Non si vive senza gli altri. Per una cultura dell’incontro

«Una certa “saggezza” ci trae in inganno sulla pace quando, per salvaguardare le apparenze dell’intesa, ci nasconde la realtà delle tensioni o coltiva l’indifferenza come condizione della tranquillità. […] Nel primo caso è un calmante, nel secondo un astensionismo» (M. de Certeau, Il tempo dei conflitti, in “Paris-Match”, 20 aprile 1963).

La pace, invece, chiama in causa, richiede l’assunzione di responsabilità e, soprattutto, evoca e riconosce l’eterogeneità per rivelare e accogliere anche ciò che di “altro” c’è nell’altro. A distanza di quasi sessant’anni dalla pubblicazione de Il tempo dei conflitti, la forza visionaria delle parole dello storico, linguista e antropologo francese Michel de Certeau, e la sua lettura della storia, rimangono invariate e continuano a interrogare.

A cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, stagione di lotte rivoluzionarie e reazionare, il gesuita francese in quell’articolo offrì in particolare un contributo significativo per ripensare il conflitto nel suo valore simbolico, condannandone violenza e livore ideologico. Per lui il conflitto non è un momento palingenetico e di dinamismo storico, è bensì innanzitutto la concreta esperienza di un limite che, in una visione esistenziale e comunitaria, è rappresentato dal «reciproco rispetto».

«Esistere – scrive – significa ricevere da altri l’esistenza, ma significa anche, uscendo dall’indifferenziazione, provocarne le reazioni; vuol dire essere accettati e aderire a una società, ma anche prendere posizione nei suoi confronti e incontrare dinanzi a sé, come un volto illeggibile e ostile, la presenza di altre libertà» (ibidem).

Non si vive senza gli altri. E non si vive neppure fuggendo dal confronto con gli altri.
In questa prospettiva, il conflitto appare quasi come inevitabile e irriducibile. È una iniziazione all’esistenza di sè e dell’altro. È un principio dinamico in vista di un incontro, di una conoscenza reciproca e della possibile convivenza. Lo s-contro è, invece, afflitto da un determinismo oppositivo. Quella “s” funziona quasi come un acceleratore dell’impatto, lo rende ineluttabile. È la logica del far prevalere la propria idea e la propria esistenza sugli altri. Un assoluto che in quanto tale non conosce limiti. Lo scontro è nutrito da un delirio narcisista che priva la storia di eteronomia e dell’esperienza dell’incontro. Questo è il passaggio determinante e decisivo verso la fine di tutto.

Lo spettro della bomba atomica – che ritorna oggi a minacciare e a sovrastare i nostri orizzonti ricordandoci che il genere umano ha la piena possibilità di distruggere se stesso – cristallizza questa follia. Lo scontro è la cifra di questo nostro tempo. Un atteggiamento divisivo che il politologo statunitense Samuel Phillips Huntington (1927-2008), definiva «scontro di civiltà», ma che coinvolge anche i micro-sistemi. Lo scontro spezza la trama di relazioni, le divide, le separa, le inganna, le logora, le ammalora; le mina nei legami, nei vincoli di fiducia; le alimenta di sospetto, le rende confuse, equivoche, competitive, irresponsabili, liquide.

Ci siamo avvicinati a un limite oltre il quale fare un passo in avanti equivale a sprofondare nell’abisso: come ci si orienta in questo contesto?
Non penso ingenuamente a un mondo pacificato senza conflitti o contrasti, ma a un mondo che sperimenti la possibilità e l’opportunità di una “cultura dell’incontro” nella quale il principio dinamico siano il dialogo e non la violenza; il riconoscimento e non il predominio; l’alterità e non l’omologazione.

Una lucida agenda di lavoro, in questo senso, è proposta da Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti. Il nucleo centrale del testo è rappresentato dalla fratellanza e dall’amicizia sociale che, nel lessico politico, trovano il loro corrispettivo nella parola “interdipendenza”. L’idea dell’interdipendenza fra persone e popoli e l’immagine profetica della fratellanza e dell’amicizia sociale (non come sentimenti, bensì come dati di fatto), capovolgono la logica dell’apocalisse oggi imperante – una logica che, abbiamo detto, annulla il mondo – e diventano un forte messaggio di libertà, corresponsabilità, uguaglianza e giustizia. Scrive Antonio Spadaro su La Civiltà Cattolica: «La fratellanza non brucia il tempo né acceca gli occhi e gli animi. Invece occupa il tempo, richiede tempo. Quello del litigio e quello della riconciliazione. La fratellanza “perde” tempo. L’apocalisse lo brucia. La fratellanza richiede il tempo della noia. L’odio è pura eccitazione. La fratellanza è ciò che consente agli eguali di essere persone diverse. L’odio elimina il diverso. La fratellanza salva il tempo della politica, della mediazione, dell’incontro, della costruzione della società civile, della cura. Il fondamentalismo lo annulla in un videogame» (A. Spadaro, Fratelli tutti. Una guida alla lettura, 4088, 2020, IV).

