“L’arte di correre” di Murakami: memorie di uno scrittore-corridore

Haruki Murakami, pilastro della narrativa contemporanea, è stato di recente nuovamente in lizza per il Premio Nobel per la Letteratura. Famoso per una prosa che mescola realismo, gusto per l’assurdo, fantasia, fantascienza ed elementi magico-onirici, ha scritto circa una trentina di opere, tra cui romanzi (Dance Dance Dance, Norwegian wood, 1Q84), raccolte di racconti (I salici ciechi e la donna addormentata, Tutti i figli di Dio danzano) e saggi. Ha anche tradotto diversi autori (Capote, Salinger, Fitzgerald, per citarne alcuni). Nel 2007 ha pubblicato L’arte di correre (Einaudi), una raccolta di nove brani in cui riflette sul suo rapporto con la scrittura e la corsa, sua grande passione. Il libro – da lui annoverato nella categoria “memorie” – offre un ritratto dell’autore giapponese come persona, scrittore e corridore.

Murakami, umile e al contempo testardo e metodico, riconosce i suoi limiti e le sue imperfezioni, ma si impegna al massimo in tutto ciò che fa. La corsa e la scrittura, due attività che potrebbero sembrare molto distanti, hanno a suo avviso in comune tre fondamentali aspetti: richiedono impegno, dedizione e costanza.

Uno scrittore deve possedere un imprescindibile talento, ma anche saper perseverare e avere capacità di concentrazione e queste ultime due caratteristiche vanno esercitate quotidianamente – così come un maratoneta deve allenarsi giorno dopo giorno per migliorare il suo tempo e la sua resistenza.

Scordatevi lo stereotipo dello scrittore dalla vita sregolata: Murakami è sì un outsider, ma in modo diverso. Va a letto presto, si alza prima dell’alba e scrive per qualche ora; fa poca vita sociale, prediligendo l’«invisibile relazione ‘concettuale’» con i suoi lettori. Ma soprattutto, egli corre regolarmente dall’82, partecipando ogni anno ad almeno una maratona – nel libro racconta per esempio del suo allenamento per la maratona newyorkese.

La corsa gli permette di mantenere uno stile di vita sano, secondo lui indispensabile, poiché ciò che fa lo scrittore è qualcosa di malsano. «Quando decidiamo di scrivere un libro […] portiamo alla luce un elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell’essere umano» afferma il romanziere. Quell’ingrediente nocivo è indispensabile affinché si verifichi un autentico atto creativo, ma è anche pericoloso, e Murakami desidera scrivere a lungo e proficuamente, creando storie sempre più potenti. L’energia per fare questo la ritrova nel rafforzamento del suo fisico, perché la letteratura rappresenta per lui «una forza vitale che tende naturalmente in avanti» e comporta enorme fatica. Scrivere equivale a scalare vette ripidissime, combattendo duramente finché non si giunge in cima, dove si saprà se si ha vinto o perso contro se stessi – questo pensa Murakami quando scrive, scavando nei meandri di se stesso alla ricerca dell’ispirazione. Lo stesso gli accade quando corre: sente «uno stimolo interiore silenzioso e preciso» e l’unico avversario può essere solo il «se stesso del giorno prima».

Murakami è diventato narratore relativamente tardi, a trent’anni. Ricorda il momento preciso in cui ha sentito di voler scrivere: in una bella giornata primaverile del ‘78, sdraiato sull’erba a godersi una birra e una partita di baseball, ha sentito d’un tratto il forte desiderio di buttare giù un romanzo.

«In quel momento dal cielo scese in silenzio qualcosa, e io lo presi» racconta. All’epoca egli gestiva un bar: rincasava tardi la notte e scriveva finché non gli veniva sonno. In queste condizioni scrisse i suoi primi due romanzi: Ascolta la canzone del vento e Il flipper del 1973. Ma creare in quel modo era dura, così fece un salto nel buio: chiuse il bar dedicandosi solamente alla scrittura per un po’, per vedere se avrebbe ottenuto dei risultati. Così produsse il suo terzo lavoro, Nel segno della pecora, diventando uno scrittore professionista apprezzato in tutto il mondo.

Come si dice, il resto è storia.

Proprio in quel periodo Murakami iniziò a correre: fumava troppe sigarette, conduceva una vita sedentaria, tendeva ad ingrassare e capì che di quel passo non sarebbe durato molto – urgeva un cambio di rotta. La corsa gli parve subito l’attività sportiva più congeniale alla sua natura bisognosa di solitudine e silenzio. «Quando corro, semplicemente corro. In teoria nel vuoto. O […] è anche possibile che io corra per raggiungere il vuoto. In quella sospensione spazio-temporale, pensieri ogni volta diversi si insinuano naturalmente nel mio cervello» dice. A volte affiorano alla sua mente idee per un nuovo libro. Certo è, per lui, che senza la corsa le sue opere sarebbero state diverse – anche se non sa dire in che modo.

Murakami non si definisce uno scrittore straordinario, né pensa che la sua vita sia eccezionale; ciò che gli importa è poter sempre fare le cose a modo suo. Alla fine de L’arte di correre, c’è un suo umile proponimento: continuare a partecipare alle maratone finché non sarà soddisfatto di sé, anche se sarà anziano e malridotto e al di là del tempo o della posizione in graduatoria che otterrà durante la gara. Sulla sua tomba, desidererebbe il seguente epitaffio:

«Murakami Haruki
Scrittore (e maratoneta)
1949-20**
Se non altro, fino alla fine non ha camminato».

Perché, nelle maratone, si corre – ed è così che lui avanza, senza clamore, sfidando se stesso, mettendocela tutta.

 

Francesca Plesnizer

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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Cercando “La via del sole”: intervista a Mauro Corona

Mauro Corona, basterebbe il suo nome per presentarlo, per ricordarci chi siamo, che posizione abbiamo preso tra gli estremi della società: da una parte i soldi, la gloria a tutti i costi e l’omologazione, e dall’altra lui, con il suo sprezzante e ruvido isolamento sulle montagne bellunesi.
Corona rappresenta quella persona che ha avuto e che ha tuttora il coraggio di fare tutto quello che noi ci promettiamo di fare ogni giorno – nei momenti di difficoltà – ma che non abbiamo mai il tempo, la voglia, la forza di mettere in atto: prendere tutto e mandarlo a quel paese, farlo rotolare giù per la scarpata più ripida e lasciarlo finire a valle, schiantato.
Non c’è più tempo per i fardelli, per i pesi che non meritiamo di portare. Lui ha scelto montagna e scrittura, ha scelto di non piegarsi alla moda degli altri, alle usanze, al perbenismo con cui riempiamo ogni giornata.
Senza rinunciare alla società a cui rimane aggrappato come alla roccia più aspra e tagliente, Corona ispira un cambiamento, una diversità raggiungibile anche attraverso i suoi libri, attraverso le sue parole che fanno da eco ad ogni camminata e ad ogni esperienza delle montagne, di chi ha il coraggio di dire effettivamente che direzione sta prendendo la nostra vita, da lontano.

Coraggio e passione trasudano dalle sue pagine, come un’accusa a chi spreca la vita, a chi si fa trascinare dal flusso forse troppo violento del consumismo. La risposta ai mali della società e della frenesia del mondo del web arriva quindi dalla montagna e dallo sforzo, dalla riflessione e dalla consapevolezza che si può anche vivere diversamente, che un’alternativa c’è ed è piacevole, affettuosa, una cura naturale.

 

Oggi ci ha presentato l’ultimo di una gran bella collezione di romanzi che ha scritto. C’è un messaggio per i lettori ne La via del sole?

In ogni parola c’è un messaggio, in ogni libro, in ogni scultura… persino nel passo, perché anche solo camminando qualcuno ti lancia un messaggio, per esempio che ha fretta o che è triste. Questo librino qui è una parabola che punta il dito sulle persone (quasi tutte) che perdono tempo mentre invece hanno una sola occasione nella vita: continuano a perdere tempo convinti di poterlo recuperare, di averne altro a disposizione. Come scriveva Ernesto Sabato, «purtroppo la vita la facciamo solo in brutta copia. Se uno scrittore fa una pagina imperfetta può buttarla nel cestino. La vita, no»: è verissimo, non abbiamo il tempo di correggerla e di ricopiarla in bella. A me sembra di vedere attorno a me, nel pianeta intero, miriadi di persone che perdono tempo, che potrebbero vivere bene lo stesso facendo il necessario, investendo tutto il resto in tempo libero, nelle loro passioni, nei loro hobby… E’ una scioccheria quella del non avere tempo.

Il paesaggio montuoso, soprattutto quello delle nostre zone, è appassionatamente descritto nei suoi romanzi e ne è in qualche modo padrone. Anche nel nostro gruppo ci sono grandi appassionati del panorama montano, delle ferrate e dell’arrampicata, dunque vorremmo chiederle: secondo lei, qual è la più grande lezione della montagna all’uomo?

