infausti e disfunzionali per il singolo e per la collettività. È il crepuscolo di una nazione.

Se vogliamo tutelare il presente del nostro paese e il suo futuro dobbiamo iniziare occupandoci della formazione culturale dei più giovani e questo può avverarsi in primis attraverso la scuola, agenzia culturale ed educativa per eccellenza. Istituzione che preserva l’incontro umano, le relazioni, l’importanza del libro, della lettura e dello studio per l’apertura di nuovi mondi e più ampi orizzonti, nonché l’abitudine al pensiero autonomo. Per questi e molti altri motivi, non dobbiamo forse salvaguardare la scuola, ridonarle l’attenzione che merita se vogliamo tutelare la nostra civiltà aiutandola a progredire, anziché rimanere spettatori inermi dinanzi alla regressione antropologica tragicamente testimoniata dalle cronache quotidiane?

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. Cfr., P. P. PASOLINI, La droga: una vera tragedia italiana. In Lettere luterane, Garzanti, Milano, 2009, pp. 97-104.

 

[Photo credit Ben White su unsplash.com]

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Rileggere Platone ai tempi del Covid-19: il mito del carro alato

La nostra vita quotidiana ci pare una fantasiosa trama da film post-apocalittico: strade deserte, tutti chiusi in casa, persone che lottano per sopravvivere, governi che a colpi di decreti cercano di contenere il contagio di un virus nuovo, sconosciuto. La paura serpeggia: paura della vicinanza, perché sappiamo che per proteggerci vicendevolmente dobbiamo stare a distanza, non abbracciare chi amiamo, non andare a trovare i nostri genitori, parenti e amici. Ci preoccupa il nostro futuro, che pare nebuloso, lontano, e quando una sua vaga sembianza ci si avvicina, vediamo in esso crisi economiche, abitudini sociali mutate, scenari tutt’altro che rassicuranti.
Vivere a questo modo, sarebbe superfluo dirlo, logora, abbatte, annienta. Non possiamo permettere che la paura che sentiamo nelle nostre pance, nei nostri petti e nelle nostre menti sature di informazioni, abbia il sopravvento.

Che fare? Personalmente, ciò che ogni giorno mi sta salvando (oltre alla cura e all’amore dei miei cari, vicini o lontani che siano, ma sempre presenti in me) è la cultura. In ogni sua forma. Il cinema, potente e liberatorio anche se visto dallo schermo della televisione o del tablet; la letteratura, classica o contemporanea; i fumetti, che riescono a portarmi via, in un altrove pieno di cose da scoprire; la musica, a volte commovente e malinconica (del resto, la tristezza va anche esperita, mai negata), altre volte divertente e spensierata.

Ma io sono un’insegnante di filosofia e storia, e in queste settimane c’è una lezione, che occupa la mia mente e non se ne va. Una lezione che ho fatto a una delle mie classi prima dell’evento Coronavirus, quando ero fisicamente con loro, in classe, vedevo i loro sguardi e rispondevo alle loro domande, senza alcuna distanza fisica, è la lezione platonica contenuta nel mito del carro alato che troviamo nel Fedro. La riassumo brevemente, per chi non se la ricordasse o non la conoscesse: c’è un carro guidato da un auriga, che si trova in grossa difficoltà poiché dovrebbe condurre il carro verso la retta via (che per Platone è il mondo trascendente, il perfetto e immutabile Iperuranio), ma non ci riesce. A rendere arduo il suo compito è uno dei due cavalli che trainano il mezzo. Come in tutte le storie, c’è un cavallo buono, bianco e gradevole alla vista, facile da portare; e poi c’è il suo antagonista: un cavallo dal manto nero, massiccio e un po’ storto, terribilmente recalcitrante, praticamente impossibile da domare. Per comprendere questo mito e il suo significato, è necessario spiegare chi è chi: il carro è l’uomo, l’auriga è la ragione, il destriero scuro e cattivo è l’anima concupiscibile, ossia gli istinti, le emozioni straripanti e fuorvianti, e, infine, il cavallo bianco è l’anima irascibile, che per Platone rappresenta coraggio ed eroismo. Il mito vuole rappresentare l’eterna e instancabile lotta che l’essere umano è chiamato a combattere, che tutti noi, in questi giorni bui, siamo costretti a combattere: la lotta tra quelle emozioni cupe e bestiali a cui diamo il nome di angoscia, terrore, ansia, e tra il coraggio della ragione. Noi non siamo solo quel carro alato, siamo anche quell’auriga in palese difficoltà, siamo noi che dobbiamo condurci verso la retta via. Che non è l’Iperuranio platonico. La retta via è la strada per la serenità di corpo e anima, la strada della nostra ragione, che non dobbiamo mai perdere di vista. Solo lei può aiutarci, portarci in alto dove c’è più luce, più speranza, dove possiamo intraprendere tutti un percorso che porta alla conoscenza – intesa, direi, come il lume dell’età illuminista.

