Riflessioni circa scrittura ed architettura: del senso, dello spazio

Victor Hugo era molto appassionato di architettura tanto che definiva quest’arte “regina”; era più di tutto attratto dalle città medievali poiché ne percepiva l’unità, la forza interna, l’ “organicità” medievale, che era ai suoi occhi un ideale perduto.
C’è un intero capitolo in Notre Dame de Paris, “Paris à vol d’oiseau”, che esprime perfettamente l’intuizione di questo attento scrittore: «Non era soltanto una bella città; era una città omogenea, un prodotto architettonico e storico del Medio Evo, una cronaca di pietra».
Nel capitolo “Ceci tuera Cela”, Victor Hugo andò ancora oltre, sviluppando una vera e propria filosofia dell’architettura.
Le poche pagine in cui paragona l’architettura ad un linguaggio, oltre ad essere illuminanti circa la funzione storica dell’architettura medievale, costituiscono un prezioso monito.
Victor Hugo ha scritto il saggio più illuminante che sia mai stato scritto sull’architettura.

«Questo ucciderà quello. Il libro ucciderà l’edificio». Le enigmatiche parole dell’arcidiacono, nella loro lucida perentorietà, hanno forse bisogno di essere interpretate. Sicuramente esprimono nel contesto del romanzo il pensiero di un prete, il terrore del sacerdote dinnanzi alla tecnica, alla stampa.
Ma c’è una lettura più profonda che comprende l’osservazione del cambiamento in atto che a noi interessa particolarmente: Victor Hugo aveva capito che l’architettura era un linguaggio e aveva intuito che non si sarebbe più scritto nello stesso modo e con gli stessi mezzi.
La stampa, la nuova arte, stava per detronizzare l’altra, la più antica: l’architettura.
Da un libro di pietra, l’uomo si sarebbe affidato ad un libro di carta per tramandare la sua sapienza ed esperienza.
Dall’origine delle cose fino al secolo XV dell’era cristiana, l’architettura era infatti il gran libro dell’umanità, la principale espressione dell’uomo nei suoi diversi stadi di sviluppo.
I primi monumenti furono massi di pietra, non tagliati, anzi come disse espressamente Mosè, “che il ferro non aveva toccati”.
L’architettura cominciò così a compitare il suo alfabeto, partendo dai rudimenti della sua scrittura: i massi, la pietra alzata dai Celti.
Più tardi si fecero parole, combinando sillabe di granito.
Il dolmen e il cromlech celtici, il tumulo etrusco e il galgal ebraico, sono parole.
I tumuli invece, sono nomi propri.
E poi si fecero interi libri, le tradizioni avevano elaborato dei simboli sotto i quali la nuda pietra andava scomparendo, rivestendosi invece di significato.
Allora l’architettura si sviluppò a pari passo col pensiero umano, fissando tutto quell’universo simbolico fluttuante in forma eterna, visibile e palpabile.

L’idea madre: il verbo, era nella loro forma. Il tempio di Salomone non era la rilegatura del libro santo, era il libro santo stesso.
E così fu fino a Gutemberg, l’architettura rimane la principale scrittura.
Di questa scrittura si possono distinguere due forme storiche: l’architettura di casta, teocratica; e l’architettura “del popolo”, paradossalmente più ricca, e meno consacrata.
Tra le due vi è la differenza che intercorre tra una lingua sacra, rara, dotta e precisamente codificata, dove nessuna parola deve cadere a vuoto e nessuna ricolatura è concessa poiché ha il potere di legare e sciogliere, di fare atto ciò che nomina e dice; è una lingua volgare, quotidiana, funzionale in continua evoluzione e contaminazione con gli eventi.
Nel secolo XV tutto cambia, il pensiero umano scopre un mezzo più duraturo e più facile: le lettere di Gutemberg.
L’invenzione della stampa è la rivoluzione madre: è il modo di esprimersi dell’umanità che si rinnova completamente, è il pensiero umano che si spoglia di una forma e ne riveste un’altra.
Da qui in poi, l’architettura si atrofizza e si denuda; inizia quella meravigliosa decadenza che noi chiamiamo Rinascimento.
A volte le albe e i tramonti si assomigliano.
Con il tramonto dell’architettura, infatti, le altre arti hanno più spazio e iniziano il processo di emancipazione da questa che era sempre stata l’arte tiranna che a sé tutte sottometteva.
L’isolamento ingigantisce ogni cosa: la scultura si fa statuaria, l’iconografia pittura, il canone musica.

Ritornando a Parigi, e al xv secolo bisogna ribadire che era non tanto una bella città, quanto una città omogenea, un prodotto architettonico e storico del Medioevo, una vera cronaca di pietra.
Ma quale Parigi l’ha mano a mano sostituita?
La Parigi di oggi è difficile da descrivere e definire, non ha più una fisionomia generale, appare invece come una collezione di elementi eterogenei.
La capitale si estende solo per il numero di case.
Questo ci riconduce ad un altro fondamentale cambio di guardia: il secolo XVIII.
Il Settecento ha ridefinito cosa fosse la città, e l’ha tramutata di sistema di reti e rapporti, ad un agglomerato di cose ed edifici.
Dalla città delle persone e degli scambi, alla città delle strutture.

Laura Ghirlandetti

Laura Ghirlandetti, 1983.
Filosofa on the road con base a Milano, teatrante, e cittadina mediamente attiva.
Ha due blog ed un canale You Tube.

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Giornalismo e Filosofia: interazione o rivoluzione?

Per Foucault, che considerava il proprio lavoro più affine a quello del giornalista che a quello del filosofo, giornalismo e filosofia si intrecciano e modellano a vicenda, dando vita, alla fine, alla soluzione della problematica sull’oggi e il rapporto tra l’evento del momento e l’attualità. Proprio Foucault è il punto di partenza (già alla fine del XVIII secolo) per analizzare il fatto che “non ci sono molte filosofie che non ruotino attorno alla domanda: Chi siamo noi adesso? Ma penso che tale domanda sia il fondamento di chi, forte della sua etica e deontologia professionale, dedica la sua vita al giornalismo”. Ecco che, al momento, la domanda da porsi, sia esso un filosofo o un giornalista è quale significato acquista, oggi per noi, il cosiddetto “giornalismo filosofico”.

