Una citazione per voi: Schopenhauer e la vita come sogno

 

• LA VITA E I SOGNI SONO PAGINE D’UN SOLO LIBRO •

 

Tra gli autori che più e meglio hanno parlato del sogno troviamo Arthur Schopenhauer, che nel suo capolavoro – Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) – ci offre un interessante punto di vista. In un intrico di argomentazioni sul nesso tra rappresentazioni vere e astratte, Schopenhauer ci conduce ad una domanda spinosissima: «non potrebbe essere tutta la vita un sogno?», un interrogativo che richiama quello di Cartesio delle Meditazioni metafisiche. Se però il filosofo francese intendeva risolverlo nella degradazione del sogno a mera illusione, Schopenhauer approderà all’esatto opposto.

Anzitutto, ciò che possiamo sostenere è che il ricordo del sogno sia meno nitido e a fuoco della realtà, ma non che il sogno stesso sia meno concreto di quella. Non sono valide, inoltre, né la visione di Kant – che voleva il sogno meno autentico perché regolato dalla casualità –né la prospettiva empiristica di Hobbes, secondo cui il sogno differisce dalla vita in virtù della rottura che lo caratterizza al risveglio. Diventa allora legittima un’altra ipotesi: non sarà che non c’è rottura e alterità alcuna tra le due dimensioni? Balza agli occhi del filosofo tedesco come si dia quest’affinità strettissima, della quale non si deve aver motivo di vergogna come vorrebbero razionalismo e logocentrismo. Anzi, come hanno sostenuto in tanti – da Platone fino allo Shakespeare de La tempesta – potremmo pensare che il mondo reale sia avvolto come un sogno da un Velo di Maya, e che noi stessi non siamo altro che «il sogno di un’ombra». Leggiamo la celebre immagine che a tal proposito ci offre Schopenhauer:

«La vita e i sogni son pagine d’un solo e medesimo libro. La lettura condotta con continuità e coerenza si chiama vita reale. Quando però l’ora consueta della lettura (il gioco) giunge al termine e viene il tempo del riposo, noi spesso continuiamo a sfogliare il libro e ad aprire, senza ordine e continuità, una pagina ora qui ora là»1.

È vero, nella vita c’è più rigore che nel sogno e ci sembra che le due realtà siano a se stanti in virtù dell’evento del risveglio, che segna il passaggio da una vita mnemonica ad una mondana. Ma, guardando più da vicino, ecco che cogliamo l’illusione nella realtà così come scorgiamo un senso perfino nell’incubo più assurdo. Qui una pagina più ordinata, causale e rigorosa, ma non meno velata dal gioco delle apparenze; lì una pagina creduta caotica ma che di fatto è scritta nei caratteri di un disordine ordinato; qui un capitolo dall’ampio sviluppo, che trova il suo epilogo al momento della morte; lì uno breve, che inizia e finisce nell’arco di una notte.

 

Nicholas Loru

 

NOTE:
1. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Einaudi, Torino 2013, I, §5, p. 47.

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L’individuo e la grandezza della natura: echi di sublime

È una delle opere più note del mondo, il Viandante su un mare di nebbia dell’artista tedesco Caspar David Friedrich realizzata nel 1818. Un uomo distinto colto di spalle sull’orlo di un precipizio; di fronte al soggetto si dipana il mare di nebbia, da cui emergono cime aguzze e si stagliano altri profili montuosi all’orizzonte. Una persona che si perde con lo sguardo e la mente nell’infinito, piccolo contro la vastità della creazione di natura. Non a caso questa è diventata l’opera emblematica del Romanticismo, periodo letterario e artistico che ha attraversato l’Europa ottocentesca portando, tra le altre cose, l’idea del sublime come nuova chiave di definizione del bello.

Di sublime in realtà si comincia già a parlare nel I secolo d.C a cui si data il cosiddetto Trattato sul sublime, di autore ignoto che però già sintetizza un legame tra ciò che è meraviglioso e un senso di smarrimento. Non dimentichiamo del resto come Aristotele definisse thauma, tradotto spesso come meraviglia, un sentimento sì di grande scoperta, di curiosità e stupore, ma con un’accezione angosciosa. Non a caso, quando il letterato britannico Edmund Burke recupera il tema del sublime nel 1757 lo definisce come delightful horror, letteralmente “l’orrendo che affascina”. Ecco allora che questo sublime è un tipo del tutto particolare di bellezza, è un’emozione forte che ci colpisce e che, secondo Burke ma successivamente anche Immanuel Kant, è generata dalla natura. La sua forza (cascate, tempeste marine) e la sua grandezza (oceani, deserti, alte vette) generano nell’individuo la consapevolezza della propria piccolezza, limitatezza e caducità. Lo si evince chiaramente anche dalle opere di un altro grande maestro, William Turner, da molti considerato precursore del Romanticismo proprio per le vorticose tempeste, bufere di neve o di pioggia, incendi roventi rappresentati nei suoi quadri, in cui l’umano è piccolo o scompare.

Nella Critica del giudizio (1790) Kant spiega come la bellezza sia una caratteristica intrinseca degli oggetti (natura compresa) mentre il sublime è il sentimento che alcuni di essi (e la natura appunto) possono generare. Tale sentimento oltretutto nasce dopo una battuta d’arresto delle energie vitali, un momento di smarrimento in cui l’individuo si trova sopraffatto, prima di riuscire ad agire e di (in un certo senso) tornare alla vita. Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione (1819) si colloca sulla stessa scia e chiarisce che se l’individuo nello stato di contemplazione di quegli oggetti (naturali) avverte il loro pericolo e la possibilità che lo possano sopraffare, ma nonostante tutto persiste nella contemplazione, allora quello è il sentimento del sublime.