Penso tanto a tutto questo, alla bellezza del mestiere che svolgo, alla potenza che non solo la filosofia, ma la cultura tutta, ha. Perché ci eleva, ci solleva, ci salva, riportandoci alla ragione e permettendoci di domare quel cavallo nero, denso di emozioni negative, che tuttavia fa parte di noi.

 

Francesca Plesnizer

 

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Una parola per voi: scuola. Settembre 2019

Negli azzurri mattini
le file svelte e nere
dei collegiali. Chini
su libri poi. Bandiere
di nostalgia campestre
gli alberi alle finestre.
 
 
Sandro Penna, Scuola
 
 
Settembre, nella memoria collettiva, riporta alla mente la scuola. Non importa quanti anni abbiamo, se a scuola ci andiamo ancora o se invece manchiamo dai banchi da decenni. Quando agosto se ne va, anche se la temperatura è ancora calda e qualcuno seguita a frequentare le spiaggie finché è possibile, all’arrivo del primo settembre tutti pensiamo alla scuola. A quella sensazione di “nuovo inizio”, agli acquisti in cartoleria – quaderni con le pagine bianche tutti da scrivere, penne e matite colorate, il diario di scuola, da riempire non solo di compiti per casa ma soprattutto di dediche e pensieri. Sandro Penna ci fa viaggiare verso un’idea di scuola un po’ retrò: gli scolari con i grembiuli neri che rapidi entrano nell’edificio scolastico per poi stare chini sui libri, nostalgici, a rimirare dalla finestra gli alberi simbolo dell’estate che sa di campestre e che anche quest’anno è finita.
Quali sono i libri, i film, le canzoni e le opere d’arte che riflettono sull’idea di scuola? Dell’impatto (positivo o negativo) che essa ha o ha avuto su di noi, di come ci ha formati e di quanto, ancora, la porteremo sempre dentro, assieme a quella sensazione d’inizio settembre, fatta “di azzurri mattini” e di grembiuli neri?
La parola per voi di questo mese scelta da noi de La Chiave di Sophia è “scuola”.
 
 
UN LIBRO

cuore-la-chiave-di-sophiaCuore – Edmondo De Amicis

È nella Torino post-unitaria che si snodano le narrazioni racchiuse in Cuore. È l’ottobre del 1881 e la scuola ricomincia per la classe di Enrico Bottini: con essa riprendono i compiti, i litigi tra scolari e le successive riappacificazioni. Un microcosmo, che si sviluppa lungo un anno scolastico, intrecciato alle vicende macroscopiche della malattia, della lotta alla povertà, del processo di alfabetizzazione e, infine, della morte. Ecco che i racconti di Bottini si mescolano alle lettere della famiglia e alle storie mensili proposte alla classe dal maestro Perboni. Dalla piccola vedetta lombarda al tamburino sardo l’anno scolastico risplende di fanciulli la cui umanità e il cui patriottismo diventano il fil rouge dell’intera narrazione.

 

UN FILM

la-scuola-chiave-di-sophiaLa scuola – Daniele Lucchetti

La classe 4A, protagonista di questo film, affronta il momento più importante dell’anno, il giorno atteso fin dal primo giorno dell’anno scolastico: l’ultimo giorno di scuola! Giorno di ultime interrogazioni e scrutini, durante il quale professori e studenti arrancano tra asperità presenti e ricordi di un anno scolastico ormai terminato. Lo sguardo è rivolto al futuro, tutto da guadagnare, con la speranza che possa essere il più incoraggiante e affrontabile possibile. Perché la fine della scuola è il preambolo di un nuovo inizio, di un nuovo ciclo e una nuova vita: è l’occasione di spezzare in qualche modo il circolo vizioso. Non importa come, basta avere un’altra occasione. Chi si ferma è perduto!