La risposta va ricercata su entrambi i fronti, ascoltando la voce del “filosofo” e quella del “giornalista”, analizzando il tutto da entrambe le prospettive. L’obiettivo è proprio quello di capire in cosa consista la differente angolatura tra le due e dove risieda la loro specificità. In altri termini: cosa significa praticare giornalismo filosofico dal punto di vista di un giornalista e da quello di un filosofo. Ruolo importante, in entrambi i casi, lo svolge la pratica del dire la verità all’interno del giornalismo filosofico e di che tipo di verità eventualmente si tratta. Insomma, il “giornalismo filosofico” consiste in una sorta di “battaglia a colpi di verità” contro il potere o produce piuttosto uno slittamento della posizione, della funzione e anche del significato di “verità” (spostando il problema sul piano della visibilità, ovvero, in termini prettamente e squisitamente filosofici, rendendo visibile ciò che non lo è (tornando indietro nell’antichità la sostanziale differenza tra noumenon e phenoumenon)? In questo caso diventa fondamentale, per produrre un certo effetto politico, il fatto in sé di dire la verità. La verità intesa in senso oggettivo, senza giudizi personali, secca, così come è realmente accaduta. Entra, solo dopo, in gioco il rapporto tra “giornalismo filosofico” da un lato e critica dall’altro, e in che modo la critica può aprire concretamente nuovi spazi di resistenza. Partendo dall’Illuminismo, Foucault utilizzava l’espressione “ontologia critica di noi stessi“ per indicare un atteggiamento in cui “la critica di quello che siamo è, al tempo stesso, analisi storica dei nostri limiti e prova del loro superamento possibile“.

Un pensiero che sottintende al fatto che la pratica del “giornalismo filosofico” vada inserita all’interno di un processo di trasformazione e cambiamento rispetto al contesto, sempre specifico e politicamente determinato, in cui agisce. Questo non vuol dire alterare la verità piegandola al “volere” della politica trasformandola quindi in una “non verità”, ma analizzarla con oggettività e obiettività come base per una discussione finemente politica che faccia emergere problemi e conseguenti soluzioni. Diventa, se etica e deontologia vengono rispettate come dovrebbe un giornalista, inutile parlare o discutere di “militanza” nel caso della pratica del “giornalismo filosofico”, non additando, dunque, il “giornalismo filosofico” come modalità di “engagement” politico o di resistenza. La posta in gioco principale consiste, concludendo, nella capacità di superare definitivamente l’opposizione tra lavoro teorico ed “engagement” individuale, introducendo nuove possibilità per colui che pratica il giornalismo filosofico di essere coinvolto in prima persona rispetto al proprio presente. In parole più semplici, la verità inconfutabile come base per la discussione politica/filosofica su basi concrete e non su voli pindarici. Compito, quest’ultimo, che ritroviamo proprio nel pensiero di Foucault. “Ho tentato di fare delle cose che implichino un engagement personale, fisico e reale – diceva il filosofo – e che pongano i problemi in termini concreti, precisi, definiti all’interno di una situazione data”. All’interno di questa prospettiva di indagine, diventa fondamentale allora chiedersi, concretamente, quali siano le connessioni più efficaci e realizzabili che il giornalismo filosofico può intessere con gli specifici contesti sociali: in quali campi, oggi, la pratica del giornalismo filosofico abbia maggiori margini di manovra e possa dare luogo a trasformazioni significative al livello dei rapporti di forza esistenti.

La risposta sta nel giornalismo di indagine e nel lavoro di ufficio stampa e portavoce nel quale (se svolto con correttezza, etica e professionalità) l’indagine conclusa o l movimento politico (inteso anche come persona fisica che “vive” di politica) siano solo lo specchio pulito di una realtà oggettiva che, a quel punto, viene comunicata solo con un messaggio meno tecnico e accessibile a tutti. Per chi lavora nel capo della filosofia come nel campo del giornalismo, dunque, bisogna sempre tenere presente il detto che narra che “se tu non ti occupi di politica, prima o poi sarà la politica a occuparsi di te”. E se dunque, di necessità virtù, l’argomento va affrontato, questo avvenga senza alcuna negazione o mistificazione di una realtà oggettiva e narrata in modo cronistico.

Gian Nicola Pittalis

Intervista a Giovanna Zucca: scrivere per vivere

Eclettica. Dinamica. Sorprendente.

Se esiste una Donna che si possa definire “multitasking” per eccellenza, il riferimento a Giovanna Zucca è inevitabile.

Infermiera di sala operatoria nella quotidianità, diventa filosofa per amore, innamorandosi dei grandi e piccoli nomi di questa materia.

È scrittrice per passione. È scrittrice per vivere e far vivere i suoi personaggi; tra le pagine scritte e le righe che ci colpiscono nel leggerla. Tra le parole che racchiudono un significato sempre intenso, tra l’interesse che nel leggerla cresce sempre di più.

 

– Giovanna Zucca, dal campo scientifico a quello letterario e filosofico! Per molti potrebbe sembrare un salto alquanto ardito, per noi de La chiave di Sophia, un’ulteriore dimostrazione di quanto la Filosofia ci appartenga anche se la nostra professione ci porta altrove. Come è avvenuta questa transizione e da dove è nata la passione per la scrittura e la Filosofia?

La filosofia ci appartiene. Nel mio quotidiano vivo sospesa tra tecnica e metafisica, e devo dire che mi ci trovo benissimo. La tecnica è il mio lavoro in sala operatoria, una professione scelta molti anni fa, dopo che una famosa serie televisiva, aveva avvolto di una patina romantica la figura della strumentista di sala operatoria. E’ stata una buona scelta. Mi piace pensare che anche nel momento dell’iscrizione alla scuola per infermieri la filosofia, mi abbia guidata. Dopo qualche anno, ho deciso di approfondire a livello universitario la passione per la conoscenza, ciò che avevo appreso per mio conto non mi bastava più, sentivo la necessità di una guida, di dare organicità e ordine al mio sapere filosofico. Sono stati anni di crescita. Di consapevolezza e di senso. Sono membro del CISE il centro interuniversitario di studi etici, e partecipo attivamente alle attività seminariali anche come relatore. La filosofia studiata a livello universitario ha agito profondamente sul mio carattere. Ha permesso l’incontro più importante che un essere umano possa fare: quello con se stessi.

– Come è stato tornare sui libri e rimettersi in gioco come studentessa alle prese con una materia da molti considerata obsoleta?

Gli anni a Cà Foscari sono stati impegnativi. Conciliare studio e lavoro non è stato semplice. Eppure…posso dire che sono stati tra i più felici della mia vita.

– Nella sua professione ospedaliera la Filosofia l’ha in qualche modo aiutata? Se sì come?

A volte per lavoro mi trovo ad affrontare situazioni che sono legate a sofferenze indicibili. Ci si domanda spesso il senso di ciò che si vede. Perché quel bambino? Perché quel ragazzo? …Ebbene la filosofia trattando essenzialmente del senso mi ha aiutato a evitare che il pensiero si avvitasse su se stesso senza che la riflessione portasse ad alcun risultato. La filosofia insegna a pensare.

Scrivere: quanta attitudine personale e quanta determinazione sono richieste? 

Credo che l’attitudine sia fondamentale. La tecnica narrativa si può apprendere ma la capacità di vedere storie e creare personaggi è propria del temperamento visionario di chi si nutre di parole. La determinazione è una conseguenza. Se la passione e la voglia di inventare vite è davvero forte la determinazione a portarle nel mondo ne deriva come logica conseguenza.

zucca

 

– La scrittura: mettere su carta una storia appassionante non è facile. Eppure lei con Mani Calde ci è riuscita, andando a toccare corde sensibili e trattando un tema come il coma in modo mai superficiale ma nemmeno con toni cupi, portando alla luce la gioia di vivere tipica dei bambini anche quando non possono esprimersi, come il protagonista del libro. Questa storia deriva dalla sue esperienza professionale? Come si può affrontare psicologicamente una situazione tanto tragica?