È ancora questo per l’individuo contemporaneo il sentimento del sublime? Immaginiamoci come il viandante di Friedrich – cosa forse non difficile visto il boom di turismo che stanno registrando le località montane in questi ultimi anni. Immaginiamoci sulla cima di una vetta o su una nave in mezzo all’oceano: qual è il nostro sentimento nei confronti della natura che stiamo osservando? Proviamo a rifletterci davvero. Ne riconosciamo la grandezza, la superiorità? Riusciamo ancora a sentirci piccoli? E se siamo ancora in grado di provarlo, questo sublime, riusciamo a portarcelo con noi? La natura è minacciata costantemente dall’azione umana e le nostre mani sono perennemente sporche e sanguinanti in quanto mandanti, con la nostra esagerata eppure inconsapevole domanda sul mercato, di gravi torti nei confronti del mondo naturale e animale. La natura è immensa e immensamente forte, ma la nostra crescita (la popolazione umana dovrebbe raggiungere i dieci miliardi di abitanti nel 2050) soffoca tutta questa energia. Un’energia tale che trova sfogo in violenti ma sempre più frequenti episodi di distruzione. A ognuno dei naufragi di Turner l’umano risponde con maggiore cattiveria, senza riuscire a distinguervi (o senza volerlo fare) una propria responsabilità. Allora pensiamoci ancora un po’ di più, quando scendiamo dalle vette o riemergiamo dai mari, a quella sensazione che abbiamo provato dentro e cerchiamo di tenerla lì, di custodirla. Nella speranza che poi riesca a guidare ogni nostro gesto quotidiano… o almeno un altro in più.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit unsplash.com]

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Il suicidio intellettuale della filosofia universitaria

Perché nelle università non esistono insegnamenti di filosofia pratica? La risposta è semplice, si dirà, usando una frase abusata: perché l’utilità della filosofia è nel suo essere inutile da un punto di vista pratico; perché, ovvero, la riflessione filosofica si esercita su principi universali, lontani da ogni commistione con la contingenza e la particolarità. Proliferano così corsi di filosofia teoretica, che poco o niente hanno da spartire coi sordidi traffici degli esseri umani qualunque, in cui i professori si librano inarrivabili sopra le altissime vette della speculazione umana, profondendosi in affermazioni talvolta difficilmente intellegibili.

Già duecento anni fa Schopenhauer denunciava questo «scaltro stratagemma di scrivere» – o declamare, nel nostro caso – «in maniera oscura, cioè incomprensibile», presentando «i propri vaniloqui in modo che il lettore debba credere che, se non li capisce, la colpa è sua» (A. Schopenhauer, Sulla filosofia da università, 1990). La ragione profonda di questa strategia affabulatoria era «scrivere senza avere propriamente qualcosa da dire», riempiendosi la bocca di «supreme astrazioni come essere, ente, divenire, assoluto, infinito» (ivi). Questa, secondo Schopenhauer, era – ed è – la cifra stilistica dei professori-da-università, «con il loro pubblico di studenti che accettano creduli» (ivi) tutto ciò che dicono (spesso lodandone la genialità).

Cosa ha a che fare questo con l’assenza di insegnamenti di filosofia pratica? Il filosofo da università, colui che «vuol vivere della filosofia» e non «per essa», si trincera dietro un novello contemptu mundi, un disprezzo per tutto ciò che è mondano e terreno – scambiando il volteggiare senza interessi pratici fra generalizzazioni tanto vaste quanto incomprensibili con la condotta metodologica di una “ricerca disinteressata”.

Malcelata dietro condotte di questo genere, (spesso) si nasconde tutta l’ipocrisia dei ragionieri della filosofia: fintamente disinteressati nella ricerca, disegnano a tavolino programmi e insegnamenti per intercettare il maggior numero di fondi, il maggior numero di studenti o il maggior numero di saggi da pubblicare – rigorosamente – su riviste certificate e accreditate. Scriveva ancora Schopenhauer: «facendone un’industria, l’interesse acquista subito preponderanza sulla ricerca della verità e da presunti filosofi vengono fuori semplici parassiti della filosofia» che ricorrono, «se il vantaggio lo richiede, a ogni sorta di bassi mezzi, compromessi, coalizioni» (ivi).

Anacleto Verrecchia, commentando queste parole del filosofo tedesco, notava che i giovani, «le piante dei vivai universitari […] sono già mence in partenza, anche perché respirano un’aria intrisa di adulazione, di piaggeria, di servilismo e di peronospora intellettuale» (A. Verrecchia, I filosofi di ruolo, 1990). Nessuno di quelli che vengono bollati come «filosofi di ruolo» sarebbe pronto al sacrificio, intellettuale beninteso, in nome delle proprie convinzioni. «Meno che mai – prosegue Verrecchia – credo che si farebbero saltare le cervella per i propri principi. In compenso hanno cacciato una pallottola ideologica nella testa dei loro allievi, scardinandone la facoltà di pensare» (ivi).

Il filosofo da università, in definitiva, specula in astratto di mondi inesistenti e contemporaneamente – spesso in contraddizione con ciò che ha stabilito essere giusto in questi mondi – esercita l’attività di funzionario della filosofia (e del sapere più in generale), di portaborse della conoscenza, abdicando a ogni forma di coerenza intellettuale. Questa lampante contraddizione non è imputabile ai soli docenti universitari, ma è il frutto avvelenato di decenni di tagli alla ricerca e, soprattutto, di una volontà burocratizzante, esclusivamente tesa all’efficientismo e all’ordinaria amministrazione. Viene così dequalificata la specificità che dovrebbe essere propria della filosofia, non mero esercizio compilativo ma libero esercizio dello spirito critico, lontano da dogmatismi e schematismi.

Sarebbe ora, quindi, di rompere questa ipocrisia, e proclamare finalmente l’utilità e la praticità della filosofia, non come disciplina ma come condotta di vita. Ha ragione Schopenhauer quando dice che la filosofia non si può insegnare e che, pertanto, l’istituzione di cattedre di filosofia è una contraddizione in termini. Ma se oggi l’abolizione dell’insegnamento della filosofia può sembrare una velleità, che almeno questo insegnare sia allenamento al libero pensiero e non vuota riproposizione di canoni tradizionali. «La filosofia […] è diventata una cosca mafiosa, con tanto di capibastone, ominicchi e quaquaraquà», perciò è urgente descolarizzarla, «perché l’aria mefitica dell’università non le fa bene» (ivi). E la filosofia pratica, spesso libera dai lacci dell’Istituzione, può contribuire a svecchiare la didattica filosofica.