 

UNA CANZONE

olympia-chiave-sophiaOlympia – Hole

Appartenente all’album Live through this (1994) e nota anche con il titolo di Rock Star ‒ essendo la copertina dell’album già stampata quando si scelse di scartare l’ultimo motivo per via del testo, con allusione al Nirvana all’indomani della morte di Kurt Cobain ‒ Olympia è una canzone di contestazione («What do you do with a revolution?»), un invito alla ribellione e all’anticonformismo («Come on make me real»), un grido contro le istituzioni – in particolare la scuola – omologanti («When I went to school in Olympia everyones the same…we look the same, we talk the same»). E come non ricordarla nella colonna sonora di Io ballo da sola (1996) di Bernardo Bertolucci?

 

UN’OPERA D’ARTE

la-scuola-del-villaggio chiave sophiaLa scuola del villaggio – Giuseppe Costantini

Una vecchia cucina improvvisatasi aula, con una lavagna e un planetario a segnarne il nuovo status; scugnizzi con vestiti consumati, sporchi e strappati, scalzi o con scarpe consunte, impegnati chi a leggere, chi a scrivere su un tavolo troppo alto, chi a risolvere un’operazione alla lavagna, chi ad ascoltare il maestro, chi ancora a tentare inutilmente di attirare l’attenzione, punito col cappello da asino. È La scuola del villaggio di Giuseppe Costantini, un’opera verista che l’autore nolano tratteggia con affettuosa partecipazione. Insegnante anch’esso, Costantini nobilita la scena di povertà e miseria, ma di grande forza vitale, accostandola a iconografie religiose, col maestro-Cristo, i bambini-apostoli, l’asino-Giuda, in un cenacolo familiare tenerissimo e coinvolgente. Uno spaccato di storia napoletana e italiana, una dichiarazione d’amore personalissima a quel microcosmo che è la scuola.

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Matteo Astolfi, Rossella Farnese, Giacomo Mininni

 

[Photo credits unsplash.com]

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All’origine della crisi della scuola: sul caso Galli della Loggia

«Marco, dimmi un po’. Ora ti è venuta voglia di leggere un libro?». Il ragazzo è al terzo anno di un istituto tecnico, vive in un quartierino di provincia come tanti altri, con mamma infermiera e papà impiegato. Ci vediamo una volta la settimana, a ridosso delle verifiche più imminenti. Matematica, inglese, italiano: qualche problema con la grammatica, rifiuto totale per la lettura. Avanzo la domanda dopo aver studiato assieme un paio di poesie siculo-toscane del XIII secolo, d’uno specialismo linguistico da laureato magistrale in Lettere. «Neanche per sogno» risponde lui schietto, mentre con le mani chiude l’antologia di mezzo migliaio di pagine. La copertina tutta stropicciata.

Che ci sia qualcosa di sbagliato nel funzionamento della scuola lo capisco dalla risposta di Marco, e da quell’antologia pesante e autoreferenziale che dovrebbe creare affezione crescente per il libro come tecnologia della conoscenza, non certo rigetto! Un paradosso sconfortante, forse all’origine delle tante proposte di rinnovamento che scuotono oggi l’istituzione scolastica.

L’ultima in ordine di tempo è quella firmata dallo storico ed editorialista Ernesto Galli della Loggia nella sua Lettera sulla scuola, apparsa online il 4 giugno scorso, sezione Opinioni del Corriere della Sera1. Cattedre più alte per i professori, gite scolastiche solo in terre nostrane, abrogazione definitiva della rappresentanza parentale negli istituti: un decalogo polemico e saccente, destinatario simbolico il neo Ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti. Per lui dieci semplici misure da adottare «già dal prossimo settembre», così da dare l’idea «che qualcosa stia veramente per cambiare nella scuola italiana».

Impensabile passasse inosservato, il vademecum per programmatori scolastici messo a punto da Galli della Loggia piove sul dibattito pubblico a pochi mesi di distanza da una serie sconcertante di episodi di bullismo perpetrato da giovani studenti – o, peggio ancora, dai loro genitori – a insegnanti di mezza Italia, in un’escalation di violenza che nell’era delle reti sociali e degli smartphone perennemente a portata di mano si propaga velocissima fuori dalle mura scolastiche.