Mani calde nasce dalla mia esperienza, sgorga dalla convinzione che l’essere umano utilizza canali diversi per di comunicare. Il logos ha molteplici declinazioni. L’uomo è un rapporto che si rapporta, e quando non può comunicare attraverso la lingua, trova altri livelli espressivi.

– Jane Austen: intramontabile, viva tuttora più che mai. Una grande Autrice, ma anche un’eroina del suo tempo che ha avuto il coraggio di ribellarsi ad una società che imponeva un determinato modo di essere e comportarsi. Quanto ci ha lasciato al giorno d’oggi? Perché può ancora essere considerata un esempio? 

Azzardo due motivi: Uno è prettamente sociologico. La Austen ha voluto narrare le vicende di una classe che conduceva uno stile di vita in marcia verso la propria fine. La rivoluzione industriale era alle porte, l’aristocrazia perdeva il suo primato di classe dominante e le campagne si sarebbero presto spopolate. La scrittrice che era ben consapevole del mutamento che stava giungendo ha, con ironia e ingegno dipinto la società di campagna del suo tempo.

L’altro motivo è più filosofico-letterario: I personaggi dei suoi romanzi sono universali. Possiedono delle caratteristiche che nella loro essenza sono le stesse di oggi. Se spogliamo la signora Bennett del linguaggio lezioso, di certe svenevolezze tipiche del suo tempo, chi può dire di non averne mai incontrata una?

La Austen visse in un periodo nel quale erano di moda i romanzi gotici dove accadevano molte cose. Castelli in rovina, eroine rapite da tenebrosi seduttori, fantasmi nelle torri. Ha sfidato le convenzioni decidendo di narrare vicende nelle quali non accadeva nulla o quasi. Perché? Non ne aveva bisogno. Non necessitava di magnificenze stilistiche o avventure mirabolanti per avvincere il lettore. Ci riusciva comunque, mantenendo viva l’attenzione su argomenti apparentemente banali, come l’arrivo della lettera della signorina Fairfax…con una scrittura inarrivabile per ironia e capacità descrittiva. In tre righe ci mette davanti agli occhi la matrona supponente e conscia della sua importanza che altezzosa batte il bastone a terra per richiamare l’attenzione, e quando con maestria vertiginosa le da’ della sciocca questa senza neppure sospettarlo alza il naso con sussiegosa condiscendenza…Ti ricordi la signora Norris di Mansfield Park?

Romanzi come “orgoglio e pregiudizio” raccontano le più belle storie d’amore. Un amore che si viveva con restrizioni e non liberamente, eppure i personaggi sono estremamente carichi di emotività. Cosa rende questi romanzi così intensi? Perché l’ideale di amore è ancora riferibile a quello, nonostante la nostra società si sia in qualche modo sterilizzata? 

Perché in essi c’è l’autenticità propria del genio. E i lettori lo sentono. Le storie d’amore della Austen sono dei mezzi narrativi che permettevano all’autrice di dire quello che voleva: tracciare dei caratteri universali che trascendono il tempo e arrivano fino a noi con immutata genialità narrativa. A duecento anni di distanza l’opera della Austen è più viva che mai.

– Guarda c’è Platone in TV, il tuo secondo libro che potremmo considerare un libro di etica narrata. Come è nata l’idea di attualizzare filosofi antichi come Platone, Aristotele ed Epicuro accostandoli in modo divertente a filosofi contemporanei?

Guarda c’è Platone in tv è la mia tesi di laurea. Quando l’ho proposta, avevo l’idea di scrivere una tesi creativa, che mi coinvolgesse divertendomi. Mi sono detta che comunque mi ci dovevo impegnare, tanto valeva farlo in maniera divertente. Cosa c’è di più divertente di una puntata di Porta a Porta dove il plastico è l’Acropoli di Atene e gli ospiti sono niente meno che Platone e Aristotele che battibeccano allegramente in una dialettica che vede il sentimento prevalere sulla ragione l’orgoglio e soprattutto sul pregiudizio…

– In UK sono molti i ragazzi che si laureano in Filosofia applicata alla scienza o alla medicina; in Italia anche solo dirlo sembra essere un’eresia. Lei cosa ne pensa? Perché in Italia la Filosofia è così bistrattata?

Perché il pregiudizio che è il fratello scemo del giudizio ancora oggi guida le teste d’uovo che orientano la cultura e la scuola italiane. La filosofia applicata alla medicina dovrebbe essere una disciplina ovvia. I medici nascono soprattutto come filosofi ma poi la techne ha snaturato l’ideale filosofico che sottostava alla scelta del “prendersi cura” in favore di un biologismo esasperato che ha portato alla frammentazione del sapere medico e alla scomparsa della base filosofica dalla quale ha avuto origine.

La filosofia è bistrattata perché forse fa paura. La filosofia insegna a pensare. A essere critici. A dare il giusto valore alle cose. E’ una temibile sciagura che una nazione intera sappia pensare.

“Mani calde”, “Guarda! C’è Platone di TV”, “Una carrozza per Winchester”; tre libri in cui è stata capace di cimentarsi in stili diversi tra loro, pur riuscendo in ogni caso al massimo. Questo denota che lei e una scrittrice eclettica e completa. Cosa ci riserva per il futuro? 

In un tempo in cui sono popolari i romanzi seriali fare una scelta come la mia è considerato controproducente. Non sono d’accordo. Credo che un autore debba misurarsi con narrazioni diverse. Inoltre per quanto mi riguarda, posso scrivere esclusivamente ciò che in quel momento cattura la mia attenzione e scatena la folgore creativa. Dopo Mani calde non avrei potuto scrivere un altro romanzo di ambientazione ospedaliera, anche se me lo consigliavano vivamente.

Il prossimo romanzo sarà un romanzo di relazioni. Un giallo particolare dove le relazioni tra i protagonisti sono più importanti del delitto.

E dopo quattro romanzi tornerò al punto di partenza con un’altra storia che ricorderà in parte Mani calde. La vicenda di due gemellini dal giorno zero al Principio creatore.

 

Un percorso al di fuori di tutto ciò che si potrebbe definire scontato. Un’ironia sagace e brillante.

Un talento che corrisponde a grandi risultati.

Questi gli ingredienti appartenenti a Giovanna Zucca, una Donna che dimostra quanto i propri sogni possano essere realizzati.

 

La Chiave di Sophia

[Immagini concesse da Giovanna Zucca]

 

“I posti del cuore” visto da Nietzsche

Le strade non portano a nessuna meta, tutte terminano in noi.

José Hierro – Le Strade Portano

Ormai da mesi “I posti del cuore” di Matteo Cristani edito da Perosini Editore se ne sta sulla mia scrivania in attesa di scrivere qualcosa su di esso. Mi sono imbattuto in questo libro, come accade la maggior parte delle volte, per caso.

