“Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”

Ecco quella che forse è la citazione più conosciuta dell’opera teatrale di Bertolt Brecht Vita di Galileo. Quando ho letto per la prima volta questa pièce pensavo significasse che una terra è sventurata e che pertanto avesse bisogno di un eroe in grado salvarla. Altrimenti, colpita dalla cattiva sorte, come avrebbe potuto risollevarsi da sé?Recentemente però mi è capitato di rileggere questo libro e mi sono resa conto che la citazione – che mi ha sempre colpita in modo particolare – aveva assunto un significato ben diverso.

Mi sono chiesta infatti perché dovesse essere sventurata una terra che ha bisogno di degli eroi ed ho pensato al fatto che aver bisogno di eroi significa ricercare un Altro che possa sciogliere una situazione per noi. In questo fatidico Altro ci troviamo a riversare una serie di caratteristiche positive che lo rendono in grado di ergersi al di sopra delle difficoltà.
In altre parole se attendiamo la venuta di un eroe, stiamo aspettando un deus ex machina che si cali in una situazione e la riesca ad ordinare. Un po’ come quando Gotham City in preda alle rapine o al Joker invoca Batman affinché possa ristabilire l’ordine.
Riconoscendo di non essere in grado di salvarsi da sola decide di abbandonarsi totalmente ad esso.

Non avrebbe nemmeno senso per un cittadino qualunque provare ad avanzare una soluzione; comparandosi infatti all’eroe di turno si renderebbe conto di essere imperfetto e limitato sia nelle risorse che fisicamente. Come può anche solo pensare dunque di essere in grado di proporre una soluzione efficacie al problema? Di certo risulterà fallace, momentanea e forse potrà persino fallire.

In una situazione del genere si crea anche una sorta di dipendenza. Consideriamo sempre l’esempio di Batman: dopo momenti di relativa tranquillità sopraggiunge una crisi che le istituzioni esistenti non sono in grado di affrontare. A questo punto piomba il panico, nessuno sembra sapere come comportarsi o come reagire, e la cosa veramente interessante è che non bisogna saperlo fare dal momento in cui si è certi arriverà un terzo a ristabilire l’ordine. La cosa più razionale da fare a questo punto, si rivela gettare la spugna e smettere di lottare.

È a questo punto che appare lampante il perché non bisogna voler costruire degli eroi. In questo modo il singolo si trova ad annullarsi, smette di considerarsi un soggetto attivo ed in grado di elaborare delle soluzioni; si sente abbandonato a se stesso e si lascia andare alla deriva, attendendo qualcuno che lo riporti sulla retta via.

Sperare in una nuova figura politica che riesca a portare dei cambiamenti radicali oppure attendere una svolta nella nostra vita sono atteggiamenti diffusi, assimilabili all’attesa della venuta millenaristica di un eroe. Questi però alienano il singolo e lo spogliano dalla sua capacità creativa di trovare nuove soluzioni e di analizzare le situazioni, rendendolo costantemente dipendente da terzi. A questo punto − riprendendo Albert Camus quando nel suo saggio L’uomo in rivolta scriveva: «La vera passione del ventesimo secolo è la servitù» − è opportuno chiederci se siamo sicuri di volere sia anche quella del nostro secolo.

Lisa Bin

Lisa Bin, 1996. Studentessa presso l’Università di Trieste iscritta al secondo anno di Storia e Filosofia. Ama il judo e lo pratica da una vita. Tra le sue passioni c’è sicuramente la lettura, anche se la sua passione più grande al momento è la filosofia.

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Il tenebroso mondo gnostico

Può capitare a tutti a volte di sentirsi ingabbiati, incarcerati, imprigionati in questo mondo e di vedere i nostri desideri calpestati dai suoi abitatori, e di percepire pertanto la realtà che ci circonda come un’entità ostile, estranea, incomprensibile e profondamente maligna. Ma solo gli gnostici hanno saputo fare di questo angosciante sentimento una filosofia sistematica. Secondo questi pensatori, infatti, in questo mondo «tutto è pieno di tenebre… / Tutto è pieno di prigioni; / non c’è via d’uscita, / E si infliggono colpi a tutti coloro che vi giungono» (questo canto e quelli che lo seguiranno sono riportati nel bel libro di H.C. Puech intitolato Sulle tracce della Gnosi).

