Fondati dal Niente: “Che cos’è la metafisica?” di Heidegger

È il 1929: Martin Heidegger pronuncia un discorso all’università di Friburgo in Germania che inaugura la sua attività di insegnamento e di ricerca nell’ateneo e il cui testo divenne un vero e proprio classico della filosofia novecentesca, Che cos’è la metafisica?
Fine della riflessione heideggeriana è, nell’opera, offrire un’ipotesi di soluzione al problema della metafisica, vale a dire perché esistano le cose, gli enti. La domanda fondamentale della metafisica ricerca, più precisamente, il fondamento che si ritiene debba avere ciò che è – ed in questa direzione si erano mosse appunto le risposte alla questione di Leibniz e di Schelling, diverse dalla soluzione heideggeriana, basata sul nulla.

Sul nulla? No, per Heidegger quest’ultimo deve essere scritto con la lettera maiuscola, perché, paradossalmente, è qualcosa: il Niente è ciò da cui la totalità degli enti è fondata – uomo incluso. Questa, in estrema sintesi, è la risposta alla Seinsfrage, la domanda sul senso dell’essere nei termini della quale il filosofo rilegge il quesito fondamentale della metafisica e che formula con questo interrogativo:

«Perché è in generale l’ente e non piuttosto il Niente?»1.

Una risposta che, come accennato, non è priva di paradossalità, la quale però, osserva Heidegger, è tale solo in un’ottica d’analisi scientifica. Perché per la scienza, infatti, non solo è ontologicamente impossibile occuparsi del nulla, giacché non esiste, ma lo è anche logicamente, perché per pensarne o dirne qualcosa si dovrebbero necessariamente formulare enunciati dalla forma “il nulla è x”, ma questa è appunto una contraddizione logica a priori2.
La scienza ha insomma mancato di trattare la questione del nulla come necessario. Perché se lo avesse fatto avrebbe inteso che il niente non è semplicemente tale, ma Ni-ente, ciò che è non-ente – appunto il Niente3. Ciò che si rivela all’uomo nel sentimento dell’angoscia.

L’angoscia: secondo il pensatore, proprio in questa emozione il Niente si rivela all’uomo, ma non in maniera tale da poter essere compreso o espresso. La totalità degli enti in quanto tale è la causa dell’angoscia, precisa Heidegger, quindi a rigore niente ne è il motivo4: Ni-ente, appunto, ciò a cui l’uomo è rinviato proprio da quell’insieme di cose esistenti che, nel sentimento, respingono da sé l’individuo, si sottraggono al suo controllo5. Solo in questo modo la ragione riesce a comprendere che il Nichts fondi l’intero essente6.

La risposta alla Seinsfrage sembra dunque giustificata, e si rivela essere ben diversa da quella avanzata da Leibniz, che non ha analizzato con la dovuta radicalità la domanda fondamentale, sostiene Heidegger, e ciò perché non riflette con sufficiente attenzione sul nulla. L’inesistenza dell’essente, secondo Leibniz, è infatti sconfessata puntualmente dall’esperienza, l’ipotesi nullistica pertanto a priori impossibile7. La causa degli enti è dunque secondo il filosofo seicentesco un ente tra gli enti che esistono – il sommo, Dio8.

Schelling ha invece riconosciuto l’intima natura esistenziale della Seinsfrage, secondo Heidegger9. Se Leibniz ha cercato la causa efficiente degli enti, Schelling ha invece indagato la causa finale dell’essente o il senso delle cose10– proprio quel senso che gli uomini cercano a fronte della quotidiana esperienza del negativo. Il punto è, però, che anche Schelling ha cercato la risposta alla domanda della metafisica tra gli enti, finendo dunque con il percorrere lo stesso sentiero su cui si era incamminato Leibniz. Ma sul quale Heidegger non intende viaggiare, in quanto per lui la Seinsfrage interroga ciò che è altro dagli enti11 – anche se non è ancora completamente chiaro che cosa sia, “positivamente”, il Niente.

