“Idda” di Michela Marzano: un viaggio sull’amore, l’identità e la memoria

A fine febbraio, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo Idda, abbiamo avuto il piacere di incontrare per la seconda volta nella nostra Treviso, presso la libreria Lovat di Villorba, la filosofa e scrittrice Michela Marzano. E non c’è dubbio, la sua straordinaria capacità di trattare l’umano da vicino, cogliendone la vulnerabilità estrema e le fragilità, riuscendo a nominarla con una delicatezza e una sensibilità rara, ha nuovamente travolto e attraversato i cuori del pubblico. La sala era gremita e gli applausi si alternavano a istanti di commozione durante i quali il racconto dell’autrice lasciava spazio alle storie di vita delle persone sedute in sala.

Michela Marzano è docente ordinario di filosofia morale all’Université Paris Descartes e si occupa principalmente delle questioni legate alle tematiche di etica medica, al corpo, all’identità, alla violenza di genere e ai diritti civili. Oltre ai numerosi saggi, ricordiamo il best-seller Volevo essere una farfalla, L’Amore è tutto, è tutto ciò che so dell’amore, vincitore del 62^ premio Bancarella nel 2014 e i due primi romanzi L’amore che mi resta (Einaudi, 2017) e Idda (Einaudi, 2019).

 

Idda è il secondo romanzo che hai scritto. In precedenza ti sei dedicata ai saggi. Da che cosa ha avuto origine questo spostamento dalla precisione della struttura argomentativa propria del saggio alla libertà narrativa della fiction di un romanzo?

Credo che lavorando su questioni che riguardano la vulnerabilità dell’esistenza, la finitezza, le fratture, le contraddizioni dell’umano,  il saggio rappresenti, almeno per me, uno strumento troppo stretto, nel senso che non era più sufficientemente capace di parlare di tutti questi temi.

Quando si scrive un saggio si hanno delle ipotesi, ci si poggia su una determinata bibliografia, si argomenta e si spiega. Il problema, però, è che quando si affrontano le questioni legate alla fragilità al plurale, più che spiegare e argomentare, abbiamo bisogno di mostrare e di raccontare. Già Umberto Eco diceva che quando viene meno l’argomentazione si deve narrativizzare, cioè “narrare per mostrare”, al fine di permettere alle persone di identificarsi in determinate situazioni, che sono poi quelle che a me piacciono, di cui mi piace parlare.  Ho quindi avuto la sensazione, pian piano, che la scrittura narrativa mi permettesse di andare molto più lontano rispetto alla scrittura saggistica.

 

Puoi raccontarci da che cosa è emerso il bisogno di scrivere Idda?

Io direi che ci sono due punti di partenza dietro al bisogno di scrivere questo libro. Da un lato, ciò che mi ha spinto è stata  la domanda esistenziale-filosofica riguardante l’identità personale, cioè: chi siamo quando pezzi della nostra esistenza scivolano via? E quindi, siamo sempre le stesse persone di prima quando cominciamo a non riconoscere più le persone care oppure, quando cominciamo a non riconoscerci guardandoci allo specchio? Questi quesiti hanno costituito la guida direzionale per affrontare e dare un tassello supplementare alla questione dell’identità personale.

Dopodiché, c’è stato l’Evento, che per me è sempre importante, e che, nel caso specifico, riguarda la mamma di mio marito, Renée. Renée si è ammalata di Alzheimer e se n’è andata in punta di piedi ad ottobre dell’anno scorso. Idda nasce dall’urgenza e dall’esigenza di raccontare com’è e che cos’è la vita di una persona che comincia effettivamente a mescolare tutto, dimenticando pezzi della propria storia dove tutto dventa confuso.

Ho voluto raccontare quindi anche quello che ho scoperto confrontandomi con la mamma di mio marito, cioè il fatto che in realtà non è vero che, con una malattia come quella dell’Alzheimer, una persona cambia drasticamente. In realtà, ciò che resta è l’essenziale, l’essenziale di una vita, quegli episodi che ci hanno talmente tanto marcato da costituire la nostra identità, quegli istanti che non scivolano via, quell’affettività che noi teniamo sempre accanto, all’interno di noi anche quando razionalmente ci allontaniamo dagli altri. Quell’affettività e quell’amore che nemmeno l’oblio più profondo riesce a cancellare.

 

Nel libro si parla di quello che ciò che gli specialisti definiscono residui di sé. Come secondo te possono essere definiti questi residui del sé?

Io direi che questi residui di sé possono essere rappresentati dall’affettività, dalla familiarità con le cose care. Annie, la protagonista del libro, talvolta, non riesce più a riconosce Pierre, il figlio, come tale; tuttavia, nemmeno per un istante pensa che Pierre sia un estraneo perché egli resta sempre all’interno della sua sfera affettiva. Anche se a volte Pierre diventa il marito, altre volte il padre, dentro di lei resta quel “qualcosa” che fa sì che, di fatto, quello che c’è stato non scomparirà mai,  quell’amore resterà per sempre.

 

La filosofia in Italia solo in tempi recenti sta tentando di ridurre quella distanza esistente tra la ricerca e lo specialismo filosofico, proprio dei contesti accademici, e le esigenze culturali di un pubblico popolare. Se e in che modo secondo te la ricerca filosofica e la sua divulgazione possono dialogare in modo sinergico?

Ritengo che la ricerca filosofica e la divulgazione dovrebbero dialogare in modo sinergico. Basti pensare al pensiero di Socrate, il quale camminava per le strade della città e dialogava con i cittadini, cercando maieuticamente di far maturare la riflessione, lo spirito critico. Se dunque partiamo dal presupposto che la natura della filosofia è di essere dialogica, il pensiero stesso non può essere rinchiuso all’interno della torre d’avorio. Forse, infatti, dovrebbe dimenticare un po’ di quei tecnicismi che lo stanno facendo soffocare.

Dobbiamo tornare a dialogare e a permettere alla filosofia di essere filosofia, un pensiero alla fine incarnato. Credo che però, in questo, ci sia una grande responsabilità da parte di molti accademici che hanno immaginato di poter fare della filosofia una disciplina da laboratorio. Al contrario, fare filosofia significa trattare le questioni sull’umano, ed è per questo che un tale oggetto di ricerca non lo si può trattare se non con e attraverso gli umani.

