Come vestirsi a un Vip party intellettuale: il rapporto tra parola e immagini

Che abiti indossano i nostri pensieri? E quali sono dunque le nostre abitudini mentali più radicate? Nel Filebo platonico (38e-39c), Socrate rispondeva: la nostra anima assomiglia a una tavoletta grafica (il foglio di ieri, il tablet di oggi), dove uno scrivàno e un pittore annotano rispettivamente parole e immagini. Platone non è invecchiato male: tuttora prevale l’idea che le rappresentazioni sfilino sulla nostra passerella mentale rivestite appunto o proposizionalmente o pittorialmente – al più, qualcuno inserisce la variante intermedia dei modelli (diagrammi, schemi, ecc.), più astratti delle immagini ma più concreti delle parole.

Però, tradizionalmente, se vuoi mettere la mente in tiro per un vip party intellettuale, dal tuo guardaroba mentale tra i due abiti scegli l’indumento verbale-scritto: se ti rivelassi di star progettando un saggio filosofico a fumetti, facilmente crederesti che è un’opera meramente divulgativa. Ma perché? E dev’essere necessariamente così? Poiché nemmeno la nostra mente esiste senza supporti esterni, le risposte stanno anche in come ci siamo storicamente interfacciati con le diverse tecnologie della parola e dell’immagine, il cui compito è esternalizzare, installare e fissare, materializzandolo, il prodotto del parlare e quello del vedere. Chiamiamole rispettivamente MaCheT’’oDicoAfà e DajeFammeVedè: grazie a esse, ciò che usiamo dentro la testa e ciò che maneggiamo fuori dalla testa si riecheggiano. Ecco allora una super-sintesi del tira e molla tra parola e immagine1.

  1. L’innamoramento. Parola e immagine vivono simbioticamente come Adamo ed Eva nell’Eden: un idillio fatto di condivisione in compresenza spaziotemporale senza nemmeno il bisogno di MaCheT’’oDicoAfà e DajeFammeVedè, in cui la parola trasporta informazioni che richiamano una sfera sensomotoria comune ed è essa stessa una semplice immagine sonora. Che pace!
  2. La crisi. Nasce DajeFammeVedè: rende percepibile a piacere e senza limiti di tempo – ma non di spazio, perché non esistevano grotte-mobili – uno scenario anche non più immediatamente presente. È l’invenzione preistorica del disegno – le iscrizioni proto-artistiche. L’immagine si fa segno e scopre così il problema cognitivo del rapporto con la realtà, mentre la parola resta al palo – capace di lasciare il segno solo nell’aria.
  3. La ricomposizione. La parola si ridà un tono grazie a MaCheT’’oDicoAfà, che rende percepibile a piacere e senza limiti di tempo un discorso anche non più immediatamente presente: ci si può parlare anche senza aprire bocca. È l’invenzione della scrittura alfabetica. Parola e immagine provano così a coesistere senza calpestarsi troppo i piedi, intervenendo a colmare i reciproci limiti; ma la prima – ora ringalluzzita – comincia a svilire la seconda, considerandola uno strumento illustrativo utile soprattutto per incolti e illetterati: “non capisci?! serve mica un disegnino?!”.
  4. Il divorzio. La parola si ribella definitivamente tramite MaCheT’’oDicoAfà Print, che rende la scrittura replicabile infinitamente, velocemente ed economicamente, regalandole il primato nella trasmissione della conoscenza, dalle informazioni e contenuti più semplici ai ragionamenti e pensieri più sofisticati. È l’invenzione del prodotto culturale per eccellenza della nostra tradizione: il libro. Stavolta è l’immagine a restare al palo, relegata a semplice supporto di emozioni e a strumento per raffigurare artisticamente la realtà, mescolando fedeltà e illusione.
  5. Il ritorno di fiamma. Mentre la parola si gode la propria supremazia, DajeFammeVedè Mechanics dà un ritocco all’immagine che si è intanto rimessa in piazza, facendole riguadagnare un certo appeal. Fu la volta prima della fotografia, capace di produrre e far circolare le immagini in serie, privandole di quell’aura artistico-sacrale che intanto avevano cercato di ritagliarsi, e poi del cinema (culminante nella televisione), il cui teatro on demand può finalmente riprodurre non solo le immagini in movimento, ma anche la parola parlata e potenzialmente persino scritta. La parola si ritrova così a vacillare, trascinata in una nuova possibile convivenza ravvicinata.
  6. I piaceri del sesso virtuale. La parola finisce per restare (re)incantata da DajeFammeVedè’ Animation, che rende la finzione teatrale-cinematografica reale e interattiva, trasformando ogni spettatore in attore: è la messa in scena del videogame, che consegna all’immagine il potere di trasmettere il sapere non più soltanto mostrando, bensì facendo (inter)agire. I mondi possibili diventano manipolabili, la realtà diventa laboratorio, l’esperienza diventa esperimento, la riflessione diventa partecipazione, l’analisi diventa immersione, e così via: perché limitarsi a leggere un testo come I promessi sposi, anziché riviverlo? Perché limitarsi a studiare un’opera come La Repubblica, anziché simularla?

Ecco perché la convinzione che la veste più elegante per i nostri pensieri sia quella verbale-scritta comincia oggi a traballare: le immagini reclamano anch’esse un vip pass intellettuale! E chissà, forse un Platone reloaded direbbe che la nostra mente è uno schermo su cui un game designer annota il codice che fa girare un videogame…

 

Giacomo Pezzano

NOTE
1. Per la versione non sintetizzata cfr. F. Antinucci, Parola e immagine. Storia di due tecnologie, Laterza, Roma-Bari 2011.

 

[Photo credit Keagan Henman via Unsplash]

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Filosofia-game. Cercasi beta tester

Senza destinatario, uno scritto rimarrebbe un insieme di lettere allineate prive di significato: un testo è scritto per essere letto, è co-prodotto da scrittore e lettore. Ovvio, no? Forse non in filosofia.