Un comune amico dell’autore dopo aver visto La Chiave di Sophia me lo sottopose portandomelo nel corso di un’iniziativa chiedendomi un parere e, come scriveva qualcuno, la vita è un po’ quello che ci capita mentre siamo impegnati a fare altro.

“I posti nel cuore” è un libro proprio strano, un mix tra essere e apparire, tra biografia personale e immaginazione, sembra di guardare attraverso un caleidoscopio di emozioni e ricordi contrastanti che si manifestano attraverso i contesti, i posti, i luoghi che cambiano, o siamo noi a cambiare? In effetti i posti magari restano uguali e siamo noi a cambiare, diventiamo anagraficamente più vecchi, oppure sono i posti a cambiare, ma certe sensazioni restano costanti?

Sfogliando le pagine sorge spontaneo chiedersi chi ci sia dietro la scrittura, l’autore forse? Lewis Carroll, come ricorda Cristani nel libro, intitola la sua opera principale “Through the looking glass” per dire di se stesso che narra essere specchio di ciò che poi il lettore legge.

“I posti del cuore” è un libro difficile perché stimola nel lettore moltissimi dubbi e offre poche risposte preconfezionate come nella letteratura mainstream che va oggi per la maggiore. Ogni volta che la vita apre un varco tra un’età e l’altra qualcosa finisce e qualcosa comincia. Che succede nel corso di questi passaggi?

Ogni tappa del viaggio ci ricorda sempre la presenza degli altri, fa riflettere sul senso del nostro stare insieme e sul significato della comunità di cui facciamo parte. Cristani ci mostra dialoghi, scambi, comprensione, ma non ci nasconde nemmeno le ombre che i rapporti con il prossimo portano inevitabilmente con sé: incomprensioni, delusioni, riappacificazioni complesse. Gli equilibri mutano, le cose vanno e vengono. I personaggi del romanzo vivono luoghi che diventano molto più che meri sfondi nel quadro della vita che l’autore traccia per loro.

Sapete a chi sto pensando?

Da un punto propriamente teorico (vale a dire, filosofico, logico, epistemologico) Nietzsche dopo aver svolto una critica del presente riesce già a fornire un “terreno” alternativo su cui muoversi, modificando per molti versi il nostro orizzonte, pur nelle difficoltà palesate dallo stesso Nietzsche:

“La società sente con soddisfazione di avere nella virtù di questo, nell’ambizione di quello, nella riflessione e nella passione di quell’altro, uno strumento fidato, pronto a ogni momento: essa tiene in sommo onore questa natura strumentale, questa costante fedeltà a se stessi, questa irremovibilità nelle opinioni, nelle aspirazioni e anche nelle non virtù. Un siffatto apprezzamento, che è e fu in auge ovunque, unitamente all’eticità del costume, educa “caratteri” e getta il discredito su ogni cambiamento, su ogni diverso orientamento, su ogni auto trasformazione.”

F. NIETZSCHE, La gaia scienza.

L’importanza data da Nietzsche all’attimo è emblematica. Ogni scelta per quanto libera è paradossalmente anche necessaria secondo l’eterno ritorno dell’uguale. Ogni attimo è un tempo bloccato che perdura nella mente e nell’essere ontologicamente definito, un fotogramma fuori dal film, una foto istantanea fuori dalla realtà, un attimo bloccato, separato per sempre da quello prima e da quello dopo, perduto nel tempo e nello spazio per opera di quello che alcuni potrebbero chiamare l’incantesimo del ciclo dell’essere.

Proust ha ben indagato a livello letterario e fenomenologico questo fenomeno che si declina come la strana sensazione secondo cui l’orologio è come incantato e batte sempre lo stesso secondo incurante del tempo che scorre.

Tra coloro che non valutano le conseguenze delle proprie azioni si annoverano gli artisti e le persone capaci di portare all’essere azioni ed enti nuovi.

L’uomo si struttura in tal modo in qualità di soggetto estremamente vario e che proprio per la ricchezza dei suoi contenuti personali è in grado di impiegare in modi estremamente differenti le proprie capacità.

Nietzsche al riguardo scrive:

“fino a quella interiore apertura e raffinatezza derivante dalla sovrabbondanza, che esclude il pericolo che lo spirito si perda e per così dire si innamori delle sue stesse vie e resti fisso, inebriato, in un punto qualsiasi; fino a quell’eccesso di forze plastiche, capaci di guarire a fondo, formare di nuovo, ricostituire, che è appunto il segno della grande salute, quell’eccesso che dà allo spirito libero la pericolosa prerogativa di poter vivere d’ora innanzi per esperimento e di potersi offrire all’avventura; la prerogativa di maestria dello spirito libero! In mezzo possono venire lunghi anni di convalescenza, anni pieni di trasformazioni multicolori, doloroso- incantate, dominate e tenute a freno da una tenace volontà di salute, che spesso già osa vestirsi e travestirsi da salute.”

F. NIETZSCHE, Umano, troppo umano.

Diventa quindi estremamente attuale il confronto tra il pensiero di Nietzsche e l’opera di Cristani, non a caso l’interesse per questo filosofo non decresce e anzi spazia oltre gli ambiti accademici fino a toccare non di rado il mondo della letteratura.

L’accento posto dalla filosofia di Nietzsche sulla “trasgressione” dei limiti imposti dalle convenzioni stabilite, per il superamento della debolezza che tali convenzioni hanno determinato in noi, al fine di dare spazio al nostro essere personale ed alla nostra creatività, risulta essere estremamente stimolante. Importante che questa “trasgressione” non porti, nella ricerca del nostro essere e della nostra espressività, a perdere il senso del reale per chiudersi ancora una volta in un ghetto estraniato dal nostro rapporto con gli altri.

Nietzsche attraverso il suo pensiero scettico e sconvolgente si prefigge di raggiungere l’ideale di un uomo indipendente ed educato alla grandezza di sé e degli altri nonostante la tragedia che alberga nella vita umana nelle sue molteplici forme.

L’incitamento di Nietzsche pare denso di significato e ricco di conseguenze positive qualora riesca a mantenere un contatto interpersonale. Del resto è Nietzsche stesso ad avvertire e prevedere i rischi del proprio annuncio, ma è anche egli stesso a sottolineare come il bisogno di una vita alternativa, percepito inizialmente da pochi, non dovrà portare questi alla chiusura.

Si dovrà realizzare la massima comunicazione di ciò tramite forme e modi decisi a seconda del momento, perché è il sociale che dovrà comprendere tale bisogno e rispondere ad esso strutturandosi in modo alternativo.

Finché non si daranno delle soluzioni concrete a tutta una serie di esigenze che sono in noi e dalle quali non si può prescindere inevitabilmente le domande si faranno maggiormente insistenti e il rischio di squilibri nel sociale diventerà sempre più acuto.