 

Obiettivo de La Chiave di Sophia è quello di aprire la filosofia ad un pubblico eterogeneo e neofita, proponendo questioni centrali per l’individuo e connesse fortemente con la vita quotidiana. In che modo secondo te la filosofia può sempre più avvicinarsi a chi non ha mai avuto modo di approcciarsi ad essa?

Ritengo che alla base della filosofia ci sia, nonostante tutto, una grande domanda di senso, una richiesta di strumenti per trovare una propria direzione verso cui andare. Per questo, penso che possa essere anche “facile” avvicinarsi alle persone. Queste, infatti, non aspettano necessariamente delle risposte, anche perché non è proprio lo scopo della filosofia sempre e solo dare delle risposte; al contrario, trovare il modo di porre delle buone domande e poter elaborare degli strumenti critici per poi costruire il proprio futuro: questa è la ragione dell’esistenza del pensiero che poi non è altro che ciò che accomuna ciascuno di noi. Proprio per questo, può diventare “semplice” avvicinarsi al pubblico: in questo momento storico, le persone dispongono di domande di senso e esprimono il bisogno di strumenti capaci di permettere loro di dare un senso alla propria esistenza.

 

Greta Esposito e Sara Roggi

 

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La notte eterna di Noa: per una società della cura e del non abbandono

Noa aveva solo diciassette anni quando prese la decisione definitiva di morire, come aveva riportato nel suo ultimo post del suo profilo Instagram.

Per Noa quell’esistenza non rappresentava nemmeno più una mera sopravvivenza. La vita le era diventata tanto pesante da non poter più trovare la forza, da sola, di sostenere quel macigno che, anno dopo anno, la stava schiacciando. “Ho deciso di lasciarmi andare perché la mia sofferenza è insopportabile. Respiro, ma non vivo più”. Queste le parole che quasi tutti i quotidiani hanno riportato e che si fanno portavoce della lacerazione interiore, della profonda sofferenza che Noa si portava dentro e con cui non riusciva più a vivere.

“Respiro ma non vivo”. Un respiro dopo l’altro, nel suo processo naturale di inspirazione e espirazione. Solo ossigeno che riempie i polmoni. Un’esistenza delimitata dal suo mero decorso biologistico. Un decorso che è proseguito fino al momento in cui Noa annunciò la decisione definitiva di lasciarsi morire, rinunciando a nutrirsi ed idratarsi. Per porre fine a quell’atto respiratorio che costituiva ormai l’unico elemento che la teneva in vita. 

Aggredita a soli undici anni e successivamente violentata a quattordici, non riusciva a sopportare tutto quel dolore che, ancora bambina, aveva travolto il suo corpo e la sua identità all’improvviso. “Mi sento ancora sporca”, diceva. Impossibile mettere un punto e ricominciare da capo. Prima la depressione. Poi l’anoressia, quel mostro che l’aveva costretta a vivere con un sondino nasogastrico durante ogni singolo giorno del suo ultimo anno di vita. Continue ricadute. Un tentativo di suicidio. Così come continui i tentativi di rivolgersi a delle strutture in grado di seguirla e di aiutarla a convivere con quell’incubo che da anni ormai non le permetteva di vivere un’adolescenza normale, fatta della spensieratezza dei ragazzi della sua età.

Molteplici le richieste di aiuto, sia da parte di Noa che da parte dei genitori. Troppe poche, forse, le risposte da parte di un entourage capace di convincerla che la vita poteva prendere una direzione diversa, che non sarebbe mai stata abbandonata, che ci sarebbe sempre stato qualcuno lì ad accarezzarla, a farle capire che era una ragazza unica, insostituibile, che la sua vita aveva una valore. Che dietro a quei respiri c’era un senso profondo. 

Da sola Noa non sarebbe mai potuta uscire da quella notte senza fine che è la vita quando viene attraversata da un dolore che frantuma in mille pezzi. Non è possibile vedere il bello in completa autonomia quando il cielo si tinge prima di grigio perla, poi fumo, tortora, ardesia, antracite; e, in fondo, quando lo sguardo si copre di grigio antracite non ha già perso quella capacità di distinguere e di discernere un punto di luce dal resto? Quando il cielo diventa come il cemento, non ha già perso tutte le sfumature del grigio? Il cielo non è forse nero?
Nessun orizzonte di luce. Nessuna sfumatura. Solo nero intenso. 

Dall’oscurità più profonda non ci si può salvare da soli, certo. Per questo abbiamo bisogno dell’altro per sopravvivere, l’altro lì a ricordarci che il nero può sbiadire, sfumare, tornare ad essere grigio, e poi bianco, e celeste. Il cielo di Noa era immerso nell’oscurità e in quello stesso cielo nero l’hanno lasciata addormentarsi.  

Dopo la morte di Noa, i giornali italiani hanno inveito contro eutanasia e suicidio assistito, focalizzando l’attenzione su una questione che con Noa c’entrava ben poco. Non solo la richiesta della ragazza di far ricorso all’eutanasia era stata rifiutata dalla clinica cui lei e i suoi genitori si erano rivolti qualche anno fa; ma un tale dibattito decentrerebbe lo sguardo pubblico dall’unica cosa che Noa voleva urlare al mondo: l’inspiegabile vuoto di senso della propria vita, l’abbandono che provava e la sostanziale incapacità – sociale e sanitaria- di aiutarla efficacemente in percorso di cura continuativo ed adeguato. Non un percorso di “guarigione”, dunque; la depressione non è come un’influenza, non c’è niente da guarire, nessuna funzione da “ripristinare”. Una ferita come quella di Noa aveva però bisogno della presenza di una cura. Un “io ci sono, tu sei qui con me?”. 

Non è forse questa la più intensa e bella pratica di cura? Una presenza insostituibile, una stretta di mano che trasmette coraggio, una spinta a  cogliere la bellezza della vita, malgrado le difficoltà, le crisi, le insicurezze; il coraggio di intravedere l’azzurro del cielo attraverso le molteplici sfumature del grigio. 

La madre della ragazza comunicò inoltre la complessità di entrare in cliniche psichiatriche specializzate, le liste d’attesa infinite, l’assenza di strutture per i disturbi alimentari. La figlia passava costantemente da un ospedale all’altro, più volte indotta al coma al fine di poterla nutrire artificialmente con una sonda. 

Noa si è spenta piano piano. Forse, attraversata da un profondo senso di abbandono. 

L’hanno “lasciata andare”, senza prendersi cura di lei. Una resa sociale, confermata dalla resa personale di chi non ce la fa più e, nella disperazione, non vede altra soluzione proprio perché nessun altro riesce a farle scorgere alternative possibili, colori diversi dal nero. 