 

Massimo Cappellano

 

[Photo credit Warren Wong via Unsplash]

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La potenzialità segreta dello scontro secondo Hegel

Scorrendo qualche riga di filosofia hegeliana, può accadere che ci venga in mente la seguente immagine: un soldatino che forte della sua armatura si contrappone al mondo, brandendo fieramente la spada. Pur essendo una scelta forse singolare per rappresentare il sistema del celebre pensatore tedesco, ne suggerisce perlomeno un concetto chiave: la necessità dello scontro nel processo di compimento della Tesi.

Questo particolare aspetto può rievocare a tratti la trama travagliata ma a lieto fine delle favole di quando eravamo bambini: ci è presentata inizialmente una piccola Tesi ignara del mondo circostante che, quando si stufa di giocare nella sua campana di vetro e decide di sfondarne le pareti, per la prima volta viene a contatto con la durezza e l’asperità della realtà. Costretta a fronteggiarsi con forze avverse, Tesi determina finalmente se stessa attraverso la sua Antitesi. Per la coppia protagonista, e per tutte le altre che analogamente si combattono, è guerra aperta: in una violenta contrapposizione, ogni tesi è negata dal suo contrario e costretta a un costante confronto-scontro per rivendicare la propria identità. Ciononostante una volta che tali scontri saranno terminati, ogni tesi scoprirà una sé dall’autoconsapevolezza e forza rinnovate.

Immaginiamo di convertire la visione di quelle piccole tesi che si negano reciprocamente in una folla brulicante di esseri umani, ciascuno intento a scoprire e a difendere la propria strada: se si ripetesse la favola hegeliana?
Qualcosa che inizialmente appariva puramente astratto – il sistema cardine dell’idealismo – si rivela fecondo di insegnamenti oggi, io credo, particolarmente importanti: è differente una relazione significativa da una che invece è solo passeggera, magari fondata su un mutuo interesse utilitario? È possibile smantellare il mito che ritiene valide solo le relazioni sempre armoniose, pacifiche? E se l’armonia non coincidesse con un percorso perennemente lineare ma assomigliasse, invece, a un sentiero faticoso e irto di spine?

La risposta affermativa di Hegel sembrerebbe condensarsi proprio nella figura triplice della Tesi, dell’Antitesi e della Sintesi: i rapporti veri nascono dallo scontro con l’altro e sono sempre fertili, dove “fertile” esprime un apprendere costante, e dove “apprendere” è contemporaneamente assorbire e trasmettere.
L’autentico rapporto umano è dunque uno scontro-scambio, in cui l’urto di partenza sfocia in un “aggancio spirituale” dei soggetti interagenti, ma la fusione finale è paradossale, in quanto si realizza nella lacerazione personale: confrontarci con la realtà esterna è frantumare la campana di vetro. Possiamo intraprendere un reale percorso di rafforzamento interiore solo nel momento in cui accettiamo di squarciare le nostre sicurezze e le nostre difese e di metterci in discussione da capo a piedi, una volta e un’altra volta ancora, per poter accogliere ciò che di vivo e di arricchente ci offre il mondo circostante e infondere in esso ciò che di unico dentro di noi custodiamo.

Immaginiamo un contesto distopico nel quale un bambino viene chiuso fin dalla nascita in una stanzetta, senza venire mai a contatto con la realtà esterna: egli non ha stimoli fisici di nessun tipo, è completamente abbandonato alla sua interiorità. Come, cosa sarebbe dieci anni dopo? O venti, o quaranta? Che persona sarebbe sul punto di morire? Io credo un guscio vuoto: un seme cavo e spoglio, insanabile.
Le relazioni interpersonali sono ciò che ci sostanziano, perché in esse definiamo la nostra identità: che esse avvengano per lo più attraverso lo schermo di un computer, le pagine di un libro o di persona, rimangono fondamentali per la nostra evoluzione spirituale; e il loro contributo, sia esso positivo o negativo, si rivela determinante nell’alimentare un processo interiore che non ha mai fine e che si rinforza di ogni singolo contatto, fisico e non fisico.