Come sottolineato da Montinari, lo studioso che più ha indagato in merito alla conoscenza degli scritti, del pensiero e delle vicende esistenziali di Nietzsche, non è tanto da porre in discussione l’adesione di Nietzsche a idee democratiche, socialiste o totalitarie, come anche una parte della recente critica ha dibattuto, ma ritengo che sia soprattutto da porre in rilievo la dimensione del suo pensiero per l’indubbia valenza critica, razionale e liberatoria. Un pensiero che, senza nessuna presunzione di certezze assolute, vede l’individuo, benché inserito in una società di eguali, libero di esprimere la propria spontaneità e di reagire alla prevaricazione dello “Stato”, in grado cioè di superare la “politica” intesa come repressione dell’individualità.

E così nel libro di Cristani ogni personaggio suona la sua nota, e forma con gli altri l’accordo, come i tasti di un piano premuti sapientemente. I personaggi si immergono in luoghi immoti, luoghi che hanno amato come hanno amato la vita, dove hanno sperimentato come essa cambi, una vita che qualche volta hanno abbracciato e altre volte temuto. Vi sono ricerca, trasformazione e inquietudine. E’ probabilmente proprio l’inquietudine il filo che lega i racconti del libro, come se fossero immagini delle anime dei lettori, affinché riconoscano, in quei luoghi, i loro posti del cuore e forse, perché no, anche i nostri.

“E poi pensai che in fondo, di ogni luogo del mondo ce n’è un pezzo da un’altra parte”

Matteo Montagner

Link Pagina FB del libro: I posti del cuore

[Immagini tratte da Google Immagini]

Mio fratello scrive

Che cos’è uno zibaldone? Scartafaccio in cui si annotano, senza ordine e man mano che capitano, notizie, appunti, riflessioni, estratti di letture, schemi, abbozzi, ecc.:.

Lo zibaldone è ciò che più si avvicina alla mia idea di coscienza, ciò che conosco che ricordo o posso ricordare è stato scritto perché sembrava importante, ma poi trovare un ordine all’insieme delle annotazioni è molto difficile e più si accumulano informazioni, più si fa ricco lo zibaldone personale, più la difficoltà ad unire le parti aumenta.

Ed è forse per questo che si scrive, per dare un senso alle idee che si rincorrono, Mattia ha chiamato “appunti per una guerriglia” il suo insieme di scritti e degli scritti che l’hanno colpito, guerriglia perché l’esistenza non è quasi mai una battaglia campale, accompagnata dalla tempesta e dallo squillo di trombe! ma piuttosto una lotta casa per casa, con il coltello e la pistola. E un verso, una poesia possono aiutare a ribaltare lo scontro, quando ormai tutto sembra perduto.

“Perché fatti non foste per viver come bruti” si ricorda Levi nei campi di concentramento, “stai leggero ragazzo” mi dico io nei momenti più tesi, non so da dove venga ma è una frase che ho memorizzato. E così le frasi ci seguono, questa è la cultura che m’interessa: quella che accompagna nel percorso alla comprensione della vita, alla sopportazione della vita, che spesso serve a poco, ed altre volte è indispensabile. Quella che lasci in un baule perché non è il momento per aprirla e quella che sai esattamente dove andare a recuperare quando ne hai bisogno.

 

Scrivo per non dimenticare,

scrivo per ricordare,

scrivo perché ho tempro per farlo, scrivo perché sono vivo,

scrivo perché non riesco a dormire,

scrivo forse perché l’oralità è morta,

Mattia Cappellazzo

La scrittura è qualcosa in più della sopravvivenza, ma è fondamentale alla sopravvivenza dell’intelletto… perché “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguire virtute e canoscenza

La scrittura è qualcosa di personale, e come tutte le cose strettamente personali, è qualcosa di universale, perché è qualcosa di umano.

Sono andato a correre. Ho svuotato la mente da ciò che non fosse necessario, da ciò che non fosse il ritmo, del mio respiro e delle mie gambe. Ho continuato a correre, a spingermi, a ignorare i polmoni. Sapevo perché correvo. Dopo l’ennesima curva me lo sono trovato di fianco, di colpo. Stessa maglietta, stessi pantaloncini, stesse scarpe, capelli più lunghi. Lo stesso percorso che avevamo fatto la scorsa volta, quando sembrava anche felice. E forse lo era.

Non importa, sapevo perché ero lì. Ho corso più forte, più veloce, ho dato fondo all’ultima riserva d’aria e l’ho lasciato indietro. Ho spostato più avanti (ma anche più indietro) i miei limiti.

Alla fine mi sono trovato seduto per terra, mi sono tolto le scarpe, e dopo mesi ho camminato scalzo sulla terra, sull’erba. Oggi è anche Primavera.

 

La Primavera non rinasce nell’erba sintetica dei vostri giardini,

nei neon dei vostri stabilimenti balneari,

nel cemento delle vostre strade,

ma nei canneti lungo gli argini dei fiumi,

nella sabbia delle spiagge più isolate,

nel pietrisco dei sentieri di montagna.

Dove l’uomo non può sentirsi padrone,

ma può solo sentirsi parte dl tutto.

Mattia Cappellazzo

Articolo di Gianluca Cappellazzo

[immagini tratte da Google Immagini]

“Di tutte le storie che sono state scritte ne manca una: la tua”.

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che la vita è una, che ogni giorno è l’ultimo, che tutto cambia, che il successo o la fortuna non si misurano in banca ma derivano dall’apprezzare ogni più piccola gioia, che ciò che per te è sacrosanto e giusto, è assurdo e sbagliato un metro più in là

 Era un venerdi mattina milanese. Di dicembre. Di quelli che appena ti suona la sveglia vorresti solo posporla, almeno fino a maggio. Almeno. Si, dormo ancora un po’, tanto è solo un corso.

E invece.

Il corso di Storytelling non è stato un corso. O almeno non solo quello. È stato scavarsi dentro, ricordi, incontenibili sorrisi, lacrime represse, il cervello e il cuore finalmente a cinema assieme. A vedere il mio film. La mia storia.

Il momento preciso in cui capisci che vivere significa essere chi si vuol essere e non chi gli altri vogliono che tu sia te lo ricordi per sempre.    Ti trapassa da parte a parte.

A me è successo durante le due giornate di “un corso di formazione, come tanti”. Perché ho scritto chi e cosa sono stata, e vedendo la mia vita tutta nero su bianco, ho capito chi sono e chi voglio essere.

Il Mio capitolo inizia proprio dalle parole con cui ho concluso il corso: “Donatella era una bambina timida ed insicura. Che alle feste di carnevale aveva freddo. Diceva sempre si ed era educatissima.  Poi un giorno…”. Ma le 18.30 sono arrivate, il corso è finito, e qualche vita, forse, è iniziata.

Tutto questo è stato possibile grazie ad una persona che  ha reso un corso di formazione, un corso di emozione: Francesca Marchegiano.

-Cominciamo così: c’era una volta una bambina di nome Francesca che…

…che era arrivata sulla Terra così come ogni eroe entra nella sua storia: con un dono da condividere e una ferita da sanare, e che partì per scoprire quali fossero entrambi.