Quando in realtà, anche se talvolta è difficile ammetterlo, è solo chi resta a poter dare un senso all’esistenza di chi, quella vita, la vuole lasciare. 

 

Sara Roggi

 

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Quando il volto non riesce a raccontarsi: identità e corpo nell’esperienza del trapianto facciale

Alle ore cinque del mattino di sabato 22 settembre si è concluso il primo trapianto di faccia in Italia. Un intervento iniziato circa alle otto del mattino di venerdì e durato ventiquattr’ore, secondo quanto affermato dai medici dell’ospedale Sant’Andrea di Roma.

Il ricevente è una donna di quarantanove anni affetta da una grave forma di neurofibromatosi di tipo I, una malattia genetica che andrebbe a colpire la cute e il sistema nervoso, manifestandosi attraverso la comparsa di macchie color caffelatte su tutta la superficie corporea ed escrescenze anche sull’iride dell’occhio. L’intervento è stato reso possibile da una giovane donatrice, una ventunenne morta a causa di un incidente stradale.

Certo, l’intervento è “tecnicamente riuscito”. La paziente è stata indotta ad un coma farmacologico ed è stata sottoposta, come di prassi, alla terapia antirigetto. Quello della paziente è stato un intervento che ha previsto quattro anni di preparazione, incontri e terapia psicologica, esami e accertamenti; fino a quando, il giusto donatore compatibile è arrivato. E con il donatore, la prima chance di rinascita.

Quello al volto è definito come un trapianto “multitessuto”, comprendente pelle, fasce muscolari e cartilagine. Sebbene non si tratti di un trapianto di un organo salvavita, come cuore o fegato, sottoporsi a un tale intervento significa affrontare le difficoltà di una preparazione non solo fisica, quanto più psicologica, che avrebbe condotto la donna a decidere per il trapianto. Secondo ciò che è stato riportato dai medici dell’Azienda universitaria-ospedaliera Sant’Andrea di Roma, la donna avrebbe sempre dimostrato un atteggiamento positivo nei confronti della vita, a tal punto che, poco prima di essere sedata, avrebbe comunicato ai medici di non avere paura rispetto a ciò cui stava andando incontro.

D’altronde, chi potrebbe permettersi di mettere in discussione la scelta di chi si è sentito abitato da un corpo non proprio, alieno, un corpo deformato dall’aggravarsi della malattia? Come potersi mettersi nei panni di chi ha combattuto fin dall’adolescenza con la paura del giudizio e dello sguardo altrui?

Quando parliamo del nostro corpo e delle difficoltà che si possono incontrare nel vivere con esso, non si può non rivolgersi al contempo a quell’identità che si scrive attraverso il corpo. Un’identità che, come nel caso di questa donna, era in pezzi. Nessuno potrà mai comprendere il disagio e la sofferenza che si portava dentro, questo bisogno di cambiare vita, di cambiare volto, di rinascere.

Ma rinascere da cosa? Rinascere da una lotta contro se stessi, forse?

Rinascere da un sé in frantumi? E verso quale direzione?

La scelta di questa donna è stata dettata dal bisogno di ritrovare il senso della propria vita, che poi non significa altro che ritrovare il senso della propria storia e della propria identità, attraverso le ferite di un corpo da troppo tempo lacerato da un dolore insopportabile. Un corpo strappato dalla propria ricerca di senso. Un corpo piegato dal dolore di un’inadeguatezza profonda, un’inadeguatezza che ha fatto i conti con l’opportunità di una svolta, resa possibile dal trapianto facciale.

Il prezzo di tale rinascita, tuttavia, è stato quello di accogliere parte del corpo di un altro. E, a differenza del trapianto di altri organi, quello al volto implica un cambiamento visibile, evidente e percepibile dall’esterno. Non si tratta unicamente di accogliere dentro di sé parte del corpo di un altro – pensiamo ad esempio alle implicazioni esistenziali successive al trapianto di cuore e riportate nelle bellissime pagine di Jean Luc Nancy, il quale descrive la complessità di accettare anche solo il battito del cuore di un altro – ma di mostrare all’esterno, agli altri, una parte di sé che apparteneva a quel donatore, ad un’altra vita, un’altra storia, ad un altro senso. Non contando inoltre i rischi cui il paziente si sottopone, una volta accettato il trapianto. La terapia immunosoppressiva e le possibili e conseguenti infezioni. Il successivo potenziale rigetto.

Non si tratta di un mero intervento “tecnico ben riuscito”, quindi.

Dopo poche ore, i medici del Sant’Andrea hanno dichiarato che la donna, malgrado non rischi la vita, è andata incontro a un rigetto che avrebbe comportato la ricostruzione temporanea dei tessuti autologhi. Come nel caso di qualsiasi organo trapiantato, andare incontro a un rigetto costituisce l’improvviso rifiuto del proprio organismo nell’accettare l’organo ricevuto. Ciò in attesa di un secondo donatore compatibile. Di un altro strappo. Di un altro cambiamento per la vita. Un cambiamento che, però, non può non lasciare una traccia in quel corpo che ci definisce e ci muove, che è a sua volta definito da un sentiero, che è il nostro, e che non è altro se non il racconto di ciò che siamo stati, che siamo e saremo.

 

Sara Roggi

 

[Credits Noah Buscher su Unsplash.com]

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Il significato del “bene” nella pratica clinica. Casi clinici di fine vita

Non ci dimenticheremo mai di Alfie. Così come non ci dimenticheremo mai di Charlie.

Bambini così piccoli per essere strappati via dalla vita. Guancette porpora, occhi stanchi, spesso chiusi. L’abbraccio commovente di un padre al proprio figlio. Un orsacchiotto di peluche disteso accanto a quel corpicino esile, una compagnia familiare su un letto estraneo, quello di un ospedale. Macchine accese a scandire la vita che passa, che scivola, che scorre senza “se e senza ma”.  Senza concessioni, né tregue. Il tempo passa − da quanto tempo, forse troppo? Ma chi siamo noi, in fin dei conti, per giudicare il troppo e il troppo poco, il giusto e lo sbagliato? −, e quei corpicini sono ancora lì, la ventilazione meccanica li aiuta a respirare, il sondino nasogastrico ad alimentarsi e idratarsi.

