Le forme infinite e il ritmo della vita. Rodin a Treviso

Si conclude ufficialmente a Treviso, al Museo di Santa Caterina, la celebrazione del centenario della morte di Auguste Rodin (Parigi, 12 novembre 1840 – Meudon 17 novembre 1917) con la mostra Rodin: un grande scultore al tempo di Monet, curata dal critico d’arte Marco Goldin in collaborazione con il Musée Rodin di Parigi, visitabile fino al 3 giugno 2018. Dopo le esposizioni al Grand Palais parigino e al Metropolitan Museum di New York è Treviso la sola sede italiana a mettere a disposizione 80 opere del più grande scultore del XIX secolo, 50 scultore e 30 lavori su carta.

Secondo Rainer Maria Rilke − come leggiamo nel catalogo della mostra − l’opera di Rodin «crebbe nella purezza, solitaria e immensa nella natura eterna» e la scultura è proprio l’arte che collocando figure nello spazio assegna loro il desiderio d’eternità, ricordando, nel flusso incessante del tempo, la presenza dell’uomo nel suo invariabile muoversi tra il giardino e l’infinito. Forme e sentimento si amalgamano tra le mani di Rodin «straordinariamente larghe con delle dita molto tozze» − come ricorda sulla Revue de Paris il 15 gennaio 1918 il critico d’arte Paul Gsell – perché l’arte non è che sentimento e ha inizio con la verità interiore e con la capacità di vivere, di provare emozioni, di fremere, di amare. Tuttavia senza le proporzioni e la scienza dei volumi il sentimento è paralizzato come scrivere poesia in un paese straniero ignorando la lingua: Rodin non conta infatti sulla sola ispirazione ma sull’attenzione e sulla volontà ed esorta i giovani artisti a essere onesti operai senza però scadere nella piatta esattezza del calco.

Rodin è quindi faber e magister, come nell’Eden nel tempo della Creazione: dalle mani nasce una nuova vita, il soffio dell’esistenza, con le mani si coltiva l’anima, si modella un volto. E Rodin cerca sempre sotto la superficie, non si limita alla modellatura ma entra nell’anima raccontando gioia e dolore, abbandono e strazio, la forza dei sentimenti appunto, il carattere, così nei gruppi scultorei La porta dell’Inferno e I borghesi di Calais.La porta dell'Inferno Per entrambi modella decine di corpi rifiutando di attaccarsi alla cronaca e all’aneddoto, alla descrizione dei gironi danteschi e all’episodio della resa della città di Calais nel 1347, e, in modo quasi bergsoniano, in una vera e propria circolarità del tempo creativo, ama fare o far realizzare dai suoi assistenti mille variazioni esaurite le quali gli sembra di tornare sempre al punto di partenza. Con Rodin «la scultura ha smesso di essere impassibile» − scrive nel 1883 Edmond Jacques – e tre anni prima, Roger Ballu, ispettore delle Belle Arti inviato a controllare il procedere dell’esecuzione della Porta dell’Inferno, nella sua relazione annota: «In questo giovane scultore c’è un’originalità e una tormentata potenza espressiva davvero sorprendenti. Sotto l’energia degli atteggiamenti, sotto la veemenza delle pose tormentate, nasconde il suo disprezzo, o piuttosto la sua indifferenza per lo stile freddamente scultoreo. Rodin è ossessionato da visioni alla Michelangelo. Potrà forse sconcertare ma non lascerà mai indifferente lo spettatore». Se per la Porta dell’Inferno Rodin modella centinaia di corpi in preda a una vera e propria febbre trasformandoli e assemblandoli ad altri per farne emergere le passioni in un magma dantesco, l’assemblage dei Borghesi di Calais è un inno alla fragilità umana e alla grandezza dell’anima mite: le figure sono dapprima modellate nude, a grandezza maggiore del naturale e in modo indipendente le une dalle altre solo successivamente rivestite, le forme sono quindi essenziali, i personaggi soffrono e le loro espressioni testimoniano senza bisogno di commenti. I borghesi di CalaisNell’abituale tourbillon che faceva riammettere quanto già modellato, Rodin riutilizza ad esempio un nudo acefalo di Jean d’Aire, uno dei Borghesi di Calais, per il Balzac, principale attrazione del Salon de la Société Nationale des Beaux-Arts inaugurato il 30 aprile 1898. La committente Société des Gens de Lettres come la stampa e il pubblico ebbero però reazioni negative perché nell’opera non era possibile riconoscere il romanziere Honoré de Balzac. Intervistato da Le Figaro il 12 maggio 1898 in risposta alle critiche Rodin ribadì che la scultura moderna non deve essere una fotografia perché l’artista non deve lavorare solo con le mani ma soprattutto con il cervello. Nel Balzac infatti – per realizzare il quale, mancando la conoscenza diretta del personaggio a differenza del Monumento a Victor Hugo, Rodin dà vita a una cinquantina di schizzi e a uno Studio di nudo di Balzac studiando la fisionomia degli abitanti di Tours, ricercando foto dello scrittore e indagando le misure dei suoi abiti – i dettagli fisici e il senso del portamento sono annullati per toccare solBalzaco l’essenziale, l’impeto di creazione del romanziere, attraverso soprattutto lo sguardo cui aveva dedicato numerosi studi. Con il Balzac, eseguito in gesso − e non in bronzo come richiesto dalla committenza − per conservarne la trama e quasi l’asprezza della materia attraverso una pelle che dà il senso della vita, la scultura si coniuga con la visione: lo scrittore è come attorniato di luce e vento, stretto nella sua vestaglia da camera accoglie l’universo nei suoi occhi.

È nell’ultima sala della mostra che si trovano le sculture dove la rappresentazione psicologica diventa sempre più raffinata come nel sensuale Bacio e nel celebre Il pensiero, venate da uno sottile malinconia e entrambe connesse alla drammatica liaison con Camille Claudel, l’allieva, l’assistente, l’amante e l’amata non amata. Il pensieroÈ il volto di Camille plasmato da Rodin nel 1893, ad esempio, quello del Pensiero, assorto e compreso in uno spazio inviolabile rivestito con la cuffia con cui si sposavano le ragazze bretoni, sbozzato da un blocco di marmo non finito in un tempo sospeso, quell’assoluto della vita interiore rapito nell’istante dello sguardo.