Per gnosticismo si intende un movimento spirituale e filosofico, le cui radici sono molto probabilmente da ricercare nell’era precristiana, diviso in varie sette e correnti diverse e particolarmente attivo tra il I e il IV sec. d.C. (ma protrattosi, secondo Puech, almeno fino al VII secolo d.C. e in certi casi perfino oltre – i Manichei, ad esempio, sopravvissero fino al XIV secolo, ma si pensi anche ai Mandei, che sono una comunità religiosa tutt’ora esistente), che si propone di far pervenire alla salvezza i suoi seguaci non tanto mediante atti di fede, quanto piuttosto attraverso la conoscenza di come veramente stanno le cose, anche qualora gli scenari dischiusi dalla contemplazione della “verità” siano sconcertanti o terribili da sopportare (gnosis in greco significa per l’appunto “conoscenza”). Tra i maestri gnostici di particolare spicco troviamo Basilide, Valentino, Marcione. Il Cristianesimo nascente combatté ferocemente e con successo questa “eresia” dalle origine sincretistiche, che proclamava di possedere un sapere mistico segreto che, pur essendo stato indicato da Cristo ad alcuni suoi discepoli, sarebbe stato colpevolmente ignorato dalla Chiesa.

Gli gnostici considerano l’uomo come un’anima divina precipitata in quella prigione che è costituita dal corpo (già Platone diceva che il “corpo”, in greco soma, è per l’anima una “tomba”, in greco sema). «Venuto dalla luce e dagli dèi, eccomi in esilio e separato da loro», recita una loro poesia; «Sono un dio e nato dagli dèi, / Brillante, scintillante, luminoso, / Radioso, profumato e bello, / Ma ora costretto a soffrire. / Mi hanno afferrato diavoli senza numero, / Orrendi, e mi hanno tolto la forza. / La mia anima ha perso conoscenza. / Mi hanno morso, tagliato a pezzi, divorato. / […] Contro di me urlano e si lanciano, mi tormentano e mi assalgono…», continua il canto in un crescendo di disperazione.

Del tutto logico, quindi, che gli gnostici, vedendosi incapaci di salvarsi con le proprie mani dal dolore che da ogni lato li assedia e li tormenta, rivolgano a Dio un’accorata richiesta di aiuto: «Possa tu liberarmi da questo profondo nulla, / Dal tenebroso abisso [di questo mondo] […] che altro non è se non tortura, ferite fino alla morte, / E dove né soccorritore né [vero] amico si trovano! Mai, assolutamente mai, [quaggiù] si trova la salvezza; […] / [Non sapendo che cosa fare per salvarmi,] piango su me stesso». Come si può vedere, tristezza, ansia, paura, depressione e un lacerante desiderio di trovare infine una protezione e un riparo sicuro dalle insidie della vita sono le principali tonalità emotive che emergono dai componimenti gnostici.

Sennonché, per gli gnostici, il dio creatore di questo mondo non può salvare. Egli, infatti, proprio come tutti gli dèi celesti minori – che gli gnostici definiscono “Arconti”, cioè “Signori” (dal greco archontes, “governatori” o “comandanti supremi”) – è profondamente malvagio, e non ha alcuna intenzione di tendere la propria mano all’uomo per trarlo fuori dall’incubo in cui è rinchiuso. I versi dell’inno Ad Arimane di Leopardi, pur essendo stati composti per altri scopi e peraltro lasciati incompiuti, possono offrire un perfetto ritratto del giudizio negativo e senza possibilità di appello che è formulato da questa corrente spirituale nei confronti del sommo Autore del­l’uni­ver­so. Qualunque sapiente gnostico avrebbe infatti potuto pronunciare, nel rivolgersi a tale entità minacciosa e malevola, le seguenti parole redatte dal poeta recanatese: «Re delle cose, / autor del mondo, arcana / malvagità, sommo potere e somma / intelligenza, eterno / dator de’ mali e reggitor del moto/ […] Tua lode sarà il pianto, testimonio del nostro patire. [Ma] pianto da me per certo Tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà […]. / Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de’ mali, la morte […]. Non posso, non posso più della vita».

Non è quindi a tale dio che si levano le strazianti preghiere di salvezza formulate dagli gnostici. Esse si rivolgono piuttosto al Dio nascosto e non-creatore che risiede beato “oltre i mondi e oltre i cieli”. Possiamo allora immaginare così il mondo come è visto dagli gnostici: una serie di sfere concentriche, ognuna delle quali (pianeta, stella o cielo che sia) è una sorta di perverso labirinto esistenziale governato da dèi oscuri e colmo di trabocchetti, trappole e vicoli ciechi, nonché infestato da pericoli, nemici e bestie feroci che non vedono l’ora di “fare la pelle” al malcapitato che abbia la sfortuna di imbattersi in essi.