Come potremmo mai dimenticarci di Dj Fabo, Eluana e Piergiorgio Welby? Corpi sofferenti, talvolta coscienti, ancora in grado discernere il loro bene, di ascoltare il proprio desiderio, di affrontare la morte anche laddove questa rappresenta la sola alternativa ad una condizione irreversibile, irreparabile.

Ci ricordiamo questi volti, le notizie trasmesse giorno dopo giorno dai telegiornali, le dispute tra chi sostiene che la vita debba essere protetta e difesa e che dunque i trattamenti siano necessari e imprescindibili per tale fine, opponendosi all’interruzione dei presidi vitali da un lato, e coloro i quali, dall’altro, difendono il diritto alla vita nei termini di una finitudine umana mortale cui non ci è permesso di sottrarci e contro la quale, prima o poi, veniamo a  chiamati a fare i conti.

Certo, quando si parla di bambini e di minori è sempre più complicato. Lo è poiché ci esponiamo alla vulnerabilità estrema di una relazione che deborda quella medico-paziente: i terzi sono dei genitori, direttamente implicati nella cura giornaliera del proprio bambino, personalmente coinvolti in una sofferenza senza fine che vede il loro figlio sospeso tra la vita e la morte.

Ce lo ricordiamo tutti il recente caso Alfie, la sua storia ha commosso il mondo intero; fino alla fine, la sua mamma e il suo papà hanno lottato contro tutto e contro tutti − perfino contro i giudici e i medici che si prendevano cura di lui. Volevano salvarlo, salvarlo da quella vita già segnata; salvarlo da un destino che, forse, avrebbero voluto cambiare con tutti i mezzi a loro disposizione. Ma di quali mezzi disponevano effettivamente? Una tracheotomia e una PEG per allungare il numero dei giorni da vivere e capire se, in un modo o nell’altro, ci sarebbe stata la possibilità di cambiare il decorso di una malattia neurodegenerativa, purtroppo inguaribile?

Vero è che Alfie per un po’, una volta interrotta la respirazione artificiale, è riuscito respirare in completa autonomia. Giorni che facevano credere che il piccolo guerriero fosse riuscito a dimostrare di potercela fare anche da solo, senza l’aiuto della tecnica medica. Eppure, se questo è ciò che molte notizie volevano far trasparire con la comunicazione “Il piccolo Alfie respira da solo!”, è giusto porre l’attenzione sulla sofferenza nascosta di ogni suo singolo respiro. Una sofferenza indecifrabile, determinata da uno stato fisico molto fragile. Respirare autonomamente significava riuscire a sopravvivere, certo; riuscire a sopravvivere fin tanto che ce l’avrebbe fatta con le proprie forze, le energie di un piccolo guerriero. Ecco perché i presidi vitali sembravano necessari: il bambino aveva dimostrato di essere forte e un giorno, avrebbe potuto farcela di nuovo. Il desiderio dei due genitori, infatti, era nutrito dal bisogno di dare al piccolo Alfie non una possibilità di mera sopravvivenza, ma di vita. Sarebbe però stato davvero concretizzabile? Fino a che punto il giudizio clinico può essere scavalcato? Poteva il prolungamento quantitativo della vita del piccolo paziente corrispondere ad un progresso qualitativo?

La decisione di sospendere i presidi vitali, dettata dai medici in funzione di una tutela della vita, ha rappresentato l’estremo gesto di cura, inteso come un to care e non come un semplice to cure. Laddove guarire non è possibile e utilizzare trattamenti salvavita diventa sproporzionato, il ruolo dei medici continua ad essere quello di prendersi cura del paziente, traducendosi nei termini di un giudizio di proporzionalità rispetto al trattamento previsto. È questo l’aspetto più ignorato quando la bioetica emerge dai casi clinici degni di nota. “Il medico deve fare il bene del paziente, non procurarne la morte”: questo si dice quando i trattamenti vengono interrotti. Ma di quale bene stiamo parlando? Qual è la vera intenzione dei clinici di fronte a casi irreversibili? In quali circostanze le cure sono appropriate e non rientrano nella medical futility?

Quando i clinici hanno riferito ai genitori di Alfie la necessità di sospendere i presidi vitali, è stato perché proseguirli non avrebbe costituito un atto medico volto al raggiungimento del bene dello stesso paziente. Al contrario, sarebbe equivalso al prolungamento di sofferenze intollerabili cui il bambino non avrebbe potuto nemmeno dare voce. L’intenzionalità sottostante alla pratica clinica non è quella di causare la morte − in quanto la sospensione ne costituirebbe unicamente la condizione clinica − ma rispettare la vita, accettando i limiti di una scienza che, come la medicina, non può fare tutto, non può prolungare indefinitamente l’esistenza procurando, in taluni casi, unicamente una stasi, un’immobilità, e in altri, una diminuzione della qualità di vita del paziente.

Il dolore della perdita è qualcosa di inenarrabile. Indescrivibile. Silenzioso.

Il piccolo Alfie, il piccolo Charlie, Eluana, Piergiorgio, Dj Fabo. Tanti nomi. Tante storie che ci hanno trasmesso il valore della vita e del coraggio. Contesti culturali diversi, dall’Italia all’Inghilterra. Ogni racconto ci parla di una finitudine incontestabile, che si impone prepotentemente. Tanti nomi che hanno chiamato in causa le nostre vite, interrogandoci sulle paure profonde che ci attraversano. Certo è che, nella pratica clinica, la fine della vita è una questione inevitabile ed è necessario ascoltare quell’universo di relazioni che, ben oltre la clinica, è impastato di sofferenza, fragilità profonde e causa di molti conflitti, incomprensioni. Ciò affinché sia possibile, un giorno, parlare un linguaggio comune in cui la barriera tra medici e pazienti, tra medici e genitori, possa essere abbattuta, trasformando quel muro di calce che li separa in uno spazio comune di comunicazione e riconoscimento reciproco.

 

Sara Roggi

 

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Dichiarazioni Anticipate di Trattamento e pianificazione condivisa della cura

Quella entrata in vigore lo scorso 31 gennaio è una legge che l’Italia aspettava da molto tempo. Certo, è innegabile. Dalla sua approvazione al Senato, burrascoso è stato il dibattito che vede coinvolti da un lato, i difensori della vita a tutti i costi – tradotto in altri termini, i sostenitori del principio ippocratico di beneficienza primum non nocere – e dall’altro, i partigiani della “morte degna”, appartenenti ad una visione di gran lunga più laica del morire in seno alla quale è necessario dare al malato l’ultima parola, concedendogli dunque l’opportunità di esprimere le proprie preferenze laddove la medicina non può che raggiungere il suo limite ultimo.

