Il sapere tradizionale oggi e l’opera di Gilbert Simondon

Gilbert Simondon è uno dei filosofi del ‘900 francese più discussi; la sua opera è definita enciclopedica per la vastità di temi affrontati e per l’enorme contributo al dibattito filosofico e scientifico contemporaneo: egli non solo analizza il rapporto che intercorre tra uomo e tecnica ma torna alle radici della riflessione filosofica riformulando un nuovo vocabolario in cui ambito scientifico-pratico e teorico-umanistico si intrecciano.

Il tema della tecnica e del relativo rapporto con l’essere umano, di cui Simondon si occupa nel Du mode d’existence des objets techniques, suo testo più celebre, è ampiamente discusso soprattutto dopo le due guerre mondiali, dal momento che durante gli anni ’40 vi era stato un notevole sviluppo delle biotecnologie, degli studi sulla genetica e delle nuove scoperte nel campo della fisica e della chimica che avevano messo in discussione il sapere tradizionale. L’oggetto tecnico, allora, diventa il cardine del pensiero simondoniano, in quanto simbolo del sapere umano che si concretizza e che racchiude in sé la storia dell’evoluzione umana:

«L’oggetto tecnico individuale non è questa o quella cosa, data hic et nunc, ma ciò di cui c’è genesi. L’unità dell’oggetto tecnico, la sua individualità, la sua specificità, sono i caratteri di consistenza e di convergenza della sua genesi. La genesi dell’oggetto tecnico fa parte del suo essere “umano”. L’oggetto tecnico è ciò che non è anteriore al suo divenire, ma presente a ogni tappa del suo divenire; l’oggetto tecnico uno (sic) è unità di divenire».1

L’essere umano aveva superato limiti che si ritenevano invalicabili, si era posto questioni che avevano ridefinito il suo ruolo nella società e aveva cercato di trovare nuove risposte nelle scienze, incentrando su di esse la riflessione morale e teorica tralasciando però un aspetto importante del sapere: la metafisica.
La metafisica rappresenta il capo da cui ogni scienza prende vita ma il problema, per Simondon, sta nel momento in cui nella storia del pensiero filosofico questa si è estraniata dalle scienze pratiche per chiudersi in sé stessa. La svolta del pensiero simondoniano è aprire le porte a un Nuovo Umanesimo in cui ogni arte, ogni scienza e ogni riflessione sia intrecciata all’altra: l’uomo si riscopre parte del mondo e trova in sé stesso il germe dell’alterità.

Non può esserci alcun progresso nelle scienze se non si tiene presente lo studio dell’essenza dell’essere umano e di ciò che lo circonda, l’uomo non è pura materia ma, come lo definisce Simondon, è un «soggetto transindividuale»: è materia e spirito in grado di intrattenere un rapporto dinamico relazionale con il mondo. Arrivare a un Nuovo Umanesimo vuol dire dimostrare l’inscindibile legame tra le scienze e la riflessione filosofica che grazie alla scienza si rinnova a sua volta nei temi e nei dibattitti.
Simondon non si ferma alla teorizzazione di un Nuovo Umanesimo, ma aggiunge che l’individuo contemporaneo dovrà costruire un Nuovo Umanesimo tecnologico: l’oggetto tecnico (con esso Simondon intende ogni artefatto creato artificialmente) non è altro che il risultato di un processo creativo e normativo necessario all’uomo. Non si può considerare semplicemente l’alienazione dell’individuo da esso e ciò che ne consegue, ma bisogna considerare il rapporto dinamico che l’oggetto stesso instaura con l’individuo come un vero e proprio soggetto relazionale: l’oggetto tecnico ha una matrice umana, da cui nasce, da cui viene creato e che lo permea e grazie a questa acquisisce la capacità di modificare la realtà stessa.

È così che sino agli anni ’90 del ‘900 il filosofo viene ricordato in Francia come il filosofo della tecnica. Ciò è sicuramente riduttivo dal momento che non viene tenuto conto dell’enorme contributo dell’opera e del suo influsso per la metafisica occidentale contemporanea. In ultimo è importante ricordare che la riformulazione del vocabolario filosofico è la base che getta Simondon per rielaborare alcuni concetti cristallizzati come la materia, l’individuo o l’essere: le definizioni non si servono più solo di termini derivanti dal lessico umanistico, ma il filosofo utilizza termini derivanti dalla chimica, fisica e dalla biologia a dimostrare la tesi della sua rivoluzione.

Simondon è ritenuto un pioniere della nuova metafisica occidentale e rivoluziona la riflessione filosofica dimostrando nuovamente la sua universalità e necessaria importanza per il sapere umano, il suo messaggio è di rinnovamento del sapere e ancora oggi è di monito per chi si accinge a parlare di uomo, tecnica e tecnologia.
Ponendo l’accento sulla proposta di rinnovamento del sapere del filosofo, si può affermare, infine, che il filosofo conclude un percorso iniziato con la rivoluzione scientifica in cui l’essere umano si faceva soggetto nel suo mondo; ora l’individuo non solo è soggetto ma è un soggetto agente e relazionale, aperto agli altri di cui si riscopre parte. Questa è l’immagine di uomo contemporaneo che bisognerebbe inseguire, capace di congiungere passato e presente attraverso l’intreccio della storia del sapere e delle idee che lo formano e lo hanno formato.

 

Francesca Peluso

 

NOTE
1. G. Simondon, Du mode d’existence des objets techniques, Aubier, 2012, pp. 60 -61.