-Continuiamo così: un giorno Francesca capì cosa avrebbe voluto fare da grande e…

Decise di mettersi in proprio alla soglia dei 40 anni, in una nazione dove la crisi regnava sovrana, senza contatti e dovendo inventarsi un lavoro che prima non c’era. Così si mise a studiare e studiare, passò giorni e notti a esplorarsi dentro e cercare di conoscere il fuori, arrivò a pensare: “Và che ho sbagliato tutto?” ma, arrivata a quel punto della storia, decise che piuttosto sarebbe morta provandoci, ma mai avrebbe abbandonato il suo sogno. E in quel momento davanti a lei si aprì un campo di fiori, da attraversare.

-Se ti chiedessi di spiegare cosa è lo storytelling in 10 parole?

Insieme di conoscenze e strategie per costruire racconti ingaggianti (ne manca una, aggiungo: olè!).

-Quando e come hai capito che questa sarebbe stata la tua strada?

Durante un Master in Orientamento e Outplacement, seguito perché già pensavo di supportare le persone nello scegliere strade di qualità rispetto ai propri talenti e alla propria natura, stimolandoli attraverso percorsi di narrazione autobiografica, attraverso la scrittura. Dovendo imparare a farlo per gli altri, l’ho fatto su di me, e lì ho capito chi ero e quale strada non tanto dovevo scegliere (perché non c’era), ma dovevo inventare.

-In che modo lo storytelling è applicabile al mondo dei bambini?

I bambini INSEGNANO lo storytelling, vivono perennemente in Neverland e ricordano a noi, adulti che cerchiamo di stare dritti e seri, quanto la narrazione sia innata, nutriente, indispensabile, guaritrice, salvifica e creatrice.

-Siamo tutti storyteller inconsapevoli?

Assolutamente sì! Dove c’è una persona, lì c’è uno storyteller. Solo che è talmente naturale questo modo di essere, che è inconsapevole come il battito del cuore o il respiro. Il mio compito è risvegliare questa consapevolezza, in modo che tutti possano valorizzare la loro identità, orientarsi nella vita, promuovere ciò che fanno e realizzare i loro obiettivi.

-Al corso hai anche parlato dello storytelling utilizzato per scopi terapeutici, ad esempio negli hospice. E’ qualcosa che mi ha colpito molto, potresti spiegarci meglio in cosa consiste?

Già da tempo si parla di Medicina Narrativa, anche in Italia, ed è la possibilità di far esprimere (narrare) i propri vissuti ai pazienti, e spiegare o affiancare i pazienti in percorsi di cura con un approccio narrativo, da parte del personale medico. La mia esperienza è consistita nell’introdurre lo storytelling autobiografico nelle cure palliative per pazienti terminali, per far sì che, raccontando e “rileggendo” la propria storia, ciascuno di loro potesse accorgersi del disegno unico e speciale che la propria esistenza aveva avuto, così da darle un senso e poterla chiudere con più serenità.

-La serenità che trasmetti come si concilia con la tua indole da esploratrice “Into the wild”?

Si capisce che non sei mai stata in macchina con me… lì la mia serenità scompare e mi trasformo in Hulk! A parte gli scherzi, ho avuto il grandissimo privilegio di avere quelli che io chiamo “Maestri di vetro”. Li ho incontrati nei primi lavori che ho fatto dopo l’Università, erano ospiti di comunità per schizofrenici cronici e malati d’aids terminali. Loro mi hanno insegnato tutto quello che importa sapere: che la vita è una, che ogni giorno è l’ultimo, che tutto cambia, che il successo o la fortuna non si misurano in banca ma derivano dall’apprezzare ogni più piccola gioia, che ciò che per te è sacrosanto e giusto, è assurdo e sbagliato un metro più in là… e anche di questo bisogna saper farne un valore.

– Ci spiegheresti in pochissime parole “Il viaggio dell’eroe”?

Il Viaggio dell’Eroe è un format narrativo, sul quale sono state costruite tutte le più grandi storie del mondo, della mitologia, delle religioni ma anche del cinema e della letteratura. Parla dell’Uomo e dell’arco di cambiamento e possibile) evoluzione che ciascuno di noi fa nella vita, e nella singola giornata. Insegna che nulla di importante accade nelle proprie zone di comfort, ma è solo mettendosi in viaggio (reale o metaforico), incontrando aiutanti e ostacoli, che abbiamo la possibilità di scoprire il nostro reale sé, il tesoro interiore, e riportarlo al punto di partenza, affinché tutti possano beneficiarne, oltre a noi.

-Ora a che punto del cerchio ti trovi?

Ognuno di noi ha tanti cerchi del Viaggio attivi, contemporaneamente. Uno per il lavoro, uno per l’amore, uno per la salute… davvero tanti. Rispetto allo storytelling, per un punto di vista sono alla fase del tesoro, perché ho chiaro cosa devo fare di ciò che so e ho imparato in questi anni, cosa devo fare per me E per gli altri. Ma qui comincia un nuovo Viaggio.. che sarà ricco di ostacoli, conflitti, prove da superare e fate pronte a darmi un aiuto, ma solo quando aderirò così totalmente al viaggio, da non prevedere la possibilità di arrendermi e tornare indietro.

-Se dovessi scegliere tra “ C’era una volta” e “E vissero felici e contenti”?

Sono molto proiettata verso il futuro, quindi starei sull'”e vissero”. “E vissero” mi basta, “felici e contenti” per l’eternità mi sembra un incubo…aggiungiamo anche “nostalgici, disperati, folli, sognatori”… tutto quanto cirende meravigliosamente tridimensionali!

– Francesca in una citazione:

La mia preferita di questo periodo è: “Tutte le cose sono connesse le une alle altre, e sacra è la loro connessione”. È di Marco Aurelio, ogni volta sono scioccata di quanto avesse già detto tutto lui.

-Francesca in una sola parola:

Libera.

– Francesca in uno sbaglio:

Come, solo uno??? Ma ne ho fatti un sacco, altrimenti non sarei potuta cadere in ginocchio e trovare pepite d’oro proprio lì dov’ero.

-Francesca è stata, è, sarà…?

Una persona uguale a tutte le altre, che sta scrivendo (nel viverla) la sua storia, cercando di avere più pagine belle possibili, e di far tesoro di quelle che si sono strappate.

 -Dove possono contattarti i nostri lettori?

www.francescamarchegiano.com lì ci sono anche i link ai social o la mia mail.

Grazie mille Francesca, o come ti firmi tu… Fra.

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

[Immagini tratte da Google Immagini]

Ps. Un ringraziamento a  Ninja Academy che si è affidata a Francesca per un corso che ancor prima di cambiare il mio modo di lavorare, ha cambiato il mio modo di essere.

 

Arrivano i pagliacci – Chiara Gamberale

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Allegra Lunare ha appena vent’anni. Non i soliti vent’anni: non quelli per cui devi iniziare una vita, non quelli per cui guardi soltanto davanti a te.

No. Allegra Lunare ha vent’anni, e deve ricominciare esattamente daccapo. Lasciare la casa dove ha vissuto dal primo dei suoi ricordi migliori la spaventa; la spaventa lasciare quel mare di ricordi belli e un po’ meno belli che ha paura di non riuscire a portare con sé. Così, per riuscire a non avere paura, decide di scrivere una lettera ai nuovi inquilini che abiteranno la sua amata casa, dove racconta la storia di ogni oggetto che troveranno o di quelli che non troveranno, perché li porterà con sé.