A me più che insegnamenti ha dato carezze, anche a volte piuttosto brusche, però per me è stata una medicina: mi rifugio lì, oggi come allora, quando avevo dei problemi che non riuscivo a risolvere perché non volevo risolverli, perché il mio carattere non mi permetteva di risolvere in maniera pacifica il conflitto con i miei genitori, con la famiglia, con gli amici, col paese, con l’umanità intera. Quindi anche oggi vado lì e mi sento abbracciare. Mi sento protetto, mi sento nascosto.
Dopodiché m’ha anche insegnato che per arrivare da qualche parte devi faticare: intanto la montagna è in salita, ma è quasi più faticoso scendere che salire. Per arrivare ad un punto, ad un successo, ad un vertice, è quindi necessario faticare, ma mi ha insegnato anche che dal vertice devi solo scendere, e mentre scendi adocchi un altro vertice ancora: è un saliscendi continuo. Comunque per me è stata una protettrice più che una conquista.

Quindi in un certo senso la solitudine e il contatto con la grandezza della natura che offrono il paesaggio montuoso possono più facilmente farci accedere ad una dimensione spirituale?

La spiritualità nasce solo dallo sforzo. E’ vero che un filosofo può speculare su tante cose anche stando a letto, ma lo sforzo crea idee, lo sforzo crea soluzioni, la fatica è la base di ogni arte. Lo sosteneva anche Robert Walser, che non riusciva a scrivere una riga se non faticava.

Sicuramente la montagna è uno di quei luoghi che mette a nudo l’uomo da tutti i costrutti e le sovrastrutture della modernità e gli fa riscoprire il suo lato più semplice, in un certo senso ancestrale; quando si torna a valle però purtroppo molte cose vengono perse, e si torna ad uno stile di vita più artificiale e noncurante della dimensione naturale: percepiamo la natura attorno a noi ma non ci tocca veramente. Quale pensa che sia il legame che ai nostri giorni intercorre tra l’uomo e la natura?

Non tutti possono andare in montagna ogni giorno, ma sapere che c’è dovrebbe essere abbastanza. Perché se noi abbiamo bisogno della montagna o del mare per trovare noi stessi siamo eroi anomali di qualcosa, e dunque già falliti. Io non ho mai visto la Pietà di Michelangelo, ma sapere che c’è mi rallegra, e mai c’andrò a vederla! Quindi bisogna secondo me ragionare sul fatto che le cose ci sono e un giorno se mi gira vado anche a cercarmele. Ovviamente camminare in un bosco d’autunno, come diceva Cioran, è una cosa bella e quindi c’è bisogno anche del vedere, del contatto, ma nel frattempo che non l’abbiamo sotto mano elaboriamo la montagna che c’è in noi in previsione di andarla a vedere un giorno. Del resto non è possibile che sette miliardi di persone si riversino in un bosco, però quando si può farlo perché non farlo, perché non fare delle scuole dove portano i bambini nel bosco, per esempio il Friuli è pieno di boschi, ha mai visto una scolaresca che vada nei boschi? È importante sapere che c’è la natura e che va praticata un poco, ma se lei ha bisogno di rifugiarsi in un bosco per ritrovarsi vuol dire che c’è qualcosa che non va. Dev’essere piuttosto un premio, un regalo, come un colpo di sole, non una necessità da dipendenza, altrimenti è peggio di prima.

L’ambiente naturale adesso è particolarmente minacciato: questa tematica ricorre spesso all’interno dei suoi libri e dunque sembra esserle particolarmente cara. Che cosa sta succedendo e cosa dovremmo fare per provare a risolvere il problema?

L’ambiente naturale è da sempre minacciato dall’uomo, in questo periodo ciò succede in modo più evidente perché abbiamo educato una società di colpevoli. Oggi l’uomo di successo, interessante ed intelligente, non è quello che legge un libro o che investe in tempo libero ma quello che fa soldi; la colpa non è della società, perché la società siamo io e lei e altri sette miliardi: la colpa è di questa idea che per essere veramente di valore bisogna fare soldi. Questo è il principio che ha danneggiato tutto. Questa è anche la parabola del protagonista del mio ultimo libro, poiché sta distruggendo tutto quello che ha per avere un po’ di sole, senza rendersi conto di averlo già. Bisogna accontentarsi, ed insegnarlo anche ai nostri figli, altrimenti continueranno la nostra eredità di stupidità perpetua che attualmente paga la natura, perché per diventare più ricchi bisogna sfruttarla sempre di più. E’ una questione di educazione al togliere, togliere per vedere, come scolpire, togliere legno per vedere oltre, dentro.

Dove troviamo questi modelli di vita “giusti”?

Non ne trovi più. Vanno creati da capo, ma subito, domani mattina! Vanno insegnati ai figli, per esempio spiegando che non bisogna sempre apparire, avere le cose appariscenti e di marca, griffate… è un caos da dove non se ne esce.

Qual è la sua idea di filosofia e quale ruolo ritiene essa abbia nella vita di tutti i giorni?

Wittgenstein diceva che un filosofo non deve mai avere maggior prestigio di un idraulico. Filosofia è un modo di pensare, anche un modo di pensare soluzioni, però quando questa filosofia si impone come scienza che tutti gli altri sono imbecilli tranne il filosofo allora comincia a diventare vanità personale. Quindi mi va bene la filosofia se accompagnata poi alla praticità della vita, perché un filosofo oggi se non avesse da mangiare e un posto di lavoro sarebbe difficile che speculasse e facesse contorcimenti filosofici. E’ necessaria ma non tanto quanto la si vanta. Per esempio io ora sto leggendo i Quaderni neri di Heidegger e non ci capisco una mazza! A me però piace un filosofo, Carlo Michelstaedter, che si sparò a 23 anni: non era neanche filosofo, fu filosofo suo malgrado; lui sosteneva che un peso è un peso, perciò un peso deve cadere e se lo sospendi non è più un peso. Questo è ciò che facciamo noi: noi siamo dei pesi che vogliono essere sospesi, mentre invece è inutile lottare contro quel peso che deve cadere. Quindi la filosofia è un nobile, giusto e necessario passatempo, ma prima di lei vengono le cose pratiche perché a stomaco vuoto non filosofeggi.

 

La società va quindi rifondata, ricalibrata e ripensata; i modelli di riferimento non esistono più, ma non ci perderemo in alcuna forma di nichilismo, anzi, ci sporcheremo le mani, ci graffieremo le dita e avremo terra incastrata sotto le unghie per lo sforzo continuo. Raschieremo da oggi le superfici delle montagne per spremerle e costruire un nuovo mondo. La filosofia ci aiuterà in questo solo a scapito della sua sofisticatezza, per lasciare spazio a una nuova forma di praticità filosofica.

La Redazione

Nota: Questa intervista ci è stata rilasciata dall’autore in occasione di Pordenonelegge il 16 settembre 2016.

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La “Consolazione alla madre Elvia” di Lucio Anneo Seneca

Hai appena fatto rientro a casa, il corpo stanco implora riposo ma hai solo il tempo di una doccia – che sia veloce! –, poi rivestirti e uscire di nuovo. Vorresti scegliere tra uno dei due lavori che fai ma, ahinoi, è un lusso che ancora non puoi permetterti. Ancora: non sai bene perché ti resta questa briciola di speranza, deposta sul fondo del cuore; o di quel residuo di cuore che riesci a percepire, pressato da un dolore a cui non riesci a dar senso. Sai solamente che la solitudine che ti è stata affidata dalla sorte, che ha reciso ad uno ad uno i tuoi più cari legami, non te la meritavi. Una caldaia più efficiente, che non ti costringa a docce ghiacciate una volta ogni due giorni: questa la meriteresti. Ma basta chiacchiere: devi andare a lavorare.

***

Un improvviso bruciore al volto ti sveglia nel cuore della notte, come se t’avessero appena toccato lo zigomo con una carezza arroventata. Ti svegli, sei perplessa ma quando ti trovi di fronte allo specchio, capisci: ti sei rigirata nel sonno ed hai poggiato il viso sul braccio. Sei una stupida, ti dici: o forse non sei tu a dirlo, ma una voce che, ormai, s’è insinuata nella tua mente. Insinuata? Presupporrebbe un lavoro certosino e delicato; niente di tutto ciò: s’è fatta spazio a suon di pugni e schiaffi e insulti. Non sai bene quale sia stato il colpo che ha fatto breccia nella tua intimità: forse l’ultimo, forse il primo. Ma che importa? In fondo, a chi importa?

***

È inutile piangere: è ormai il tuo mantra e ne sei convinto davvero. Ma hai tra le mani il suo ultimo disegno, guardi come un sacramento quelle linee colorate, la sua grafia ancora incerta: Io-mamma-papà. Niente spazi, solo due trattini che sembrano abbracci: e di spazio, tra te e loro, ora ne avverti fin troppo. In alcuni punti il colore è appena sbavato, forse ci hai pianto sopra. Chiudi gli occhi: hai quasi paura di rovinarlo, quel disegno, guardandolo così tanto. Ma è l’ultima cosa che ti resta, in una casa senza vita. Oppure piena di una vita che non vuoi più, perché ogni ragione per volerla – così ti pare – sono morte tra lamiere roventi, poi deposte sotto una terra pesante e scura. Ed è come se quella terra ti cadesse addosso lentamente, una manciata al giorno: e stai morendo un po’ alla volta.