[Photo credit Ramòn Salinero via Unsplash]

la chiave di sophia

Aristotele e il desiderio di conoscenza

 

• TUTTI GLI UOMINI HANNO UN INNATO DESIDERIO DI SAPERE •

 

Questa citazione è tratta dal primo libro della Metafisica ed è emblematico che Aristotele la ponga all’inizio della sua trattazione: tutti gli uomini hanno bisogno di risposte, ciò che rende l’uomo diverso è il meravigliarsi di ciò che lo circonda ed avere la capacità di alzare gli occhi al cielo per indagare, capire, sperimentare e cosa straordinaria mettersi e mettere in dubbio l’essenza di ciò che lo circonda. Questo è l’inizio della storia della filosofia nonché la storia del percorso del pensiero umano.

Gli uomini attraverso le loro sensazioni e sin dal loro primo approccio con il mondo che li circonda sono portati naturalmente al voler conoscere, ecco l’origine del mito, delle genealogie: l’uomo ha bisogno di risposte ai suoi perché, l’uomo vive grazie alle sue domande che ne permettono il progresso. L’uomo è capace di tecnica, di ragionamenti, di giudizio critico e morale e tutto nasce dalla sua naturale propensione al voler comprendere i meccanismi del mondo che lo circonda.

È di primaria importanza ricordare che Aristotele quando parla del desiderio di conoscenza naturale nell’uomo ne parla come di un desiderio sciolto da una qualsiasi utilità: l’uomo non aspira a conoscere solo in virtù di ciò che gli può essere utile, anzi l’uomo aspira al sapere perché naturalmente proteso verso questo, aspira alla conoscenza in sé. L’uomo aspira a voler conoscere la realtà che lo circonda in quanto è capace di andare oltre le contingenze.

Ciò che rende meravigliosa la storia dell’evoluzione del pensiero è che pur cambiando le contingenze, l’epoca, i mezzi di cui l’uomo si serve, si può osservare come le domande degli uomini sulla vita, sulla morale, sul mondo, sull’origine di esso e sulla morte non siano mai mutate, ma ne è mutata ed evoluta la risposta attraverso i secoli. La natura umana e con essa la sete di sapere unisce l’uomo nei secoli e il fascino della filosofia è poter prendere parte alla storia del nostro pensiero e provare a contribuire con una nostra risposta.

 

Francesca Peluso

 

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Ragionando con Platone: sviluppo, sapere, sensibilità

Nella Repubblica Platone (428/7-347 a.C.) delinea un preciso rapporto di corrispondenza parallela e speculare tra la composizione psicologica dell’individuo e l’organizzazione politica della città-stato1. In effetti, egli individua e articola tra il singolo e l’intero una relazione reciproca: «non c’è individuo giusto se non in una società giusta»2 e «non c’è società giusta se non lo sono insieme i suoi singoli membri»3.
Possiamo anche oggi affermare che esiste una relazione reciproca tra la persona e la sua società? Se sì, come la formuliamo e la tracciamo? E successivamente, quali considerazioni possiamo avanzare? 

Ecco proposta qui una breve riflessione che sceglie come elemento di congiunzione nella relazione reciproca non la giustizia ma lo sviluppo, quest’ultimo inteso nel senso più esteso e immaginabile.

Teoricamente se la persona cresce e migliora, anche l’intera società evolve, e a sua volta se la società registra condizioni sociali, politiche ed economiche favorevoli, anche la singola persona verosimilmente ne trae beneficio. In tal senso possiamo affermare che lo sviluppo della persona è anche lo sviluppo della società e viceversa. In termini grafici la società potrebbe assomigliare a un grande cerchio che si estende man mano che tutti i cerchi più piccoli al suo interno – le persone – crescono. Tale espansione e sviluppo sociale avrebbe poi un effetto di incremento positivo sulla qualità di vita delle persone.

Ma che cosa determina lo sviluppo?

La risposta potrebbe essere proprio ciò a cui lo stesso Platone attribuisce grande importanza e rilevanza nella costruzione del suo progetto politico: il sapere4. Ma se nel caso di Platone il sapere è definito come «un complesso sistema di conoscenze etico-scientifiche»5, qual è il sapere funzionale al nostro sviluppo? Si tratta di un sapere unicamente di tipo tecnico-scientifico?

Ora, se è vero che il «processo di innovazione tecnologica […] è da sempre il maggiore catalizzatore di ricchezza e benessere»6, è altrettanto vero che «tutte le innovazioni tecnologiche contengono dei valori, rinvenibili nell’idea iniziale e nel processo di sviluppo e diffusione»7. I valori costituiscono quindi il contrassegno originario e il riferimento creativo delle tecnologie sin dalla loro primissima ideazione. Ciò sembra sottilmente suggerire la possibilità di attribuire alla dimensione etica, quale insieme globale dei valori non esclusivamente una funzione limitante, di controllo e di censura ma una funzione generante, di decollo e di fioritura.

A questo punto, esplicitata questa riflessione e tenendo conto che sono proprio i sentimenti gli «ispiratori, supervisori e mediatori dell’impresa culturale umana»8, possiamo ricorrere alla nozione di sensibilità qui proposta come intreccio singolare e dinamico tra valori e sentimenti, la cui caratteristica sostanziale sta nel configurarsi come una grandezza a dimensione variabile. In primo luogo perché quando parliamo di relativismo dei valori constatiamo in realtà e innanzitutto una varietà valoriale quantitativa, in parte ordinabile, indipendentemente da quanto riteniamo confrontabile questo variegato assortimento misterioso. In secondo luogo perché quando ci avvaliamo del concetto di civilizzazione nell’interpretazione della storia umana ammettiamo indirettamente un cambiamento storico-culturale della sensibilità.