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Il romanzo giallo: intervista a Giuliano Pasini

Per scrivere bene, in versi come in prosa, niente eguaglia l’avere davvero qualcosa da dire.

Paul Brulat

Giuliano Pasini, nato a Zocca, nel cuore dell’Appennino emiliano, da quasi quindici anni vive a Treviso, dove si occupa di comunicazione e scrive.

Il suo primo romanzo è Venti corpi nella neve, ambientato a Case Rosse, un minuscolo borgo nell’Appennino tosco-emiliano e sede del commissariato più piccolo d’Italia, diretto da Roberto Serra. Non succede mai nulla fino alla notte del Capodanno del 1995, quando una telefonata sveglia l’agente Manzini in piena notte: ci sono tre cadaveri al Prà grand, uccisi senza pietà. Per il commissario comincerà un’indagine che lo porterà a rivivere il passato del luogo in cui si è rifugiato e ad affrontare i demoni che albergano in lui.

Nel 2013 torna Roberto Serra con Io sono lo straniero. Il commissario ha lasciato Case Rosse per rifugiarsi sulle colline del prosecco, a Termine: quattro case, tre strade, una chiesa, un cimitero e intorno solo vigneti. La vita di Roberto scorre lenta fino a quando, un giorno d’inverno dove incontra Francesca, una ragazza eccentrica e disperata che vuole convincerlo ad indagare su una giovane sparita nel nulla. Inizialmente il commissario non ne vuole sapere, godendosi la serenità ritrovata fra i vigneti, ma davanti a lui si delinea una scia di scomparse misteriose: tutte donne, tutte giovanissime, tutte straniere. Invisibili per la procura, per la polizia, per la gente. Roberto non può più scappare ed è costretto ad affrontare un’indagine che lo porterà a scrutare le acque nere dei laghi nascosti tra i vigneti, a scoprire che un passato irrisolto può allungare le sue dita fatali fino al nostro presente…

Il prossimo romanzo di Giuliano Pasini, terza avventura di Roberto Serra, vedrà la luce nel 2015.

Dal 2013 Pasini è presidente della giuria del Premio Letterario Massarosa, sommelier AIS per giustificare il suo amore per il vino ed ex maratoneta.

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Il suo lavoro principale non è quello dello scrittore, giusto? Come ha iniziato a dedicarsi alla scrittura?

A me scrivere è sempre piaciuto moltissimo, ero uno di quei ragazzini che se dovevano dichiararsi ad una ragazza mandava una lettera, con esiti disastrosi. Nonostante quello ho continuato a scrivere, senza però trovare mai la costanza di mettere in fila le cose che scrivevo. Ho assistito qualche anno fa ad una presentazione di Loriano Macchiavelli, il padre di tutti noi che proviamo a fare i giallisti in Italia. Lui diceva che lo scrittore è un lavoro di ufficio: ci alza, alle 9 ci si siede alla scrivania fino alle 13, pausa pranzo e poi scrive di nuovo. Quando mi sono trasferito a Treviso, che per me è stata decisiva, avevo più tempo, non ero nella mia città di origine, non avevo il mio gruppo di amici. Allora mi sono chiesto come investo il tempo? Finalmente mi sono messo a scrivere una storia in fila. Dopo parecchio tempo sono arrivato a quello che poi è diventato Venti corpi nella neve, l’ho fatto leggere alla donna che nel frattempo è diventata mia moglie, mi ha detto che faceva schifo, io me la sono presa ma non ho divorziato perché mi sono reso conto che aveva ragione lei e c’ho lavorato ancora per molto tempo, fino a quando ho trovato il concorso IoScrittore del Gruppo editoriale Mauri Spagnol. Un concorso interessante perché si poteva inviare il proprio dattiloscritto con uno pseudonimo: gli altri concorrenti leggevano il tuo scritto e ricevevi giudizi senza che nessuno sapesse chi eri veramente. Io mi sono iscritto appunto per questo, ma sono arrivato alla fine del concorso e mi hanno pubblicato il libro in e-book con il titolo Giustizia dei martiri. La vendita, per quanto nel 2010 si parlasse ancora di numeri piccolissimi per gli e-book, è andata bene ma nessuna delle case editrici del Gruppo ha voluto pubblicare il cartaceo. Ho cercato io stesso un editore trovando Fanucci Editore che, nonostante abbia molto fiuto nel trovare talenti, nel gennaio 2012 mi ha pubblicato Venti corpi nella neve. Il libro è entrato in classifica la prima settimana ed è andato benissimo. Da questo punto c’è stata un’accelerazione enorme: Mondadori ha letto il libro, gli è piaciuto e mi ha chiesto di lavorare ad un progetto su due romanzi con lo stesso protagonista. A marzo del 2013 è uscito Io sono lo straniero e a marzo 2015 uscirà quello nuovo.

Si aspettava così tanto successo?

No, assolutamente. Soprattutto nel periodo in cui è uscito Venti corpi nella neve quando era stata pubblicata una recensione molto positiva sul Corriere della Sera, avevo preso il quotidiano e leggendo l’articolo pensavo parlasse di un mio omonimo. Amo moltissimo la lettura, quindi dall’altra parte mi sentivo completamente spaesato. È anche difficile pensarlo perché non faccio lo scrittore di mestiere: dal lunedì al venerdì svolgo il lavoro di ufficio e negli altri momenti cerco di immedesimarmi nel mio mondo. Per riuscire a completare gli altri romanzi dovevo scrivere tutti i giorni alle 5 del mattino e a volte è veramente difficile, quando sono le 7, uscire dal mondo finto dei personaggi (in particolare lo è stato per il terzo romanzo perché è un mondo che non ho mai vissuto, al contrario del primo e del secondo ambientati in luoghi in cui sono nato e vivo) per mettermi giacca e cravatta e andare in ufficio.

Le piacerebbe che la scrittura diventasse il suo unico lavoro?

Allo stesso modo in cui mi piacerebbe fare sei al SuperEnalotto!

Vuole parlare dei suoi romanzi?

Sono tutti gialli con un forte radicamento nella storia. A me piace moltissimo il giallo perché è un genere contenitore, ci puoi mettere qualsiasi cosa. L’importante è che si costruisca questo contenitore nel modo giusto, con tutti gli elementi, perché il lettore si deve ritrovare e se manca un elemento. O sei bravissimo, ma ne conosco pochi di autori in grado di togliere ad esempio la scoperta del colpevole lasciando un finale aperto, o la storia non funziona. Quindi all’interno del giallo si può inserire una storia cupa o leggera, con cattivi o meno, con riscatto o senza riscatto; davvero qualsiasi cosa. Il mio obiettivo è quello di scrivere dei libri che, oltre a far divertire con 200 pagine, dopo averli chiusi facciano pensare alla storia che c’è sotto, anche solo per un minuto. Nel mio primo romanzo parlo della storia della Resistenza, dell’assurdità della guerra, in quello che comporta e delle ferite che lascia aperte dopo cinquant’anni; nel secondo, invece, di quanto sia pericoloso instillare nella gente l’idea che ci siano delle persone superiori ad altre per puro diritto di nascita, perché nella storia dalle parole poi si passa ai fatti, com’è successo davvero e continua a succedere; nel terzo romanzo il tema forte sarà quello della malattia mentale, del chi è matto. In un mondo di matti, c’è qualcuno di sano? I malati mentali sono stati considerati per molti secoli messaggeri degli Dei, perché riuscivano a vedere cose che noi non vedevamo e che l’uomo normale non capiva. Invece successivamente da un certo punto molto recente della storia sono stati rinchiusi in uno spazio ben definito.