 

Edoardo Anziano

 

[Photo credit Gabriella Clare Marino via Unsplash]

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La giusta distanza nelle relazioni: Schopenhauer e il dilemma del porcospino

Vi è mai capitato di conoscere qualcuno con il quale inizialmente pensavate di instaurare un bellissimo rapporto e poi invece un vostro o un suo comportamento vi ha deluso?
Oppure di vivere delle relazioni in maniera simbiotica in cui l’interesse per l’altra persona rischiava di annullare completamente i vostri bisogni e la vostra individualità?

Se sì non scoraggiatevi, tutto questo avviene semplicemente perché nella vita di tutti i giorni ci troviamo costantemente ad oscillare tra due bisogni fondamentali: avere dei legami con gli altri e mantenere allo stesso tempo la propria singolarità. 
«Voglio stare insieme a te senza annullarmi», potremmo riassumere così la situazione ideale in cui si crea un legame affettivo tra due individui che mantengono le peculiari personalità che li caratterizzano.
Spesso, infatti, la paura di essere completamente risucchiati nella sfera dell’Altro ci porta a fare un passo indietro, ad evitare di esporci e ad utilizzare tutta la cautela e le accortezze del caso per evitare di soffrire o semplicemente che ansie e paure prendano il sopravvento impedendoci di vivere a pieno e in modo sano la nostra relazione.
E allora che fare? Come gestire queste due esigenze apparentemente così contrastanti? E soprattutto, come comportarsi di fronte a questo movimento oscillatorio tra desiderio d’amore, sopraffazione e dolore nelle relazioni?

Nel 1851 il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer pubblica in due volumi i Parerga e Paralipomena, una raccolta di scritti comprendente parabole, metafore, similitudini e aforismi, che nell’intenzione dell’autore sarebbero dovuti servire come rifinitura al sistema filosofico contenuto all’interno della sua opera più importante: Il mondo come volontà e rappresentazione.
All’interno del secondo volume dei Parerga e Paralipomena, al capitolo XXXI, sez. 396, Schopenhauer utilizza una metafora – meglio nota come il dilemma del porcospino – per descrivere e riflettere su due importanti questioni: qual è la giusta distanza da osservare affinché sia possibile vivere all’interno di una società senza ferirsi, e quale sia il grado di intimità ideale da osservare nel rapporto con gli altri.

«Una compagnia di porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini, vicini, per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di riscaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro fra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione. – Così il bisogno di società, che scaturisce dal vuoto e dalla monotonia della propria interiorità, spinge gli uomini l’uno verso l’altro; le loro molteplici repellenti qualità e i loro difetti insopportabili, però, li respingono di nuovo l’uno lontano dall’altro. La distanza media, che essi riescono finalmente a trovare e grazie alla quale è possibile una coesistenza, si trova nella cortesia e nelle buone maniere.
[…] – Con essa il bisogno di calore reciproco viene soddisfatto in modo incompleto, in compenso però non si soffre delle spine altrui. – Colui, però, che possiede molto calore interno preferisce rinunciare alla società, per non dare né ricevere sensazioni sgradevoli» (A. Schopenhauer, Parerga e Paralipomena, 1998).

Il filosofo tedesco utilizzò questa metafora per spiegare la complessità dei rapporti umani. Egli notò che, spesso, spinti dalla necessità, attratti dalla curiosità e dall’interesse, ci avviciniamo troppo alle altre persone senza misurare bene le distanze, finendo per imbatterci nelle loro spine e viceversa. Improvvisamente tutto sembra pericoloso e per non ferirci tendiamo ad allontanarci. Solo allora capiamo che l’importanza del calore altrui è ciò di cui abbiamo bisogno per sfuggire dal freddo della solitudine e che solo con l’esperienza saremo in grado di raggiungere un giusto equilibrio, un compromesso, che possa mettere in accordo i nostri bisogni individuali e quelli degli altri. 
Con il passare del tempo dunque, anche noi, proprio come i porcospini di Schopenhauer, abbiamo bisogno di trovare la «migliore posizione» nella costruzione delle relazioni e dei rapporti affettivi e sociali stando però attenti alle necessità e ai desideri propri ed altrui.
Una ricerca continua, dunque, un “patto” che costantemente tutti noi siamo chiamati a rinnovare se vogliamo continuare a vivere le nostre relazioni in maniera sana ed equilibrata, a meno di non essere «Colui, che possiede molto calore interno».

 

Edoardo Ciarpaglini

 

[Photo credit Connor Williams via Unsplash]

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Arthur Schopenhauer e la cultura del remix musicale

Arthur Schopenhauer nel suo capolavoro Il mondo come volontà e rappresentazione pone al vertice delle arti la musica, in quanto essa ritrae ed è specchio della volontà stessa. La musica, quindi, a differenza di altre forme espressive, sembra collocarsi per Schopenhauer al di là di qualunque rappresentazione fenomenica, in quanto il filosofo identifica la volontà con il concetto metafisico, kantiano, di noumeno, e cioè il polo opposto del fenomeno. Intesa in questo modo la musica appare porsi in antitesi rispetto alla straripante molteplicità di stimoli sensoriali e percettivi che caratterizzano la nostra civiltà dell’immagine1 – basti pensare al web, alla televisione, al cinema, ai media, alla pubblicità.