***

La vita umana è attraversata da esperienze diverse e variamente significative: tra le più forti, v’è certamente il dolore. Non il dolore melenso dei film di terza serie, dei romanzetti scritti da chissà chi; nessuna esagerazione vagamente pittoresca: si tratta del dolore misero, minimo, sordo che tutti gli esseri umani sperimentano, ciascuno in maniera differente. O forse tutti in maniera identica: a ben vedere, la prima cosa che il dolore sembra intaccare è il senso di comunanza con le altre persone. Chi patisce corre il rischio di percepire una solitudine radicale, inspiegabilmente efficace; di sentirsi isolato da tutti, incomprensibile a chiunque, di percepire una scollatura da una realtà di cui non ci si sente più parte.

Eppure, c’è almeno una ragione per cui nessuno può mai dirsi solo, una ragione per cui il legame che tiene insieme l’umanità non può essere reciso, mai: non importa con quanta forza veniamo abitati dal dolore, la frequenza con cui esso bussa alla nostra porta, l’incisività con cui scrive sulla nostra persona. È una ragione di cui, chiunque abbia sofferto, in fondo è in cerca e, forse, ha nell’esperienza del patimento una condizione necessaria per essere scoperta. In virtù di ciò, è possibile continuare a vivere, anche dinanzi ai dolori più pervasivi.

***

Quale sia questa ragione, può insegnarlo una voce dei tempi passati, voce di uomo prima che di filosofo; la voce di uno che fu condannato all’esilio, lontano da tutti i suoi affetti, perché coinvolto in affari di palazzo, affari di potenti. È la voce di Lucio Anneo Seneca (Cordoba, 4 a.C. ca- Roma, 65 d.C.), costretto all’esilio nel 41 da Claudio che, in quell’anno, aveva succeduto Caligola – quest’ultimo liquidato da una congiura – al soglio dell’Impero romano. Nel 65, poi, fu invitato da Nerone, nei suoi primi anni da imperatore, a porre fine ai suoi giorni: era scomodo, fastidioso, lui e quel suo interesse per l’umanità. Lungo tutto l’arco della sua vita, Seneca dedicò all’essere umano e ai suoi patimenti larga parte della sua opera di filosofo e scrittore, cercando di scandagliare la profondità dell’animo umano e, possibilmente, di trovare un rimedio autentico, definitivo, a quel dolore e a quei patimenti che non solo scorgeva nel cuore altrui, ma anche viveva, in prima persona. Negli anni del suo esilio in Corsica, scrisse – tra le altre – un’opera particolarmente significativa a tal proposito: la Consolatio ad Helviam Matrem (Consolazione alla madre Elvia), in cui si cimenta nella consolazione della madre, affranta per l’ingiusto destino che s’è abbattuto sul figlio.

Quest’opera non è una orazione ex cathedra sull’inutilità del dolore, non si compone delle parole che bisogna dire dinnanzi ad una persona sofferente: niente parole di circostanza, nessun patetismo. Sono parole pronunciate da un essere umano tra altri esseri umani, radicalmente legato all’umanità e, con essa, non solo alla sua parte migliore: ovvero a quel quid nascosto nel profondo di ciascuno, quel sommo bene che non può essere né dato né tolto; ma anche ai difetti e alle debolezze che ogni essere umano manifesta, almeno una volta nella propria vita: egoismo, brama di potere. Seneca è un essere umano di carne ed ossa – potrebbero esisterne di diversi? – e la sua filosofia è inscritta nelle condizioni di tutta l’umanità, si rivolge ai problemi quotidiani che ciascuno deve, talvolta tragicamente, affrontare: ristrettezze, violenza, morte dei propri cari.

Ecco, dunque, perché dovremmo ritagliarci un po’ di tempo per accostarci alle parole di Seneca, a quelle con cui compone la consolazione a sua madre Elvia; ecco perché dovremmo farci il regalo di ricordarci che, in fondo, patiamo tutti gli stessi dolori e abbiamo tutti qualcosa per cui vale la pena consolarci, continuare a vivere.

Emanuele Lepore

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Dino Buzzati, “Poema a fumetti”

Oggi lo si definirebbe una graphic novel e sarebbe riconoscibile all’interno di un vero e proprio genere letterario, che negli ultimi decenni ha prodotto opere di autentico rilievo e si è creato un pubblico attento; ma nel 1969, quando Dino Buzzati pubblica il suo Poema a fumetti, provoca una clamorosa sorpresa. L’autore di un piccolo classico come Il deserto dei Tartari, che in trent’anni di carriera letteraria ha inventato una sua originale interpretazione del fantastico e ha reinterpretato generi letterari come l’erotismo (Un amore, 1959) o la fantascienza (Il grande ritratto, 1960), propone un’opera narrativa del tutto inedita, il cui breve testo si intreccia a immagini realizzate dallo stesso autore.

Dino Buzzati 1 - La chiave di SophiaI critici e molti lettori sono spiazzati da un romanzo che impone una lettura del tutto nuova. Eppure non si tratta, per l’autore, di una novità: già nel 1945 ha pubblicato e illustrato personalmente il libro per ragazzi La famosa invasione degli orsi in Sicilia; da tempo è conosciuto anche come pittore, Dino Buzzati 2 - La chiave di Sophiae pochi anni dopo, nel suo ultimo libro (I miracoli di Val Morel, 1971) ripropone attraverso una raccolta di surreali Dino Buzzati 3 - La chiave di Sophiaex-voto un’originale commistione tra testo e immagini.

 

 

La vicenda, invece, si riallaccia a una tradizione illustre, e si ispira alla mitologia: la storia di Orfeo che commuove col suo canto le divinità degli Inferi per riportare in vita la sposa Euridice, ma finisce col perderla nuovamente.

Dino Buzzati 4 - La chiave di SophiaE insieme il suo libro è una storia d’amore e di morte, secondo una tradizione illustre e antica. Una storia ispirata alla mitologia, la storia di Orfeo che scende negli inferi a commuovere le divinità col suo canto per riportare in vita la sua sposa Euridice, ma finisce per perderla nuovamente. Un racconto già cantato infinite volte in letteratura, in arte, in musica, qui alluso attraverso la storia del giovane Orfi, un cantante di successo che rimane sconvolto dall’improvvisa morte della sua amata Eura. Ma Orfi scopre un passaggio che porta nell’aldilà: un’anonima porta a pochi passi da casa sua, a Milano nell’inesistente via Santerna (immaginata nelle vicinanze di via Solferino, dove Buzzati lavorò per tutta la vita al Corriere della Sera).Dino Buzzati 5 - La chiave di Sophia

Un singolare “diavolo custode”, rappresentato nella forma di una giacca vuota, gli rivela che ogni scomparso vive in un luogo che gli ricorda la sua vita precedente («Per te, Orfi, è Milano, Milano essendo la tua vita, per un altro è Zagabria, Karlsruhe, Paranà»). Ma ciò che manca nell’aldilà è lo scorrere del tempo: l’esistenza non ha variazioni, è solo «ottusità indistruttibile, uniformità, prevedibilità, noia», agli antipodi della nostra vita preziosa proprio per la sua brevità. Dino Buzzati 6 - La chiave di SophiaCosì Orfi offre agli spiriti la cosa più preziosa, un canto che restituisca loro il ricordo del piacere e della bellezza.

In questo modo, Orfi ottiene 24 ore di tempo per cercare Eura. Sotto le volte di una gigantesca stazione ferroviaria, le anime stanno salendo su giganteschi treni a molti piani che li porteranno alla inconoscibile destinazione finale. Dino Buzzati 7 - La chiave di SophiaOrfi trova Eura tra loro, cerca di riportarla indietro, ma è lei a resistere: a differenza di Orfi, lei è già consapevole che la morte è una potenza irresistibile. I morti sono tutti stanchi, incapaci di opporsi al loro destino. In un’affannosa sequenza il tempo lasciato a Orfi si consuma del tutto, Dino Buzzati 8 - La chiave di Sophiae il giovane si ritrova davanti alla soglia, in via Santerna, incerto se tutto non sia stato un sogno. Ma il piccolo anello di Eura, rimasto nelle sue mani, gli dice che invece tutto è realmente avvenuto.

 

 

Dino Buzzati 9 - La chiave di SophiaUn breve riassunto come questo può solo dare una vaga idea di un romanzo per immagini, nel quale ogni singola tavola costruisce la Dino Buzzati 10 - La chiave di Sophiavicenda e insieme propone continui omaggi (dichiarati dall’autore nei ringraziamenti iniziali) che vanno da Salvador Dalì ai fumetti pornografici; ma in questo magma Buzzati riesce a essere sempre fedele a se stesso, ai temi che ha raccontato in tutta la sua vita di scrittore: il senso dell’attesa, il destino che incombe sugli uomini, la morte come presenza inesorabile nella vita umana.