Pensa ai tipici testi d’esame o ricerca, come monografie e paper, in cui l’attenzione riservata al lettore è quasi zero: poiché la sua eventuale presenza non farebbe la differenza per la presunta verità di ciò che va discutendosi, si può scrivere senza prevederne l’esistenza, tanto all’esterno quanto all’interno del testo1. Nel publish or perish della competizione accademica, le idee «diventano professionalmente valide soltanto se scritte», ma in modo tale che «quando vengono pubblicate, sono stampate e rilegate non per essere lette, ma semplicemente per essere state scritte» (I. Bogost, Alien Phenomenology, or What It’s Like to Be a Thing, 2012). Confessa: quante volte con simili testi hai avuto davvero l’impressione che l’autore avesse pensato di rivolgersi a chi legge, cioè di scrivere per e a te?

Parlare ai famigerati “addetti ai lavori” usando il tipico linguaggio-in-codice (continentale o analitico che sia) diventa così uno stratagemma per mascherare l’effettiva mancanza di considerazione del lettore: l’esperto con cui il testo starebbe interagendo finisce per essere un lettore tanto generico e indeterminato da coincidere con lo scrittore stesso! Nella bolla filosofica di Twitter, mi sono imbattuto in diverse lamentele sugli esempi fatti quasi di passaggio dai filosofi per essere più esplicativi e concreti: essi non farebbero altro che esemplificare la condizione privilegiata dello scrivente filosofo accademico (bianco-abile-anglofono-cisgender-eterosessuale-benestante-…) di turno. Se – poniamo – un paper spiega il concetto di sublime richiamando la sensazione provata in cima al Burj Khalifa di Dubai, chi non si è mai trovato in simile situazione (come me) non può sentirsi davvero preso in considerazione dal testo e interagire mentalmente con esso: ne viene escluso. Indubbiamente ci sono esclusioni ben più peggiori ma se qualcuno si dedicasse un giorno a raccogliere e analizzare le tipologie di esempi presenti negli scritti filosofici, potrebbero davvero saltarne fuori delle belle – o brutte.

Ora, inclusività o meno, il punto-chiave rimane: in filosofia oggi è realmente troppo facile rimanere presi dal che cosa, senza curarsi davvero dell’a chi dello scrivere. Per certi versi, è inevitabile: persino lo scrittore più accorto, consapevole e creativo ha dei limiti, e – piaccia o meno – a un certo punto dovrà fare delle scelte e muoversi entro certi vincoli. Uno scritto filosofico non può presentare casi costruiti su misura per ogni lettore, capaci addirittura di variare di volta in volta: oltre a un “super-autore”, occorrerebbe un “ultra-testo”, che all’avvio della lettura consentisse di settare parametri come genere, età, provenienza, residenza, riferimenti musicali, oggetti preferiti e chissà cos’altro. Una filosofia on demand capace di incorporare opzioni, incroci, sovrapposizioni, diramazioni, ecc.: “ciao, vuoi che questo testo parli a un filosofo, una filosofa, unə filosofə, …? Scegli e cominciamo!”. Se pensi che ciò rappresenterebbe la morte della Vera Filosofia™, ti tranquillizzo: niente di simile sarà mai possibile!

Te lo avrei detto davvero, se non esistessero già i videogame! Infatti, ciò che non possiamo fare scrivendo un testo filosofico tradizionale potremmo magari cominciare a farlo “scrivendo” un “testo” filosofico digitale, dinamico e interattivo: una filosofia-game, una filosofia-Bandersnatch. Per i filosofi pronti a raccogliere la sfida, si aprono almeno tre scenari – ma che dico: tre livelli!

Livello1 (principiante). Sei tra gli irriducibili del medium alfabetico? Prova a contaminare la scrittura filosofica old-style con forme e modi da videogame, dando vita a testi scritti “come se” fossero dei videogame, almeno finché possibile, con l’intento di offrire immersività e interattività q.b. a chi legge.

Livello2 (esperto). Riconosci il bisogno di rialfabetizzazione ma non ti senti in grado di reimparare da zero? Candidati a entrare in un team di autori di videogiochi per esplorare letteralmente nuovi mondi, accogliendo l’idea che la filosofia futura possa essere non solo scritta a più mani, ma persino altro dalla scrittura.

Livello3 (campione). Senti di potercela fare a passare dal linguaggio-in-codice al linguaggio-codice? Inizia a programmare in prima persona e contribuisci a dar forma alla filosofia futura, prodotta e diffusa (anche) tramite videogame. Coraggio, puoi contare su chi si è già lanciato nell’impresa2: nella follia, non si è mai soli!

Io, per ora, sono alle prese col livello da principiante: vuoi fare da beta tester? Bastano 4 minuti…

 

Giacomo Pezzano

NOTE
1. Cfr. A.C. Danto, La destituzione filosofica dell’arte, Aesthetica, Milano 2020, pp. 153-156, 170-172.

2. Cfr. S. Gualeni, Virtual Worlds as Philosophical Tools: How to Philosophize with a Digital Hammer, Palgrave, London 2015.

 

[Photo credit Lorenzo Herrera via Unsplash]

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La scrittura come “ars combinatoria”. Trinomi fantastici per situazioni insolite

I bambini di 5a E sono disposti a cerchio, seduti sui tappetini della palestra. Ognuno estrae dal quaderno un foglio bianco su cui scrive tre parole. Sono parole casuali, le prime che vengono loro in mente dopo l’ascolto di una storia filosofica. Pentola, ombra, nuvole. Lista, pensiero, cosa. Ontologo, quadri, campanello. E così via.
Giada ha scritto le tre parole in un batter d’occhio e, dopo averne ritagliata una, si alza in piedi. Le diamo un grosso gomitolo rosso che all’estremità esterna ha legato un sassolino blu. Giada posa il sassolino sul suo tappetino e, lentamente, srotola il gomitolo attraversando il cerchio, fino ad arrivare da Elisabetta, che nel frattempo si è alzata. Elisabetta riceve da Giada la parola ritagliata, lascia il suo posto a Giada e ripete l’operazione: srotola un altro po’ di gomitolo e porta una delle sue tre parole a Giacomo. Giacomo, a sua volta, porta una parola a Jamal, questo ne porta una ad Alice e così via, finché l’ultimo compagno torna al sassolino blu.