Eppure sembrerebbe che in alcune sperimentazioni musicali contemporanee si possano trovare consonanze insospettabili e inedite con il pensiero schopenhaueriano. Si pensi ad esempio alle riletture dei classici musicali ad opera della violinista thailandese Vanessa Mae. Di certo le sue esibizioni non lesinano incursioni nei territori di una certa rappresentazione scenica, a tratti ammiccante, tipica del rock o della techno. Ma al di là di queste connessioni superficiali con una gestualità ormai entrata nell’immaginario collettivo a identificare un certo atteggiamento divistico tipico della popular music, ciò che sorprende è proprio il contenuto musicale e formale dell’opera. Re-interpretare il terzo movimento dell’Estate di Vivaldi in chiave rock potrebbe apparire sulle prime operazione meramente commerciale, ma in realtà tale remix pone l’enfasi su elementi musicali esistenti nell’intenzione compositiva dell’autore e tuttavia destinati a rimanere ignorati o inespressi, a partire da una semplice analisi della partitura originale. Tali remix – declinati di volta in volta in chiave pop, rock, techno, trance, hip hop – sono facilmente reperibili sul web, e ad essi, nella maggioranza dei casi, arride un grande successo di ascolto, e alti indici di gradimento.

Si tratta probabilmente non solo di un fenomeno storicamente inquadrabile nell’ambito di un certo sincretismo postmoderno2: infatti a ciò che potrebbe essere definito come cultura del remix, corrisponde un desiderio di avventura – di nomadismo intellettuale ed estetico – che è una costante nel cammino dell’uomo. In ambito artistico come pietra di paragone si potrebbe citare L.H.O.O.Q., celebre dipinto dissacratorio di Marcel Duchamp, nel quale vengono apposti due baffi ad una riproduzione del capolavoro leonardesco della Gioconda. Di certo il parallelismo con la cultura del remix appare evidente anche se resta da appurare quanto, in ambito musicale, l’intento sia effettivamente iconoclasta o azzerante rispetto a una presunta tradizione classica, o quanto – seguendo il ragionamento di Schopenhauer – miri invece a recuperare un contatto con un momento contemplativo svincolato da qualunque rappresentazione fenomenica, compresa quella della partitura3. Sembra infatti che l’apparente irriverenza rispetto alle prescrizioni esecutive dell’autografo originale possa consentire alla musica, anche al di là degli intenti dell’interprete, di liberarsi finalmente di molti dogmi tecnico‑esecutivi che rischiano di imprigionare l’interpretazione musicale in una acritica idealizzazione del passato. Il rischio è infatti quello di considerare la musica codificata nel manoscritto come fedele rappresentazione delle intenzioni compositive dell’autore, le quali – secondo Schopenhauer – dovrebbero manifestarsi invece a livello del noumeno e non dell’immagine fenomenica della partitura.

In questo modo la musica sembra liberare il suo potenziale evocativo e profetico – al di là di qualunque distinzione di genere – allo stesso modo in cui il cinema, ad esempio, si serve dello strumento della trasposizione, si pensi a questo riguardo a tutta una serie di pellicole che riscrivono i capolavori più alti della letteratura. Forse alla base di tutto questo c’è inoltre il desiderio di adeguarsi alla realtà del nostro tempo, andando ad agire non solo sul contenuto dell’opera ma modificando lo stesso codice linguistico-espressivo di riferimento, che fa da cornice all’opera stessa, e ne è il suo presupposto. Questi remix – andando oltre una lettura filologica della tradizione e proponendo una interpretazione in cui la partitura originale non è che mero spunto improvvisativo e compositivo – sembrano sposarsi perfettamente con la concezione estetica di Schopenhauer, impegnato com’era a elogiare il carattere noumenico, metafisico, e, diremmo noi oggi, immateriale della musica (dunque non legata a nessuna rappresentazione, compresa quella dello spartito). Indubbiamente questo repertorio opera uno stupefacente cambiamento di contesto e di codice stilistico, che sembra interrogare il presente senza rinunciare a esibire orgogliosamente un profondo debito con la tradizione.

 

Giulio Andreetta

Diplomato in pianoforte e laureato in Musicologia. Ha studiato con pianisti affermati a livello internazionale, è stato inoltre premiato in vari concorsi internazionali di pianoforte e composizione. Ha suonato per prestigiose istituzioni in Italia e all’estero. Alcune sue composizioni sono state recentemente pubblicate dall’editore Armelin di Padova. Ha inoltre pubblicato con la casa discografica Velut Luna un album di composizioni originali per pianoforte. Nel Luglio del 2018 è stata messa in scena una sua opera per coro e orchestra in memoria delle vittime della Prima Guerra Mondiale nell’ambito del Festival Carrarese di Padova, con l’orchestra Città di Ferrara. In ambito musicologico ha pubblicato per l’editore Casadeilibri due monografie sul minimalismo musicale.

 

NOTE:
1. Illuminanti a questo riguardo le ricerche di Umberto Eco (1932-2016).
2. Per uno studio approfondito della categoria del postmoderno si veda il pensiero di Jean-François Lyotard (1924-1998).
3. Tale modalità di fruizione estetica potrebbe anche essere definita mistica o sacrale, in quanto non strettamente legata a nessuna parola o immagine del mondo.

[Photo credit unsplash.com]

L’influsso materno. Due madri nella storia della filosofia

Oggi sappiamo che opere come Essere e tempo di Heidegger o Così parlò Zarathustra di Nietzsche non sarebbero quelle che sono senza l’influsso che alcune donne ebbero su di loro nei periodi di scrittura e di pensiero delle loro opere fondamentali. Nel caso di Heidegger fu la giovane Hannah Arendt ad aver favorito un flusso creativo potentissimo e ad aver fornito al filosofo tedesco l’ispirazione e le energie giuste per poter chiarire quei pensieri. Nietzsche fu più sfortunato, forse, e non ricambiato dall’amore per l’affascinante Lou von Salomè, entrò nella una crisi depressiva che lo condusse al Così parlò Zarathustra.

Quando però si parla di grandi donne dietro grandi uomini, non dobbiamo pensare solamente alle grandi amanti. Molto spesso nella crescita e nella formazione di un pensatore ha infatti influito l’educazione che la madre ha scelto per il proprio figlio e le abitudini che cerca di trasmettergli.