Ogni contatto con l’esterno ci consente di sopravvivere, ma quello che ci pungola alla vita – perché ci spinge a lottare per noi stessi e a sviluppare ed affermare la nostra identità – è il tipo di relazione rappresentato da Hegel: la relazione-conflitto. Con essa il filosofo si riferisce non ai conflitti di per sé, come le guerre o i genocidi, ma alla lotta minuta e personale che si instaura tra due esseri umani all’interno di una relazione neofita o anche già consolidata.
La filosofia di Hegel ci suggerisce che il conflitto con la vita e più in generale con le persone che ci circondano sia un’indispensabile base di crescita. Aprirci all’altro e costruire una relazione significativa implica sì la lotta – e le ferite di quella lotta, e il dolore di quelle ferite e il tempo del loro rimarginarsi – ma non esisterebbero maturazione personale o arricchimento reciproco, non esisterebbe Sintesi senza il rinnovamento quotidiano del confronto con la realtà esterna e la puntuale rimessa in discussione di noi stessi.

 

Cecilia Volpi

 

[Photo credit drown_ in_city via Unsplash]

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La neutralità del conflitto

In questi giorni il mondo ha di nuovo volto il suo sguardo verso il Medio Oriente, verso un conflitto che ancora non ha trovato pace: quello israelo-palestinese.

Sicuramente la cosiddetta crisi della Spianata ha origini ben pregresse, ovvero non è iniziata quel fatidico giorno del 14 luglio scorso, bensì ben prima.

Il mondo, in tutto questo tempo, ha deciso di allontanarsi da quella crisi, quando forse si sentiva troppo stanco per poter trovare una via di fuga e una soluzione.

La crisi potrebbe essere identificata in quel processo di normalizzazione che porta all’abituarsi di una situazione che normale non è. La normalizzazione, infatti, può essere intesa come un processo in cui relazioni – politiche, economiche, sociali, culturali – assumono un carattere “normale” appunto.

La riflessione che voglio portare avanti coinvolge proprio il concetto di conflitto.

Quando si pensa ad esso le immagini che vengono a delinearsi nella nostra mente sono il più delle volte immagini negative: scontro, rottura, trauma, guerra, violenza. Consideriamo, pertanto, il conflitto come qualcosa da evitare. Eppure, il conflitto in sé è un qualcosa di neutrale e ciò che lo porta ad essere negativo o positivo sono i meccanismi e le forme che vengono usate per affrontarlo.

È inoltre importante tenere a mente che esso è parte inevitabile della vita sociale da un lato e della sfera individuale dall’altro. Quante volte siamo stati in conflitto con noi stessi? Non è stato forse un motivo di crescita?

Così, “prevenire i conflitti”, nel senso di non affrontarli ed evitarli, possiede connotazioni decisamente negative. Invece, se intendiamo il concetto di “prevenzione dei conflitti” come uno sviluppo di abilità, atteggiamenti e comportamenti indirizzati alla risoluzione di conflitti in modo costruttivo, la connotazione che assume è positiva. Questo significa che lo sviluppo delle capacità e strategie che consentono di affrontare il conflitto stesso e impedirgli di giungere alla sua fase critica siano estremamente utili e necessarie.

È possibile quasi individuarne una struttura, la quale si compone di tre elementi: le cause, i protagonisti e il processo.

Potremmo, infatti, attribuire alle cause di un conflitto: le ideologie e le credenze, le relazioni di potere, gli aspetti personali e i rapporti interpersonali. Gli attori in gioco il più delle volte sono minimo due. E poi arriviamo al processo che si riferisce al modo in cui si sviluppa e si porta a risoluzione.

Detto ciò, sarebbe bello avere la “ricetta” per risolvere ogni tipo di conflittualità, dal personale a quello tra Stati e organizzazioni, ma non può essere così.

Quel che conta è non eluderlo, affrontarlo è dunque il primo passo per poter arrivare ad una soluzione.

L’atteggiamento che il mondo ha assunto in questi ultimi anni nei confronti della crisi israelo-palestinese non è stata sicuramente quella di sviluppare strategie risolutive. Il togliere dall’agenda tale tematica, sostenendo l’idea che Gerusalemme non fosse un problema globale – probabilmente c’è chi lo pensa tuttora – ha fatto sì che la crisi si alimentasse. È importante ricordarsi che l’essere stanchi dei tentativi andati in fumo per la pace tra Israele e Palestina non è una giustificazione per non affrontare il conflitto, così come non rappresenterà mai una giustificazione per non prendere in esame le nostre conflittualità.

Jessica Genova

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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