I bambini, che hanno letto la nuova parola ricevuta, sciolgono il cerchio e si disperdono ai confini della palestra, dove iniziano a pensare. Inventano una breve storia, con quelle tre parole, e la scrivono sul quaderno.
L’ombra della cosa. Una cosa gigante e terribile faceva un’ombra sul pavimento di quella stanza semibuia. Io tremavo come una foglia. Mi feci coraggio e presi la matita con la punta affilata e andai di là. Dietro quell’ombra gigante e terribile si nascondeva un’enorme… pentola.
Ma che fifone, Giacomo! Hai paura di una pentola? Senti un po’ cosa ho scritto io – prosegue Giada – Nella mia testa ho tanti pensieri, una lista di pensieri. Penso alle cose spaventose come i draghi, i serpenti, i fantasmi. Penso alle cose divertenti come le caramelle, i coriandoli, le feste di compleanno. Penso alle cose noiose come pranzare con le zie, fare i compiti, guardare i quadri alle mostre.
– Adesso tocca a me, sentite! – irrompe Alice – Quando l’ontologo suona il campanello di casa sua, nessuno gli apre. Beh certo, vive da solo! A volte ha proprio la testa sulle nuvole.

I bambini della 5a E leggono a turno e ridono insieme.

Inventare una situazione a partire da tre parole è un tipico esercizio di scrittura creativa, una sorta di “attrezzo da ginnastica per le idee” che, tra gli altri, viene proposto anche dalla giornalista e saggista Annamaria Testa nel suo Minuti scritti1, testo che la stessa autrice definisce una «guida utile a percorrere molte tracce di pensiero». Tale esercizio si basa sulla consapevolezza che la creatività sia ars combinatoria.

Quella dell’associare ed organizzare elementi separati è un’abilità che coltiviamo ogni giorno. Si pensi all’uso del linguaggio: scegliamo parole e le mettiamo in ordine, secondo certe regole. E in questo processo, l’obiettivo può cambiare: ad esempio, possiamo scegliere di suscitare curiosità oppure di annoiare.
Come si combinano parole per creare qualcosa di ordinario, così si possono combinare parole anche per creare qualcosa di insolito. Discernere, scegliere e combinare diventano così gli ingredienti per inventare.

Lo scriveva anche Gianni Rodari quando, ne La grammatica della fantasia, teorizzava il binomio fantastico, cioè un esercizio per dare vita a una storia inventata a partire da due parole casuali:

«Occorre una certa distanza tra le due parole, occorre che l’una sia sufficientemente estranea all’altra, e il loro accostamento discretamente insolito, perché l’immaginazione sia costretta a mettersi in moto per istituire tra loro una parentela, per costruire un insieme (fantastico) in cui i due elementi estranei possono convivere. Perciò è bene scegliere il binomio fantastico con l’aiuto del caso. Le due parole siano dettate da due bambini, all’insaputa l’uno dell’altro; estratte a sorte; indicate da un dito che non sa leggere in due pagine lontane del vocabolario» (G. Rodari, La grammatica della fantasia, in G. Rodari, Opere, 2020).

 

Qualora le parole risultino semanticamente lontane, il loro accostamento apparirà insolito, strano. È proprio quando le parole si liberano dai loro significati quotidiani, dalle loro catene letterali, per estraniarsi e spaesarsi, che la storia creata susciterà interesse e curiosità, risultando straordinaria ed efficace.

La Valigia del filosofo 

NOTE
1. A. Testa, Minuti scritti. 12 esercizi di pensiero e scrittura, Rizzoli, Milano, 2013.

[Photo credit La Valigia del filosofo]

Socrate è stato il primo boomer?

Con questo pezzo si inaugura una piccola rassegna di profezie filosofiche. Sì, perché i filosofi sanno essere profetici, a modo loro: talora di sventure, talora di avventure, ma più spesso dell’ambigua tensione tra entrambe che caratterizza le grandi svolte storiche.

Questo è per esempio il caso di Socrate, che – diciamocelo! – oggi figurerebbe come il prototipo del boomer. Infatti, circa 2500 anni or sono, questo borghese figlio di un’ostetrica e di uno scultore puntava il dito contro le nuove ICT1 di massa che sconvolgevano la vita dell’amata Atene, della Grecia stessa e persino dell’intera umanità. Aveva dunque captato la potenziale disruption a cui l’umanità stava andando incontro a causa dell’interazione con una tecnologia digitale innovativa come non mai. Le perplessità di Socrate erano grossomodo di questa natura2:
1) appoggiarsi a server esterni di informazioni avrebbe rappresentato una ricetta per la smemoratezza: se la macchina ricorda al posto tuo, tu smetterai farlo;
2) permettere di riprodurre e avere accesso alle informazioni in maniera universale e immediata avrebbe favorito la fruizione superficiale dei contenuti, piuttosto che una loro genuina interiorizzazione: se la macchina sa al posto tuo, tu smetterai di apprendere, concentrarti e andare in profondità;
3) la circolazione indiscriminata e libera di masse di informazioni decontestualizzate e impersonali avrebbe sancito la fine del genuino dialogo faccia a faccia e dei processi di verifica in prima persona: se la macchina risponde al posto tuo, tu smetterai di interrogar(ti), dunque non ti renderai più conto di quello che non sai – non saprai più di non sapere e finirai in una bolla.

Ora, il fatto rilevante è che Socrate si riferiva non a GoogleMaps, Wikipedia, Alexa, ecc., ma a quella che potremmo definire come la prima forma di AI nella storia umana, grazie al cui codice il flusso analogico dell’esperienza veniva spezzettato e compresso in unità variamente combinabili e interscambiabili, ossia veniva trasformato in un algoritmo potenzialmente universale: si tratta della scrittura alfabetica. Proprio così! Infatti, secondo Socrate, con l’alfabeto la «parola viva» diventava «morto discorso» che «si diffonde ovunque», composto da elementi che «sembra che siano intelligenti»: «fidandosi della scrittura», finirà che essa «impianterà la dimenticanza» nelle menti e le persone diventeranno come «rotoli da papiro» incapaci di «rispondere e a loro volta porre domande», ossia di apprendere e pensare.