Di conseguenza, più questa dimensione riesce ad avvertire e annotare concezioni e condizioni aridamente indifferenti alla tesaurizzazione della persona e delle sue relazioni, più essa contribuisce a mantenere attiva e vigorosa la grande agenda dell’impresa creativa umana. Detto altrimenti, la sensibilità estende orizzontalmente e minuziosamente gli orizzonti multiformi della curiosità, della ricerca e dell’immaginazione, poiché invita sempre e di nuovo la ragione a sbilanciare la sua coerenza, sfidandola ad abbracciare tutte le sfere di realtà che essa ha reso tenacemente consistenti e visibili. La sensibilità non è propriamente una bussola che indica una direzione precisa, ma è contemporaneamente un proiettore che rivela una maggiore spaziosità visiva e un propulsore che fornisce la spinta e l’intensità all’azione.

Sarà poi questa sensibilità a costituire lo sfondo brioso e brulicante del nostro dialogo socio-economico, generando un sapere capace di vigilare operativamente sugli elementi sottrattivi dello sviluppo e di ridurre le distorsioni reciproche dovute alle differenti posizioni relazionali. Lo sviluppo non sarà più una linea che sfreccia verso l’alto assottigliandosi, ma un raggio che volteggiando vorticosamente rasoterra spinge e ci sospinge incommensurabilmente più in alto. È l’ampiezza della sensibilità, che aziona e dispiega virtuosamente il sapere l’imperdibile moltiplicatore del nostro sviluppo.

 

Anna Castagna

 

NOTE:
1. M. Vegetti, L’etica degli antichi, Editori Laterza 2010 – Cap. V – pp. 116-117, 122-124, 131-135
2. Ivi, p. 117
3. Ibidem
4. Ivi, pp. 122-3
5. Ibidem
6. K. Schwab, Governare la quarta rivoluzione industriale, FrancoAngeli 2019 Parte 1, p. 29
7. IIvi, p. 36
8. A. Damasio, Lo strano ordine delle cose, Adelphi 2018, p. 13

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Una citazione per voi: Socrate e la conoscenza

 

• SO DI NON SAPERE •

 

Questa frase, attribuita a Socrate (469-399 a.C.), è certamente una delle asserzioni più note, citate e riportate della storia del pensiero occidentale, al punto da essersi ormai inserita da tempo nel linguaggio quotidiano. Filosoficamente è utile comprenderne il senso originario in vista di una maggior consapevolezza teorica e conseguentemente di una maggior puntualità d’utilizzo.

Platone nell’Apologia di Socrate1 – resoconto che è una libera rievocazione del processo del tribunale ateniese al proprio maestro – principia con il responso dell’oracolo di Delfi il quale, dopo essere stato interrogato su chi fosse l’uomo più sapiente del tempo, aveva risposto facendo propriamente il nome di Socrate. Platone racconta che il maestro, non completamente persuaso da tale affermazione, si era recato presso gli uomini che erano ritenuti sapienti, come per esempio politici, poeti, artisti, intrattenendosi con loro in lunghi dialoghi, scoprendo infine che costoro, pur ritenendosi saggi, non lo erano affatto. Riconoscendo che tutti erano meno savi di lui e attirandosi per questo non poche ostilità, Socrate era dovuto convenire con il responso dell’oracolo: proprio lui era l’uomo più saggio.

Ma in che cosa consiste effettivamente la sua sapienza? Quali sono i caratteri di tale saggezza? Socrate sostiene di aver capito di essere il più saggio proprio perché sa di non sapere, riconosce dunque che la fonte della conoscenza risiede unicamente nella divinità. «Unicamente sapiente è il dio»2, si legge nel racconto platonico. Il filosofo ateniese afferma costantemente di non sapere: riconosce che nel mondo circostante non vi è nulla che gli consenta di sapere, proprio perché il sapere nel senso pieno del termine è legato alla conoscenza ferma, incontrovertibile e rimanda dunque alla verità. Leggi, abitudini sociali, credenze, dottrine filosofiche, principi morali, non sono per Socrate occasioni per “sapere”. In merito Emanuele Severino scriveva che: «dichiarare di non sapere significa dunque che nessuna delle convinzioni umane a lui note gli si presenta come verità»3. La novità intellettuale che l’oracolo gli aveva anticipato e che egli stesso riconosce dopo una accurata ricerca e numerosi confronti, consiste nel fatto che mentre i più non sanno di non sapere, lui lo sa, ne è consapevole. I più vivono scambiando per verità contenuti, credenze, idee che non hanno i caratteri propri della verità che i primi pensatori hanno portato alla luce. Pur non sentendosi “arrivato”, Socrate ha ben chiara l’idea forte della verità che si collega con la ricerca interminabile, con la messa in discussione di tutto ciò che si tende a dare per scontato, con l’analisi e la critica della società4 e il «rifiuto di tutto ciò che si va scoprendo privo di verità»5. Quel saper di non sapere, in cui è radicata la sua sapienza, è il motore del dubbio, del domandare, del porre in questione, del problematizzare ciò che viene smerciato come verità a buon mercato.