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Ha qualche consiglio da dare ai giovani che aspirano a diventare scrittori?

Ho visto cos’è stato utile per me: la costanza. Avevo un’idea della scrittura che fosse la folgorazione sulla via di Damasco: ti viene un’idea e l’impulso irrefrenabile di metterlo sulla carta in quel momento e modo precisi altrimenti scappa, delle volte succede. Invece adesso è metodo, mestiere; avere la costanza ogni giorno di andare avanti. Io ho fatto tutti gli errori che un esordiente poteva fare. Per scrivere il primo romanzo ho impiegato cinque anni, per il secondo e il terzo due, perché inizialmente non avevo metodo, non facevo la scheda dei personaggi e non avevo nemmeno un’idea della trama, convinto che la scrittura fosse qualcosa di molto istintivo quando in realtà coinvolge molto di più la testa. Il mio consiglio è di prepararsi ad usare la testa per fare una cosa che comunque è tanto cuore. Ma testa, metodo e costanza sono essenziali. Il talento, credo, sia solo sudore e fatica.

Nella tradizione antica era l’oralità il mezzo di comunicazione preminente rispetto alla scrittura, oggi sembra che si abbia più ‘coraggio’ con la parola scritta. Secondo lei perché c’è stata questa lenta ma incessante inversione di marcia?

Sinceramente, come direbbe la mia professoressa di matematica delle superiori, è come paragonare mele e pere. Impossibile “pesare” scritto e orale paragonando civiltà in cui la capacità di scrittura era dominio di una ristrettissima élite e civiltà in cui è diventata la più popolare e democratica delle arti. Questo per tacere dell’impatto della tecnologia sulla vita dell’uomo. Siamo sicuri che se gli antichi greci avessero avuto Internet si sarebbero comportati diversamente da noi? Se invece ragioniamo in termini di funzione, mi spingerei a dire che la funzione dell’oralità della tradizione antica non era molto diversa dall’attuale funzione della parola scritta: portare notizie e conoscenze al pubblico più vasto possibile. Cambia solo il mezzo.

Uno dei limiti dello ‘scritto’ è quello che da solo non può scegliere i suoi interlocutori, non può difendersi da chi lo attacca e quindi ha sempre bisogno del soccorso del suo autore: è così anche per gli scrittori di gialli?

Diciamo che nei romanzi c’è abbastanza segmentazione: difficilmente un lettore acquista un giallo senza sapere che è un giallo, a meno che l’editore non abbia giocato sporco con titolo e copertina. Detto questo, l’autore non dovrebbe mai andare in soccorso della sua opera, è come spiegare una barzelletta: se dopo che l’hai raccontata, serve che tu fornisca l’interpretazione, significa che è venuta male. Così le storie che si scrivono.

Cosa pensa della Filosofia oggi? Per lei può essere uno strumento utile di riflessione per le nuove generazioni nel campo lavorativo e nella vita di tutti i giorni?

Ho fatto studi classici, per cui trovo utile tutto ciò che “apre la mente” delle persone. Per la vita di tutti i giorni, quindi, è uno strumento formidabile, ed appassionante per chi lo studia. Per ciò che concerne l’ambito lavorativo, però, la sfida dei laureati in filosofia è particolarmente difficile. Ovviamente oggi sono molto più richieste competenze tecniche e specializzate.

Con molte probabilità la nascita del genere giallo si può far coincidere con la pubblicazione, nel 1841, de I delitti di via Morgue di Edgar Allan Poe, in cui compare Auguste Dupin, la cui deduzione è talmente elevata da riuscire a risolvere i casi leggendo solamente i resoconti giornalistici. È sicuramente questo il personaggio a cui si rifà Arthur Conan Doyle nel creare il ben più famoso Sherlock Holmes, protagonista di Uno studio in rosso (1887), presumibilmente il primo romanzo giallo pubblicato. Da allora il genere ha conosciuto sempre più fortuna, numerosi sono gli autori che con esso hanno raggiunto fama mondiale: Agatha Christie, Georges Simenon, Raymond Chandler e Dashiell Hammett, fino ai giorni nostri e alle opere di James Ellroy, Ken Follett, Andrea Camilleri, per citarne solo alcuni. Ma la definizione giallo si utilizza solamente nella lingua italiana e ciò si deve alla collana Il Giallo Mondadori, ideata da Lorenzo Montano e pubblicata da Arnoldo Mondadori a partire dal 1929. Caratteristica di questa edizione sono, appunto, la copertina di colore giallo, che è diventata simbolo del genere stesso.

Il romanzo poliziesco ha prodotto peggiore letteratura che ogni altro genere di narrativa, salvo il romanzo d’amore, e probabilmente migliore letteratura che qualsiasi altra forma letteraria largamente accettata e apprezzata.

Così una volta scrisse Raymond Chandler e queste sue parole fanno pensare a quelle che spesso Giuliano Pasini si sente dire:

Tu, per essere un autore di gialli, non scrivi male.

Chandler morì nel 1959, ma questa frase fa capire come ancora oggi permangano gli stessi pregiudizi. Non tutta la letteratura ha ancora accettato il fatto che il giallo non sia un genere letterario subalterno, ma un filone più vivo che mai. Come ogni altro genere il poliziesco ha al suo interno opere eccellenti come pessimi esemplari. Ma poche correnti narrative hanno mostrato una vitalità pari a quella del racconto giallo. Un’inesauribile disponibilità a contaminarsi con altri generi, anche i più “alti”. E chi non è convinto di ciò dovrebbe pensare a due esempi del nostro recente passato: Sciascia e Gadda, che scelsero la forma del romanzo poliziesco per partorire dei capolavori della letteratura italiana.

La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità.

Charles Bukowski

La verità profonda per fare qualunque cosa sta nella passione per quella determinata cosa che si intende realizzare: la passione muove la nostra vita e tutto permette di realizzare, come diceva Hegel

Niente nel mondo è stato fatto senza passione;

come ci ha dimostrato in questa intervista Giuliano Pasini che con costanza, determinazione e appunto passione ha realizzato il sogno di una vita.

Grazie Giuliano, è sempre un piacere parlare con lei!

Potete seguire i pensieri dell’autore sul suo blog personale www.giulianopasini.it.

Ilaria Berto

[Immagini a cura di Monica Conserotti]