Oggi viene da sorridere, ma non semplicemente perché l’alfabeto è diventato ovvio, normale, banale, e così via; c’è qualcosa di più radicale: oggi l’atto stesso del pensare logicamente, criticamente, riflessivamente e autonomamente consiste anche nel saper leggere, analizzare, comprendere e interpretare testi e sottotesti. Ma non solo: l’esistenza della democrazia, della consapevolezza di sé e degli altri e persino della consapevolezza della consapevolezza stessa sono frutto dell’interazione con la scrittura alfabetica, della sua letterale incorporazione. In poche parole, la scrittura alfabetica non solo non ha ucciso la nostra “anima”, ma le ha anzi dato forma – la ha informata: grazie a essa, sappiamo di non sapere.

Ciò è vero al punto che, nella nostra epoca, il problema diventa che le nuove ICT starebbero minacciando l’insieme dei processi cognitivi tipici dell’attitudine da «lettura profonda», fatta di tempi dilatati, di abilità ricorsive, di capacità di coniugare divisione e connessione e di prontezza nel fare inferenze e trarre conclusioni: analisi, sintesi, riflessione, immaginazione, astrazione, empatia, contemplazione, concentrazione, giudizio, organizzazione, codificazione, documentazione, classificazione, interiorizzazione, e così via. Ci ritroveremmo quindi a sviluppare una vera e propria «mente da cavalletta», che saltella e svolazza senza una vera direzione – senza un senso vero e proprio. C’è davvero dell’ironia in tutto ciò: Socrate si lamentava che l’alfabeto avrebbe rovinato la nostra mente (orale), mentre oggi ci si lamenta che la rete starebbe rovinando la nostra mente (scrivente).

Siamo quindi passati dal timore o convinzione che la scrittura ci renderà stupidi (perché ormai incapaci di ascoltare/parlare) al timore o convinzione che il web ci renderà stupidi (perché ormai incapaci di leggere/scrivere). Ieri i “professori” si lamentavano che i giovani non dialogavano più perché distratti dalla carta; oggi invece si lamentano che i giovani non riflettono più perché distratti dallo schermo. Che cosa capiterà con le AI odierne è difficile saperlo e ancor di più ipotizzarlo in poche parole; ma una cosa potrebbe sembrare certa: nel bene e nel male, ogni epoca ha i suoi boomer. E tu, quanto ti senti socratico?

 

Giacomo Pezzano

NOTE
1. Information and Communication Technologies.
2. Espresse principalmente in Platone, Fedro, 274d-275d e Protagora, 329a, una cui eccellente rilettura contemporanea è in M. Wolf, Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Vita e Pensiero, Milano 2009, soprattutto pp. 59-87. Le citazioni successive sono tratte da queste opere.

[Photo credit Milan Fakurian]

la chiave di sophia 2022

Poesia per l’emancipazione: le parole di Virginia Woolf

Uno spettro che palpita e si reincarna nei grandi scrittori, secolo dopo secolo, istante per istante: il fantasma della poesia è la penetrante immagine con cui si chiude il capolavoro di V. Woolf Una stanza tutta per sé (1929). Nel suo saggio più celebre l’autrice inglese elabora brillantemente il suo pensiero sulla condizione femminile nella letteratura patriarcale, concludendo con un’intensa perorazione finale rivolta a tutte le donne: l’esortazione a scrivere, suggerendo come unico riferimento l’ascolto di sé e del proprio ritmo narrativo.
Questa conclusione dal tono vivace e severo, di appello allo studio e alla libertà di pensiero, è una scheggia tagliente nella coscienza delle lettrici: perché la penna, la buona penna, afferma la Woolf, si rivela sempre nella piena libertà intellettuale; e una simile libertà scaturisce, a sua volta, dalla possibilità di ricevere con una buona istruzione le basi essenziali per interpretare e affrontare autonomamente il mondo. La scrittrice ci invia un messaggio fondamentale: l’istruzione è il trampolino per decifrare la vita complessa che ci circonda, e indagarla, e interrogarla, e darci delle risposte.

Ma da un punto di vista più concreto, la nobilitazione della scrittura ha uno scopo reale? L’atto di scrivere quale importanza potrà mai avere nel faticoso, guerresco percorso di emancipazione delle minoranze?
Italo Svevo ci fornisce un possibile spunto di risposta, descrivendo la scrittura come il migliore strumento di purificazione mentale, che permette di esprimere con chiarezza pensieri ed idee altrimenti ingarbugliati e difficilmente districabili. La scrittura diventa allora l’espressione più alta della razionalità umana, il frutto fecondo di una conoscenza progressiva della propria interiorità, in grado di aprire spiragli sulla nostra anima ed estrarne degli spizzichi, suggerirne dei barlumi.

Scrivendo possiamo riaffermare la nostra identità, ma quest’ultima non è un’entità statica che si limita a venire “rivelata” dalle parole: essa al contrario si sviluppa di istante in istante, fiorisce ancora e ancora; l’identità è sostanza multiforme e in perenne maturazione, che si lancia dietro alle visioni proposte dalla penna e si modifica in base alle nuove parole e ai nuovi orizzonti che grazie a quella stessa penna scopre o inventa.
Scrivendo, quindi, scopriamo noi stessi e contemporaneamente ci realizziamo, tassello dopo tassello; scrivendo siamo tensione, perché ci compiamo costantemente.

È naturale e implicito che attraverso la scrittura sviluppiamo spirito critico, punto di partenza universale per la sovversione dei sistemi precostituiti; ed è di conseguenza altrettanto naturale che chi esercita il potere in tali sistemi favorisca il livellamento della cultura media e la diffusione di una generale disinformazione, allo scopo di indebolire sistematicamente le autocoscienze.
L’ignoranza è come un coltello di cui viene sfruttata la lama per controllare le masse; è una frana sulla grotta dell’Io inizialmente teso a indagare la molteplicità luminosa del mondo e che invece rimane isolato nel buio disorientante del non sapere, condannato ad un’eterna fragilità.
L’ignoranza è, fondamentalmente, il terreno sterile che l’ombra fantasma narrata dalla Woolf non poteva abitare.