 

Rossella Farnese

[Credit immagine di copertina: La tribuna di Treviso]

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Tra mimesis e creazione: Guttuso e Giacometti a confronto

Cosa significhi fare arte e con quali processi concettuali e materiali vada creata un’opera sono domande alle quali, specie nella storia degli ultimi cent’anni, non solo è difficile dare una risposta, ma è possibile darne più di una, senza mai cadere nell’errore. E il motivo alla base di ciò è che ciascun artista contemporaneo intende il proprio operare in modo personalissimo, mai accostabile a quello che caratterizza l’arte di qualunque altro autore.

Sono proprio le testimonianze audiovisive relative a due grandi maestri del secolo scorso che possono facilmente spiegare come tra due modi di intendere l’arte possa intercorrere una differenza talvolta enorme e incolmabile. Da un lato, dunque, abbiamo Renato Guttuso, pittore siciliano di grande successo nel secondo Novecento, noto per i suoi dipinti fortemente impegnati socialmente e politicamente. Dall’altro lato, invece, Alberto Giacometti, grande scultore svizzero le cui opere hanno oggi fatto segnare straordinari record di aggiudicazione in aste di arte contemporanea.

In un documentario del 1972, prodotto da Anna Zanoli e diretto da Luciano Emmer1, Guttuso parla del suo rapporto con la pittura, un rapporto intenso che lo vede attratto da quadri di ogni sorta. Tuttavia l’artista si sofferma sin da subito su un celebre dipinto a lui molto caro, che più di qualsiasi altro lo ha stimolato e influenzato nella sua formazione: il “Marat morto” di Jacques-Louis David. Proprio parlando a proposito del capolavoro dell’artista francese, Guttuso esprime delle considerazioni di grande importanza per la comprensione del suo punto di vista sui valori dell’arte: «Tutte le volte che io vedo questo quadro, o penso a delle interpretazioni diverse, o penso alla possibilità di accentare diversamente certe cose che sono nel quadro, oppure di abbandonarmi proprio alla copia, che poi è la vera qualità dell’arte». Aggiunge poi, citando ciò che lo stesso David sosteneva, che «il dipingere non fosse soltanto avere una tavolozza in mano […], ma essere talmente dentro la cosa che esprimerla diventava un fatto naturale».

È evidente come le affermazioni di Guttuso risentano in qualche modo di una tradizione secolare che, in ambito accademico e non, concepisce la copia di un modello artistico come un passaggio fondamentale e naturale della formazione di un artista, imponendosi anzi come momento essenziale di appropriazione di dati schemi figurativi, di composizioni e di giochi cromatici. E per “appropriazione” si intende proprio quel “essere dentro la cosa” che dice l’artista, che dunque rappresenta uno dei momenti più alti del fare arte, quello in cui l’artista si identifica in certo qual modo nell’oggetto dei suoi studi, per poi riprodurlo, uguale o con qualsivoglia variazione, come se fosse “un fatto naturale”. La ripetizione medesima della copia, dunque, diventa un normale processo di elaborazione personale di un’opera oramai acquisita e fatta propria.

Questo pensiero non poteva certo essere condiviso dall’altro protagonista di questo confronto, lo scultore Alberto Giacometti. Intervistato in lingua italiana da Sergio Genni nel 19632, l’artista dimostra di possedere una concezione del fare arte quasi diametralmente opposta a quella del pittore siciliano. Esordisce parlando dei suoi numerosi tentativi di creare sculture di teste umane, a suo dire scadenti e mai riuscite come avrebbe voluto: «Io vorrei fare teste normali, di figure normali, eh. Insomma, non ci riesco. […] Sono delle ricerche mancate. […] Come ho sempre mancato, si ha voglia di provare, no? Continuare a provare. Vorrei riuscire a fare una volta una testa come vedo, no? Come non ho mai riuscito… continuo». Poi ecco l’interessante domanda dell’interlocutore: «Ma lei a volte non è tentato di riprendere la sua, se possiamo dire, prima maniera?». E la risposta di Giacometti mette in luce una personale visione artistica distantissima da quella di Guttuso: «No no no, per niente! Ho capito di che si tratta e non mi interessa più. Non potrei far che delle ripetizioni di quello che ho fatto, non c’è più… non c’è più avventura. […] Sono cose che sapevo cosa volevo fare prima di cominciare, no? Le vedevo chiaramente finite nella loro materia, e allora per farle non è più che un’esecuzione, no? Senza difficoltà… […] dunque lo rifaccio per forza. E invece una testa non la capisco, e allora lì, come fino adesso non ho mai riuscito, sono molto più curioso di vedere dove arrivo facendo una testa che tutte le sculture possibili».

La ripetizione e la mera esecuzione di un’opera già fatta e riuscita rappresentano dunque per Giacometti una forte limitazione al fare artistico, la morte della ricerca e della creatività in favore di una continua riproposizione di immagini già compiute, con le quali l’artista è già riuscito a raggiungere il proprio obiettivo. Ed è proprio qui che sta la maggiore differenza tra il suo pensiero e quello di Guttuso: l’appropriazione di una certa immagine o di un certo modello rappresentano, per il pittore siciliano, il punto massimo del fare arte, e il momento focale senza il quale la produzione artistica non può avere compimento; per lo scultore svizzero, invece, quell’appropriazione va identificata come il momento in cui il fare arte va a terminare, in quanto in esso automaticamente si esauriscono la ricerca, la curiosità e la creatività.

Non vi è dunque una verità, una definizione, una risposta univoca quando si parla di arte, di processi creativi, di approccio a delle date forme o a degli specifici modelli. Ciascun artista ha una risposta diversa, un atteggiamento personale che nessun critico dovrebbe rinviare a schemi predefiniti. E questo perché, in fin dei conti, l’arte altro non è che comunicazione visiva, che può avvenire a diversi livelli, con i più svariati obiettivi e una moltitudine di destinatari tra loro differenziati. Quello che rimane uguale, in tutti i casi, è l’estro creativo dell’artista, ognuno con le sue ragioni, le sue convinzioni e le sue fonti di ispirazione.