In un clima di tensione accesa sul nervo scoperto della scuola, il decalogo di Galli della Loggia ha restituito, secondo molti, l’immagine stucchevole di una filosofia dell’educazione paternalistica, retrograda, deteriore. Un’idea logora di scuola che non ha certo trovato d’accordo il fisico e professore universitario Carlo Rovelli: «Non dobbiamo avere nostalgia di un mondo passato che non era migliore del nostro, non si educano i giovani con autoritarismo ottocentesco», commenterà acido e sessantottino nel suo contro-editoriale2.

Ennesimo screzio di una frizione pregressa, quella tra Galli della Loggia e Rovelli, con botta e risposta consumati sulle pagine della stessa testata, divenuta terreno di scontro virtuale tra le due forme della conoscenza che regolano la nostra civiltà: da una parte la cultura scientifica, interessata al movimento, alla trasformazione e all’innovazione permanente; dall’altra quella umanistica, che celebra invece l’estetica del fermo, della resistenza tradizionale alla distruzione creatrice del progresso (non sono forse cambiamenti retrogradi e anti-progressisti, quelli proposti da Galli della Loggia per contenere all’odierna deriva dei costumi culturali?).

Oltre il conflitto dialettico tra la cultura scientifica e quella umanistica, articolate nelle rispettive ragioni dai due editorialisti del Corriere, le proposte contemporanee per salvare la scuola non tengono in minimo conto una riflessione filosofica sulla crisi del discorso educativo lunga quasi due secoli, e capace di andare al di là del manicheismo partigiano di chi difende il sistema educativo tradizionale e di chi vorrebbe invece rovesciarlo.

Sarebbe infantile – scrive Theodor Adorno in Theorie der Halbbildung (1959) – pensare che basti riformare i programmi didattici per sanare le lacune melmose su cui poggia il sistema educativo. Dibattere la reintroduzione del predellino nelle aule scolastiche non ha alcun senso se nulla facciamo per neutralizzare l’avanzata inesorabile del «potere extra-pedagogico», la presa asfissiante alla gola dell’educativo da parte di ciò che a esso dovrebbe rimanere esterno. Un esempio? Il mercato, che vuole l’educazione prona alle sue esigenze strutturali – profitto, competenza, produzione, innovazione – ma anche la politica, che della scuola tende sempre a fare strumento d’indottrinamento di massa, dispositivo disciplinare nelle mani di un preciso progetto d’obbedienza morale.

Ecco che il compito della filosofia dell’educazione, come scritto da Mino Conte ne La forma impossibile (2016), dovrebbe essere quello di sottrarre la scuola a ogni forma di «riduzionismo (o tentazione) tecnicistico-amministrativo-commerciale». Una presa di posizione netta e necessaria contro la mano invadente e molesta del mercato (e della politica), anche a costo di tenere la scuola all’oscuro di ciò che accade nel mondo: è dall’oscurità che sgorgano le forme di vita, non solo vegetativa.

Sottrarre la scuola al richiamo suadente dei poteri extra-pedagogici vuol dire anche superare il «falso principio» su cui essa si fonda, ovvero l’idea che il sapere abbia natura accessoria, bagaglio cognitivo da amministrare e trasmettere attraverso una burocrazia didattica che ha perso ogni rapporto erotico la conoscenza. Un sapere che non espande il raggio d’azione e di vita di chi vi s’immerge, un sapere che non diventa personalità cosciente.

Necessario che gli insegnanti, scrive Massimo Recalcati ne L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (2014), tornino a trasformare i corpi teorici – libri, teoremi, quadri, poesie (anche quelle siculo-toscane del XIII secolo) – in corpi erotici, capaci di accedere il desiderio della conoscenza. Questa la condizione prima per pensare la scuola oltre la sua crisi.

 

Alessio Giacometti

 

NOTE
1. E. Galli della Loggia, Lettera sulla scuola, in “Corriere della sera”, 4 giugno 2018
2. C. Rovelli, Il predellino? No, ai docenti serve dignità, in “Corriere della sera, 6 giugno 2018

 

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