Quel fantasma letterario non è più quindi solo un’elegante metafora della poesia, ma diventa l’emblema di un valore, quello della conoscenza, di un obiettivo per le donne, quello di scrivere, e di un ideale: scavare continuamente nella crosta tenera della realtà per coglierne squarci sempre più ampi e arricchire autenticamente, passo dopo passo, la propria visione del mondo.

 

Cecilia Volpi

 

Nata a Mantova nel 2002, ho frequentato il liceo scientifico; a diciassette anni ho vissuto in Messico un’esperienza di studio semestrale, promossa dall’associazione Intercultura. In settembre mi iscriverò probabilmente alla facoltà di Lettere di Torino, indirizzo linguistico. Mi appassiona molto la dimensione del dibattito, dei viaggi e delle lingue straniere.

[Photo credit unsplash.com]

Scrittura di sé come cura di sé

In un libro di alcuni anni fa, che nulla ha perso della sua carica simbolica, dell’accuratezza intellettuale e del calore umano che lo caratterizzava, il filosofo Duccio Demetrio scriveva: «C’è un momento, nel corso della nostra vita, in cui si sente il bisogno di raccontarsi in modo diverso dal solito»1. Tale esigenza può affiorare in ciascuno di noi e assume i contorni di una sensazione, di un bisogno urgente, che emerge dall’interiorità e che ci invita a dare ascolto alla parte più profonda di noi stessi. È il bisogno umano di raccontarsi attraverso la scrittura, di accedere alla propria intimità più profonda e resistere strenuamente «all’oblio della memoria»2. Proprio in questo consiste il pensiero autobiografico, «quell’insieme di ricordi della propria vita trascorsa, di ciò che si è stati e si è fatto, è quindi una presenza che da un certo momento in poi accompagna il resto della nostra vita»3. Il desiderio di raccontarsi, di narrarsi, di scrivere la propria storia assume i contorni di un’esperienza umana fra le più nobili ed esaltanti per il suo valore intrinseco di cura di sé.

Chi sono stato? Chi sono ora? Queste le domande di partenza di ogni racconto autobiografico, che è dunque l’inizio di un viaggio etico, psicologico, spirituale che non ha fra le sue motivazioni primarie quello di essere scritto per altri, ma anzitutto per se stessi. Il fine è dare unità alla propria frammentazione interiore per ritrovare il senso della propria storia di vita, spesso lacerata, sconnessa e scollegata nei suo connotati così articolati, umbratili e camaleontici.

Il desiderio di raccontarsi, lungi dall’essere un ripiegamento su se stessi e una chiusura solipsistica è il segno di una nuova tappa della maturità dell’anima e se, come sosteneva Shakespeare: «quando l’anima è pronta, allora anche le cose sono pronte», questo segnala che il tempo è maturo per ricomporre i tasselli, sparsi, della propria vita e ritrovarsi attraverso la scrittura. Narrare la propria storia di vita significa ripercorrerla, elaborarla, riconfigurarla donandole un senso, rilevando luci e ombre che l’hanno accompagnata e che altresì abitano nell’abisso arcano e misterioso di ciascuno di noi. Scrivere di sé implica riprendere contatto con se stessi e conduce a sentire di esserci, a ritrovare i propri confini, non solo fisici, ma soprattutto psicologici, che spesso si smarriscono nel flusso inarrestabile di vite trascorse ma vissute inconsapevolmente.

Fare autobiografia, implica fare silenzio in se stessi, astrarsi momentaneamente dal rumore del mondo, per ascoltare la melodia dell’anima, con le sue variegate tonalità affettive. Significa rimettere ordine nei ricordi, riannodarli coerentemente con la trama e l’ordito dell’interiorità, con la quale è necessario sintonizzarci per ogni esercizio di scrittura che voglia esprimere significati profondi che oscillano fra il visibile e l’invisibile, fra il dicibile e l’indicibile.

Stendere la propria autobiografia dà inoltre la possibilità di mettere ordine al caos che ci abita e che spesso è fonte di inquietudine, angoscia e talora disperazione. Scrivere infatti permette di verbalizzare pensieri e stati emotivi, estrapolarli, concedere loro una via d’uscita costruttiva, che consente di scorgere sempre bagliori di speranza e senso anche all’interno di esistenze lacerate che talvolta paiono avvolte nelle tenebre di una notte senza fine. Narrarsi è un conforto dell’anima, accompagna alla pace interiore, aiuta ad affrontare l’inquietudine e la nostalgia dei ricordi, induce a venire a patti con la propria storia di vita. Attraverso la scrittura di sé è possibile riconoscersi attori della propria biografia e non semplici spettatori passivi di un’esistenza che spesso non è andata o non è come si vorrebbe. Il valore della scrittura riposa anche in questo: ridare a colui che scrive quel sano ‘potere’ di dominare la propria storia, per lo meno scrivendola. La naturale conseguenza è quella di risignificare il passato, sentirsi maggiormente propensi ad affrontare il presente e progettare il futuro con serenità poiché in contatto con la sorgente interiore.

Lo spazio dell’autobiografia è apertura all’autoriflessività, al pensiero di sé che si rivela in tal modo dialogo personale, conversazione intima con la parte più celata di se stessi, colloquio interminabile. In questo senso la scrittura si configura come un vero e proprio medicamento dell’anima. È questa la tradizione che va dalle Confessioni e i Soliloqui di Agostino, passando per i Saggi di Montaigne sino agli scritti di Rousseau e più recentemente di Etty Hillesum, solo per citarne alcuni. In ciascuno di questi autori il pensiero autobiografico è primariamente un bisogno esistenziale, che solo in un secondo momento rivela le fertili conseguenze intellettuali di cui oggi godiamo. L’esigenza iniziale è quella di indagare se stessi, conoscersi, tenere insieme i pezzi della propria vita o meglio del proprio Io, così mutevole e così difficilmente decifrabile. Questi autori hanno inaugurato un genere letterario, filosofico e con esso hanno raggiunto profondità psicologiche e vette spirituali raramente avvicinabili. Tuttavia, il messaggio implicito che da essi abbiamo ereditato è il potere terapeutico della narrazione autobiografica. La forza insita nella scrittura di sé è la capacità di ri-orientarci nell’arcipelago dell’Io perché, come scriveva Herman Hesse: «come corpo ogni uomo è uno, come anima mai»4. Ecco che, astraendo dagli scritti degli autori citati, l’autobiografia non ha bisogno di cercare la forma migliore. In questo senso si addice a tutti e proprio per questo non abbiamo bisogno di inventare niente di ciò che scriviamo. La nostra storia di vita è la materia prima dalla quale partire e raccontarsi significa comprendere la struttura essenziale di questa materia che non è altro se non la nostra esistenza.