 

 

 

Giuliano Galletti

DINO BUZZATI, Poema a fumetti, Milano, Mondadori, 2016

Gli scrittori hanno ucciso il cinema

Il cinema come l’abbiamo inteso durante tutto il corso del Novecento (e nei primi anni Duemila) è ufficialmente morto. O meglio, si è trasformato in qualcosa di nuovo e totalmente diverso, dal momento che la vera arte non muore mai, piuttosto si rigenera e diventa altro. Se il cinema che abbiamo conosciuto e apprezzato negli anni è ormai diventato un pallido simulacro di ciò che è stato in passato, la colpa (o il merito, a seconda dei punti di vista) va attribuita agli scrittori. Direte voi: ma gli scrittori ci sono sempre stati, anche e soprattutto durante l’età d’oro del cinema. Avete ragione, ma il grande cambiamento è iniziato quando gli scrittori hanno pensato di poter diventare i registi delle loro stesse opere e questa concezione è stata possibile solo grazie allo sviluppo delle serie televisive. Non ci vuole molto a capire che trasporre un libro (o una serie di libri) in un film di un’ora e mezza, limita e restringe enormemente il potere della carta stampata. Quello cioè di lasciare pieno potere all’immaginazione del lettore che dalle parole crea suggestioni che gli fanno vivere in prima persona il mondo descritto nel libro. Il film invece, non lascia niente all’immaginazione. Il film è la trasposizione visiva delle suggestioni che hanno colpito un regista. Ecco perché molte trasposizioni di classici della letteratura ci lasciano delusi quando li andiamo a guardare al cinema. Se il film però ha un tempo ben definito da rispettare, le serie tv possono per assurdo assumere una durata illimitata e raccontare nei dettagli tutte le vicende pensate e concepite dagli scrittori. Fateci caso: tutte le più importanti serie televisive degli ultimi anni nascono dalle idee di alcuni autori letterari che sono riusciti a mettere in secondo piano i registi in nome delle loro storie. Il più famoso è George R.R. Martin con il suo Game of thrones, ma anche Nick Pizzolatto e Beau Willimon autori di True detective e House of cards non sono affatto da meno.

Questi nomi, insieme a molti altri, rappresentano una nuova evoluzione dello scrittore in senso classico. Non sono più autori che si accontentano di scrivere storie cartacee, ma esigono che queste siano riprodotte secondo le loro idee sul piccolo schermo. Lo scrittore diventa così showrunner, una figura che non è solo uno sceneggiatore o un produttore. Questi nuovi personaggi assumono e licenziano, sviluppano la trama, riscrivono copioni, si occupano di budget e tengono i contatti con l’emittente televisiva, costruendo prodotti che assomigliano sempre più a lunghi libri visivi ma che hanno perso del tutto il contatto con il vero cinema. La serialità ha ucciso le pellicole del grande schermo, il dominio sempre più incontrastato di colossi come Netflix o Hbo sposterà tra un paio d’anni il focus dal grande schermo a piccole piattaforme multimediali come le smart tv, i tablet o i computer portatili. Andare al cinema diventerà lentamente obsoleto. Non è per forza un male, senza i cambiamenti non ci sarebbe il progresso, ma è incredibile notare come gli scrittori siano riusciti a destabilizzare nel profondo un’arte come il cinema, riuscendo a far prevalere il loro egocentrismo e l’amore per le loro storie sulla tecnica che le doveva trasporre in uno schermo. La carta stampata ha compromesso irrimediabilmente la pellicola, dimostrando che la parola e la capacità di sapere ideare e raccontare una storia, sono oggi ben più importanti del saper raccontare la vita attraverso una macchina da presa. Quello che conta non è più l’arte, ma l’entertainment, il riuscire a coinvolgere per più stagioni possibili uno spettatore, magari facendolo passare dalla tv al libro, raddoppiando i guadagni. E’ la storia che si evolve e fa il suo corso. Una fase di transizione strettamente legata al nostro presente, che in futuro avrà di sicuro nuovi e imprevedibili sviluppi proprio perché, come detto prima, l’arte non muore mai. Diventa semplicemente qualcos’altro.

Alvise Wollner

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L’Io del ricercatore: il soggetto di fronte ad un lavoro di ricerca

A chi non è mai capitato di non sentirsi soddisfatto di ciò che scrive?

Quanti, nel rileggere delle righe scritte di proprio pugno, hanno avuto la consapevolezza di non aver detto esattamente quello che sentiva la necessità di esprimere?

Talvolta una parola di troppo. Un punto.

Un punto che, tuttavia, sembra fare la differenza.

Il soggetto si spacca. Diviso in due.

Quando scriviamo, quando ad esempio ci cimentiamo in un lavoro di ricerca, non sempre è facile raggiungere un punto di vista sufficientemente oggettivo.

Ciò è evidente fin dal momento in cui scegliamo una questione particolare, una problematica a noi cara poiché legata al nostro vissuto.

Tutto acquista un senso sempre più concreto nel corso dello sviluppo delle nostre ricerche, mettendo a confronto testi diversi, entrando in interazione con i nostri autori, mettendo anche al centro delle persone che sono direttamente toccate dalla problematica trattata, incarnandola in un vissuto.

A tale proposito, il sociologo Daniel Bizeul sostiene che il ricercatore, nel suo caso particolare il sociologo, è tributario della sua esperienza del mondo.

Riuscire ad analizzare una questione da un punto di vista oggettivo, infatti, non significa spogliare la ricerca di ogni tratto personale.

Il compito del pensatore è di porre al centro l’umano, esattamente laddove questo si mette a nudo nelle sue infinite contraddizioni e punti più oscuri.

Il sociologo, nell’articolo “Le double “je” du sociologue[1]”, continua sostenendo che la risoluzione di alcuni enigmi teorici può avere luogo unicamente nel momento in cui prendiamo consapevolezza di una serie di elementi che l’ordinario e il quotidiano ci forniscono, che sono dunque sotto i nostri occhi ma che, tuttavia, spesso sembrano sfuggirci.

L’Io si sdoppia, dunque. Profondamente incarnato nel reale da un lato, deve in seguito riuscire a estrapolare una teoria in grado di spiegare, in modo obiettivo, quello stesso vissuto. Il suo discorso deve allora sdoppiarsi, in altre parole, deve fare in modo che anche il pensiero stesso, nella sua purezza e teoricità, risulti intriso di esperienza e dialogo, perdite e silenzi.

Ogni momento di questo percorso lascia una sorta di traccia in lui, una traccia che rappresenta un segno, un’indicazione verso la giusta strada da seguire per meglio spiegare la problematica in cui ci siamo imbattuti.

Per questo, il soggetto non può avere uno sguardo al cento per cento neutro rispetto a ciò che scrive: egli sarà sempre inspiegabilmente immerso in un modo cui appartiene e dal quale sarà difficile distaccarsi.

Tuttavia, ciò che è necessario mettere in luce, è che per fare in modo che un lavoro di ricerca, in qualsiasi campo esso sia fatto, abbia sia una certa coerenza sia un’efficacia, lo scrittore deve essere in grado di prendere le distanze dalla sua posizione personale, nascondendosi e rendendosi invisibile.

Come egli sostiene al termine dell’articolo:

“La nostra attività professionale implica il senso del dramma umano”. “I principi di metodo ai quali ci riferiamo, le procedure di cui facciamo uso al fine di fare esistere i mondi degli altri, non sono nulla senza la conoscenza di sé, impregnata dell’esperienza sociale.”

 

[1] D. BIZEUL, Le double “je” du sociologue (trad. it. “Il doppio “Io” del sociologo”), articolo tratto da Des sociologues sans qualités?, La Découverte, 2011.

Sara Roggi

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Louis-Ferdinand Céline, un nichilista? Viaggio al termine della notte: ritratto di un’epoca

 

La nostra vita è come il viaggio di un viandante nella notte; ognuno ha sul suo cammino qualcosa che gli dà pena.

Canzone delle guardie svizzere, 1793

 

«Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario: ecco la sua forza, va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia.»

Incipit del Viaggio al termine della notte, citato all’inizio del film La grande bellezza

Louis Ferdinand Céline (1894-1961) è stato uno scrittore francese, uno dei più controversi personaggi della letteratura del XX secolo ma anche uno dei più ammirati ed influenti.

Di professione medico, Louis Destouches assunse lo pseudonimo letterario di Céline ed esordì nel 1932 con il romanzo Viaggio al termine della notte, tuttora la sua opera più famosa. Il romanzo fu oggetto di attenzione e dibattito già al momento della sua pubblicazione, dividendo trasversalmente i lettori di ogni schieramento. Vi fu chi lo salutò come una rivelazione letteraria di prim’ordine e chi lo giudicava una sorta di parodia del maledettismo, un nichilista anarchico e disfattista. Il romanzo, chiamato in breve Voyage, è la storia di Ferdinand Bardamu, alter-ego dell’autore, dall’intervento nella Prima Guerra Mondiale nel 1914 fino ai primissimi anni ’30. Nel Voyage è spesso impossibile capire quali elementi siano tratti dalla vita del dottor Destouches e quali invece siano frutto d’invenzione. In questa sede potremmo solo soffermarci brevemente su due aspetti: sul valore della descrizione storica della sua epoca che Céline ci offre sulla nomea di nichilista che l’autore si è spesso attirato. Dovremmo purtroppo trascurare del tutto il valore strettamente letterario dell’opera, che pure è enorme: considerate dunque quanto segue non una vera analisi della vita e dell’opera di Céline, unite in maniera inscindibile, ma come un invito ad approfondire la figura di questo scontroso medico parigino.