Alcuni casi noti ed emblematici possono essere quelli delle madri di Agostino o di Schopenhauer. La prima, Monica, rimase accanto al figlio già nei momenti di maggior perdizione e confusione di Agostino, ancora ben lontano dalla speculazione filosofica e dal percorso religioso. Cresciuta in un contesto sociale elevato, ebbe la possibilità di studiare e avvicinarsi al cristianesimo. Le violenze psicologiche di un marito burbero e le apprensioni inflitte dal giovane Agostino turbarono l’animo di Monica senza però farla desistere nei suoi intenti amorevoli. La preoccupazione di quella donna per le future sorti del figlio scapestrato e la certezza che una buona educazione e lo studio avrebbero potuto essergli salvifiche, le fece decidere di seguire fisicamente il figlio dal caldo Nord Africa fino a Roma e Milano, venendo in un primo momento addirittura raggirata da Agostino e lasciata in terra africana, mentre il figlio si imbarcava verso ambiziose mete. Nel percorso formativo del giovane Agostino lei gli fu però sempre accanto, facendogli da mentore, da supporto e da aiuto e divenendo poi la figura centrale per il figlio, sino ad oggi riconosciuta. Le Confessioni ricordano ed elogiano Monica ripagandole in qualche modo le fatiche sopportate a lungo.

Secoli dopo, nella Prussia di fine settecento, il bambino che sarebbe divenuto il noto Arthur Schopenhauer attendeva di sapere cosa sarebbe diventato. Cresciuto in una famiglia agiata e colta, una volta scomparso il padre e tramontate le necessità che anche Arthur facesse il commerciante, fu la madre non solo a crescere ma a educare il giovanissimo Schopenhauer raffinando la sua sensibilità ed esercitando la sua interiorità (come ricorda l’episodio della morte di un amico d’infanzia del figlio, dopo il quale la madre invitò il piccolo Arthur a pensare quanto prima alla caducità dell’esistere)1. Sin da adolescente, la madre di Arthur, Johanna Henriette Trosiener, gli consigliò di tenere un diario, di studiare i classici e sviluppare il pensiero autonomo e la scrittura, abitudini che Schopenhauer non abbandonerà fino alla morte. La madre era scrittrice2, era dotata di una spiccata sensibilità letteraria e amava dunque i salotti letterari, tanto da istituirne uno lei stessa, frequentato da niente di meno che dai fratelli Schlegel, da Wieland e da Goethe, che diventerà una presenza fondamentale per la filosofia schopenhaueriana. Le indicazioni, i consigli e la cura di Johanna confluirono nel creare un autore di portata enorme per la cultura occidentale, al pari della paziente – e non a caso santa – Monica.

Queste madri hanno trasmesso ai loro preziosi figli un’eredità ineguagliabile: quella della quotidiana vicinanza, del simbiotico scambio di valori e conoscenze, della costituzione di un’autostima e di una forza necessarie a qualsiasi pensatore. Quelle eredità rimangono oggi perlopiù sottovoce e sono spesso dimenticate, ma se è vero che le amanti nelle vite dei grandi uomini assumono il ruolo dei temporali per la natura – rinfrescano, ristorano, nutrono, scuotono, rinnovano – è altrettanto vero che sono le madri a permettere loro di rimanere fedeli al loro essere, di poter poggiare su fondamenta solide. Le madri, volendo continuare con le metafore, hanno costituito spesso il terreno dei pensatori. Il loro essere ha permesso che i figli imparassero a contare sulle proprie forze, a perseguire i loro scopi anche in mezzo alla solitudine o alla difficoltà, a fare propria l’interiorità creatrice che nasce su una sensibilità differente dalla pura ratio o dalla semplice abilità nel fare qualcosa.

 

Luca Mauceri

 

1. Nota biografica, in A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Einaudi, 2013, p. CVII.
2. Ibidem.

[In copertina: dettaglio opera di G. Klimt, Mother and child]

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Etica formativa o dar forma all’etica?

Sbagliando si impara. Neanche a dirlo. Un errore tira l’altro, come le ciliegie, e si fa esperienza di come vanno le cose nel mondo, quali sono le cose da rispettare, come è meglio comportarsi in date situazioni. Procediamo a tentoni, come in una stanza perennemente buia immersa nella statistica e nella speranza che le cose siano calcolabili. Così dovremmo, in teoria, diventare dei bravi umani.

Umani o calcolatori? La perfezione del calcolo in realtà non è propriamente nostra, non si addice ad un essere imperfetto che è continuamente manchevole. La tensione verso il controllo, il tentativo di dire il mondo in una formula sì, fino a volerlo dominare come scriveva Nietzsche in relazione alla Volontà di potenza. Il nostro è un procedere secondo induzione, ovverosia se una cosa solitamente succede in un modo si ipotizza che essa continuerà a seguire quella data logica portando a quelle date conseguenze. Se premo l’interruttore la luce si accenderà e non esploderà il pianeta. Questa è la nostra massima idea di certezza. Siamo completamente immersi nella logica probabilistica pur rifiutandola in nome di un vero e proprio rigore scientifico.

Eppure la stessa scienza ultimamente viaggia su terreni altrettanto pericolanti. Basti pensare all’introduzione della meccanica quantistica capace di spazzare via le certezze e precisioni che ci si aspetta dall’atteggiamento scientifico. Il fisico teorico Carlo Rovelli in Sette brevi lezioni di fisica (2014), nella seconda lezione sui quanti, ci espone in modo semplice e accessibile l’avvento dell’indeterminatezza nel mondo della scienza. Da Planck fino a Bohr, passando per Einstein si incomincia a pensare ad elementi quali l’energia della luce come qualcosa di discontinuo e caratterizzato da numeri finiti di quanti, descritte da Rovelli come mattoncini di energia. Dunque introducendo qui la discontinuità si potrebbe pensare di star abbandonando il campo scientifico per addentrarsi in una disquisizione filosofica. Ebbene grandi fisici del ‘900 come Einstein, Planck, Bohr e Heisenberg non disdegnavano la filosofia e il contributo che essa poteva e avrebbe dovuto dare più avanti alla scienza.