 

Luca Sperandio

 

NOTE:

  1. Il documentario, intitolato “Guttuso e… il ‘Marat morto’ di David”, fa parte del programma televisivo  “Io e…”, mandato in onda dalla Rai nella prima metà degli anni ’70 e prodotto da Anna Zanoli  in collaborazione con diversi registi, in questo caso Luciano Emmer, particolarmente attivo per questo programma
  2. L’intervista è stata realizzata nel 1963 da Sergio Genni, allora regista della televisione svizzera TSI. La trasmissione, curata da Grytzko Mascioni, è poi rimasta nota con il titolo di “Il sogno di una testa”, elaborato da Giorgio Soavi in occasione della pubblicazione dell’intervista in concomitanza con la mostra “Il mio Giacometti. Fotografie di Giorgio Soavi”, Milano, 2000

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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Arte dalle mille forme

Quando si parla di uno specifico artista o di un intero movimento artistico, è facile notare che la tendenza è troppo spesso quella di imprigionare una data personalità all’interno di una categoria preconfezionata coincidente con la forma artistica maggiormente praticata dal soggetto, categoria che, tuttavia, nella maggior parte dei casi veste davvero troppo stretta. Infatti, se un personaggio si può definire “artista” è perché nella sua vita ha saputo produrre o ideare dei manufatti in cui materia e concetto (o idea) coesistono per dare un risultato finale leggibile e appagante, a livello estetico e/o intellettivo. È ovvio che la materia può presentarsi di molti tipi differenti, e ancor più ovvio è, dunque, che un artista, in quanto tale, sa estrapolare opere belle (o, meglio, appaganti) da qualsiasi tipo di supporto e con qualsiasi materiale. Perché, in fin dei conti, è l’idea quello che conta, e la capacità di spiegarla con una o più immagini.

Ciò che connota l’attività di un artista è dunque la creatività e la capacità di comunicare mediante manufatti con specifiche qualità tecniche. In questo senso, etichettare Degas come pittore è limitativo, perché così escluderemmo la sua meno conosciuta ma altrettanto interessante attività di scultore. Allo stesso modo, risulterebbe insufficiente limitare l’attività di Bernini alle discipline della scultura e dell’architettura, poiché egli si dimostrò in più occasioni anche un abile pittore, specie nei numerosi autoritratti che ancor oggi si possono ammirare. Questo dimostra che moltissimi artisti del passato e altrettanti odierni possiedono abilità che esulano dalla scelta di un singolo materiale o di una singola tecnica formale, e che li pongono quindi come artisti polivalenti, capaci di ottenere risultati d’eccellenza in diverse discipline artistiche. A partire dal disegno, o da un progetto, o comunque da una ideazione che rappresenti la base su cui fondare poi l’esecuzione materiale, la mente di un grande artista saprà sempre trovare soluzioni che, talvolta pur con qualche compromesso, risulteranno uniche, e pertanto inscindibili dal contesto in cui vengono create e dall’animo stesso dell’artista che le ha ideate.

Per comprendere in modo pratico quello che è stato detto fin qui, credo possa essere utile fare riferimento a due grandi artisti italiani del passato, i quali, inizialmente formatisi in bottega imparando una data disciplina artistica, hanno poi espresso il meglio della loro creatività in un’altra. Il primo caso è quello del celebre Filippo Brunelleschi, da tutti noto come grandissimo architetto e autore dell’opera edilizia più ardita di tutto il Quattrocento, la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze. Ebbene, va ricordato che egli praticò inizialmente l’attività di scultore, nella quale seppe peraltro dare dimostrazione di ottime doti, come ancora visibile nel suo crocifisso oggi a Santa Maria Novella. Solo successivamente egli abbandonò la scultura per dedicarsi all’architettura, arte che lo consegnò definitivamente alla storia.

Quello che porto come secondo esempio vede invece protagonista un artista molto meno noto di Brunelleschi e vissuto circa due secoli più tardi. Si tratta di Antonio Gherardi, figura artistica molto interessante attiva soprattutto a Roma nella seconda metà del Seicento. Raggiunta la notorietà come pittore, egli ebbe solo successivamente modo di confrontarsi, grazie ad alcune “indovinate” commissioni, con la disciplina dell’architettura, nella quale, a mio parere, dimostra qualità creative eccezionali, non riscontrabili nelle sue opere pittoriche e paragonabili a quelle dei più grandi architetti attivi a Roma nel Seicento, Bernini e Borromini. D’altronde, nella mia ultima visita alla città di Roma non sono riuscito a trovare il ciclo decorativo della volta della chiesa di Santa Maria in Trivio, suo capolavoro pittorico, tanto geniale e sbalorditivo quanto la complessa struttura prospettica della Cappella Avila nella chiesa di Santa Maria in Trastevere, dove ha saputo inserire in pochi metri di superficie un numero di soluzioni ingegnose da far impallidire perfino i più noti architetti della storia.

Questi due casi, per quanto apparentemente banali, dimostrano quanto un artista riesca, in molti casi, a sfruttare qualsiasi situazione spaziale e materiale a favore suo e dei committenti, compiacenti fautori di tali capolavori, per ottenere soluzioni che, grazie alla capacità dell’invenzione (nel senso della parola latina inventio), riescono a stupire l’osservatore, spesso ignaro che tali opere non sono frutto dell’ingegno di un professionista di una o di un’altra disciplina (come oggi potrebbe essere concepito), ma di personalità che sanno immaginare qualcosa di bello o ricco di significato in relazione a un blocco di marmo non lavorato, a una tela non preparata, a uno spazio vuoto, a un libro dalle pagine vuote o a qualsiasi altro oggetto al quale si possa applicare una lavorazione che lo renda non più una semplice tela o un banale blocco di marmo grezzo.

La trasformazione della materia in arte presuppone creatività, e la creatività non conosce limiti, ma solo obiettivi. E questo concetto non può esprimersi meglio che nell’arte contemporanea, nel cui ambito molti artisti hanno sentito la necessità di esplorare sempre nuovi orizzonti utilizzando mezzi diversissimi che mai hanno impedito loro di ottenere quello che la loro intuizione voleva. Non deve dunque meravigliare vedere i tagli di Lucio Fontana applicati anche a piccoli fogli di carta e persino a piatti di ceramica, così come non deve necessariamente apparire folle che Duchamp, in un preciso contesto storico e culturale, sia addirittura giunto a rendere un orinatoio un’opera d’arte, con un’azione che in senso tradizionale va definita anti-artistica ma che, dal punto di vista creativo, rappresenta un perfetto esempio di come la geniale mente di un artista possa ricoprire di significato qualsiasi oggetto, il quale rimane così testimonianza tangibile di un’azione essa stessa densa di significato e, di conseguenza, reputabile essa medesima opera d’arte.