Il Viaggio al termine della notte è la narrazione in prima persona della vita del dottor Bardamu, il racconto di quindici anni di vita in una lingua veloce e vorticosa, tanto sboccata e vicina al parlato quanto frutto di grande abilità letteraria. Nelle parole del narratore vengono in discussione tutte le fondamenta del ventesimo secolo. Nella Grande Guerra non vi sono soldati eroici, ma uomini che tentano di sopravvivere in un massacro di cui non capiscono né il motivo né l’utilità. Il colonialismo traspare come uno sfruttamento sistematico di popolazioni indigene dagli usi incomprensibili da parte di europei abbrutiti ed incattiviti. L’espansione delle città nelle campagne appare un contrasto tra due mondi opposti, le nascenti grandi industrie di Detroit sono un mondo alienante, l’ambiente medico ed accademico è pervaso da rivalità ed arrivismo. Ciò che più appare evidente in questo ritratto di un’epoca è però la critica al sistema sociale vigente, che abbandona i più sfortunati al loro destino di povertà. Quella povertà che sia l’uomo Céline sia il personaggio Bardamu vedevano come un’orrenda malattia e che conobbero loro stessi, offrendo assistenza medica anche a tutti coloro che non potevano permettersi di pagare il servizio. Nell’affrontare i grandi miti del Novecento Céline non diventa mai partigiano di una certa parte né si adagia su posizioni di comodo. All’orrore della guerra non segue una dichiarazione di pacifismo. La giungla africana è un posto selvaggio come la metropoli di New York, la severa critica al colonialismo non cede mai il passo ad un retorico elogio del “buon selvaggio”, alla disumanità della realtà industriale non corrisponde una nostalgia del mondo rurale, meschinità ed ipocrisia affiorano tra i ricchi come tra i poveri. Una vorticosa e pessimista descrizione delle brutture della vita e del mondo, in cui però affiorano timidi ed inaspettati momenti di autentica commozione e generosità, specialmente da parte dei reietti, gli ultimi della società. Nemmeno questi ultimi sono però oggetti d’idealizazione: Céline era infatti convinto che un eventuale riscatto delle classi più umili non potesse partire da esse, e tale convinzione gli alienò da subito la simpatia di molti critici.

Il Voyage non è un banale elenco di blasfemie, ingiustizie ed amoralità. Come egli stesso ammise, l’intento di Céline era quello di esprimere i sentimenti che un uomo può sentire ma non può confessare. E i sentimenti che traspaiono nel Voyage non sono quelli di una persona che ha realizzato il vuoto della vita si è abbandonato al nichilismo più crudo convinto dell’inutilità dell’esistere. Céline ci mostra invece i sentimenti di un uomo con un’altissima concezione della vita e degli esseri umani, e che proprio per questo non tollera le bassezze morali cui ogni uomo, di ogni estrazione ed egli stesso compreso, è dedito. Alla luce di ciò è facile mettere in discussione l’idea di Céline come nichilista. Se si mette in discussione ogni principio morale ed il valore stesso della vita allora si rifiuta inevitabilmente anche il mondo in cui si vive. Céline invece, senza apparentemente aderire a nessun credo, si dedica a smontare i falsi miti della società e a porre in evidenza le insanabili contraddizioni del mondo, non a respingere acriticamente ogni cosa.

Purtroppo il valore del pensiero e della letteratura di Céline sono stati a lungo tempo oscurati dalla nomea di nazista che lo scrittore si attirò dopo aver pubblicato, alla fine degli anni ’30, alcuni pamphlet dichiaratamente antisemiti. Opere che appaiono ancora più incomprensibili da parte di uno scrittore di tal valore, pregne di un antisemitismo ben distinto dal nazismo ma che rasenta il farsesco, toccando il complottismo più ingenuo e la pseudo-scienza più cialtrona. Con la Seconda Guerra Mondiale, Céline riparò presso il governo filo-tedesco di Vichy, dove non ebbe però incarichi. Alla fine della guerra il dottore fuggì in Danimarca temendo l’accusa di collaborazionismo, ma fu presto arrestato e rimpatriato. Céline fu scarcerato nel 1951, ma la sua figura era ormai irrimediabilmente compromessa, ed il dottor Destouches pagò i suoi errori vivendo in disparte ed in oblio gli ultimi dieci anni di vita. Difficile esprimersi sull’antisemitismo di Céline, tutt’ora oggetto d’incertezza e d’indecisione. Alcuni ridimensionano il razzismo celiniano fino a considerarlo solo un’espressione dell’antisemitismo che in Francia fu serpeggiante fino alla seconda guerra mondiale, e la colpa dello scrittore sarebbe stata l’averlo ammesso apertamente. Altri evidenziano come tale pregiudizio non avesse nello scrittore nessun fondamento religioso o razziale, ma che egli avesse semplicisticamente identificato negli ebrei la grande borghesia arricchita. Già all’epoca della loro uscita questi pamphlet suscitarono sconforto nella critica di sinistra e dubbi in quella di destra: in molti lo accusarono di nazismo o di opportunismo e solo in pochi, come André Gide, reputarono i tre libri un gioco “letterario” cui l’autore stesso non credeva.

Bisogna sempre distinguere tra un uomo ed il suo lavoro, anche quando vita ed opera sono strettamente intrecciate e confuse come in Céline. Ma come è discussa la figura di Céline, così è indiscutibile il valore dei suoi libri. Prendete questa pagina come un piccolo invito a leggere il Viaggio al termine della notte.

«Così finiscono i nostri segreti quando li esponi all’aria e in pubblico. Di terribile in noi e sulla terra e in cielo c’è solo quello che non è stato ancora detto. Saremo tranquilli solo quando tutto sarà stato detto, una volta per tutte, allora finalmente faremo silenzio e non avremo più paura di stare zitti. Ci saremo.»

Louis-Ferdinand Céline

«…perché ti piace Céline? Perché si è tolto fuori le viscere e ci ha riso sopra. un uomo molto coraggioso. Perché è importante il coraggio? È una questione di stile. l’unica cosa che ci è rimasta.»

Charles Bukowski

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Umberto Mistruzzi

[Immagini tratte da Google Immagini]

“Di tutte le storie che sono state scritte ne manca una: la tua”.

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che la vita è una, che ogni giorno è l’ultimo, che tutto cambia, che il successo o la fortuna non si misurano in banca ma derivano dall’apprezzare ogni più piccola gioia, che ciò che per te è sacrosanto e giusto, è assurdo e sbagliato un metro più in là

 Era un venerdi mattina milanese. Di dicembre. Di quelli che appena ti suona la sveglia vorresti solo posporla, almeno fino a maggio. Almeno. Si, dormo ancora un po’, tanto è solo un corso.

E invece.

Il corso di Storytelling non è stato un corso. O almeno non solo quello. È stato scavarsi dentro, ricordi, incontenibili sorrisi, lacrime represse, il cervello e il cuore finalmente a cinema assieme. A vedere il mio film. La mia storia.

Il momento preciso in cui capisci che vivere significa essere chi si vuol essere e non chi gli altri vogliono che tu sia te lo ricordi per sempre.    Ti trapassa da parte a parte.

A me è successo durante le due giornate di “un corso di formazione, come tanti”. Perché ho scritto chi e cosa sono stata, e vedendo la mia vita tutta nero su bianco, ho capito chi sono e chi voglio essere.

Il Mio capitolo inizia proprio dalle parole con cui ho concluso il corso: “Donatella era una bambina timida ed insicura. Che alle feste di carnevale aveva freddo. Diceva sempre si ed era educatissima.  Poi un giorno…”. Ma le 18.30 sono arrivate, il corso è finito, e qualche vita, forse, è iniziata.

Tutto questo è stato possibile grazie ad una persona che  ha reso un corso di formazione, un corso di emozione: Francesca Marchegiano.

-Cominciamo così: c’era una volta una bambina di nome Francesca che…

…che era arrivata sulla Terra così come ogni eroe entra nella sua storia: con un dono da condividere e una ferita da sanare, e che partì per scoprire quali fossero entrambi.

-Continuiamo così: un giorno Francesca capì cosa avrebbe voluto fare da grande e…

Decise di mettersi in proprio alla soglia dei 40 anni, in una nazione dove la crisi regnava sovrana, senza contatti e dovendo inventarsi un lavoro che prima non c’era. Così si mise a studiare e studiare, passò giorni e notti a esplorarsi dentro e cercare di conoscere il fuori, arrivò a pensare: “Và che ho sbagliato tutto?” ma, arrivata a quel punto della storia, decise che piuttosto sarebbe morta provandoci, ma mai avrebbe abbandonato il suo sogno. E in quel momento davanti a lei si aprì un campo di fiori, da attraversare.

-Se ti chiedessi di spiegare cosa è lo storytelling in 10 parole?

Insieme di conoscenze e strategie per costruire racconti ingaggianti (ne manca una, aggiungo: olè!).

-Quando e come hai capito che questa sarebbe stata la tua strada?

Durante un Master in Orientamento e Outplacement, seguito perché già pensavo di supportare le persone nello scegliere strade di qualità rispetto ai propri talenti e alla propria natura, stimolandoli attraverso percorsi di narrazione autobiografica, attraverso la scrittura. Dovendo imparare a farlo per gli altri, l’ho fatto su di me, e lì ho capito chi ero e quale strada non tanto dovevo scegliere (perché non c’era), ma dovevo inventare.

-In che modo lo storytelling è applicabile al mondo dei bambini?