La sola possibilità di una discontinuità delle cose, delle energie che ci circondano e che formano quel reale che vediamo, sposta l’attenzione dell’uomo dall’atteggiamento di scientificità e dagli oggetti per come ci appaiono. Siamo forse abituati a considerare esistenti le cose che nominiamo e che si sono scoperte, ponendo in loro un essere continuo, eppure lo stesso Heisenberg è pronto a minare le nostre certezze ipotizzando che un elettrone possa non esistere sempre. «Ma come? Se una cosa esiste non può passare da un momento all’altro alla non-esistenza!» Direste voi o Parmenide. Ancora Rovelli scrive «Heisenberg immagina che gli elettroni non esistano sempre. Esistano solo quando qualcuno li guarda, o meglio quando interagiscono con qualcosa d’altro»1.  È la relazione che permette l’individuazione, seppur probabilistica di un dato elemento. Senza interazione con l’altro un elettrone non è in nessun luogo, come un albero che per noi sparisce se gli voltiamo le spalle. Non più oggetti ma relazioni. La vita può essere anche solo relazione.

Dunque la logica probabilistica entra di prepotenza nelle teorie scientifiche, ora precise, domani magari non più.

Ritornando all’esperienza umana il collegamento è servito da quel fattore imperfetto e assolutamente impreciso, forse ignorante come esposto sempre da Rovelli nell’ultima lezione, ovverosia Noi. Siamo esseri umani e l’indeterminatezza ci domina ma su di essa abbiamo costruito modelli, teorie, palazzi e vaccini. Per prove ed errori, si costruisce il nostro edificio esperienziale, assolutamente aperto all’imprecisione e alla possibilità che esso non sia rappresentazione fedele e affidabile. Ma noi poco filosofi rispondiamo “chi se ne frega!”. Potremmo ricadere in errore nel nostro percorso eppure è l’errore stesso la condizione del nostro percorso, la ragione del suo avanzamento e miglioramento.

Sbagliare per imparare o imparare per sbagliare dunque?

Ad ogni modo, qualunque sia l’esito di una nostra azione l’apprendimento sarà sempre parte delle conseguenze. Schopenhauer ne Il mondo come volontà e rappresentazione scriveva che la filosofia è sempre teoretica. Un amico filosofo una volta mi disse che per lui invece la filosofia è sempre morale, sempre etica. Ricollegandomi al discorso sull’apprendimento sempre presente, credo che da una filosofia sempre etica se ne ricavi sempre un valore formativo, poiché l’etica è essenzialmente formativa nella sua determinazione attraverso conflitti, dibattiti e opposizioni. Etica come percorso, come processualità che necessita di contraddizioni, momenti che al suo interno vogliono essere superati e interiorizzati. La derivante formazione, però, non è una composizione immediata, bensì, anch’essa, un processo che si compie nell’arco di tutta la vita, richiamando alla prospettiva del lifelong-learning, ovverosia apprendere per tutta la vita. Dunque come miglioramento e sviluppo della persona ad essa se ne dà man mano una forma. Ivi si compie la continua realizzazione di una persona secondo il suo darsi forma, dar forma all’essere, non a caso lo stesso Aristotele poneva nella forma la caratteristica fondamentale della sostanza. Forma per cui la materia è una determinata cosa, aprendo alla particolarità di ciascuno secondo il proprio modo e non un altro.

Il risvolto pedagogico-formativo si fa carico di un atteggiamento morale e risolve la sua indeterminatezza, la sua potenziale fallacia superata dal coraggio del porre, consci della propria imperfezione, tendenti verso il massimo a cui si possa tendere.

Qual è dunque il valore della filosofia o dell’etica così lontane dalla precisione e considerate di inferiore portata rispetto a scienze che comunque non ci danno risposte certe, e ancora di più non riescono a soddisfare quella fame, quella curiosità e voglia di realizzarsi definitivamente?

Credo che ognuno si sia già risposto da solo (o almeno cercherà di farlo fino a quando… fino a quando?)

 

Un grazie all’amico Emanuele Lepore

 

Alvise Gasparini

NOTE
1 Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica.

[Immagine tratta da Wired]

 

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Tra illusione e realtà: “I begli occhi di Maya”

«È Maya, il velo ingannatore, che avvolge gli occhi dei mortali e fa loro vedere un mondo del quale non può dirsi né che esista, né che non esista; perché ella rassomiglia al sonno, rassomiglia al riflesso del sole sulla sabbia, che il pellegrino da lontano scambia per acqua»1.

Se Arthur Schopenhauer rendeva la dea dell’abbondanza e dell’illusione la metafora cardine della sua filosofia, di quell’esistenza che è fallace e ingannevole come i sogni, non meno fa Giovanni Pigozzo nel romanzo I begli occhi di Maya, dove Maya e i suoi “occhi” diventano oggetto profondamente concupito e ricercato, elemento cruciale dell’intreccio, che spinge i protagonisti a confrontarsi con mondi tra l’apparenza e il vero.

Tutto ha inizio dalle scoperte di un vecchio professore archeologo, una «brava persona, sulle nuvole», «forse un po’ timido», come viene descritto nel romanzo, che lascia in eredità una complicata serie di enigmi, uniti all’alone di mistero che avvolge la sua morte. A risolverli è chiamato un suo caro studente che, viaggiando per le vie di Milano, dovrà cercare di ricomporre tutti i pezzi del puzzle, rendendo onore al lavoro e nel contempo alla memoria del professore.