«L’universo materiale» – scrive Hans Jonas nel suo studio intitolato Il principio gnostico – «ossia il dominio degli Arconti, assume [generalmente] la forma di una vasta prigione la cui cella più interna e sotterranea è la terra […]. Intorno ad essa e al di sopra, le sfere cosmiche sono disposte come gusci concentrici». I sistemi gnostici più elaborati arrivano a contare fino a 365 di questi “cieli-guscio”, in ognuno dei quali regna «un’attiva forza demoniaca» che non intende solo opprimere, tiranneggiare e ostacolare le anime dei vivi, ma anche quelle dei morti: «come guardiano della sua sfera, ogni arconte sbarra il passaggio alle anime che tentano la risalita dopo la morte, per evitare la loro fuga dal mondo e il loro ritorno a Dio», puntualizza infatti Jonas.

Al di là di tutti questi orrori, abbiamo detto, sta però la salvezza: oltre i numerosi cerchi cosmici esiste infatti il “Regno della Luce”, abitato da un Dio eterno che è tutto bontà, amore e luminosità. È il “Padre Celeste” annunciato da Gesù. Gli gnostici, quindi, si schierano con il Dio protettivo e misericordioso descritto nel Nuovo Testamento, che ha in Cristo il suo araldo, ma contro quello che essi considerano il Dio collerico e vendicativo del Vecchio Testamento, che avrebbe invece in Mosè il suo testimone (almeno se si segue l’antica tradizione interpretativa – ormai eclissata, ma ovviamente ancora viva al tempo degli gnostici – per cui sarebbe proprio quest’ultimo personaggio l’estensore del “Pentateuco”, l’insieme dei primi cinque libri dell’An­ti­co Testamento).

Pur essendo inconoscibile e misterioso, il buon Dio talvolta si fa sentire: la sua voce conturbante, che riesce a sovrastare per imponenza e autorità quella del folle e malvagio demiurgo di questo mondo, in certe particolari occasioni si rende infatti udibile ad alcuni eletti. Essa parla direttamente ai loro cuori (che in tal modo – dice Clemente Alessandrino negli Stromata – vengono trasformati da «dimora di demoni» a luoghi «beatificati», «santificati» e «risplendenti di luce») per “risvegliarli” e concedere loro particolari rivelazioni, indicazioni e suggerimenti che saranno utili agli iniziati per raggiungere la salvezza tanto agognata.

Si tratta allora, per gli gnostici, di trovare il modo, mediante l’elaborazione del loro sapere esoterico, di oltrepassare tutte le sfere celesti e di uscire così definitivamente dai bui e infernali corridoi del labirinto del­l’esi­sten­za terrena, per andare finalmente incontro a quel perfetto Dio Padre che ha il suo principale messaggero in Gesù, o di sperare che Egli per primo, commosso dai nostri patimenti e dalle nostre invocazioni, e a sua volta desideroso di ripristinare l’Unità perduta, decida di farsi avanti verso di noi, abbattendo le barriere che ci separano da Lui e quindi dalla somma beatitudine.

Gianluca Venturini

BIBLIOGRAFIA:
Hans Jonas, Il principio gnostico, a cura di C. Bonaldi, Morcelliana, Brescia 2011
Henri-Charles Puech, Sulle tracce della Gnosi, a cura di F. Zambon, Adelphi, Milano 2006

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Voci mute e ascolti sordi

Ricordate quando a scuola, specialmente nei primi anni, si veniva a formare quel brusio di sottofondo tanto condannato dai docenti? I richiami erano frequenti, ma nessuno imparava mai a quanto pare. La lezione non entrava in testa, tanto che dopo qualche minuto dal rimprovero, ogni scolaro si ritrovava di nuovo a parlare, ad impiegare la sua voce assieme a quella di tutti gli altri suoi compagni, formando appunto quel rumore, un’unica imponente voce che comprendeva ogni tono, parola e discorso di ciascun partecipante.