I bambini INSEGNANO lo storytelling, vivono perennemente in Neverland e ricordano a noi, adulti che cerchiamo di stare dritti e seri, quanto la narrazione sia innata, nutriente, indispensabile, guaritrice, salvifica e creatrice.

-Siamo tutti storyteller inconsapevoli?

Assolutamente sì! Dove c’è una persona, lì c’è uno storyteller. Solo che è talmente naturale questo modo di essere, che è inconsapevole come il battito del cuore o il respiro. Il mio compito è risvegliare questa consapevolezza, in modo che tutti possano valorizzare la loro identità, orientarsi nella vita, promuovere ciò che fanno e realizzare i loro obiettivi.

-Al corso hai anche parlato dello storytelling utilizzato per scopi terapeutici, ad esempio negli hospice. E’ qualcosa che mi ha colpito molto, potresti spiegarci meglio in cosa consiste?

Già da tempo si parla di Medicina Narrativa, anche in Italia, ed è la possibilità di far esprimere (narrare) i propri vissuti ai pazienti, e spiegare o affiancare i pazienti in percorsi di cura con un approccio narrativo, da parte del personale medico. La mia esperienza è consistita nell’introdurre lo storytelling autobiografico nelle cure palliative per pazienti terminali, per far sì che, raccontando e “rileggendo” la propria storia, ciascuno di loro potesse accorgersi del disegno unico e speciale che la propria esistenza aveva avuto, così da darle un senso e poterla chiudere con più serenità.

-La serenità che trasmetti come si concilia con la tua indole da esploratrice “Into the wild”?

Si capisce che non sei mai stata in macchina con me… lì la mia serenità scompare e mi trasformo in Hulk! A parte gli scherzi, ho avuto il grandissimo privilegio di avere quelli che io chiamo “Maestri di vetro”. Li ho incontrati nei primi lavori che ho fatto dopo l’Università, erano ospiti di comunità per schizofrenici cronici e malati d’aids terminali. Loro mi hanno insegnato tutto quello che importa sapere: che la vita è una, che ogni giorno è l’ultimo, che tutto cambia, che il successo o la fortuna non si misurano in banca ma derivano dall’apprezzare ogni più piccola gioia, che ciò che per te è sacrosanto e giusto, è assurdo e sbagliato un metro più in là… e anche di questo bisogna saper farne un valore.

– Ci spiegheresti in pochissime parole “Il viaggio dell’eroe”?

Il Viaggio dell’Eroe è un format narrativo, sul quale sono state costruite tutte le più grandi storie del mondo, della mitologia, delle religioni ma anche del cinema e della letteratura. Parla dell’Uomo e dell’arco di cambiamento e possibile) evoluzione che ciascuno di noi fa nella vita, e nella singola giornata. Insegna che nulla di importante accade nelle proprie zone di comfort, ma è solo mettendosi in viaggio (reale o metaforico), incontrando aiutanti e ostacoli, che abbiamo la possibilità di scoprire il nostro reale sé, il tesoro interiore, e riportarlo al punto di partenza, affinché tutti possano beneficiarne, oltre a noi.

-Ora a che punto del cerchio ti trovi?

Ognuno di noi ha tanti cerchi del Viaggio attivi, contemporaneamente. Uno per il lavoro, uno per l’amore, uno per la salute… davvero tanti. Rispetto allo storytelling, per un punto di vista sono alla fase del tesoro, perché ho chiaro cosa devo fare di ciò che so e ho imparato in questi anni, cosa devo fare per me E per gli altri. Ma qui comincia un nuovo Viaggio.. che sarà ricco di ostacoli, conflitti, prove da superare e fate pronte a darmi un aiuto, ma solo quando aderirò così totalmente al viaggio, da non prevedere la possibilità di arrendermi e tornare indietro.

-Se dovessi scegliere tra “ C’era una volta” e “E vissero felici e contenti”?

Sono molto proiettata verso il futuro, quindi starei sull'”e vissero”. “E vissero” mi basta, “felici e contenti” per l’eternità mi sembra un incubo…aggiungiamo anche “nostalgici, disperati, folli, sognatori”… tutto quanto cirende meravigliosamente tridimensionali!

– Francesca in una citazione:

La mia preferita di questo periodo è: “Tutte le cose sono connesse le une alle altre, e sacra è la loro connessione”. È di Marco Aurelio, ogni volta sono scioccata di quanto avesse già detto tutto lui.

-Francesca in una sola parola:

Libera.

– Francesca in uno sbaglio:

Come, solo uno??? Ma ne ho fatti un sacco, altrimenti non sarei potuta cadere in ginocchio e trovare pepite d’oro proprio lì dov’ero.

-Francesca è stata, è, sarà…?

Una persona uguale a tutte le altre, che sta scrivendo (nel viverla) la sua storia, cercando di avere più pagine belle possibili, e di far tesoro di quelle che si sono strappate.

 -Dove possono contattarti i nostri lettori?

www.francescamarchegiano.com lì ci sono anche i link ai social o la mia mail.

Grazie mille Francesca, o come ti firmi tu… Fra.

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

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Ps. Un ringraziamento a  Ninja Academy che si è affidata a Francesca per un corso che ancor prima di cambiare il mio modo di lavorare, ha cambiato il mio modo di essere.

 

Oriana Fallaci: Prima di tutto Scrittore

Ogni persona libera, ogni giornalista libero, deve essere pronto a riconoscere la verità ovunque essa sia. E se non lo fa è, nell’ordine: un imbecille, un disonesto, un fanatico. Il fanatismo è il primo nemico della libertà di pensiero. E a questo credo io mi piegherò sempre, per questo credo io pagherò sempre: ignorando orgogliosamente chi non capisce o chi per i suoi interessi e le sue ideologie finge di non capire. 

(dalla lettera agli studenti della scuola Rosselli di Marina di Carrara)

Chi era Oriana Fallaci? Chi era la donna che ha cambiato il significato e l’essenza stessa della parola Donna?

Oriana Fallaci lascia la Facoltà di Medicina dopo averla frequentata per poco tempo, non per mancanza di tenacia, ma per la più grande predisposizione naturale che sente dentro di sé: la passione che la porta a scrivere. Quella stessa che la porta a ricercare, capire, voler comprendere le vicende che la circondano. La scrittura invade le sue giornate, le sue notti passate a cercare di rifiutare il sonno tra una sigaretta e l’altra. Non smette mai di scrivere affermando le sue opinioni, difficili da comprendere per chi è diplomatico per natura.
Oriana delinea un’enorme se stessa nei suoi pregi e nei suoi – se così si possono chiamare – difetti. Di un personaggio che ha cambiato le concezioni storico-sociali del ‘900, per potervi partecipare fino in fondo non soltanto da spettatore, ma soprattutto da protagonista.

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Nulla la disegna meglio di quello che ci hanno lasciato le sue mani unite all’affezionata Olivetti. Sì, anche in questo è grande: scrive sentendo il suono dei tasti sotto le sue dita, facendosi chiamare “scrittore” anziché scrittrice.
E’ l’affermazione della sua passione che sembra venire prima di se stessa che la rende unica; lei che arriva a pesare trentasette chili pur di dividersi tra gli studi universitari e il continuare a mettere giù le parole nel modo più autentico possibile. Solo la passione ci rende autentici, perché ci porta a diventare quello che vorremmo fermamente.
E lei nello scrivere era capace di delineare se stessa, proprio come nelle sue interviste è sempre riuscita a delineare i suoi interlocutori.

– È strano, signora Magnani: lei ha un carattere così virile, dice sempre di stimare più gli uomini che le donne, «perché io accetti una donna bisogna che essa abbia una dignità e un carattere quasi maschile», e poi parla come se avesse degli uomini una considerazione minuscola – 

– Guardi, non ne ho nessuna. Il fatto è che le donne come me si attaccano solo agli uomini con una personalità superiore alla loro: ed io non ho mai trovato un uomo con una personalità capace di minimizzare la mia. Le donne come me subiscono solo gli uomini capaci di dominarle: ed io non ho mai trovato nessuno che fosse capace di dominarmi. Ho trovato sempre uomini, come definirli? Carucci. Dio, si piange anche per quelli carucci, intendiamoci, ma son lacrime da mezza lira – 

Se mi chiedessero quanto sarei stata disposta ad offrire per partecipare a quest’intervista, avrei risposto semplicemente “una cifra che non saprei quantificare”.
Oriana Fallaci esprime un’estrema grandezza nel tracciare esattamente il profilo dell’intervistato, chiunque sia; non solo nel ricercarne i caratteri, quanto piuttosto nel riuscire a delinearlo come se lo conoscesse da tempo e non soltanto da cinque minuti. Mi riferisco ad Oriana Fallaci che lascia parlare Anna Magnani da donna a donna, mi riferisco a due personaggi che non hanno mai avuto bisogno di affermarsi attraverso le parole, perché erano in grado di esprimersi anche soltanto tramite il loro modo di essere. Parlo di autenticità mischiata all’ironia, per descriverle fino in fondo.