Luca Sperandio

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Indagare l’immagine e l’oggetto: intervista a quattro artisti

Il mondo di oggi, che corre sulle ali di una comunicazione rapida ed immediata, fa un uso molto ampio dell’immagine ma senza mai avere il tempo di soffermarsi ad indagarne la complessità. Questo è invece proprio ciò che si propone la mostra From Object To Exposure inaugurata giusto ieri (sabato 18 febbraio 2017) dall’associazione TRA – Treviso Ricerca Arte nella sempre suggestiva cornice di Ca’ dei Ricchi a Treviso.
L’esposizione è curata da Carlo Sala e presenta alcune opere di quattro giovani artisti italiani. I loro lavori giustappongono fotografia e scultura ed in tal modo intendono creare delle ambiguità tra l’oggetto reale e quella che invece è l’immagine dell’oggetto: le sculture vulcaniche di Paola Pasquaretta si accompagnano alle sculture di schiuma immortalate nella cornice dello scatto, il cielo stellato di Silvia Mariotti si fa da immateriale a scultoreo tramite la stampa a lambda, i detriti di Marco Maria Zanin sono esposti ma viene esposta anche la fotografia che li ritrae sotto una veste più attraente, mentre Mimì Enna ricostruisce un luogo nello spazio espositivo utilizzando sia immagini a grandezza naturale che veri e propri oggetti di arredamento.
Ma non voglio svelare oltre: vi suggerisco di leggere quest’intervista – che purtroppo è solo uno spiraglio dei mondi che questi artisti hanno dentro e che hanno condiviso con me – e di portare poi con voi le vostre domande e suggestioni al piano nobile di Ca’ dei Ricchi, dove troverete la mostra ad aspettarvi fino al 2 aprile 2017.

[A Marco Maria Zanin]
I tuoi lavori più recenti hanno al centro il detrito come simbolo di una demolizione incontrollata del passato in favore di una indiscriminata costruzione del nuovo, che però si trova spesso in tal modo ad essere privo di radici. In che modo quindi concepisci il detrito come un nuovo archetipo?

MMZ: «In questi ultimi lavori mi sono ispirato alla teoria dello storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman, il quale seguendo Walter Benjamin critica la concezione lineare della storia e del tempo per come sono concepiti nella società occidentale, sostenendo invece la concezione della storia come una sovrapposizione di temporalità che possono costantemente riemergere l’una sull’altra, senza che ce ne sia una dominante. Il detrito e la rovina hanno dunque la caratteristica di un sintomo, perché rivelano in superficie una presenza di cose che accadono e vivono in profondità. Ho lavorato già in passato con la rovina, per esempio per la serie fotografica sulle case rurali abbandonate, proprio perché le consideravo una temporalità passata da riportare nel presente: il detrito è quindi il punto di appoggio per creare una breccia in quella che è la temporalità del mercato e del capitalismo. Mettendo il detrito al centro della nostra cosmologia provo a valorizzare i livelli di lettura che sono in esso: ci sono dentro altre dimensioni della realtà che non sono quelle della temporalità dominante che l’ha scartato e buttato via. Nell’opera Copernico qui esposta il detrito di San Paolo, megalopoli in continua espansione, è fisicamente presente, ma è in qualche modo presente anche nella fotografia, che rappresenta in realtà una mia ricostruzione in porcellana del detrito. Questo crea il corto circuito che dona dignità al detrito e consente all’osservatore di accedere ai successivi livelli di lettura».

[A Paola Pasquaretta]
In questa mostra hai portato delle sculture di sapone, fragilissime ai fattori ambientali e dunque destinate a deperire con il passare del tempo, mentre hai cristallizzato nelle fotografie sculture di schiuma che altrimenti sarebbero esistite per pochissimi secondi prima di deteriorarsi. Considerando la paura diffusa oggigiorno dello scorrere del tempo, c’è forse una bellezza in esso che tu hai voluto metterci davanti agli occhi?

PP: «Più che la bellezza direi che è fondamentale la consapevolezza del passaggio del tempo. Noi lo viviamo e lo subiamo in prima persona su di noi come esseri umani, però per me è interessante la trasformazione. Io sono affascinata dai fenomeni geologici ed i cambiamenti che avvengono nella geologia, che hanno tempi molto più dilatati ed incomprensibili per noi perché distanti dalla nostra vita, sono sì deperimenti ma l’ottica non è quella di un cambiare in modo negativo quanto piuttosto proprio di un modificarsi delle cose del tempo. Si tratta quindi di essere consapevoli del fatto che non sarà mai tutto uguale rispetto a come l’avevamo lasciato, quindi per esempio anche noi nei confronti della natura e dell’ambiente dovremmo utilizzare un certo tipo di sguardo e di attenzione, perché le cose cambiano anche a causa nostra. Anche il mezzo artistico stesso poi sottende una riflessione ed un gioco sul tempo, perché la fotografia cristallizza un momento, ma cosa sarebbe invece vederlo dal vero, vederlo succedere rapidamente? Allo stesso modo la scultura è solitamente una cosa finita, invece in questo caso cambia anche lei. Si tratta di cambiamenti e non implicano necessariamente la bellezza: non c’è giudizio».

[A Mimì Enna]
La tua riflessione invece riguarda soprattutto lo spazio, poiché con le tue Delocazioni intendi trasferire un luogo all’interno dello spazio espositivo. Quali sono dunque per te gli elementi che determinano lo spazio in quanto tale?

ME: «Per me le Delocazioni sono un trasportare un luogo all’interno di uno spazio, nel senso che per spazio intendo un luogo più neutro e che non necessariamente palesa un vissuto al suo interno, mentre invece un luogo sì, perché un luogo è abitato (o lo è stato) e s’impregna di tutte le tracce che lascia chi lo ha vissuto,   come anche gli oggetti che lo hanno arricchito. Quando mi inserisco nello spazio, le Delocazioni le intendo quindi come una porzione di un luogo, trasferendovi anche un intero modo di abitare, come è successo per Delocazione nello studio di uno psicologo: siccome il mio intento era esasperare la fragilità di quel luogo ho trasferito l’intera attività dello psicologo, nel senso che lei ha effettivamente esercitato la sua professione all’interno di quello spazio espositivo allestito. Lo spazio si è caricato del vissuto del luogo stesso».

[A Silvia Mariotti]
Nelle opere che hai scelto di esporre in questa mostra risulta predominante il tema del buio e della notte: emergono dunque spazi e realtà privi di solidi punti di riferimento e dunque anche potenzialmente destabilizzanti. C’è in tutto questo una riflessione esistenzialista o è principalmente estetica?

SM: «Questo in realtà è partito proprio come un lavoro sulla morfologia del territorio [quello delle foibe carsiche], dunque con una connotazione molto naturalistica: volevo assolutamente evitare di fare un lavoro documentaristico, quindi riportare sì il contesto storico ma giocando sulla doppia chiave del sublime, dove la tragicità sta nella storia stessa nascosta dietro quei luoghi, ma anche la loro semplice natura morfologica. L’esperienza è comunque sempre la chiave di lettura: la notte che si fa contenitore di una serie di esperienze, soprattutto la mia ma anche un’esperienza che voglio ridare a chi la riesce a percepire nel momento in cui sta di fronte all’opera.  Da lontano queste opere sembrano buchi neri: mi piace tantissimo questa cosa del disvelare pian piano la realtà, cosa che necessita anche un prendersi del tempo di fronte all’opera».