Quanto la figura di Socrate e il suo insegnamento in questo senso possono comunicare anche all’uomo del tempo presente. L’intramontabile eredità socratica può ancor oggi stimolare un atteggiamento di ricerca interiore, di parola ragionata, analisi critica del proprio tempo al fine di non rimanere ostaggio delle interpretazioni dominanti. Socrate ci invita ad essere persone che all’ideologia dei punti esclamativi, delle vane certezze, delle illusorie verità del mercato e della demagogia politica, preferiscono i punti interrogativi, l’inesauribile domandare che solo può mantenere vigili le coscienze e attive le menti di ciascuno.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. Cfr., Platone, Apologia di Socrate, tr. it. di M. Valgimigli, Laterza, Roma-Bari, 201818.
2. Ivi, p. 17.
3. E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo. La filosofia antica e medioevale, Rizzoli, Milano, 201710, p. 109.
4. Scrive Severino: “la critica di Socrate alla società è ancor più radicale di quella dei sofisti; e la condanna di Socrate da parte della società ateniese è la naturale reazione e difesa di una società che si sente minacciata nel modo più pericoloso”, Ivi, p. 110.
5. Ibidem.

[Immagine rielaborata da Google Immagini]

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Il mondo è bello perché è vario

“Chi sa non parla”, diceva Lao-Tzu, e per molto tempo sono stato propenso a credere fermamente in questa asserzione. Ma come ogni altra cosa le idee sono mobili e le convinzioni sempre opinabili, giacché è difficile incontrare nel mondo terreno un essere dalla mente stolida e onnisciente. Il sapere – o almeno l’autostima che questo malleabile sistema psichico-emotivo suscita in chi crede di possederlo – si configura nel continuo e instancabile movimento delle sinapsi e della volontà, la quale orienta l’interesse della persona verso questa o quell’altra direzione a seconda delle necessità di una data coordinata spazio-temporale. In questo senso il sapere non è mai definitivo, sia perché noi per primi siamo esseri limitati da un’architettura fisiologica e culturale che rende numerabile la qualità dei nostri pensieri, sia perché una congettura non è mai separabile dall’interferenza strumentale e precritica del soggetto considerante, al punto che capita ogni tanto che qualcuno capisca solo quel che vuole capire.

Considerato ciò, diventa difficile, se non ipocrita, dogmatizzare il sapere come una competenza astratta, completa e sempre giusta, cui ci si può comodamente appellare dopo qualche anno di studio; esso è invece sempre diveniente e irrequieto, sempre curioso di scovare altre domande da porre e di scoprirne le possibili risposte, dal momento che una sola è spesso insufficiente. Ne deriva che l’essere umano, in quanto animale razionale capace di astrazione e pensiero associativo che creano almeno delle parvenze di sapere, è un essere in fieri, sempre spossato dall’incompletezza, per il quale fermarsi a venerare un unico idolo equivale in un certo senso alla morte storica e produttiva, alla stanchezza morale. L’essere umano si significa continuando a camminare, a intervenire, a indicare il proprio male per porvi rimedio, e sebbene si pensi che la saggezza più ammirabile si riscontri, ad esempio, nel raccoglimento pacifico di un tempio tibetano, in realtà la sola interiorizzazione rischia di compromettere radicalmente la propria prassi significante del mondo, quella prassi che cioè evoca sempre formule inedite per esercitare un dominio operante e partecipe della nostra civiltà.

Occorre precisare che la succitata frase di Lao-Tzu è da inserirsi nel suo particolare contesto, in quanto il silenzio del saggio è per il filosofo dovuto all’inesprimibile e parossistica dialettica di vuoto tutto e pieno nulla che da sola orchestra l’intero universo. In questo senso l’assoluto metafisico diventa solo materia di astrazione, di opinione, di filosofema insignificante, in quanto ogni tentativo di nominarlo cadrà nel fallimento. E non si può che dargli ragione su questo proposito, se non fosse per il fatto che ciò non debba comportare meccanicamente l’abbandono di qualsiasi speculazione. Lao-Tzu disse anche che “Chi non sa parla”, e pure questa è una grande verità, sebbene, lungi da quel che si può credere, è svuotata di qualsiasi carica accusatoria. Nessuno di noi sa, e tutti quanti noi parliamo per comunicare il nostro punto di vista e la nostra esperienza al fine non solo di cercare di organizzare la nostra persona, ma anche di esternarla agli altri e di accogliere in noi le altrui personalità. Se poi interpretiamo la massima nel senso di un consiglio spassionato a coloro che credono di sapere, allora questa si tinge di peccato e svogliatezza, poiché trasforma l’intelligenza in un esclusivismo auto-erotico. L’intelligenza non è premessa della propria elitarietà, bensì responsabilità continua e vacillante che deve soccorrere i naufraghi ispirando i rematori con le migliori direttive. In questo senso, il silenzio del saggio, di colui che sa e che può aiutare, diventa colpa e illusa emulazione di un egoismo divino che di per sé non esiste. Come le particelle atomiche che non sono osservabili se non durante l’interazione tra loro, così anche noi esseri umani nel nostro isolamento restiamo latenti e inconoscibili.

Si può affermare che la Via innominabile di cui parlava Lao-Tzu sia l’eternità; dunque cercare di spiegare l’eternità è cosa impossibile. In effetti non possiamo giungere a una definizione esauriente di questa poiché, di fatto, essa comprende qualsiasi tipo di spiegazione, e quindi nessuna. L’eternità diventa così una specie di noumeno kantiano mancato. Il punto è che l’eternità è l’ambizione atemporale dell’essere umano, il suo amore senza tempo, tanto platonico quanto concretamente stimolante. L’essere umano è volontà trascendentale di eternarsi, qualunque sia l’idea che un individuo si faccia di eternità, e l’impossibilità di raggiungere questo stato è ciò che gli permette di generare interi mondi culturali. L’eternità in questo senso è un cenno continuo, un tentativo tormentato di nominare l’armonia di ogni cosa, e l’afflato speranzoso che vuole solo riscattare le sue colpe, ma che invece non approda mai, definitivamente, da qualche parte. È come la caccia alla balena bianca che ci logora la vita e che può portare un individuo al suicidio qualora non fosse capace di restare coi piedi per terra.