Ma questo diverrà presto chiaro: Heidegger riterrà insoddisfacente il cammino speculativo compiuto sin qui, e da una via d’accesso ontica all’essere tenterà di varcare quella direttamente ontologica. E ciò già in Introduzione alla metafisica (1935).

 

Riccardo Coppola

 

NOTE
1. M. Heidegger, Che cos’è la metafisica?, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2001, p. 67.

2. Cfr. ivi, p. 41.
3. Cfr. ivi, p. 44.
4. Cfr. ivi, p. 51.
5. Cfr. ivi, pp. 53-54.
6. Cfr. ivi, p. 63.
7. Cfr. R. Morani, Essere, fondamento, abisso. Heidegger e la questione del nulla, Mimesis, Udine 2010, p. 97.
8. Cfr. ivi, p. 96.
9. Cfr. S. Givone, Storia del nulla, Sagittari Laterza, Roma-Bari 1995, p. 99.
10. Cfr. R. Morani, Essere, fondamento, abisso. Heidegger e la questione del nulla, cit., p. 98.
11. Cfr. ivi, p. 99.

[Photo credit giamboscaro via Unsplash]

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La filosofia è morta. Viva la filosofia

«Chi si vuole sotterrare nella polvere dell’antichità, quando il corso del suo tempo ad ogni istante lo avvolge e con sé lo trascina?».

Questo scriveva un giovane Schelling all’ex compagno di studi Hegel. I due filosofi, insieme con il poeta Hölderlin, avevano condiviso il percorso di studi presso lo Stift, il seminario protestante dell’Università di Tubinga, dal 1788 al 1793. Il corsivo è dello stesso Schelling: il suo tempo. L’autore vuole far cadere l’attenzione dei lettori sul tempo in cui loro stessi vivono, con il quale possono (e devono) confrontarsi.

Nell’elaborazione del proprio sistema filosofico – da alcuni concepito come una sorta di ideal-realismo – Schelling non lascia spazio alla storia, concentrando il proprio interesse al rimando di ogni determinazione molteplice all’unità dell’Assoluto. Ma sarebbe errato concepire la citazione iniziale come una negazione dell’importanza del passato. La frase infatti prosegue così: «Vivo e mi muovo al presente nella filosofia».

Questa citazione può fornire un punto di partenza per alcuni interrogativi, proprio riguardanti il presente e il significato di fare filosofia oggi. Una possibile concezione, alla luce delle citazioni di Schelling, è quella di una filosofia viva, in grado di volgere il proprio sguardo in avanti, confrontandosi con il mondo e cercando di dare risposte ai problemi dell’uomo nella contemporaneità. Una Filosofia, in altri termini, non limitata a una filologia fine a se stessa. Una Filosofia che, utilizzando le categorie fornite dai pensatori del passato, si superi continuamente. Un movimento incessante che segue il divenire del mondo nel suo modificarsi e si adatta alle sue pieghe. Questo, nell’epoca della cosiddetta post-verità, non deve però tradursi in un’impossibilità conoscitiva, in un relativismo distruttivo, che nega ogni acquisizione del pensiero umano.

Dicevamo, alcune domande sull’oggi: la Filosofia accademica, in Italia, si muove «al presente»? Oppure ha fissato il proprio sguardo verso ciò che è passato? La risposta definitiva, a una questione di portata tale da investire lo statuto stesso della filosofia, potrebbe non essere mai trovata. Limitiamoci a qualche spunto di riflessione. Consideriamo i tre migliori «mega atenei italiani» (oltre 40.000 immatricolazioni) secondo la Classifica Censis 2019/20, ovvero Bologna, Padova e Firenze (link alla Classifica Censis). I piani di studio della Laurea Triennale in Filosofia sono accomunati da due fattori: massiccia presenza di insegnamenti afferenti al settore disciplinare storico e, per la quasi totalità degli insegnamenti, didattica frontale.