L’artista è una persona che si pone in modo del tutto speciale nei confronti di un oggetto d’arte, poiché è creatore egli stesso di oggetti d’arte. Quale rapporto si è creato tra voi e le vostre opere?

PP: «Essendo creatore dell’opera d’arte, anche quando non c’è più come un tempo una grande lavorazione manuale (per esempio nelle fotografie), sento le mie opere come figli, cioè come parte di me. Nel momento in cui sono finite – o meglio le considero finite – diventano invece l’opposto, totalmente estranee da me. Anche nel caso di questi vulcani, loro vivono di vita propria! Io le costruisco, impiego moltissimo tempo nel dettaglio per renderle più belle e più precise possibile, e poi il materiale col tempo cambia e si modifica per cui la forma che io ho dato al mio lavoro non è più la stessa. Nel momento in cui i miei lavori escono dallo studio ed arrivano in una mostra o vengono viste da altre persone diventano parte del mondo, della storia, non c’è più l’attaccamento iniziale. Questo anche perché nel processo di lavorazione è difficile considerare conclusa un’opera, per cui il momento dello stacco è fondamentale perché altrimenti il processo creativo continuerebbe all’infinito; allora da quel momento loro cominciano a vivere per conto loro».

ME: «Io ho iniziato a fotografare perché ero appassionata, però mettendomi nei panni di un fruitore esterno ho cercato sempre di rendere molto tangibile il mio volere, quello che volevo offrirgli. Questo è il motivo per cui ho voluto inserire gli oggetti [in dialogo con le fotografie], di modo che per il fruitore fosse percettibile l’intento, che non si verificasse quella distanza che spesso capita quando si parla di arte contemporanea. Nelle mie opere c’è sempre un riferirmi alle forme che sono familiari e comuni a tutti i tipi di fruitore, non solo agli addetti ai lavori in questo campo, proprio per avvicinarli tramite queste forme».

Nonostante gli intenti con cui molti movimenti e correnti sono nati, l’arte contemporanea oggi arriva con più fatica alla cosiddetta “gente comune”, soprattutto in un Paese come l’Italia ricco d’arte antica. Sapreste tessermi gli elogi o magari una semplice apologia dell’arte contemporanea?

SM: «Come ti dicevo anche prima, per me conta davvero molto il riportare un’esperienza, la relazione che si può instaurare nel momento esperienziale che io riporto e che comunque diventa soggettivo, ed un altro momento esperienziale ancora nella persona che si trova a fruire dell’opera. Io lavoro attraverso il mezzo fotografico, però non mi piace lavorare attraverso un tecnicismo – per esempio l’uso delle esposizioni – perché mi interessa proprio immergermi in una dimensione e riportarla al pubblico, che la può reinterpretare e creare una esperienza ancora nuova. L’arte contemporanea, per come la vedo io, è un regalare delle esperienze».

MMZ: «Guarda, io sono laureato proprio in Filosofia e poi in Relazioni Internazionali, per cui le mie radici non affondano proprio nel terreno dell’arte, e infatti questa apertura dell’arte contemporanea al grande pubblico per me è molto importante. Questo è anche il motivo per cui in molti miei lavori ci sono anche un’estetica ed una poetica che sono linguaggi universalmente comprensibili, diventando così una prima porta per accedere ai livelli di comprensione successivi che sono spesso racchiusi nell’arte contemporanea in genere. Io poi ho un progetto di residenza artistica [Humus, ndR] in cui proprio uno degli obiettivi è quello di mettere l’arte contemporanea al servizio di un territorio, come quello della bassa padovana, che sta ai margini; questo perché l’arte contemporanea è uno strumento di lettura di quello che accade nella realtà presente incorporando un linguaggio enormemente innovativo e fresco. Io faccio arte contemporanea perché spero che essa possa creare uno spazio all’interno della comunità umana».

Dietro ogni oggetto d’arte, soprattutto nel contemporaneo, si nasconde un profondo pensiero ed un ben preciso modo di concepire il mondo. Tutto questo, per noi, può chiamarsi filosofia. Voi che valore date alla filosofia?

SM: «La filosofia ti apre a mille interrogativi ed è come una ricerca a più livelli, come un gioco di specchi: una profondità che non ti porta mai ad una fine reale e anzi, ti apre continuamente a diverse interpretazioni e punti di vista».

ME: «Io associo spesso la filosofia al lavoro che facciamo noi perché il fine non ha un aspetto “utile” inteso in modo scientifico: è più soggettivo. Quindi per questo motivo sicuramente è molto aperta, come diceva Silvia, nel senso che non si conclude e non c’è un fine preciso. Questa secondo me è la grande forza di entrambi gli ambiti, la mutevolezza; e poi sono sicuramente entrambe necessarie alla vita».

PP: «Io penso alla filosofia in modo molto applicato, quindi non tanto a quei grandi e complessi ragionamenti che si pensa essere la filosofia quando la si studia; per me è un’analisi più approfondita del quotidiano – infatti ci sono filosofie applicate a qualsiasi cosa, anche all’economia o ad altre cose più pratiche. Pensando al mio lavoro per esempio ci sono in gioco delle riflessioni – come prima sul tempo, per dirne una – che io tratto in modo materiale ma che penso appartengano anche all’ambito filosofico».

MMZ: «Secondo me la filosofia è la possibilità di tagliare con un bisturi quella che è la realtà, imparando proprio a porsi delle buone domande e provando a sentire qual è la pulsazione del proprio tempo: aprirlo con un bisturi, guardarci dentro e raccontarlo».

Giorgia Favero

Per maggiori informazioni sulla mostra e sugli artisti vi rinviamo al sito di TRA.