Non è facile trovare il filo conduttore, il bandolo della matassa che spieghi la serie intricata di vicende che lega la storia dei due “occhi” e, forse, la risposta si trova più nel passato che nel presente, in quella memoria tanto cara allo studioso di archeologia. «A che può servire vivere, se non puoi ricordare? Perché hai voluto bene, se non puoi ricordare un volto che hai amato? Perché essere felici se una mattina non sai di esserlo stato?»2.

Il presente, in fondo, è soltanto l’ultima estremità di un passato millenario, il risultato delle vicende che hanno interessato persone e popoli appartenenti a realtà altre. Così come ognuno di noi è la somma delle esperienze e delle identità che hanno segnato la sua persona e il luogo in cui vive, anche i due smeraldi verdi sono il frutto del passaggio di epoche diverse, che hanno lasciato i segni della loro presenza.

Ecco dunque che il romanzo arriva ad abbracciare uno spazio di tempo dilatato: dalla Roma classica al medioevo, fino alla Milano contemporanea. Storie antiche, incise su pergamene, prendono magicamente vita e il lettore si trova a camminare prima tra le strade di Aquileia, poi a fianco al Duomo di Milano, trasportato nel tempo e nello spazio assieme ai personaggi.

Ma si tratta di sogno o realtà?

«Qualche volta mi sveglio all’alba e mi chiedo intontito se il mondo non sia solo il sogno di un dio addormentato: un tempo in cui esiste un presente, ma per lui scorre diversamente»3 si interroga una mattina il protagonista, ancora ignaro del ruolo di cui sarà investito. Forse i significati degli oggetti vanno oltre ciò che abbiamo immaginato, può darsi che un codice racchiuda più indicazioni di quelle aspettate, oppure che una poesia avvolga in metafora uno spazio fisico; tutto può nascere come finire nella nostra mente, il confine tra vero e non vero si dispiega nell’intervallo di un velo sottile, indefinibile. La realtà, dunque, deve essere indagata, come ci insegna il nostro caro protagonista; il piacere della scoperta è sempre presente in colui che non si accontenta di frasi fatte, di supposizioni, ma cerca e filtra il mondo con sguardo critico, aperto a nuove soluzioni e prospettive.

«Ti vuoi arrendere? Io non mi fermerò»4 sostiene con fermezza l’io narrante, pronto ad andare fino in fondo ai suoi ragionamenti, senza abbandonare al primo ostacolo.

Un invito a non rimanere nel “sonno della mente”, a lasciarsi illudere solo nella misura in cui l’illusione può farci apprendere qualcosa di utile per il presente, diventando una sorta di sogno rivelatore.

Un romanzo che tocca le radici del nostro passato, facendo percepire quel legame nascosto che sempre permane tra noi e l’antico, ponendoci nell’ottica dell’investigatore o dello scienziato, mai sazio di esperienze.

 

Anna Tieppo

 

L’autore. Giovanni Pigozzo è nato alla fine degli anni Ottanta nella campagna veneta, si è trasferito a Milano vent’anni dopo. Ha esordito come scrittore di racconti brevi confluiti nella raccolta dei Racconti a luce spenta (2014), cui ha fatto seguito un denso racconto (lungo) in edizione singola, Mi fa male il tuo dolore, edito nel 2016. Questo è il suo primo romanzo.

NOTE:
1. A. Schopenhauer in Domenico Massaro, La comunicazione filosofica, Tomo A, 3, Trento, Paravia, 2002, p. 10.
2. G. Pigozzo, I begli occhi di Maya, FdBooks, Bologna, 2016, p. 64.
3. Ivi, p. 50.
4. Ivi, p. 89.

 

[immagine tratta da google immagini]

 

I begli occhidi Maya

 

Filosofia: se serve, a cosa serve e altre cavolate

Al mercato delle chiacchiere vendute a metà prezzo, c’è un banchetto più luccicante degli altri, dinnanzi al quale un banditore enumera con entusiasmo la mercanzia esposta e i vantaggi derivanti dall’acquisto. È il banchetto del “se serve, a cosa serve e a chi”, dov’è possibile comprare il senso di qualsiasi attività abbia un’utilità, dov’è possibile comprendere finalmente che il senso di qualcosa coincide con la sua utilità immediata. Il venditore è sapiente e di recente ha iniziato a vendere anche il senso della filosofia: a che cosa serve la filosofia? Perché mai qualcuno dovrebbe spendere i migliori anni della propria vita a leggere migliaia di pagine da questa gloriosa storia del pensiero?

Per essere felici, ovviamente.

Non si sa bene come – bisogna già essere grati al mercante di chiacchiere per averci concesso di comprare questa venerabile verità – ma ora finalmente sappiamo che lo studio della filosofia serve a essere felici. Finalmente sappiamo che leggere la Repubblica di Platone, Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer o la Fondazione della metafisica dei costumi di Kant serve a diventare persone felici, a pescare gli ingredienti necessari per cucinarsi al volo una vita beata: un po’ di atteggiamento socratico, tendenza ascetica q.b., due manciate di cialtronerie sulla legge morale. Condire a piacere con un pizzico di spirito scientifico e una manciata abbondante di onestà intellettuale.

Per verificare questa verità basta fare una passeggiata tra le aule di una qualsiasi facoltà di Filosofia e godere dello spettacolo di dottori e dottorandi, laureati e laureandi beati che contemplano la propria felicità sotto salici abbondanti.

Anche fuori dalle università, è evidente che la felicità sia diventata finalmente a portata di mano: chiunque può comprarsi un libro o un e-book di un qualche filosofo oppure – meglio ancora – di qualcuno che spiega come diventare felici seguendo questo o quel pensiero.

È forse una delle stronzate con più risonanza tra quelle che la folla mastica e si vomita addosso: lo studio della filosofia non rende felici, non rende beati, non rende migliori. Perché non c’è disciplina il cui studio sia sufficiente per essere felici: non esiste una teoria che dia come esito necessario una vita beata.