È stata una donna di soli cinquant’anni affetta da SLA ad aver fatto valere sulla propria pelle i risultati di questa legge in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento. Sarebbe pertanto stato questo il primo caso d’interruzione di trattamento del 2018. Dopo cinque anni di sofferenze e di lotta contro un destino che, però, era già stato scritto, non ce la faceva proprio più ad andare avanti ed ha manifestato la sua volontà: rinunciare alla ventilazione meccanica davanti ad un’équipe sanitaria composta dal medico, dal palliativista, dallo psichiatra, dal rianimatore e dall’anestesista, lasciando la via libera all’inarrestabile e naturale decorso della sua malattia.

Prima estubata e poi, gradualmente sedata, la vita di Patrizia si è spenta lentamente, così come la paziente l’aveva espresso più volte, addormentandosi dolcemente verso un cammino di non ritorno.

Quando si parla di sospensione dei trattamenti non si può non fare i conti con i quesiti etici emergenti dalla tematica dibattuta, troppo spesso temuta, del fine vita; quesiti che ci fanno inevitabilmente affrontare la complessità della vita. La vulnerabilità e le fragilità dell’essere umano. Le difficoltà che una malattia neurodegenerativa porta con sé. Domande che bussano alla porta, in attesa di una risposta. Un appello al coraggio, per affrontare la paura di una fine con cui si è chiamati a fare i conti perché le sofferenze e gli oneri sono sproporzionati e i trattamenti, talvolta, inappropriati.

Quello vissuto da Patrizia è un calvario che ci conduce a riflettere circa i valori di una legge sudata, conquistata con la fatica, in un paese in cui, dire “basta” alla vita sembrava fare più male del vedere dei corpi sofferenti, ormai arresi alle sofferenze insopportabili della malattia, corpi costretti a un letto d’ospedale ed accompagnati dall’ausilio della tecnica medica, sola capace di mantenere in sospeso le funzioni vitali del corpo, anche laddove di vita non si può più parlare.     

Un aspetto fondamentale di questa legge, di cui si discute forse meno ma che risulta essere fondamentale nella relazione medico-paziente, concerne la programmazione delle cure, aspetto trattato nell’articolo 5 1, secondo il quale, come nel caso della donna cinquantenne affetta da SLA, in circostanze di patologia cronica o caratterizzata da una inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, è possibile realizzare una pianificazione condivisa del percorso terapeutico in ragione alla quale il medico e tutta l’équipe sanitaria sono obbligati ad attenersi qualora il paziente non fosse più in grado, a causa della patologia invalidante, di esprimere nuovamente il proprio consenso o qualora si trovasse in una situazione di incapacità.

Sono principalmente due le questioni principali, sollevate da quest’articolo e che, di fatto, ricollegano la pianificazione al significato profondo del consenso informato del paziente.

Prima di tutto, il valore di una relazione medico-paziente che dovrebbe andare ben oltre la mera sfera clinica, permettendo per altro al clinico di mettersi empaticamente “nei panni dell’altro”. Come lo spiega la filosofa e scrittrice Edith Stein in Il problema dell’empatia 2, con il concetto di empatia non si vuole descrivere una fusione emotiva nell’altro; al contrario, si è empaticamente vicini all’alterità se, nel tentativo di capire ciò che l’altro prova, mettendosi al suo posto, si è capaci di distinguersi da lui, prendendone le distanze ed evitando quindi un’unione fusionale. È la distinzione tra medico e paziente, quella stessa distinzione alla base del percorso di riconoscimento, a fornire gli strumenti al medico per oggettivare ciò che l’altro sente, senza farsi psichicamente coinvolgere dalle sue emozioni. Perciò, grazie all’empatia, clinici e pazienti riuscirebbero a posizionarsi sullo stesso piano, nell’obiettivo di mantenere un rapporto fiduciario capace di tenere equamente bilanciati da un alto, le condizioni cliniche e dall’altro, le preferenze soggettive del paziente, segnate da una particolare storia e da determinati valori. La pianificazione condivisa delle cure permette inoltre, attraverso la fiducia consolidatasi nella relazione di cura, di attualizzare costantemente i desideri del malato, fin tanto che ne sarà capace.

L’attualizzazione è, infatti, un elemento imprescindibile del consenso informato; le malattie croniche sono diventate, oggi, notevolmente più frequenti rispetto alle patologie acute; pertanto, la dimensione temporale della relazione di cura permette al paziente di rivisitare la sua decisione in termini di consenso, confermandola oppure revocandola, secondo l’andamento delle sue condizioni cliniche. Non è un caso che, come redatto all’articolo uno, accanto al diritto di acconsentire al trattamento terapeutico, il paziente abbia anche il diritto di revocare in qualsiasi momento il consenso prestato, attualizzando le proprie preferenze circa la sospensione oppure la continuazione di un trattamento sanitario.

Chiaro è che Patrizia, quando cinque anni fa le fu diagnosticata la SLA, non conosceva esattamente ciò a cui sarebbe andata incontro. Solo esperire il dramma della malattia le ha permesso di confermare a più riprese la sua decisione di sospendere la ventilazione meccanica che la manteneva in vita.

Di quale vita, infatti, staremmo ancora parlando se rimanessimo fermi nella condizione di considerare equivalenti da un alto, il mantenimento delle funzioni vitali, attraverso l’utilizzo della ventilazione meccanica, idratazione e nutrizione artificiale, e dall’altro, l’esistenza in quanto tale, impastata di relazioni, parole, gesti e sapori?

Quella di Patrizia era oramai un’esistenza strappata dalle sofferenze intollerabili, confermate pertanto del suo ripetuto desiderio di sospendere un trattamento irragionevole, lasciandosi andare a una patologia degenerativa che costringeva la paziente, ma anche i suoi familiari, a sopportare degli oneri sproporzionati e una condizione clinica che non avrebbe concesso nessuna speranza di miglioramento.

È allora opportuno soffermarsi sul significato della Carta Fondamentale dei Diritti Umani laddove si insiste sull’inviolabilità della dignità della persona, una dignità da rispettare e tutelare fino alla fine, soprattutto quando è il paziente a chiedere ai professionisti sanitari di essere sollevato da trattamenti che non gli permetterebbero più di vivere dignitosamente.