Narrarsi è un’opportunità a disposizione di chiunque desideri riprendere i fili della propria esistenza attraverso uno strumento benefico che si rivela essere un balsamo per le più diverse ferite dell’anima e una possibilità per sfuggire all’oblio sancito dal dio Chrònos. Invero, noi siamo una storia che può trascendere il tempo proprio perché può essere raccontata e scritta, prima di tutto a noi stessi e per noi stessi. E questo scrivere, questo raccontare, «ben lungi dall’appesantire il senso della vita, la alleggerisce; poiché ne mostra e dimostra di continuo l’imprendibilità»5. A ragione, è possibile asserire che la narrazione di sé è una delle espressioni più elevate dell’animo umano, un trionfo delle sue possibilità interiori, via verso la consapevolezza, cura di sé e maturazione di un’indelebile saggezza esistenziale.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
[1] D. DEMETRIO, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé, Raffaello Cortina, Milano, 1996, p. 9
[2] Ibidem.
[3] Ivi, p. 10.
[4] H. HESSE, Il lupo della steppa, tr. it., Mondadori, Milano, 1978, p. 25.
[5] Ivi, p. 169.

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Sibilla Aleramo: il femminismo che nasce dal racconto di sé

Vi sono argomenti che divengono iconici di un tempo storico. Ai posteri, il nostro tempo diverrà sinonimo delle molte battaglie che abbiamo intrapreso, o anche solo ignorato, come quella del clima, o ancora del femminismo. Il rischio che corrono gli argomenti iconici di un’epoca è che non siano più incisivi e urgenti come dovrebbero essere. La gente diviene come anestetizzata a certe tematiche e restia a continuare ad ascoltare o a formare un pensiero autonomo su di essi. Uno di questi è, indubbiamente, il tema del femminismo. Se, da una parte, sono stati fatti passi da gigante rispetto al passato, ancora si è ben lontani dal raggiungere la piena parità fra uomo e donna. 

L’urgenza dell’argomento è data da due elementi fondamentali: si tratta, anzitutto, della più grande disparità dell’umanità, poiché le donne costituiscono più della metà della popolazione e dunque della più profonda ingiustizia sociale. In secondo luogo, nonostante le vittorie del femminismo, le violenze sulle donne permangono, evidenziando così il fatto che esso non è diventato uso e costume della nostra società. 

Quando un’idea, un’aspirazione, si svuota di senso, sebbene sia necessaria, è bene allora riprenderne le origini e restituire vigore all’argomento.
In Italia, fra le prime donne che hanno intrapreso la lotta del femminismo, vi è Sibilla Aleramo. Semisconosciuta nell’Italia di oggi, nel 1906 pubblicò il su romanzo autobiografico Una donna, in cui racconta le vicende che l’hanno portata al divorzio. 

La storia di Sibilla Aleramo spiega come il femminismo non sia un capriccio, ma un’esigenza per riconquistare la propria dignità di persona. 

Sibilla Aleramo racconta di essere nata e cresciuta in una famiglia borghese benestante, e che il padre si prese cura della sua educazione e dei suoi studi. A seguito di un trasferimento di tutta la famiglia da Torino in un paese non specificato del Sud Italia, Sibilla comincia a lavorare nella fabbrica del padre, conquistando quell’aria di intraprendenza malvista da tutto il paese. Quando fu costretta a sposare l’uomo che aveva abusato di lei, la vita di Sibilla si appiattisce. «Appartenevo ad un uomo, dunque? Lo credetti dopo non so quanti giorni d’uno smarrimento senza nome. […] Che cos’ero io ora? Che cosa stavo per diventare? La mia vita di fanciulla era finita. Il mio orgoglio di creatura libera e riflessiva spasimava»1.

Dalla consapevolezza di potere essere una persona indipendente, Sibilla si riduce al ruolo di moglie, e in un certo senso, conquista un ruolo sociale consentito a una donna; non importa che esso sia causa di una violenza, la figura di Sibilla si normalizza agli occhi della gente del paese. È dunque più scandaloso che una giovane donna lavori in una fabbrica ma non che sposi l’uomo che l’ha stuprata. 

La nascita di un figlio porta finalmente un po’ di luce nella sua vita e in quella del marito, fino a quando quest’ultimo non diventa violento e inizia a segregarla in casa, perché sospetta di un suo tradimento, mai avvenuto in realtà. Sibilla giunge a tentare il suicidio; racconta addirittura che il marito e la cognata la ingiuriano, mentre lei sta per perdere i sensi, dopo aver bevuto un’intera boccetta di laudano. 

Il femminismo, cioè la possibilità di non vedersi negata la propria dimensione di essere umano, affonda le sue radici nel dolore, nelle ferite inferte dai mariti, nel soffocamento delle proprie aspirazioni. Il femminismo nasce come un’alternativa al suicidio, o a una vita sottomessa. Ciò che permette a Sibilla di riscoprire la sua sfera di donna, oltrepassando quella di moglie, è la scrittura. «E scrissi, per un’ora, per due, non so. Le parole fluivano, gravi, quasi solenni: si delineava il mio momento psicologico; chiedevo al dolore se poteva diventare fecondo; affermavo di ascoltare strani fermenti nel mio intelletto, come un presagio di lontana fioritura»2.
Grazie alla scrittura, Sibilla Aleramo riesce a vivere indipendentemente, lavorando per alcune riviste, e a chiedere il divorzio. Riacquistando la sua dignità di persona, perde quella di madre: come conseguenza del suo desiderio di libertà, il marito le porterà via il figlio e Sibilla non riuscirà più a ricongiungersi a lui.