La verità venduta al banchetto del “se serve, a cosa serve e a chi” è, a ben vedere, quel che resta dalla ruminazione di una verità più ampia, autentica e, dunque, difficile da digerire per gli stomaci delicati della folla a cui bastano rapide e sommarie indicazioni, che s’accontenta di ordini camuffati da consigli amorevoli.

Per incamminarsi lungo la propria felicità, non si può fare a meno di confrontarsi con le grandi questioni che pungolano l’umanità dall’inizio dei suoi giorni e la storia della filosofia può essere letta come una serie di tentativi più o meno espliciti di farvi i conti. Lo studio onesto della filosofia mette tuttavia dinnanzi alla necessità di trovare la via di mettere coerentemente in pratica ciò che si pensa, si dice, si scrive.

Se serve a qualcosa, la filosofia serve a interrogarsi sulla maniera migliore per fare della propria vita un tutt’uno con noi stessi, per agire secondo quello che la nostra coscienza ha dinnanzi. La radicale utilità del pensiero filosofico risiede nel fatto che informa la mente in maniera tale da non permetterle di accontentarsi di facili risposte, di ricette spacciate con maestria agli angoli delle strade; in maniera da non permetterle di chiudersi alla ricchezza dei fenomeni che appaiono all’umanità, alle sfide che ciascuno di noi ha da vincere contando, in fondo, soltanto su di sé.

Emanuele Lepore

 

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La rischiosa esigenza del Fantastico

Che cos’è “Fantastico”? Una semplice qualità o un concetto più complesso? Fantastico è soltanto un aggettivo di valore con cui descriviamo qualcosa di particolarmente piacevole come una situazione, un sentimento, un oggetto, un desiderio esaudito? Fantastico è solo il meraviglioso mondo frutto della fantasia e dell’immaginazione?

Sicuramente è tutto questo, ma non solo: il fantastico può essere anche la nostra rovina, il nostro bisogno più pericoloso, la nostra esigenza più rischiosa.

L’accezione di fantastico che rimbalza nei miei pensieri qualifica questo concetto come una alternativa alla realtà. Un’alternativa che, per definizione, è tutt’altro che disponibile ed accessibile. Un’alternativa che mi pare venga ricercata e desiderata, in modi diversi, in quanto rappresentante illusoria di un’evasione da quella realtà che è percepita negativamente come chiusura, costrizione, limitazione, e che dunque è considerata incapace di realizzare l’essere degli individui.

In effetti, è sufficiente pensare per un attimo al clima sociale, politico, ma anche culturale nel quale siamo chiamati a vivere. Il peso della quotidianità si fa sentire! Ora, non è mia intenzione enfatizzare le critiche che costantemente vengono indirizzate verso le strutture della nostra realtà socio-politica perché non sono questi il momento e il luogo opportuni, ma d’altro canto non si può non constatare che sono sempre di più le persone che all’interno delle trame del nostro presente si sentono imbrigliate, soffocate e talvolta tradite. La realtà è dura, ci spaventa, e a volte vorremmo soltanto tentare di fuggire per evitare i suoi vincoli.

I percorsi e gli stili di vita intrapresi per evadere dal quotidiano assumono diverse manifestazioni.

Alcuni possono dirsi efficaci, nel senso che riescono nel tentativo di far vivere l’individuo in uno stato di idealità almeno apparente: penso all’ostentazione della ricchezza, al circondarsi di momenti di divertimento e svago talvolta estremi, alla necessità di raggiungere mete lontane o mondane per le ferie.

Altri percorsi, invece, non riescono in tale obiettivo e finiscono tristemente per testimoniare il malessere personale degli individui, il loro senso di inadeguatezza, il bisogno di colmare una carenza di qualunque natura essa sia: penso al bullismo, alla tossicodipendenza, ai disturbi alimentari, alla volontaria ricerca di situazioni di pericolo, piuttosto che ai problemi di socialità che con l’era dei social network accentuano talvolta irreparabilmente le piccole e naturali insicurezze dei più giovani.

Tutti questi comportamenti mi sembrano accomunati dalla stessa motivazione di fondo: quella di sentirsi unici e veri artefici del proprio destino; quella di sentirsi liberi dalle preoccupazioni e dai vincoli della realtà. L’obiettivo? La ricerca di quel “fantastico” che viene desiderato in quanto tale, in quanto opposizione alla cruda realtà quotidiana. Da questo punto di vista ciascuno di noi sembra essere indirizzato, più o meno inconsciamente, verso ciò che non è, verso ciò che per definizione non può essere ottenuto, il quale, infondo, è desiderato proprio per questo contraddittorio motivo: ovvero per il fatto che non beneficiando della caratteristica dell’entità, non potrà mai essere posseduto.

Siamo alla ricerca di un altro modo di essere noi stessi, e sebbene non siamo in grado di sapere se ciò sia realizzabile o meno, muoviamo comunque alla sua rincorsa, insoddisfatti della nostra condizione attuale. Siamo predisposti a quell’idealità di cui tanto parlava Platone, ma a cui personalmente, per quanto anch’io la possa desiderare, non ho mai creduto per più di mezzo minuto. Ciò che ci scuote è quella belva della nostra insoddisfazione esistenziale!

Nel suo testo Il mondo come volontà e rappresentazione Arthur Schopenhauer scrive:

«Ogni tendere nasce da una privazione, da una scontentezza del proprio stato; è dunque, finché non sia soddisfatto, un soffrire. Ma nessuna soddisfazione è durevole; anzi, non è che il punto di partenza di un nuovo tendere. Il tendere lo vediamo sempre impedito, sempre in lotta: è dunque sempre un soffrire. Non c’è nessun fine ultimo al tendere dunque nessuna misura e nessuna fine al soffrire».

Eppure, per trascendere la nostra insoddisfazione, la nostra scontentezza, il nostro tendere irreparabilmente destinato alla sofferenza, sarebbe sufficiente un così piccolo cambiamento in noi. Tanto piccolo, quanto profondo. E, dunque, decisamente troppo difficile!

Federica Bonisiol

[Immagine tratta da Google Immagini]