Il cenno è la nostra realtà e la nostra condizione, e l’eternità, l’assoluto e la Via, quelle fantasmagorie fatte di sogno che in virtù di ciò non si realizzeranno mai. Ma in questa dicotomia sta anche quel che permette lo sviluppo ribelle della vita, che invece di deprimersi continua a interagire con la propria terrenità e spiritualità per imparare a conoscersi e accettarsi. Così insistendo si emancipa dalla pigrizia dei morti e debella così il rischio sgomentante di anticiparsi una insensata fine del mondo, quella fine cioè che se da una parte è morte assurda e priva di ragione che sprona seducente a negare la propria prassi domandante, dall’altra è l’apocalisse radiosa di un saggio imperturbabile che nel suo piatto e cosmico silenzio guarda la gente annegare e le stelle collidere.

 

Leonardo Albano

 

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Filosofia bambina

Mi sono ritrovata a lavorare in una scuola steineriana, quasi senza sapere come, o cosa fosse.
Catapultata in uno dei gioielli delle Fiandre, un paesino da cartolina, dove la gente è cortese anche quando non ha nessuna voglia di esserlo, il mio ruolo era quello di semplice assistente, e di non dare troppo a vedere di soffrire il freddo. Circondata da centinaia di bambini, intenta a schivare le biciclette e a incrementare le risate, un giorno mi venne assegnato un compito inaspettato: dati i miei studi in filosofia, mi chiesero di elaborare una lezione di filosofia greca per una classe di ragazzi di undici anni. Mentre la direttrice della scuola formulava la richiesta, nella mia mente emersero diverse certezze in tutta la loro naturalezza: anzitutto, non avrei mai saputo come realizzare qualcosa di simile; immediatamente dopo, sapevo che cosa avrei fatto.

Straniera ed estranea, oggetto di curiosità e diffidenza, sapevo che l’unico argomento possibile era proprio quello dell’altro non solo come diverso, ma come escluso. Decisi così, in un lampo improvviso, perché per potere insegnare bisogna scegliere un luogo, che è un po’ casa, e a cui si sente di appartenere.

Scelsi uno degli eroi greci per eccellenza, Odisseo, eternamente perduto, gettai poche linee su un foglio, come una mappa, e poi, mi diedi da fare sul come. Non sapevo bene cosa insegnare; non sapevo se qualcuno volesse davvero ascoltarmi, o verso quale luogo ci saremmo condotti a vicenda. Quindi, vi era solo un modo per iniziare: di fronte a venti ragazzini, svogliati e timidamente incuriositi, ammisi la mia ignoranza, che non avevo lezioni da impartire, non avevo verità da diffondere, che io e loro stavamo per dare vita a un esperimento, e che il risultato sarebbe stato inaspettato. La mia non era una lezione, era un viaggio, ed eravamo fortunati ad avere una cartina. Socrate sarebbe stato la mia guida immaginaria, e attraverso la mia curiosità, loro avrebbero tirato fuori certezze e perplessità.

I ragazzini mi guardavano incuriositi, non erano ben sicuri di capire. Arrancammo, io e loro, il mio olandese balbettava, le loro orecchie non erano avvezze all’inglese, e a volte ridacchiavano. Eravamo proprio preclusi gli uni agli altri, compagni perfetti per il nostro esperimento. Continuavo a porre domande, e il silenzio iniziò a tremare. Alcuni cominciavano a rispondere, a volte per impressionare il maestro che male si mescolava fra noi, a volte perché erano già saggi, e proprio non riuscivano a non dirti la verità. Guardando il pavimento, mi dissero che in nessun altro tempo il mondo fu così avido come il nostro, e Odisseo sarebbe stato lasciato per strada, e non sarebbe mai tornato a casa. La scuola li aveva protetti troppo bene, così avevano iniziato a guardare il mondo in vetrina, e a constatarlo. Mi sembravano già anziani, con queste sicurezze sugli occhi e sulla bocca, senza il bisogno di chiedere perché.

Suonò la campana, il tempo era scaduto, e io me ne andai con l’amaro in bocca, chiedendomi se non sia mai accaduto anche a Socrate; pensai di no, perché lui avrebbe avuto tutto il tempo, senza l’interruzione di una campanella.
Arrivai così a una nuova consapevolezza: la filosofia ha bisogno di un nuovo compito, che prima, nei suoi tempi idilliaci, ha trascurato. Essa può ancora guidare, ma adesso deve anche ispirare, per impedire che i ragazzini siano savi così tanto presto, affinché si sorprendano di sapere più di quanto pensano, ma non ancora tutto. La filosofia deve tornare bambina, non per guardare il mondo con ingenuità, ma per credere che si possa ancora salvare, e che Odisseo, in ogni tempo e in ogni luogo, avrebbe comunque ricevuto tutte quelle mani tese, per ritrovare la strada di casa.

 

Fabiana Castellino

Fabiana Castellino è nata nel 1990 in Sicilia.
Si è laureata in Scienze filosofiche con lode, all’Università di RomaTre, con una tesi su Arthur Schopenhauer.
Ha maturato diverse esperienze nell’educazione dei bambini, prima con disabilità, e adesso svolge un progetto di volontariato europeo presso una scuola Steineriana in Belgio.
La lettura e la scrittura le sono state compagne sin da bambina, e l’hanno sempre guidata nelle sue scelte, professionali e di vita.