Anche in Italia, un passo in avanti è stato fatto. Si può solo continuare a credere che, al di là dei conflitti di interesse, si possa essere disposti, di volta in volta, a valorizzare la volontà del paziente quando quest’ultimo esprime il rifiuto rispetto alla proposta medica di un trattamento oppure il bisogno di interromperlo perché le sofferenze ed i costi sono diventati eccessivi ed insopportabili rispetto ai benefici clinici possibili.

 

Sara Roggi

 

NOTE
1. È possibile consultare il testo integrale della legge n. 219, “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, approvata il 22 dicembre 2017 ed entrata in vigore il 31 gennaio 2018 qui.
2. E. Stein, Il problema dell’empatia, Studium Editore, 2012.

 

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Comunque andare

<p>grungy heart beat</p>

Ero vicino a te. Sì, proprio vicino a te, seduta su quella poltroncina azzurra con  lo schienale e i braccioli consumati dal tempo. Stanza 23. Armadietto 04. Proprio come il giorno della mia nascita.
Sapevo che non ti saresti dimenticato quei numeri.
Il 23 aprile di molti anni prima mi tenevi tra le tue braccia, e il tuo cuore batteva con il mio. Ce l’hai scritta nella tua agendina di pelle nera quella data; quell’agendina che tieni custodita nel cassetto del comodino al lato sinistro del letto e che ripesco, per caso, 25 anni dopo.

Ero vicino a te. Reparto di cardiochirurgia dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso.
Ormai lo conoscevo a memoria, sai? Malgrado il mio pessimo senso dell’orientamento, sapevo bene che percorso fare per raggiungerti. Quello più corto, dall’ingresso laterale. No, nonno, non lo facevo di corsa. Cioè, sì. Talvolta mi è capitato di correre per arrivare prima da te. Correvo, sfiorando chiunque mi capitasse di fianco. Correvo, anche se sapevo che da lì non ti saresti mosso. Ad ogni passo percorso, ero più vicina al tuo cuore.
Lo prometto nonno, non lo rifarò più.

Ero vicino a te. Ma tu non mi sentivi. Mi avvicinavo con delicatezza al tuo corpo così fragile. Sentivo il debole battito del tuo cuore. Gli occhi chiusi e stanchi. Ma eri sempre tu. Tu che mi leggevi Pinocchio. Tu che ti facevi pettinare i capelli. Tu che giocavi a carte e facevi finta di niente quando volevo vincere a tutti i costi. Tu che mi portavi con il motorino fino a scuola. Tu che ascoltavi il mio cuoricino battere e ripetevi sottovoce quel “tu-tu”.

Ora sono io a chinarmi per ascoltare quella musica. Ed ho paura. Paura che possa fermarsi, inghiottendo tutti i ricordi e le parole, le carezze e la tua presenza.

Tu-tu. Tu-tu. Il mio cuore con il tuo. Sempre.

Non è facile capire per quali ragioni l’organo cardiaco sia stato associato, nel corso della storia, al profondo universo delle emozioni.
Luogo della memoria e dei ricordi, il cuore è comunemente considerato all’origine dei nostri sentimenti e organo-fondatore della nostra identità.
È necessario tuttavia specificare che questo ruolo centrale fu assegnato al cuore battente solo dopo alcuni secoli. Lungi dall’essere considerato il vivo della vita biologica, psichica, e pulsionale, Sumeri, Assiri e Babilonesi fondarono lo studio del corpo umano su un sistema di tipo ematocentrico.
Inoltre, durante lo stesso fiorire delle civiltà mesopotamiche, in Grecia, Alcmeone di Crotone realizzò i suoi studi di medicina appoggiandosi sul modello egemonico dell’encefalocentrismo, in seno al quale, grazie alle ricerche pratiche condotte dal filosofo e medico greco, il cervello incominciò a rappresentare la sede della congiunzione delle diverse forme di sensazione.
Solo all’interno del Corpus hippocraticum, e più precisamente nel suo Perì Kardies, Ippocrate fornirà le prime osservazioni scientifiche circa la composizione dell’organo cardiaco, attribuendogli un valore centrale in quanto “fuoco innato” che permette al sangue di realizzare, attraverso il calore, il suo circolo.
Gli stessi studi ippocratici furono successivamente rivisitati da Galeno il quale, affermando che la centralità della vita consisteva nel pneuma, cioè nell’aria, o meglio nello spirito, fece del cuore l’organo per eccellenza in quanto sede al contempo della vita fisico-biologica e di quella psichica.

Situato al centro della cavità toracica, fra i due polmoni, dietro lo sterno e appoggiato sul diaframma che lo divide dalle viscere sottostanti, il cuore non è unicamente l’ammasso di cellule del miocardio, necessarie, d’altro canto, per la sua stessa contrazione.

Ciò ci viene suggerito dalla sua stessa origine etimologica. Infatti, il termine “cuore” deriva da un lato, dal latino cor-cordis, richiamante la radice indoeuropea kor avente, nel caso specifico, il significato di “vibrare”, “battere”, e dall’altro, dal greco cardia che proverrebbe dall’antico accadico karsu con il significato di “organo interno”, “viscere come sede delle passioni”, “animo”, “intelligenza”.
L’origine della parola ci permette perciò di riflettere sul significato culturale e psicologico del cuore.

Batticuore. A malincuore. Strappacuore.
Par coeur. By heart.

Sono precise le circostanze nel corso delle quali utilizziamo spontaneamente queste parole.
Ben lontano dall’essere considerato unicamente un organo-pompa per l’attivazione dell’organismo-macchina, il cuore richiama, per così dire naturalmente, il mondo delle emozioni. È forse questa solo una costruzione socio-culturale impastata di luoghi comuni oppure l’organo cardiaco può rivelarsi effettivamente custode della nostra identità emotiva?
Il filosofo Jean Luc Nancy, dopo aver ricevuto un “cuore nuovo” disse:

«Dall’avventura si esce perduti. Non ci si riconosce più: ma “riconoscere” non ha più senso. Si diventa, rapidamente, solo un ondeggiamento, una sospensione di estraneità fra stati non ben identificati, fra dolori, impotenze, cedimenti. Riferirsi a se stessi è diventato un problema, una difficoltà, un’opacità”.  Un cuore “altro”. Un intruso. Un estraneo. Un perdersi senza mai ritrovarsi. Un’identità in frantumi. Una nuova vita. Un racconto di sé che continua. Un nuovo giorno. Un battito nuovo. Diverso»1.