E ancora: quale impatto ha oggi la Filosofia sulla società? È ancora in grado di apportarvi cambiamenti? Come viene percepita dal pubblico non specialistico? Ha ancora un significato “essere filosofi” oggi? Domande che, qui, rimarranno senza risposta. A una prima occhiata sembra che la Filosofia abbia abdicato a una delle proprie ragioni di vita, quella di indirizzare l’umanità verso un futuro migliore. E come potrebbe? I dati dell’Associazione Italiana Editori «rilevano che l’indice di lettura di libri colloca l’Italia nelle posizioni di coda del ranking internazionale»: leggiamo poco, troppo poco perché la filosofia venga considerata più di un vezzo elitario (link ai dati AIE).
Di fronte a questo panorama poco confortante, due sono state le reazioni, entrambe “estreme”. Da una parte, i filosofi si sono ritirati nelle torri d’avorio dei propri dipartimenti. L’esito è stato una ricerca tanto più parcellizzata quanto più inabile a fornire coordinate per orientarsi nel presente. Dall’altro lato, i “volti noti” della filosofia si sono rivelati niente più che opinionisti televisivi, politici o politicanti.

La serie di domande potrebbe continuare all’infinito, anche in senso contrappuntistico: per fare filosofia non è però necessario conoscere tutto il panorama della storia della filosofia precedente? Quale alternativa può mai esserci alle lezioni frontali nelle discipline umanistiche? Ma davvero facciamo filosofia per cambiare il mondo?

Non può essere che tutta la filosofia del passato si sia rivelata una cattedrale nel deserto. Ci sono luoghi, fisici e non, lontani dall’accademismo, che praticano una filosofia viva, attiva e fattiva. Una parte del mondo accademico ha (forse) rinunciato a quella legittima pretesa: che la filosofia sia in grado di elaborare visioni orientative in un mondo che cambia sempre più rapidamente. Assumiamo questo come constatazione, come punto di partenza. Per fare cosa? Certo è che, per dirla nuovamente con Schelling, «qui c’è ancora parecchio da fare».

 

Edoardo Anziano

 

NOTE
Le citazioni di Schelling sono tratte da G.W.F. Hegel, Epistolario, 1785-1808, p. 107, citato in Borghesi, Massimo, L’età dello spirito in Hegel, Roma: Edizioni Studium, 1995.

[Photo credit Giammarco Boscaro via Unsplash]

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Friedrich Hölderlin: ritratto di una vita

Pochi poeti sanno sacrificare la vita sull’altare della poesia, pochi si affidano ad essa, la sanno ascoltare e ce la indicano aprendo spazi tra il silenzio e il rumore.

Tra questi brilla Friedrich Hölderlin, nato in provincia sveva, egli cresce nel chiuso ambiente pietistico, soffrendo la perdita di due padri prima del decimo compleanno: il giovane verrà adottato dalla natura, che il poeta non cesserà di cantare. Essa viene vissuta come il luogo dell’assenza di nomi -che è assenza di forme- di quei nomi che gli uomini si danno come fosse in loro potere di nominare, nella viva voce del poeta:

 

certo allora non vi chiamai

coi vostri nomi, come voi

non mi chiamaste mai

col nome che gli uomini si danno

quasi si conoscessero:

 

ma conobbi voi meglio

di quanto mai conobbi gli uomini:

io capii il silenzio del Cielo,

io non ho mai capito la parola umana[1]