Cercando “La via del sole”: intervista a Mauro Corona

Mauro Corona, basterebbe il suo nome per presentarlo, per ricordarci chi siamo, che posizione abbiamo preso tra gli estremi della società: da una parte i soldi, la gloria a tutti i costi e l’omologazione, e dall’altra lui, con il suo sprezzante e ruvido isolamento sulle montagne bellunesi.
Corona rappresenta quella persona che ha avuto e che ha tuttora il coraggio di fare tutto quello che noi ci promettiamo di fare ogni giorno – nei momenti di difficoltà – ma che non abbiamo mai il tempo, la voglia, la forza di mettere in atto: prendere tutto e mandarlo a quel paese, farlo rotolare giù per la scarpata più ripida e lasciarlo finire a valle, schiantato.
Non c’è più tempo per i fardelli, per i pesi che non meritiamo di portare. Lui ha scelto montagna e scrittura, ha scelto di non piegarsi alla moda degli altri, alle usanze, al perbenismo con cui riempiamo ogni giornata.
Senza rinunciare alla società a cui rimane aggrappato come alla roccia più aspra e tagliente, Corona ispira un cambiamento, una diversità raggiungibile anche attraverso i suoi libri, attraverso le sue parole che fanno da eco ad ogni camminata e ad ogni esperienza delle montagne, di chi ha il coraggio di dire effettivamente che direzione sta prendendo la nostra vita, da lontano.

Coraggio e passione trasudano dalle sue pagine, come un’accusa a chi spreca la vita, a chi si fa trascinare dal flusso forse troppo violento del consumismo. La risposta ai mali della società e della frenesia del mondo del web arriva quindi dalla montagna e dallo sforzo, dalla riflessione e dalla consapevolezza che si può anche vivere diversamente, che un’alternativa c’è ed è piacevole, affettuosa, una cura naturale.

 

Oggi ci ha presentato l’ultimo di una gran bella collezione di romanzi che ha scritto. C’è un messaggio per i lettori ne La via del sole?

In ogni parola c’è un messaggio, in ogni libro, in ogni scultura… persino nel passo, perché anche solo camminando qualcuno ti lancia un messaggio, per esempio che ha fretta o che è triste. Questo librino qui è una parabola che punta il dito sulle persone (quasi tutte) che perdono tempo mentre invece hanno una sola occasione nella vita: continuano a perdere tempo convinti di poterlo recuperare, di averne altro a disposizione. Come scriveva Ernesto Sabato, «purtroppo la vita la facciamo solo in brutta copia. Se uno scrittore fa una pagina imperfetta può buttarla nel cestino. La vita, no»: è verissimo, non abbiamo il tempo di correggerla e di ricopiarla in bella. A me sembra di vedere attorno a me, nel pianeta intero, miriadi di persone che perdono tempo, che potrebbero vivere bene lo stesso facendo il necessario, investendo tutto il resto in tempo libero, nelle loro passioni, nei loro hobby… E’ una scioccheria quella del non avere tempo.

Il paesaggio montuoso, soprattutto quello delle nostre zone, è appassionatamente descritto nei suoi romanzi e ne è in qualche modo padrone. Anche nel nostro gruppo ci sono grandi appassionati del panorama montano, delle ferrate e dell’arrampicata, dunque vorremmo chiederle: secondo lei, qual è la più grande lezione della montagna all’uomo?

A me più che insegnamenti ha dato carezze, anche a volte piuttosto brusche, però per me è stata una medicina: mi rifugio lì, oggi come allora, quando avevo dei problemi che non riuscivo a risolvere perché non volevo risolverli, perché il mio carattere non mi permetteva di risolvere in maniera pacifica il conflitto con i miei genitori, con la famiglia, con gli amici, col paese, con l’umanità intera. Quindi anche oggi vado lì e mi sento abbracciare. Mi sento protetto, mi sento nascosto.
Dopodiché m’ha anche insegnato che per arrivare da qualche parte devi faticare: intanto la montagna è in salita, ma è quasi più faticoso scendere che salire. Per arrivare ad un punto, ad un successo, ad un vertice, è quindi necessario faticare, ma mi ha insegnato anche che dal vertice devi solo scendere, e mentre scendi adocchi un altro vertice ancora: è un saliscendi continuo. Comunque per me è stata una protettrice più che una conquista.

Quindi in un certo senso la solitudine e il contatto con la grandezza della natura che offrono il paesaggio montuoso possono più facilmente farci accedere ad una dimensione spirituale?

La spiritualità nasce solo dallo sforzo. E’ vero che un filosofo può speculare su tante cose anche stando a letto, ma lo sforzo crea idee, lo sforzo crea soluzioni, la fatica è la base di ogni arte. Lo sosteneva anche Robert Walser, che non riusciva a scrivere una riga se non faticava.

Sicuramente la montagna è uno di quei luoghi che mette a nudo l’uomo da tutti i costrutti e le sovrastrutture della modernità e gli fa riscoprire il suo lato più semplice, in un certo senso ancestrale; quando si torna a valle però purtroppo molte cose vengono perse, e si torna ad uno stile di vita più artificiale e noncurante della dimensione naturale: percepiamo la natura attorno a noi ma non ci tocca veramente. Quale pensa che sia il legame che ai nostri giorni intercorre tra l’uomo e la natura?

Non tutti possono andare in montagna ogni giorno, ma sapere che c’è dovrebbe essere abbastanza. Perché se noi abbiamo bisogno della montagna o del mare per trovare noi stessi siamo eroi anomali di qualcosa, e dunque già falliti. Io non ho mai visto la Pietà di Michelangelo, ma sapere che c’è mi rallegra, e mai c’andrò a vederla! Quindi bisogna secondo me ragionare sul fatto che le cose ci sono e un giorno se mi gira vado anche a cercarmele. Ovviamente camminare in un bosco d’autunno, come diceva Cioran, è una cosa bella e quindi c’è bisogno anche del vedere, del contatto, ma nel frattempo che non l’abbiamo sotto mano elaboriamo la montagna che c’è in noi in previsione di andarla a vedere un giorno. Del resto non è possibile che sette miliardi di persone si riversino in un bosco, però quando si può farlo perché non farlo, perché non fare delle scuole dove portano i bambini nel bosco, per esempio il Friuli è pieno di boschi, ha mai visto una scolaresca che vada nei boschi? È importante sapere che c’è la natura e che va praticata un poco, ma se lei ha bisogno di rifugiarsi in un bosco per ritrovarsi vuol dire che c’è qualcosa che non va. Dev’essere piuttosto un premio, un regalo, come un colpo di sole, non una necessità da dipendenza, altrimenti è peggio di prima.

L’ambiente naturale adesso è particolarmente minacciato: questa tematica ricorre spesso all’interno dei suoi libri e dunque sembra esserle particolarmente cara. Che cosa sta succedendo e cosa dovremmo fare per provare a risolvere il problema?