Troppe volte di un grande personaggio si estremizzano i lineamenti più ostici: emerge ciò che non è, una natura che non corrisponde completamente al vero. Forse perché quello che trasmette un grande personaggio è puramente soggettivo, forse perché ognuno di noi riesce a coglierne tratti estremamente diversi. Nella fiction in due puntate andata in onda su Raiuno diretto da Marco Turco, vediamo una Fallaci costantemente arrabbiata, invasa continuamente da impeti di rabbia, più che dalla sua tenacia.
Leggere Un uomo, piuttosto che Lettera ad un bambino mai nato significherebbe discostarsi completamente da quella visione: leggendo soltanto due dei suoi libri risulta chiaro come una donna forte sia anche capace di amare tanto se stessa quanto un’altra persona. Quanto una donna indipendente sia in grado di provare il desiderio di maternità, il desiderio di diventare madre, un desiderio che è insito nella natura femminile stessa.

A chi non teme il dubbio
a chi si chiede i perché
senza stancarsi e a costo
di soffrire di morire
A chi si pone il dilemma
di dare la vita o negarla
questo libro è dedicato
da una donna
per tutte le donne.

E’ sufficiente la dedica iniziale per capire il livello di comunicazione ed empatia che unisce Oriana ad ognuna di noi: la comune essenza di essere donna, con tutto quello che ne comporta. Quante e quali domande si pone una donna che porta in grembo un figlio?
Troppe. Una donna lo sa quanto sarà difficile il mondo di oggi, quanto sarà difficile crescere una creatura che non ha colpe per tutto quello che dovrà affrontare. E’ conscia del fatto che non esiste una manuale di istruzioni con cui ci sarà un modo giusto di indicare una strada piuttosto che un’altra; sente il figlio come se stessa, per quanto non si veda mai abbastanza preparata.

Perfino lei, che preparata lo era sempre. Lei, che alla vita non ha mai detto no – fino alla sua estrema essenza – nella sua determinante battaglia contro l’Alieno.
Lei che aveva visto la Guerra del Vietnam, perché l’aveva vissuta. Lei che aveva visto la città di Beirut devastata e assediata, in cui la morte si riversava in ogni sua forma.
Oriana che era capace di non vedere soltanto le bombe, ma prima di tutto le persone, cogliendo le espressioni di chi ogni giorno temeva di non arrivare all’ora successiva, non sapendo se avrebbe abbracciato ancora una volta i suoi cari, la sua terra, la sua vecchia e rassicurante vita. In una delle sue interviste le era stato chiesto se avesse paura della guerra, essendo stata la più grande inviata di quegli scempi nel ‘900 .

Chi dice di non avere paura della guerra è un cretino o un bugiardo.

Così risponde, soffermandosi poi sul fatto che l’unica possibilità per affrontare la paura che si ha per la guerra è superarla. Limite e possibilità, oserei dire.
Nonostante dopo la pubblicazione di Insciallah del 1990 avesse scelto di trasferirsi definitivamente a Manhattan, estremamente tenace nella sua guerra personale contro quella malattia che ogni giorno la consumava e rendeva un po’ più forte al tempo spesso, il suo spirito indomabile non le permise di rimanere indifferente all’attentato dell’11 settembre 2001.
Dapprima in un lungo articolo apparso sul Corriere della Sera il 29 settembre 2011, poi ne La rabbia e l’orgoglio – che era solita chiamare un “piccolo libro” – Oriana affrontava la tematica del fondamentalismo religioso: un argomento in cui riusciva ad essere completamente se stessa, senza cadere in ciò che avrebbe dovuto essere politicamente corretto. Un argomento particolarmente scomodo che si preferiva non affrontare, ma che lei si sentì di esprimere – come sempre – a modo suo.
Autenticamente suo.

Il puzzo della morte entrava dalle finestre, dalle strade deserte giungeva il suono ossessivo delle ambulanze.

Proprio lei che sentiva ogni giorno la morte sempre più vicina, odiava sentire quella delle persone. Odiava coglierla nell’aria, odiava coglierla nel fanatismo, odiava respirarla. Aveva sempre cercato di raccontarla, come aveva sempre cercato di esprimere ogni cosa di se stessa. Ogni pensiero o emozione, per quanto fossero estremi e poco condivisibili, erano il lato di chi ama vivere appieno la vita, di chi non è mai stato peccatore di aver trascorso un solo minuto a sopravvivere.

Apro la mia boccaccia. […] E dico quello che mi pare.

Ecco ciò che dice di sé nella sua ultima intervista concessa al New Yorker Oriana Fallaci. Lei che, fino alla fine, ha sempre cercato di fare quello che voleva. Lei che voleva morire nella sua Firenze, pur avendo amato e vissuto come cittadina del mondo.

Sulla sua lapide, soltanto tre parole: Oriana Fallaci. Scrittore.

Cecilia Coletta

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Il romanzo giallo: intervista a Giuliano Pasini

Per scrivere bene, in versi come in prosa, niente eguaglia l’avere davvero qualcosa da dire.

Paul Brulat

Giuliano Pasini, nato a Zocca, nel cuore dell’Appennino emiliano, da quasi quindici anni vive a Treviso, dove si occupa di comunicazione e scrive.

Il suo primo romanzo è Venti corpi nella neve, ambientato a Case Rosse, un minuscolo borgo nell’Appennino tosco-emiliano e sede del commissariato più piccolo d’Italia, diretto da Roberto Serra. Non succede mai nulla fino alla notte del Capodanno del 1995, quando una telefonata sveglia l’agente Manzini in piena notte: ci sono tre cadaveri al Prà grand, uccisi senza pietà. Per il commissario comincerà un’indagine che lo porterà a rivivere il passato del luogo in cui si è rifugiato e ad affrontare i demoni che albergano in lui.

Nel 2013 torna Roberto Serra con Io sono lo straniero. Il commissario ha lasciato Case Rosse per rifugiarsi sulle colline del prosecco, a Termine: quattro case, tre strade, una chiesa, un cimitero e intorno solo vigneti. La vita di Roberto scorre lenta fino a quando, un giorno d’inverno dove incontra Francesca, una ragazza eccentrica e disperata che vuole convincerlo ad indagare su una giovane sparita nel nulla. Inizialmente il commissario non ne vuole sapere, godendosi la serenità ritrovata fra i vigneti, ma davanti a lui si delinea una scia di scomparse misteriose: tutte donne, tutte giovanissime, tutte straniere. Invisibili per la procura, per la polizia, per la gente. Roberto non può più scappare ed è costretto ad affrontare un’indagine che lo porterà a scrutare le acque nere dei laghi nascosti tra i vigneti, a scoprire che un passato irrisolto può allungare le sue dita fatali fino al nostro presente…

Il prossimo romanzo di Giuliano Pasini, terza avventura di Roberto Serra, vedrà la luce nel 2015.

Dal 2013 Pasini è presidente della giuria del Premio Letterario Massarosa, sommelier AIS per giustificare il suo amore per il vino ed ex maratoneta.

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Il suo lavoro principale non è quello dello scrittore, giusto? Come ha iniziato a dedicarsi alla scrittura?

A me scrivere è sempre piaciuto moltissimo, ero uno di quei ragazzini che se dovevano dichiararsi ad una ragazza mandava una lettera, con esiti disastrosi. Nonostante quello ho continuato a scrivere, senza però trovare mai la costanza di mettere in fila le cose che scrivevo. Ho assistito qualche anno fa ad una presentazione di Loriano Macchiavelli, il padre di tutti noi che proviamo a fare i giallisti in Italia. Lui diceva che lo scrittore è un lavoro di ufficio: ci alza, alle 9 ci si siede alla scrivania fino alle 13, pausa pranzo e poi scrive di nuovo. Quando mi sono trasferito a Treviso, che per me è stata decisiva, avevo più tempo, non ero nella mia città di origine, non avevo il mio gruppo di amici. Allora mi sono chiesto come investo il tempo? Finalmente mi sono messo a scrivere una storia in fila. Dopo parecchio tempo sono arrivato a quello che poi è diventato Venti corpi nella neve, l’ho fatto leggere alla donna che nel frattempo è diventata mia moglie, mi ha detto che faceva schifo, io me la sono presa ma non ho divorziato perché mi sono reso conto che aveva ragione lei e c’ho lavorato ancora per molto tempo, fino a quando ho trovato il concorso IoScrittore del Gruppo editoriale Mauri Spagnol. Un concorso interessante perché si poteva inviare il proprio dattiloscritto con uno pseudonimo: gli altri concorrenti leggevano il tuo scritto e ricevevi giudizi senza che nessuno sapesse chi eri veramente. Io mi sono iscritto appunto per questo, ma sono arrivato alla fine del concorso e mi hanno pubblicato il libro in e-book con il titolo Giustizia dei martiri. La vendita, per quanto nel 2010 si parlasse ancora di numeri piccolissimi per gli e-book, è andata bene ma nessuna delle case editrici del Gruppo ha voluto pubblicare il cartaceo. Ho cercato io stesso un editore trovando Fanucci Editore che, nonostante abbia molto fiuto nel trovare talenti, nel gennaio 2012 mi ha pubblicato Venti corpi nella neve. Il libro è entrato in classifica la prima settimana ed è andato benissimo. Da questo punto c’è stata un’accelerazione enorme: Mondadori ha letto il libro, gli è piaciuto e mi ha chiesto di lavorare ad un progetto su due romanzi con lo stesso protagonista. A marzo del 2013 è uscito Io sono lo straniero e a marzo 2015 uscirà quello nuovo.