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Gli intellettuali oggi

Oggi l’intellettuale è una delle figure più vituperate insieme a quella dell’insegnante e del medico. Dai giornali, dai social network, dai talk televisivi si attacca sempre più spesso colui che desidera riflettere in maniera più approfondita su un certo tema poiché non sarebbe un’azione abbastanza pratica; d’altronde termini quali intellettualoide, professorone, filosofo ecc sono tra i dispregiativi più utilizzati per delegittimare chi esercita il pensiero.

Da dove deriva questo rancore?

Una delle ragioni principali deriva dal fatto che l’intellettuale non produce materialmente ricchezza. Non è dunque un lavoratore o un individuo che si mette a fare, un termine quest’ultimo talmente abusato ormai che se non si fa o non si mostra quanto si fa (in Facebook ad esempio), ci si sente colpevoli o perfettamente inutili in un mondo dove l’ordine di produrre ha esteso le sue lunghe braccia anche nel cesso di casa.

Dunque per ottenere rispetto da parte del pubblico, l’intellettuale contemporaneo è costretto a definirsi un professionista, un colletto bianco con una ventiquattrore contenente l’ultimo sensazionale libro dalla copertina dai colori sgargianti e con un titolo stampato a caratteri cubitali. Inoltre, essendo un professionista dovrà limitarsi a commentare solo ciò che è inerente al suo campo di competenza, un quadratino sempre più piccolo nell’epoca della parcellizzazione dei saperi: sei il massimo esperto delle mele, ottimo. Non azzardarti però a parlare delle pere, son troppo diverse quindi non puoi comprenderle. Oltre a limitarsi al suo campo di competenza, l’intellettuale contemporaneo per forza sarà costretto a schierarsi o tra le file dei buonisti acritici che credono in un mondo a forma di cuore, oppure fra i complottisti di mestiere che dietro a ogni zona d’ombra ricamano teorie da milioni di Like. Non ci si può astenere altrimenti sei uno della casta.

In realtà, io credo che l’intellettuale debba avere un altro profilo.

Innanzitutto dovrebbe avere fiuto, ossia la capacità di leggere e calibrare gli equilibri sociali prima degli altri. Per questo, occorre che l’intellettuale sia dotato di un senso critico estremamente sviluppato. Si può difendere una causa, si può dare voce a un punto di vista, ma la critica deve per forza venire prima della solidarietà (di fedeltà neanche parlo). Di conseguenza, l’intellettuale non potrà schierarsi apertamente prima di non avere sottoposto all’esercizio della critica questo primo legame in particolare e tutti quelli che legano le infinite componenti di una società. A tal proposito, per chi lavora con il pensiero non esistono ordini fissi, gerarchie naturali, presupposti intoccabili e verità a priori in quanto tutto è mutabile, rovesciabile e segmentato.

Insomma da questa breve descrizione l’intellettuale sembra essere un guastafeste, l’amico noioso che alle feste vuole ascoltare il vecchio e saggio Guccini al posto del giovane e superficiale Rovazzi. In realtà non è proprio così. Chi vuole partecipare ai dibattiti e alle riflessioni d’oggi non può vivere al di fuori del mondo come un eremita o provare nostalgia per quel passato della serie “si stava peggio quando si stava meglio”, ma bisogna che si immerga con tutto sé stesso nel suo tempo. Per questa ragione è impensabile non avere un account Facebook e/o Twitter dal quale commentare, anche in maniera provocatoria, ciò che succede con il pericolo di essere attaccato su tutta la linea da diversi leoni da tastiera.

Per concludere, l’intellettuale non può permettersi di essere schizzinoso di fronte agli strumenti di comunicazioni odierni e in generale di fronte alla società contemporanea. Occorre sporcarsi nello stesso fango dove nuotano gli altri, controbattere colpo su colpo senza perdere il senso critico, la vera arma di chi lavora con il pensiero. Magari insieme a un vocabolario incisivo e comprensibile da tutti.

Marco Donadon

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Filosofia: l’invisibile perduto

«[…] Se è vero che gli uomini si diedero a filosofare per sfuggire all’ignoranza, è
evidente che facevano scienza per sapere e non per utilità pratica
»1.

Queste parole di Aristotele sono note ormai a chiunque abbia solo un’infarinatura della cultura classica. L’attività del pensiero e la totale dedizione ad esso sono ciò che possono far sprofondare l’essere umano nell’inquietudine della propria vita interiore, ma innalzarlo anche al di sopra dei mostri dell’esistenza, per riderci su. Dallo stoicismo alla psicoanalisi, la filosofia ha spinto l’uomo verso la semina di nuovi mondi, come il cavallo traina l’aratro.

Tuttavia, nella celebre frase di Aristotele si nasconde un elemento desolante e scoraggiante: sin dai suoi albori, la filosofia ha avuto bisogno di una giustificazione. Persino il maestro di Stagira ha sentito la necessità di sottolineare l’importanza della filosofia e della sua coltivazione.

Massime come «l’utilità dell’inutile», o illazioni ironiche come quella di Voltaire, secondo il quale «per filosofare servono pancia piena e piedi caldi» hanno, in realtà, segretamente degradato questo sapere sin dal suo interno.