Ero vicino a te. Sentivo il tuo cuore battere. Era sempre lo stesso. Eri sempre tu. Anche se lì dentro qualcosa era cambiato. Il mio cuore batteva con il tuo. E in fondo, credo, questa musica non ce la toglierà mai nessuno.

Il mio cuore con il tuo.

 

Sara Roggi

 

NOTE:
J.L. NANCY, L’intruso, Edizione Cronopio, 2006, 46 p.

 

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Non solo nuoto: intervista a Federica Pellegrini

Non è mai facile fare delle proprie passioni una professione. Talvolta, degli imprevisti ce lo impediscono.
Altre volte, invece, la tenacia, i sacrifici e gli sforzi ci permettono di diventare ciò che desideriamo essere e di realizzare quel sogno che fin da piccoli ci cullava.
Nel mio caso, per esempio, il nuoto agonistico ha impastato le mie giornate dai sette agli undici anni: un pomeriggio dietro l’altro fatto di allenamenti in palestra e di chilometri in vasca. Ma ancora non era abbastanza: sentivo che avevo bisogno di altro e che non sarebbe mai diventato il mio lavoro. E mi sono arresa, abbandonando piano piano quell’attività con la quale ero cresciuta.

Oggi stimo molto chi decide di fare dello sport il proprio lavoro, trasformando la passione sportiva in un’attività professionale a trecentosessanta gradi. Lo sport infatti può insegnare molto ed è molto anche ciò che tutti noi possiamo imparare dagli sportivi: sono sicura che tutti noi, anche i più pigri e meno atletici, in un momento della propria vita abbiamo avuto uno sportivo come modello di vita, del quale ammiravamo la tenacia sperando di riuscire ad essere un giorno altrettanto determinati in qualsiasi ambito delle nostre vite.

Per tutti questi motivi siamo felici di essere riusciti a contattare Federica Pellegrini durante l’Arena Pro Swim Series di Indianapolis: è stata una preziosa occasione per scoprire cosa c’è, anche a livello agonistico, oltre ai tempi ed alla tecnica. La campionessa di Spinea ci ha infatti dimostrato in più occasioni come, al di là delle vittorie e delle sconfitte vissute nel corso della sua carriera, lo sport non sia mai stato un’attività agonistica fine a se stessa. Il nuoto, infatti, è diventato per lei un modo per conoscersi, uno specchio attraverso il quale guardarsi. Così, ci spiega in che modo il legame tra filosofia e sport diventa manifesto: non si tratta tanto di una competizione tra eguali, quanto più di uno stile di vita che consente costantemente di migliorarsi, imparando dai propri errori e assaporando il significato di vittorie, che sono frutto di passione, forza di volontà ma anche di sacrifici.

 

Ad un certo punto della tua vita, ancora piccolina, sei entrata in acqua e hai scoperto che quello era il tuo elemento. L’avevi capito subito che avresti dedicato al nuoto una buona fetta della tua vita, delle tue energie ed aspirazioni?

È stato amore a prima vista, infatti amo definirmi un pesce di acqua dolce. Complice di questa mia passione è stata certamente mia mamma Cinzia, che mi ha accompagnato in piscina a 3 anni.

Il termine “agonismo”, di cui tu sai più di qualcosa, deriva dal termine greco agòn, che letteralmente significa “lotta”. In che modo, a tuo avviso, la competizione agonistica può trasformarsi in una lotta costruttiva, piuttosto che finalizzata all’annientamento dell’altro contendente?

Io concepisco l’agonismo come momento ultimo di una preparazione finalizzata alla gara. Dai il massimo, ogni giorno, per essere pronta nel momento che conta. E’ più una lotta con te stessa che contro le avversarie: se sei preparata come meglio non potresti, i minuti della competizione sono frutto di tutto quello che hai dato in allenamento.

Posso immaginare che per te nuotare sia altrettanto normale e quotidiano del camminare; c’è però una nuotata talmente speciale che non potrai mai dimenticare?

Come decibel e calore puro tutte le gare dei Mondiali di Roma 2009. Come intensità del momento, la nuotata con cui ho vinto l’Olimpiade di Pechino resta la più speciale.

L’attività sportiva è strettamente legata ad un’alimentazione attenta ed equilibrata, tuttavia nel mondo sportivo come tu lo vivi, c’è il rischio di sfiorare l’eccesso. Tu stessa infatti, in alcune interviste, hai raccontato di aver vissuto un disturbo alimentare.
In che modo lo sport può diventare il mezzo – piuttosto che un fine – attraverso il quale i giovani ragazzi possono cercare di raggiungere un ideale di perfezione assoluto?

Una parola racchiude tutto: disciplina. Sei talmente concentrata su ciò che controlli, che vive di sottrazioni. Detto questo, sono onesta fino in fondo: faccio uno sport di tali privazioni che a tavola mi concedo più di uno strappo alle regole.

Queste problematiche sono legate a quel potere che l’immagine fisica (e perciò l’estetica) ha rispetto agli altri e, di conseguenza, rispetto a sé stessi, rischiando di oltrepassare i limiti descriventi la salute e il benessere che lo sport si incarica di promuovere.
Quanto oscilla il pendolo tra salute e malattia/ipercontrollo fisico nel campo di un un’attività sportiva quale quella del nuoto?

Sinceramente penso che superare i propri limiti, con la fatica che questo comporta, sia un concetto sanissimo. A patto che ogni limite sia superato senza additivi strani. Proprio per questo bisogno di trasparenza, pubblico spesso i referti dei controlli anti-doping.

A proposito di immagine. Sport e femminilità nel mondo d’oggi sembrano visti come due mondi lontani, per cui ci si stupisce ancora quando si vede un’atleta donna con un vestito ed un bel paio di scarpe, cosa che sembra tradire il fatto che alcuni stereotipi sono davvero duri a morire. Tu cosa ne pensi?

È vero, di strada da fare contro gli stereotipi ce n’è. Tuttavia mi sembra che nel tempo questo concetto si sia evoluto, grazie anche all’interesse crescente del mondo della moda per le atlete. Io stessa sono stata invitata a sfilare, e ho capito che gli stilisti apprezzano i valori che rappresentiamo. Poi ognuna di noi interpreta la femminilità come meglio ritiene. A me piace molto studiare i look, ricercare capi che mi rappresentano e contaminare gli stili.

In un’intervista hai detto che essere la capitana della squadra olimpica e ricevere il nostro tricolore dalle mani del Presidente Mattarella è stato per te l’onore e il riconoscimento più grande. Questo è un pensiero che oggi può risultare un po’ controcorrente se consideriamo lo scontento diffuso in Italia. Secondo te allora perché ha ancora un senso essere patriottici – o meglio, fieri italiani?