Il significato del femminismo può essere riassunto così nella vita di Sibilla Aleramo, costretta a dover scegliere fra la propria sfera intima e a quella imposta dalla società. Di fatto, l’affermazione dei diritti delle donne è la riconquista di una dimensione pluralistica della propria vita, in cui è possibile essere moglie e non cosa, lavoratrice e madre. Il ruolo sociale della donna, come è stato inteso nel corso della storia, la riduce a oggetto, a mera funzione che permette l’andamento della società stessa. L’aspetto emotivo o sessuale della donna sono impedimenti all’ingranaggio della civiltà, e per questo devono essere estirpati. 

Sibilla Aleramo sfugge a questo appiattimento grazie alla scrittura, ovvero all’arte che le permette di ricordare la sua profondità; le viene restituita l’autocoscienza. Possiamo così dire che il femminismo nasce come ricordo e racconto di sé, come la capacità di guardarsi da fuori e di decidere della propria vita. 

«Alfine mi riconquistavo, alfine accettavo nella mia anima il rude impegno di camminar sola, di lottare sola, di trarre alla luce tutto quanto in me giaceva di forte, d’incontaminato, di bello […]. Alfine risentivo il sapore della vita, come a quindici anni»3.

 

Fabiana Castellino

 

 

NOTE:
1. S. Aleramo, Una donna, Feltrinelli Milano 2013, p. 27.
2. Ivi, p. 79.
3. Ivi, p. 80.

 

[immagine tratta da Wikipedia]

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“L’arte di correre” di Murakami: memorie di uno scrittore-corridore

Haruki Murakami, pilastro della narrativa contemporanea, è stato di recente nuovamente in lizza per il Premio Nobel per la Letteratura. Famoso per una prosa che mescola realismo, gusto per l’assurdo, fantasia, fantascienza ed elementi magico-onirici, ha scritto circa una trentina di opere, tra cui romanzi (Dance Dance Dance, Norwegian wood, 1Q84), raccolte di racconti (I salici ciechi e la donna addormentata, Tutti i figli di Dio danzano) e saggi. Ha anche tradotto diversi autori (Capote, Salinger, Fitzgerald, per citarne alcuni). Nel 2007 ha pubblicato L’arte di correre (Einaudi), una raccolta di nove brani in cui riflette sul suo rapporto con la scrittura e la corsa, sua grande passione. Il libro – da lui annoverato nella categoria “memorie” – offre un ritratto dell’autore giapponese come persona, scrittore e corridore.

Murakami, umile e al contempo testardo e metodico, riconosce i suoi limiti e le sue imperfezioni, ma si impegna al massimo in tutto ciò che fa. La corsa e la scrittura, due attività che potrebbero sembrare molto distanti, hanno a suo avviso in comune tre fondamentali aspetti: richiedono impegno, dedizione e costanza.

Uno scrittore deve possedere un imprescindibile talento, ma anche saper perseverare e avere capacità di concentrazione e queste ultime due caratteristiche vanno esercitate quotidianamente – così come un maratoneta deve allenarsi giorno dopo giorno per migliorare il suo tempo e la sua resistenza.

Scordatevi lo stereotipo dello scrittore dalla vita sregolata: Murakami è sì un outsider, ma in modo diverso. Va a letto presto, si alza prima dell’alba e scrive per qualche ora; fa poca vita sociale, prediligendo l’«invisibile relazione ‘concettuale’» con i suoi lettori. Ma soprattutto, egli corre regolarmente dall’82, partecipando ogni anno ad almeno una maratona – nel libro racconta per esempio del suo allenamento per la maratona newyorkese.

La corsa gli permette di mantenere uno stile di vita sano, secondo lui indispensabile, poiché ciò che fa lo scrittore è qualcosa di malsano. «Quando decidiamo di scrivere un libro […] portiamo alla luce un elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell’essere umano» afferma il romanziere. Quell’ingrediente nocivo è indispensabile affinché si verifichi un autentico atto creativo, ma è anche pericoloso, e Murakami desidera scrivere a lungo e proficuamente, creando storie sempre più potenti. L’energia per fare questo la ritrova nel rafforzamento del suo fisico, perché la letteratura rappresenta per lui «una forza vitale che tende naturalmente in avanti» e comporta enorme fatica. Scrivere equivale a scalare vette ripidissime, combattendo duramente finché non si giunge in cima, dove si saprà se si ha vinto o perso contro se stessi – questo pensa Murakami quando scrive, scavando nei meandri di se stesso alla ricerca dell’ispirazione. Lo stesso gli accade quando corre: sente «uno stimolo interiore silenzioso e preciso» e l’unico avversario può essere solo il «se stesso del giorno prima».

Murakami è diventato narratore relativamente tardi, a trent’anni. Ricorda il momento preciso in cui ha sentito di voler scrivere: in una bella giornata primaverile del ‘78, sdraiato sull’erba a godersi una birra e una partita di baseball, ha sentito d’un tratto il forte desiderio di buttare giù un romanzo.

«In quel momento dal cielo scese in silenzio qualcosa, e io lo presi» racconta. All’epoca egli gestiva un bar: rincasava tardi la notte e scriveva finché non gli veniva sonno. In queste condizioni scrisse i suoi primi due romanzi: Ascolta la canzone del vento e Il flipper del 1973. Ma creare in quel modo era dura, così fece un salto nel buio: chiuse il bar dedicandosi solamente alla scrittura per un po’, per vedere se avrebbe ottenuto dei risultati. Così produsse il suo terzo lavoro, Nel segno della pecora, diventando uno scrittore professionista apprezzato in tutto il mondo.

Come si dice, il resto è storia.