Scorrendo velocemente la spirale del tempo, arrivando così ai nostri giorni, vedremo allora che si è giunti al nodo di svolta di questo processo di autosvilimento della filosofia: essa è l’inutile per eccellenza, il Sogno ridicolo di Dostoevskij; eppure, mai come adesso, il nostro tempo grida disperato per la sua mancanza. È un grido
silenzioso, con la bocca spalancata rivolta al cielo, e lo sguardo attonito perché nessun suono trabocca.
L’uomo di oggi ha più che mai bisogno di filosofia, perché non ha solo perso la strada, ma ha dimenticato come trovare nuove indicazioni.

Filosofia non ha bisogno di giustificazione, come non ne ha bisogno il primo albero che ha dato ossigeno alla terra. Essa è l’attività più spontanea della mente e del cuore umani. Filosofia non è solo la ricerca dell’invisibile, ma è anche e soprattutto la cura della possibilità che l’esistenza umana non si riduca alla sola realtà esperibile, ma che essa abbia uno spessore, una profondità, delle ombre. Per questo, la filosofia è un sapere profondo e a volte difficile, ma necessario perché l’uomo si ricongiunga al suo mistero.

L’essere umano di questo secolo ha dimenticato tutto ciò, e non riesce così a dare un nome al suo disorientamento. Egli ha perso la sua ombra, il suo spessore; la sua figura rischia di sparire fra le cose del mondo.

La filosofia dovrà così sganciarsi dal processo di deterioramento interiore, e riappropriarsi del suo compito di ricerca dell’invisibile: dell’amore, della vita, dell’infinito.

Prima l’uomo smetterà di giustificare la necessità della filosofia, prima egli recupererà le sue origini, e, soprattutto, una direzione verso cui slanciarsi.

Solo quando riavrà la sua ombra, la filosofia potrà indicargli una nuova luce.

Fabiana Castellino

Fabiana Castellino è nata nel 1990 in Sicilia.
Si è laureata in Scienze filosofiche con lode, all’Università di RomaTre, con una tesi su Arthur Schopenhauer.
Ha maturato diverse esperienze nell’educazione dei bambini, prima con disabilità, e adesso svolge un progetto di volontariato europeo presso una scuola Steineriana in Belgio.
La lettura e la scrittura le sono state compagne sin da bambina, e l’hanno sempre guidata nelle sue scelte, professionali e di vita.

NOTE:
1. Aristotele, Metafisica, I, 982b, 15-20

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Il gusto della forma: la percezione fisica come esperienza

Degustiamo ogni giorno cibi dalle forme diverse, forme che in un contesto in cui si sta perdendo la visione legata al piacere e all’esperienza sensoriale, si esprimono sempre più come quel gesto legato al nutrimento privo di ogni caratteristica e qualità.

Non ci accorgiamo che il cibo può essere anche interpretato come una forma, più importante del linguaggio umano, perché è quell’atto superiore che costituisce la causa, il senso e il fine stesso, che in questo caso mette in relazione il piacere con il bisogno.

E sono queste diverse forme che sono in grado di produrre effetti diversi nella bocca di chi mangia, perché sul piano sensoriale il loro gusto cambia. E perché la forma, come la sostanza, si traduce in sapore.

Lo stesso Aristotele definiva il gusto come una «forma di tatto», proponendo una gerarchia dei sensi come modi di percepire la realtà esterna, associando anche i colori ai sapori. Nell’Etica Eudemia in particolare viene descritto il comportamento dell’uomo saggio nei confronti di questi piaceri materiali del gusto, dove ai sensi era riconosciuta la capacità di emozionare e rafforzare l’umanità dell’uomo.

L’analisi sensoriale rappresenta lo strumento attraverso il quale ognuno di noi è in grado di sviluppare la propria esperienza culinaria attraverso una stimolazione in cui rientrano molte qualità. Tra queste, la forma stessa assume un senso o un sapore nel momento in cui si risponde al bisogno di variare il gusto e ci si appella alla percezione fisica come esperienza.

Se il sapore può essere inteso come sapere, nel momento in cui si acquisisce una consapevolezza legata agli ingredienti, lo stesso sapere può essere associato al sapore. Perché se le sostanze che concretamente mangiamo ci nutrono facendoci percepire qualcosa, allora il cibo come linguaggio può essere considerato all’interno di un sistema di differenze, non solo astratte ma anche essenziali e identitarie.

Come la forma che riferendosi sempre alla materia è in grado di rendere significativo un piatto…

Lo stesso Italo Calvino in Sotto il sole giaguaro descrive la cucina come campo di esperienza sensoriale, ovvero «l’arte di dare rilievo ai sapori con altri sapori», un percorso di sensi complesso a cui sia arriva attraverso la cultura e la consapevolezza che con questa diversificazione non si intendono solo le proprietà gustative ma tutte le qualità sensibili utilizzate nell’elaborazione culinaria.

Perché i sapori del cibo non sono solo espressione diretta della realtà ma possono rappresentare il risultato multisensoriale nel contesto in cui si consumano; dove il gusto prende forma e si esprime come punto di partenza in grado di sviluppare il nostro rapporto con il cibo.