L’ambiente naturale è da sempre minacciato dall’uomo, in questo periodo ciò succede in modo più evidente perché abbiamo educato una società di colpevoli. Oggi l’uomo di successo, interessante ed intelligente, non è quello che legge un libro o che investe in tempo libero ma quello che fa soldi; la colpa non è della società, perché la società siamo io e lei e altri sette miliardi: la colpa è di questa idea che per essere veramente di valore bisogna fare soldi. Questo è il principio che ha danneggiato tutto. Questa è anche la parabola del protagonista del mio ultimo libro, poiché sta distruggendo tutto quello che ha per avere un po’ di sole, senza rendersi conto di averlo già. Bisogna accontentarsi, ed insegnarlo anche ai nostri figli, altrimenti continueranno la nostra eredità di stupidità perpetua che attualmente paga la natura, perché per diventare più ricchi bisogna sfruttarla sempre di più. E’ una questione di educazione al togliere, togliere per vedere, come scolpire, togliere legno per vedere oltre, dentro.

Dove troviamo questi modelli di vita “giusti”?

Non ne trovi più. Vanno creati da capo, ma subito, domani mattina! Vanno insegnati ai figli, per esempio spiegando che non bisogna sempre apparire, avere le cose appariscenti e di marca, griffate… è un caos da dove non se ne esce.

Qual è la sua idea di filosofia e quale ruolo ritiene essa abbia nella vita di tutti i giorni?

Wittgenstein diceva che un filosofo non deve mai avere maggior prestigio di un idraulico. Filosofia è un modo di pensare, anche un modo di pensare soluzioni, però quando questa filosofia si impone come scienza che tutti gli altri sono imbecilli tranne il filosofo allora comincia a diventare vanità personale. Quindi mi va bene la filosofia se accompagnata poi alla praticità della vita, perché un filosofo oggi se non avesse da mangiare e un posto di lavoro sarebbe difficile che speculasse e facesse contorcimenti filosofici. E’ necessaria ma non tanto quanto la si vanta. Per esempio io ora sto leggendo i Quaderni neri di Heidegger e non ci capisco una mazza! A me però piace un filosofo, Carlo Michelstaedter, che si sparò a 23 anni: non era neanche filosofo, fu filosofo suo malgrado; lui sosteneva che un peso è un peso, perciò un peso deve cadere e se lo sospendi non è più un peso. Questo è ciò che facciamo noi: noi siamo dei pesi che vogliono essere sospesi, mentre invece è inutile lottare contro quel peso che deve cadere. Quindi la filosofia è un nobile, giusto e necessario passatempo, ma prima di lei vengono le cose pratiche perché a stomaco vuoto non filosofeggi.

 

La società va quindi rifondata, ricalibrata e ripensata; i modelli di riferimento non esistono più, ma non ci perderemo in alcuna forma di nichilismo, anzi, ci sporcheremo le mani, ci graffieremo le dita e avremo terra incastrata sotto le unghie per lo sforzo continuo. Raschieremo da oggi le superfici delle montagne per spremerle e costruire un nuovo mondo. La filosofia ci aiuterà in questo solo a scapito della sua sofisticatezza, per lasciare spazio a una nuova forma di praticità filosofica.

La Redazione

Nota: Questa intervista ci è stata rilasciata dall’autore in occasione di Pordenonelegge il 16 settembre 2016.

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Riflessioni circa scrittura ed architettura: del senso, dello spazio

Victor Hugo era molto appassionato di architettura tanto che definiva quest’arte “regina”; era più di tutto attratto dalle città medievali poiché ne percepiva l’unità, la forza interna, l’ “organicità” medievale, che era ai suoi occhi un ideale perduto.
C’è un intero capitolo in Notre Dame de Paris, “Paris à vol d’oiseau”, che esprime perfettamente l’intuizione di questo attento scrittore: «Non era soltanto una bella città; era una città omogenea, un prodotto architettonico e storico del Medio Evo, una cronaca di pietra».
Nel capitolo “Ceci tuera Cela”, Victor Hugo andò ancora oltre, sviluppando una vera e propria filosofia dell’architettura.
Le poche pagine in cui paragona l’architettura ad un linguaggio, oltre ad essere illuminanti circa la funzione storica dell’architettura medievale, costituiscono un prezioso monito.
Victor Hugo ha scritto il saggio più illuminante che sia mai stato scritto sull’architettura.

«Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio». Le enigmatiche parole dell’arcidiacono, nella loro lucida perentorietà, hanno forse bisogno di essere interpretate. Sicuramente esprimono nel contesto del romanzo il pensiero di un prete, il terrore del sacerdote dinnanzi alla tecnica, alla stampa.
Ma c’è una lettura più profonda che comprende l’osservazione del cambiamento in atto che a noi interessa particolarmente: Victor Hugo aveva capito che l’architettura era un linguaggio e aveva intuito che non si sarebbe più scritto nello stesso modo e con gli stessi mezzi.
La stampa, la nuova arte, stava per detronizzare l’altra, la più antica: l’architettura.
Da un libro di pietra, l’uomo si sarebbe affidato ad un libro di carta per tramandare la sua sapienza ed esperienza.
Dall’origine delle cose fino al secolo XV dell’era cristiana, l’architettura era infatti il gran libro dell’umanità, la principale espressione dell’uomo nei suoi diversi stadi di sviluppo.
I primi monumenti furono massi di pietra, non tagliati, anzi come disse espressamente Mosè, “che il ferro non aveva toccati”.
L’architettura cominciò così a compitare il suo alfabeto, partendo dai rudimenti della sua scrittura: i massi, la pietra alzata dai Celti.
Più tardi si fecero parole, combinando sillabe di granito.
Il dolmen e il cromlech celtici, il tumulo etrusco e il galgal ebraico, sono parole.
I tumuli invece, sono nomi propri.
E poi si fecero interi libri, le tradizioni avevano elaborato dei simboli sotto i quali la nuda pietra andava scomparendo, rivestendosi invece di significato.
Allora l’architettura si sviluppò a pari passo col pensiero umano, fissando tutto quell’universo simbolico fluttuante in forma eterna, visibile e palpabile.

L’idea madre: il verbo, era nella loro forma. Il tempio di Salomone non era la rilegatura del libro santo, era il libro santo stesso.
E così fu fino a Gutemberg, l’architettura rimane la principale scrittura.
Di questa scrittura si possono distinguere due forme storiche: l’architettura di casta, teocratica; e l’architettura “del popolo”, paradossalmente più ricca, e meno consacrata.
Tra le due vi è la differenza che intercorre tra una lingua sacra, rara, dotta e precisamente codificata, dove nessuna parola deve cadere a vuoto e nessuna ricolatura è concessa poiché ha il potere di legare e sciogliere, di fare atto ciò che nomina e dice; è una lingua volgare, quotidiana, funzionale in continua evoluzione e contaminazione con gli eventi.
Nel secolo XV tutto cambia, il pensiero umano scopre un mezzo più duraturo e più facile: le lettere di Gutemberg.
L’invenzione della stampa è la rivoluzione madre: è il modo di esprimersi dell’umanità che si rinnova completamente, è il pensiero umano che si spoglia di una forma e ne riveste un’altra.
Da qui in poi, l’architettura si atrofizza e si denuda; inizia quella meravigliosa decadenza che noi chiamiamo Rinascimento.
A volte le albe e i tramonti si assomigliano.
Con il tramonto dell’architettura, infatti, le altre arti hanno più spazio e iniziano il processo di emancipazione da questa che era sempre stata l’arte tiranna che a sé tutte sottometteva.
L’isolamento ingigantisce ogni cosa: la scultura si fa statuaria, l’iconografia pittura, il canone musica.