La sua vita fu condotta in continuo dissidio con l’amata madre che per lui aveva già deciso il ruolo di pastore protestante. Contro questa rivendica sommessamente la volontà di svolgere la “professione più innocente”: il poeta, il giocoliere della parola.
Finiti gli studi entrò nel grandioso ambiente dell’idealismo di Jena. Compagno di studi e stretto amico di Hegel e Schelling. Intrattenne poi uno stretto rapporto con Schiller, il quale gli presentò Goethe. Questi, chiamato a giudicare alcune poesie di Hölderlin, le accolse con indifferenza rifiutandogli il ruolo di gesprächspartner ossia di (degno) “interlocutore”.
Le prime delusioni, il mancato riconoscimento dei pari, l`ombra minacciosa della madre con il suo strascico di pretese, l’ insuccesso dell’ Iperione che Hölderlin considerava come il romanzo del riscatto, il fallimento del progetto di una rivista che avrebbe dovuto raccogliere i massimi poeti tedeschi dell’epoca, portarono il poeta in un vortice che culminò con la morte di Susette Gontard,chiamata nelle liriche e nell’ Iperione Diotima, nome non casuale che mostra quanto l`influsso platonico abbia pesato nella maturazione della concezione estetico hölderliniana fino a dichiarare:

“Santo Platone, perdona! Molto si è peccato contro di te! ” [2]

A questi episodi seguirono i primi eccessi di follia, gli amici più stretti, forse sottovalutando lo stato di malattia, se ne disinteressarono, abbandonandolo in una struttura psichiatrica. Verrà prelevato nel 1807 da un certo Zimmer, un falegname mosso a riconoscenza a seguito della lettura dell’Iperione.

L’umanità di questo sconosciuto stupisce non meno dell’opera più riuscita di Schiller, o di una lezione di Hegel e ci rivela l’humus segreto su cui è potuta fiorire una delle più grandi generazioni di uomini che la terra abbia conosciuto.

Hölderlin si spegnerà dopo 36 anni di ritiro nella casa del falegname, senza essersi rimesso dalla follia, avendo continuato a scrivere poesie firmate con nomi fittizi (il più frequente fu Scardanelli, ma anche Salvator Rosa e altri) e datate in secoli precedenti.

Chiunque voglia narrare sommariamente la vita del poeta incontra almeno due principali problemi da affrontare: il primo è dovuto alla necessaria operazione di smitizzazione e repulisti di tutti quegli autori caduti in letture violentemente ideologiche, come nel caso di Nietzsche – autore che col nostro ha più di qualche sporadica somiglianza – il secondo è invece di natura più ostica e consiste nel rintracciare quelle vicende e traumi che Hölderlin sfrutterà come altissima fonte della sua poetica.

Lo sforzo è di eliminare nella vita la prosa dalla poesia e le contingenze dalle necessità artistiche, dove per quest’ ultime si intendono quelle vicende a cui il poeta dona senso cantandole, riscrivendole in un destino, sottraendole al caso.

Hölderlin, intingendo la penna nel proprio sangue prima di scrivere, trae la sua forza poetica, in un’alternanza di armonie e dissonanze, rimanendo fedele al sacro en kai pan [3].

Alla costante ricerca di trovare la propria tonalità originaria, il proprio segno poetico, il poeta si muove tra ambienti arcadici e abissali anticipazioni dal sapore novecentesco, come nella poesia Mnemosyne i cui primi versi recitano:

 

“Noi siamo un segno non significante,

indolore, quasi abbiamo perduto

nell’esilio il linguaggio” [4]

.

Francesco Fanti Rovetta

 

NOTE

[1] F. HÖLDERLIN, Quando ero ragazzo, Liriche, traduzione di E. Mandruzzato, 1993

[2] F. HÖLDERLIN, Iperone, prefazione alla seconda stesura. Il modo in cui viene connotato Platone in poco meno di una riga è massimamente espressiva del clima entro cui avviene la ricezione hölderliniana dei temi platonici: da un lato derivante la cristianizzazione del filosofo greco, dall’altro attraverso la lettura e traduzione rinascimentale di Marsilio Ficino.

[3] Dal greco, letteralmente: “uno e tutto”, classica formula panteistica.

[4] F. HÖLDERLIN, Mnemosyne, Liriche, traduzione di E. Mandruzzato, 1993