Martina Basciano

[Immagine tratta da Google Immagini]

Meraviglia e gratitudine: favola di un’esistenza che merita d’esser vissuta

La vita non procede senza misteri; dal caleidoscopico mondo onirico della notte, alle salmodie dello spirito in cerca di sé, alle fantasiose geometrie della luce nel cielo, tutto ciò che è (il-)lontano-da-noi attrae, dona sale alle giornate, senso al progredire. Anche se, paradossalmente!, conosciamo le ragioni d’un sogno, un arcobaleno, d’una passione (ci sono ragioni sufficienti, fisiche e neurofisiologiche, per spiegare pressoché ogni cosa!), una parte di noi necessita quantomeno di fingere di non sapere, per non smettere di meravigliarsi, di commuoversi, cioè di esserci…
Riferendomi al concetto di mistero (che il dizionario definisce “tutto ciò che non si può intendere o spiegare chiaramente, e che appunto per questo, attrae o affascina”) non intendo parlare di fede, di Dio, d’interrogativi teologici: anche questi sono, evidentemente, misteri – forse lo sono nel senso più pieno e più proprio della parola – ma dei misteri che più davvero investono del sentimento del mistero, la meraviglia: quei piccoli quesiti della quotidianità per i quali 1) o abbiamo, ma fingiamo di non avere, risposta, o 2) non cerchiamo, scientemente, soluzione.
Se il sensum misterī è la meraviglia, in greco ϑαῦμα, chiediamoci: cos’è la meraviglia? Aristotele la definisce come l’origine del filosofare, in quanto – innanzi allo sbigottimento – gli uomini iniziano a provare il bisogno di spiegare l’inspiegato; Severino ritiene, invece, che il meravigliarsi sia in realtà l’angosciarsi primigenio che il vivente prova innanzi alla (presunta) apparizione di tutte le cose dall’abisso del Nulla.
Con tutto il rispetto per i due maestri, direi che hanno sbagliato entrambi: il meravigliarsi, originariamente, non coincide né con lo spaventarsi, né con l’interrogarsi: è anche questo, ma non è solo questo.
Quando siamo di fronte al  ϑαῦμα-καθαρός (meraviglia-pura) sentiamo inizialmente solo affascinamento, lo stesso che proveremmo baciando una persona tanto desiderata e finalmente raggiunta; evidentemente, un tal bacio meraviglia: non c’è alcun modo di capire se l’incontro delle labbra evolverà in relazione, né sappiamo se quel tocco si trasformerà in possesso, ma nell’istante dell’atto, non siamo né spaventati né dubbiosi. Siamo solo affascinati dalla purezza della sorpresa, e sentiamo il  bisogno di dire grazie – a chi abbiamo innanzi, a noi stessi, alla Divinità: non ci interessa.  E la meraviglia è appunto questo: bisogno di ringraziare.

Da qui innanzi, questo scrittarello vuole diventare un elenco di quotidiani misteri per i quali, nella nostra esistenza, anche senza volerlo, sentiamo il bisogno di dire un generico εὐχαριςτῶμεν: grazie.

  • Εὐχαριςτῶμεν per la vita, spazio di tempo tra i sospiri di due amanti e il nostro spirare: per la sua pienezza e la sua imprevedibilità.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la gioia, voce indelebile dello spirito: per i suoi sussulti nell’incontro con l’altro, per i suoi lunghi mutismi.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la tristezza, straziante poesia dell’invincibile attesa: per i suoi crampi lancinanti, le sue infinite sfumature.
  • Εὐχαριςτῶμεν per l’amicizia, forza universale di mistico connubio tra dilezione e scelta: per le vette che raggiunge, per le valli che percorre, per le stupidaggini che commette.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la grandezza del cosmo, cuna immensa in cui s’adagiano i tempi dell’eternità: per ciò che contiene, per i suoi confini, per ciò che sta oltre.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la bellezza dell’anima, sospiro immanente e dubbiosa stabilità: per ciò che fa provare, per i fiori che scaglia oltre le sbarre della carne, per le perle che semina tra i sassi.
  • Εὐχαριςτῶμεν per il silenzio dell’arte, creazione dell’atemporale grandezza dell’uomo: per un canto di Tasso, per un quadro di Rembrandt, per le colonne dei templi passati.
  • Εὐχαριςτῶμεν per l’abisso del Divino, altare marmoreo, specchio di perfezione: per il Nulla sconfitto, per il Dubbio sommo, per il pane tramutato, per i tutti che diventano uno.
  • Εὐχαριςτῶμεν per il dolore dell’esistenza, spina nella carne, ironia necessaria: per la sua invalicabile invincibilità, per la fragilità che esprime, per la totalità d’amore che modella.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la morte, ignota immobile forma del puro silenzio: per la sua inevitabilità, per la sua memoria, per la sua finalità non necessaria.
  • Εὐχαριςτῶμεν per chi non ci comprende, fuoco nella notte, fulmine di energia inautentica: per la sua opinione, per le parole che uccidono e provocano resurrezione.
  • Εὐχαριςτῶμεν per la filosofia, arte perfetta, religione della verità, lode immutabile, gioia dell’uomo. Meraviglia continua, εὐχαριστεῖν

E non è finito di certo, questo elenco: a ciascuno il compito di correggerlo, allungarlo, modificarlo:  ognuno è libero di meravigliarsi per qualsiasi cosa, in questa vita: se infinita è la meraviglia, infinita è la grandezza dello spirito che l’accoglie.
Ma, in tutte queste meraviglie, una sola certezza io – personalmente, senza volerla imporre – sono sicuro di possedere: la gratitudine è amore, grandissimo amore. E l’amore mi ha spiegato ogni cosa; l’amore ha risolto tutto per me – per questo ammiro l’amore ovunque esso si trovi.
D’altronde, se l’amore tanto più è grande quanto più è semplice, e se la massima semplicità sta nel meravigliarsi, allora non è affatto strano che l’amore voglia essere accolto dai semplici, da coloro cioè che si meravigliano – coloro che non hanno parole. La gratitudine dimostra che l’amore vive tra noi – a un passo dal nulla – perché si posa vicinissimo ai nostri occhi stupefatti.

David Casagrande