Proprio in quel periodo Murakami iniziò a correre: fumava troppe sigarette, conduceva una vita sedentaria, tendeva ad ingrassare e capì che di quel passo non sarebbe durato molto – urgeva un cambio di rotta. La corsa gli parve subito l’attività sportiva più congeniale alla sua natura bisognosa di solitudine e silenzio. «Quando corro, semplicemente corro. In teoria nel vuoto. O […] è anche possibile che io corra per raggiungere il vuoto. In quella sospensione spazio-temporale, pensieri ogni volta diversi si insinuano naturalmente nel mio cervello» dice. A volte affiorano alla sua mente idee per un nuovo libro. Certo è, per lui, che senza la corsa le sue opere sarebbero state diverse – anche se non sa dire in che modo.

Murakami non si definisce uno scrittore straordinario, né pensa che la sua vita sia eccezionale; ciò che gli importa è poter sempre fare le cose a modo suo. Alla fine de L’arte di correre, c’è un suo umile proponimento: continuare a partecipare alle maratone finché non sarà soddisfatto di sé, anche se sarà anziano e malridotto e al di là del tempo o della posizione in graduatoria che otterrà durante la gara. Sulla sua tomba, desidererebbe il seguente epitaffio:

«Murakami Haruki
Scrittore (e maratoneta)
1949-20**
Se non altro, fino alla fine non ha camminato».

Perché, nelle maratone, si corre – ed è così che lui avanza, senza clamore, sfidando se stesso, mettendocela tutta.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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Umiltà e successo vanno d’accordo? Marc Levy ve lo dimostrerà!

Tra i moltissimi ospiti dell’edizione 2016 del festival Pordenonelegge, c’era Marc Levy, l’autore francese più venduto al mondo. L’incontro con i lettori, in occasione della presentazione dell’ultimo romanzo tradotto in italiano, Lei & Lui, ha avuto un’ottima partecipazione; il pubblico, come si potrebbe immaginare, comprendeva per la sua quasi totalità donne e ragazze, soltanto qua e là si intravedeva il volto di qualche uomo, probabilmente nel ruolo di accompagnatore di moglie o compagna.

Ciò che mi ha colpito maggiormente è il fatto che la sobria e composta location del Convento di San Francesco ha rispecchiato in maniera esemplare l’immagine che Marc Levy ha saputo dare di sé, tanto durante l’incontro, quanto dimostrandoci la sua disponibilità a rispondere ad alcune nostre domande. Marc Levy è un autentico autore di best seller: tutti i suoi romanzi riscuotono un così grande successo che il mediatore dell’incontro, Filippo La Porta, lo “accusa” di conoscere la ricetta del successo editoriale! I romanzi di Levy sono etichettabili come delle commedie sentimentali, tra le pagine delle quali spiccano i temi dell’amore, dell’amicizia, della vita, dell’ottimismo. Con quello che La Porta ha definito “Levy’s touch”, uno stile leggero e appassionato, Levy è in grado di raggiungere per lo più il lettore comune, il lettore che cerca un attimo di diletto, il lettore spensierato, ma non per questo meno serio.

Marc Levy è l’autore dei grandi numeri, certo, ma non manca di ricordare quanto lavoro ci sia dietro ad un libro. Impegno, ricerca, osservazione, capacità di dare spazio alla propria creatività, e soprattutto, umiltà. A sua detta è necessario rimanere con i piedi per terra, guardare a ciò che si fa, e non a se stessi, dedicarsi al proprio lavoro con spontaneità ed autenticità, e non con la volontà di pianificare il successo; è soltanto in questo modo, infatti, che la scrittura si manterrà terreno di libertà”.

Ma ora facciamo spazio alla nostra piccola intervista per voi lettori.

Durante l’incontro ha sottolineato più volte l’importanza dell’umiltà. Per cominciare vorrei chiederle: il fatto di avere svolto altre professioni in passato l’ha aiutata a conservare quest’importante qualità?

Indubbiamente il fatto di poter incontrare persone di orizzonti diversi permette di arricchirsi e di sviluppare la capacità di relativizzare. D’altronde anche il più grande attore del mondo risulta impotente di fronte all’infermiera che lo cura quando è ammalato. Quando si ha la fortuna di entrare a contatto con persone che svolgono mestieri ammirabili, si è a nostra volta più umili.

Scrivere è mai stato un sogno per lei?

Certo. È sempre stato un sogno, fin da quando ero bambino, ma non pensavo fosse realizzabile. Ho scritto il mio primo manoscritto all’età di 17 anni; non era affatto ben riuscito così lo gettai. Ma anche a quell’età continuavo ad avere il sogno di diventare scrittore, perché già la lettura per me era un sogno.

Come trova le idee per i suoi romanzi?

Non ho mai saputo rispondere a questa domanda. Le idee vengono dalle cose della vita, osservando le varie situazioni che abbiamo di fronte. È il miracolo di questo mestiere! Come viene un’idea? A volte dalla lettura di un articolo, a volte dal fatto che si è stati testimoni di una situazione, a volte semplicemente osservando qualcuno. Credo che il mestiere di scrittore richieda di sapere osservare ed ascoltare attentamente.

La nostra associazione e la nostra rivista trattano di filosofia. Quello che ha appena detto mi ha fatto pensare agli elementi che letteratura e filosofia possono avere in comune, per esempio lo spirito d’osservazione. C’è qualche traccia di filosofia nel suo lavoro?

Credo che dirselo da soli sia abbastanza pretenzioso. Credo che la filosofia, nel suo splendore, sia fonte di domande più che di risposte. Quindi sarebbe terribilmente pretenzioso affermare «ciò che scrivo è filosofia». Piuttosto, potrei dire che è il lettore colui che può trovare nelle mie frasi un elemento filosofico.

La lettura può aiutarci a riflettere sulla quotidianità?

Sì, ma non solo la lettura. Anche il cinema, per esempio, grazie ai suoi personaggi, con quali ci si può identificare. Un’importante funzione della letteratura o del cinema è quella di donare voglia d’essere. Quando ero adolescente e mi ponevo delle domande riguardo la mia identità, traevo voglia di vivere, voglia di adottare alcuni loro valori, di seguire la loro strada, da alcuni personaggi cinematografici.

Federica Bonisiol

Qui per l’intervista in lingua originale.

[Immagine tratta da Google Immagini]