Non credo che lo scontento per le cose che non funzionano in Italia diminuisca il senso di patriottismo. Io ho avuto la fortuna di girare il mondo per il miosport, e devo dire che l’Italia mi manca sempre proprio per quell’insieme di caratteristiche che la rendono unica.

Torniamo per un’ultima volta al nuoto. Se lo potessi associare ad una sola parola o concetto, quale sarebbe e perché?

Leggerezza. Perché sentirsi leggeri è uno stato mentale impagabile ed io nuoto per amore di ciò che faccio.

Si parla spesso di filosofia di vita e tu sei riuscita a fare del nuoto la tua vita e la tua professione. Secondo te che cos’è la filosofia?

Per me filosofia è l’arte di migliorarsi, senza accontentarsi, godendo delle vittorie e imparando soprattutto dalle sconfitte.

Sara Roggi & Giorgia Favero

Il corpo parlante: elementi di un linguaggio di cura

Che valore acquista oggi la celebre espressione di Giovenale mens sansa in corpore sano, divenuta oramai motto della nostra contemporaneità?

Ci insegnano, fin da piccoli, a essere e a diventare ciò che mangiamo. Diamo al cibo lo spazio fisico dentro di noi in cui abitare e nel quale abitarci. Senza renderci davvero conto, tuttavia, di quanto il cibo faccia parte di quella grammatica invisibile del nostro quotidiano essere al mondo.

Certo, riuscire a capire il significato e l’essenzialità di vivere un’armonia tra mente e corpo non è semplice. Lo è oltretutto molto meno in un’epoca quale la nostra, in cui siamo diventati soggetti di una servitù volontaria, come la definirebbe Etienne de la Boétie. Bulloni di un ingranaggio complesso che, in modo invisibile, ci priva della capacità di avere piena consapevolezza rispetto a ciò che compiamo.

Mangiare è diventata un’azione come un’altra. Esattamente come lo è bere, respirare e camminare. Semplicemente parte della nostra routine. Una componente di quel registro di attività che svolgiamo meccanicamente.

Eppure il cibo, così come l’acqua, rappresentano ciò in ragione di cui tutto il resto diventa possibile. Senza cibo, non riusciremmo più a camminare. Il nostro corpo inizierebbe a deperire. Il nostro battito cardiaco a rallentare, sino al suo arresto.

Il nutrimento è ciò che ci permette di sopravvivere, di respirare, lavorare e amare. Nutrirsi correttamente, perciò, equivarrebbe alla capacità personale di costituire un’armonia dialettica tra quei bisogni fisici che ci costituiscono e il cui soddisfacimento è essenziale per mantenere un buon ed efficiente stato di salute, e quelle spinte emotive che esprimono la dinamicità del nostro essere-al-mondo. Quel disagio che talvolta proviamo quando ci sentiamo gettati in un mondo estraneo. Quell’amore che, invece, in un modo o nell’altro ci anima sempre, facendoci provare il sapore frizzante dell’esistenza.

Già Platone, nel Timeo, analizzando le caratteristiche fisiche dell’essere umano, aveva sostenuto il bisogno di realizzare un’armonia tra la conoscenza del corpo e quella dell’anima. Pertanto, la medicina aveva lo scopo di rendere manifesta la congiunzione dei due mondi: quello psichico e quello corporeo.

Certo, un’alimentazione equilibrata risulterebbe necessaria al fine di poter crescere e sopravvivere sul piano fisico e biologico. Può tuttavia questa sola prospettiva essere sufficiente?

La riduzione del cibo a oggetto da integrare e assimilare nel nostro corpo al fine di poterne garantire il mantenimento sembra non bastare. A maggior ragione nell’epoca dell’individualismo, in cui il mero sopravvivere richiede di essere accompagnato da un’etica del vivere.

Gli automatismi che impastano il nostro vivere quotidiano hanno così implicato lo svuotamento di senso di quello che dovrebbe essere il significato simbolico originario del cibo.

Necessariamente dipendenti, prima da quel ventre materno che ci culla e poi da quel seno che ci allatta, abbiamo appreso a nutrirci attraverso la presenza dell’Altro. Un Altro che ci da la vita e che ci alimenta attraverso il suo essere lì. Semplicemente presente. Unicamente per Noi. Par amarci e accarezzarci.

Che cosa potrebbe accadere di fronte all’assenza di quell’oggetto d’amore?

Una fuga. Un abbandono. Un’attesa troppo lunga. Uno sguardo non rivolto.

E l’improvviso sentirsi scivolare nel desiderio-di-niente. Nell’assenza-di-bisogni. Soprattutto di quelli primari. Del cibo, con i suoi sapori e i suoi colori, i suoi odori e profumi. L’anestesia dei sensi. E con essa, un’anestesia nei confronti della vita.

Quando ci si sente sprofondare in quel vuoto che ci portiamo dentro, il cibo diventa spesso il protagonista delle nostre vite. Un digiuno costante per non sentire più il dolore. Una ricerca ossessiva di tutto, per riempirci di tutto ciò che ci manca.

Capire il legame esistente tra cibo ed emozioni non è facile. Come non è facile talvolta ascoltarci per capire se abbiamo voglia di dolce piuttosto che di salato.

Prendersi cura del proprio corpo, di quel corpo che abbiamo, certo, ma soprattutto di quel corpo che siamo, significa anche soffermarsi a riflettere sul significato che attribuiamo al cibo che assumiamo. A quello che proviamo quando ne assaporiamo il gusto. Alla sensazione avuta quando soddisfiamo la voglia di questo piuttosto che di quest’altro alimento. A ciò che sta dietro i nostri bisogni e i nostri desideri.

Parlare di cibo significa essere capaci di investire il cibo-oggetto, mercificato e consumato in modo automatico e consapevole, con il suo valore esistenziale. L’alimentazione meccanica lascia così spazio ad un’alimentazione consapevole e vissuta nella misura in cui il corpo abbandona la sua funzione di contenitore-svuota-emozioni.

Non si tratta pertanto unicamente di sapere che cosa mangiamo, quanto più perché lo assumiamo. Ascoltandoci, e attraversando quel vuoto attraverso una nuova cultura ed etica della cura che, inevitabilmente, si intreccia con il valore simbolico che ciascuno di noi attribuisce al cibo.

 

Sara Roggi

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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