Avete mai fatto caso alla struttura di quest’ultima? Fermarvi per un istante ad ascoltare, cercare di distinguere ogni singola componente, scinderla dal complesso e portarla al vostro orecchio, lo avete mai fatto? È una cosa che mi diverte sempre, soprattutto ora che a scuola non ci vado più, ora che sono immerso nel mondo, quel mondo che appartiene ai “grandi”. E li vedo, anche loro sono lì ad impiegare le loro voci, anche loro non hanno imparato la lezione, riempiendo fino all’orlo luoghi che altrimenti sarebbero silenziosi. Mi piace osservarli come facevo con i miei compagni, vedere i loro comportamenti così corretti e omologati, ognuno intento a dire ciò che deve assolutamente dire, raccontare se stesso a più persone possibili forse per ingannare la solitudine, per ingannare se stesso. Ovunque voi andrete potrete sentire questa continua chiacchiera, questo suono che pare così necessario, di cui nessuno si domanda l’utilità, o più precisamente, nessuno si rende conto dell’effetto che può avere. Potrete sostare ad una caffetteria qualunque ed essere immersi nei mille discorsi che la animano, tutto ciò senza preparazione, senza accordo alcuno tra le persone. È così per ogni luogo pubblico e non solo, si sta invadendo con ingordigia ogni angolo del pianeta, in ogni singolo posto pare esservi una parola intenta a descriverlo, renderlo vivo, cercando disperatamente di aggiungere qualcosa, come se ciò che ci è fornito non ci bastasse. Non ci bastano i bellissimi paesaggi di cui disponiamo, le meraviglie che la natura riesce a mostrarci, luoghi che da sempre ricerchiamo. Ogni tanto sentiamo il bisogno di partire, di abbandonare la quotidianità e di riscoprire noi stessi in altri luoghi, magari più solitari e liberi. È capitato anche a me di recente e forse è per questo motivo che sto trascrivendo qui questo mio pensiero, proprio perché anche io mi ritrovo in mezzo alla folla chiassosa che tanto condanno nelle prime righe. Ne facciamo tutti parte e ce ne rendiamo conto quando ne usciamo, quando passiamo al meravigliarci di certi momenti che non richiedono parole, che non vogliono essere descritti, che si fanno bastare così come sono. Penso sia questa la chiave del rapporto che abbiamo con gli altri e della solitudine che spesso si presenta come sentimento nella nostra vita.

Difatti il nostro accontentarci del quotidiano, del far parte di tutte quelle voci, lascia spazio ad un grande vuoto, un’insoddisfazione che può crescere rigogliosa al nostro interno. Pensate sempre alla scena in caffetteria, ai vari tavoli che si trovano vicino al vostro e alle persone che sono presenti. Potrete osservare che ogni discorso, ogni dialogo ha la stessa struttura, si concatenano quasi sempre allo stesso modo. Lo si può capire solo osservando l’ascoltatore, o meglio, il presunto ascoltatore. Ebbene è facile ormai notare come ogni nostro interlocutore sia lì, presente forse come un falso interessato, pronto a rispondere con le parole migliori, le meglio pensate, in grado di stupirvi. La verità è che ci sentiamo così protagonisti di questa vita, a volte addirittura della vita degli altri, che arriviamo a pretendere sempre i riflettori puntati verso di noi. Il nostro ascolto risulta essere solo l’attesa per una formulazione efficace, ovverosia ci riduciamo ad ascoltare per rispondere e non per il solo piacere, oltre che all’utilità, di ascoltare. Non so se a voi sia mai capitato di avere un sincero e sentito dialogo con una persona, composto di silenzi, attimi di riflessione e di accordi e concessioni, quasi da ricondurci alla struttura del dialogo tra i vari interlocutori di Platone attraverso la figura parlante del maestro Socrate. Anche in questo caso arriviamo a meravigliarci di quanto risulti essere differente un dialogo del genere rispetto alle solite conversazioni a cui siamo sottoposti ogni giorno, e tutto ciò solo per il fatto che parliamo veramente con un ristretto numero di persone, quasi da poterle contare sulle dita di una mano. Per la maggior parte del tempo, invece, ci abbandoniamo ad un sistema malato, fasullo se contiamo le necessità di una persona. Tutta quella chiacchiera che continua a circondarvi, secondo dopo secondo, è il motivo principale che ci porta a sentirci soli, incompresi e muti rispetto al mondo. Arriviamo all’incapacità di comunicare davvero noi stessi, bensì solo all’emissione di suoni, un freddo e disinteressato linguaggio che linguaggio non è più. Da noi può librarsi solo un timido e silenzioso grido, quell’inconscia richiesta di essere salvati e che da molte, troppe persone verrà ignorata, finché non incontreremo il nostro miracolo, e potremmo essere noi stessi come un’altra persona che, anch’ella come noi non poteva salvarsi da sola.

Alvise Gasparini

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