Si aspettava così tanto successo?

No, assolutamente. Soprattutto nel periodo in cui è uscito Venti corpi nella neve quando era stata pubblicata una recensione molto positiva sul Corriere della Sera, avevo preso il quotidiano e leggendo l’articolo pensavo parlasse di un mio omonimo. Amo moltissimo la lettura, quindi dall’altra parte mi sentivo completamente spaesato. È anche difficile pensarlo perché non faccio lo scrittore di mestiere: dal lunedì al venerdì svolgo il lavoro di ufficio e negli altri momenti cerco di immedesimarmi nel mio mondo. Per riuscire a completare gli altri romanzi dovevo scrivere tutti i giorni alle 5 del mattino e a volte è veramente difficile, quando sono le 7, uscire dal mondo finto dei personaggi (in particolare lo è stato per il terzo romanzo perché è un mondo che non ho mai vissuto, al contrario del primo e del secondo ambientati in luoghi in cui sono nato e vivo) per mettermi giacca e cravatta e andare in ufficio.

Le piacerebbe che la scrittura diventasse il suo unico lavoro?

Allo stesso modo in cui mi piacerebbe fare sei al SuperEnalotto!

Vuole parlare dei suoi romanzi?

Sono tutti gialli con un forte radicamento nella storia. A me piace moltissimo il giallo perché è un genere contenitore, ci puoi mettere qualsiasi cosa. L’importante è che si costruisca questo contenitore nel modo giusto, con tutti gli elementi, perché il lettore si deve ritrovare e se manca un elemento. O sei bravissimo, ma ne conosco pochi di autori in grado di togliere ad esempio la scoperta del colpevole lasciando un finale aperto, o la storia non funziona. Quindi all’interno del giallo si può inserire una storia cupa o leggera, con cattivi o meno, con riscatto o senza riscatto; davvero qualsiasi cosa. Il mio obiettivo è quello di scrivere dei libri che, oltre a far divertire con 200 pagine, dopo averli chiusi facciano pensare alla storia che c’è sotto, anche solo per un minuto. Nel mio primo romanzo parlo della storia della Resistenza, dell’assurdità della guerra, in quello che comporta e delle ferite che lascia aperte dopo cinquant’anni; nel secondo, invece, di quanto sia pericoloso instillare nella gente l’idea che ci siano delle persone superiori ad altre per puro diritto di nascita, perché nella storia dalle parole poi si passa ai fatti, com’è successo davvero e continua a succedere; nel terzo romanzo il tema forte sarà quello della malattia mentale, del chi è matto. In un mondo di matti, c’è qualcuno di sano? I malati mentali sono stati considerati per molti secoli messaggeri degli Dei, perché riuscivano a vedere cose che noi non vedevamo e che l’uomo normale non capiva. Invece successivamente da un certo punto molto recente della storia sono stati rinchiusi in uno spazio ben definito.

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Ha qualche consiglio da dare ai giovani che aspirano a diventare scrittori?

Ho visto cos’è stato utile per me: la costanza. Avevo un’idea della scrittura che fosse la folgorazione sulla via di Damasco: ti viene un’idea e l’impulso irrefrenabile di metterlo sulla carta in quel momento e modo precisi altrimenti scappa, delle volte succede. Invece adesso è metodo, mestiere; avere la costanza ogni giorno di andare avanti. Io ho fatto tutti gli errori che un esordiente poteva fare. Per scrivere il primo romanzo ho impiegato cinque anni, per il secondo e il terzo due, perché inizialmente non avevo metodo, non facevo la scheda dei personaggi e non avevo nemmeno un’idea della trama, convinto che la scrittura fosse qualcosa di molto istintivo quando in realtà coinvolge molto di più la testa. Il mio consiglio è di prepararsi ad usare la testa per fare una cosa che comunque è tanto cuore. Ma testa, metodo e costanza sono essenziali. Il talento, credo, sia solo sudore e fatica.

Nella tradizione antica era l’oralità il mezzo di comunicazione preminente rispetto alla scrittura, oggi sembra che si abbia più ‘coraggio’ con la parola scritta. Secondo lei perché c’è stata questa lenta ma incessante inversione di marcia?

Sinceramente, come direbbe la mia professoressa di matematica delle superiori, è come paragonare mele e pere. Impossibile “pesare” scritto e orale paragonando civiltà in cui la capacità di scrittura era dominio di una ristrettissima élite e civiltà in cui è diventata la più popolare e democratica delle arti. Questo per tacere dell’impatto della tecnologia sulla vita dell’uomo. Siamo sicuri che se gli antichi greci avessero avuto Internet si sarebbero comportati diversamente da noi? Se invece ragioniamo in termini di funzione, mi spingerei a dire che la funzione dell’oralità della tradizione antica non era molto diversa dall’attuale funzione della parola scritta: portare notizie e conoscenze al pubblico più vasto possibile. Cambia solo il mezzo.

Uno dei limiti dello ‘scritto’ è quello che da solo non può scegliere i suoi interlocutori, non può difendersi da chi lo attacca e quindi ha sempre bisogno del soccorso del suo autore: è così anche per gli scrittori di gialli?

Diciamo che nei romanzi c’è abbastanza segmentazione: difficilmente un lettore acquista un giallo senza sapere che è un giallo, a meno che l’editore non abbia giocato sporco con titolo e copertina. Detto questo, l’autore non dovrebbe mai andare in soccorso della sua opera, è come spiegare una barzelletta: se dopo che l’hai raccontata, serve che tu fornisca l’interpretazione, significa che è venuta male. Così le storie che si scrivono.

Cosa pensa della Filosofia oggi? Per lei può essere uno strumento utile di riflessione per le nuove generazioni nel campo lavorativo e nella vita di tutti i giorni?

Ho fatto studi classici, per cui trovo utile tutto ciò che “apre la mente” delle persone. Per la vita di tutti i giorni, quindi, è uno strumento formidabile, ed appassionante per chi lo studia. Per ciò che concerne l’ambito lavorativo, però, la sfida dei laureati in filosofia è particolarmente difficile. Ovviamente oggi sono molto più richieste competenze tecniche e specializzate.

Con molte probabilità la nascita del genere giallo si può far coincidere con la pubblicazione, nel 1841, de I delitti di via Morgue di Edgar Allan Poe, in cui compare Auguste Dupin, la cui deduzione è talmente elevata da riuscire a risolvere i casi leggendo solamente i resoconti giornalistici. È sicuramente questo il personaggio a cui si rifà Arthur Conan Doyle nel creare il ben più famoso Sherlock Holmes, protagonista di Uno studio in rosso (1887), presumibilmente il primo romanzo giallo pubblicato. Da allora il genere ha conosciuto sempre più fortuna, numerosi sono gli autori che con esso hanno raggiunto fama mondiale: Agatha Christie, Georges Simenon, Raymond Chandler e Dashiell Hammett, fino ai giorni nostri e alle opere di James Ellroy, Ken Follett, Andrea Camilleri, per citarne solo alcuni. Ma la definizione giallo si utilizza solamente nella lingua italiana e ciò si deve alla collana Il Giallo Mondadori, ideata da Lorenzo Montano e pubblicata da Arnoldo Mondadori a partire dal 1929. Caratteristica di questa edizione sono, appunto, la copertina di colore giallo, che è diventata simbolo del genere stesso.

Il romanzo poliziesco ha prodotto peggiore letteratura che ogni altro genere di narrativa, salvo il romanzo d’amore, e probabilmente migliore letteratura che qualsiasi altra forma letteraria largamente accettata e apprezzata.

Così una volta scrisse Raymond Chandler e queste sue parole fanno pensare a quelle che spesso Giuliano Pasini si sente dire:

Tu, per essere un autore di gialli, non scrivi male.

Chandler morì nel 1959, ma questa frase fa capire come ancora oggi permangano gli stessi pregiudizi. Non tutta la letteratura ha ancora accettato il fatto che il giallo non sia un genere letterario subalterno, ma un filone più vivo che mai. Come ogni altro genere il poliziesco ha al suo interno opere eccellenti come pessimi esemplari. Ma poche correnti narrative hanno mostrato una vitalità pari a quella del racconto giallo. Un’inesauribile disponibilità a contaminarsi con altri generi, anche i più “alti”. E chi non è convinto di ciò dovrebbe pensare a due esempi del nostro recente passato: Sciascia e Gadda, che scelsero la forma del romanzo poliziesco per partorire dei capolavori della letteratura italiana.

La verità profonda, per fare qualunque cosa, per scrivere, per dipingere, sta nella semplicità. La vita è profonda nella sua semplicità.

Charles Bukowski

La verità profonda per fare qualunque cosa sta nella passione per quella determinata cosa che si intende realizzare: la passione muove la nostra vita e tutto permette di realizzare, come diceva Hegel

Niente nel mondo è stato fatto senza passione;

come ci ha dimostrato in questa intervista Giuliano Pasini che con costanza, determinazione e appunto passione ha realizzato il sogno di una vita.

Grazie Giuliano, è sempre un piacere parlare con lei!

Potete seguire i pensieri dell’autore sul suo blog personale www.giulianopasini.it.

Ilaria Berto

[Immagini a cura di Monica Conserotti]