Ritornando a Parigi, e al xv secolo bisogna ribadire che era non tanto una bella città, quanto una città omogenea, un prodotto architettonico e storico del Medioevo, una vera cronaca di pietra.
Ma quale Parigi l’ha mano a mano sostituita?
La Parigi di oggi è difficile da descrivere e definire, non ha più una fisionomia generale, appare invece come una collezione di elementi eterogenei.
La capitale si estende solo per il numero di case.
Questo ci riconduce ad un altro fondamentale cambio di guardia: il secolo XVIII.
Il Settecento ha ridefinito cosa fosse la città, e l’ha tramutata di sistema di reti e rapporti, ad un agglomerato di cose ed edifici.
Dalla città delle persone e degli scambi, alla città delle strutture.

Laura Ghirlandetti

Laura Ghirlandetti, 1983.
Filosofa on the road con base a Milano, teatrante, e cittadina mediamente attiva.
Ha due blog ed un canale You Tube.

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Rafail Georgiev e la curiosità nell’ate

Rafail Georgiev è un giovane scultore bulgaro. Ha iniziato molto presto a essere un «piccolo homo faber», come si è definito lui stesso. A solo 4-5 anni suo padre, artista, gli dava dei pezzi di argilla e Rafail passava ore e ore a modellarla, alcuni di questi lavori suo padre ancora li conserva nel suo studio… Quest’anno questo piccolo genio dell’Arte ha esposto alla Biennale de Sologne in Francia, oltre a partecipare a vari festival e mostre internazionali in Italia, Germania, Bolgaria, Israele.

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La passione per la manualità artistica l’ha portato, da ragazzo, a frequentare prima l’Accademia di Sofia, dove ha studiato per cinque anni, e poi all’Accademia delle Arti di Roma per altri tre anni. Durante la sua specializzazione a Roma Rafail ha iniziato a lavorare con la pietra, materiale che ora preferisce insieme al legno, al ferro e al bronzo. Materiali che molto lo accomunano con l’Arte Povera italiana, con la quale condivide anche l’uso degli archetipi, argomento che approfondirò più avanti.

Nato da una famiglia di artisti, Rafail Georgiev è una persona curiosa ed è proprio questa curiosità alla base della sua Arte: il suo desiderio è quello di scoprire ed esprimere i fenomeni attraverso essa. Quando lavora si lascia ispirare dalla vita stessa cercando di capire la contemporaneità attraverso gli archetipi dell’umanità, ad esempio l’origine degli esseri umani, i fenomeni religiosi, il mistero della creazione. Le sue sono opere molto interessanti, concettuali, a grandezza monumentale e composte da forme architettoniche che l’artista ha iniziato a sviluppare in questi ultimi anni. Rafail stesso afferma che «l’architettura archetipica è una delle cose a cui mi ispiro per questi lavori concettuali».

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Il giovane artista non segue la moda dell’arte contemporanea ma spiega che le sue opere sono modellate, scavate dalla pietra e in un certo senso hanno la tradizione all’interno di sé; prima della realizzazione, però, hanno una spinta verso il concettuale perché Rafail parte sempre da un’idea o da un mito che lo porta al compimento dell’oggetto attraverso un processo scultoreo. Secondo lui, e io concordo, non esistono delle regole su come fare arte e la curiosità dell’artista e importante quanto il talento.

I suoi sono lavori decisamente da vedere, non da raccontare.

«Sinceramente credo di essere ancora all’inizio del mio percorso artistico e sono molto curioso per il futuro dell’Arte e certamente per il futuro nel mio piccolo».

Ilaria Berto

[Immagini concesse da Rafail Georgiev, informazioni e citazioni ottenute dall’artista stesso]

Policleto (Argo, V secolo a. C. – …)

Caratteristica sua è di aver inventato che le statue insistessero su di una sola gamba.

Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, XXXIV, 56

Scultore greco, Policleto, svolse un ruolo fondamentale per la nascita della grande scultura classica. Sembra essere stato attivo nel Peloponneso a partire dal 465 a.C., principalmente nella creazione di statue per i vincitori dei giochi olimpici, fino al 420 a.C. Sfortunatamente nessuna delle sue opere originali è giunta ai giorni nostri ma conosciamo i suoi lavori attraverso le numerose copie di età ellenistica e romana che testimoniano la fama e la fortuna che essi ebbero presso gli antichi.

Policleto fu anche un teorico dell’arte, scrisse infatti un trattato dal titolo Kànon (regola), purtroppo disperso, sul quale fissava le fondamentali proporzioni del corpo umano. In questo modo egli rivelò ancora una volta lo spirito estetico greco, fatto di regolarità e precisi rapporti numerici. La bellezza, per un’artista greco, doveva avere una precisa base matematica, fatta di numeri e rapporti precisi. Il canone di Policleto assurge quindi a regola d’arte per generazioni di artisti che lo seguiranno.

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Antonio Canova (Possagno, 1 novembre 1757 – Venezia, 13 ottobre 1822)

Il Neoclassicismo è una corrente del gusto che ha subito una lunga elaborazione teorica prima di nascere completamente nella breve e intensa fioritura dello stile Impero, dopodiché è piano piano scomparso sotto l’azione dei fermenti romantici che recava in sé fin dalle origini.

Mario Praz

Neoclassicismo è il nome dato ad una tendenza culturale sviluppatasi in Europa tra il XVIII ed il XIX secolo e riconoscibile in tutte le arti. Come si può intuire dal termine, esso fu caratterizzato da un forte interesse per l’arte antica, riprendendo i modelli greci e quindi il “bello ideale”. Secondo Platone ed Aristotele, infatti, il bello è ciò che offre all’occhio e alla mente armonia e proporzione, ordine e misura, ordinando la molteplicità degli elementi sensibili e corporei all’idea del bello in sé, idea eterna, perfetta e immortale.

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