La Medicalizzazione della vita: una medicina per ogni azione, un’azione per la medicina

Argomento dell’articolo di questo mese è il concetto di medicalizzazione della vita. Tale argomento è al centro del dibattito bioetico odierno, tanto da essere stato l’oggetto principale del convegno del 2015 dell’ESPMH (Società europea di Filosofia della Medicina). Come abbiamo visto negli articoli precedenti, per effetto del concetto aperto del termine “salute” offerto dall’OMS («uno stato completo di benessere fisico, psichico e sociale, e non come una mera assenza di malattia o infermità») e della disconoscenza del carattere normativo dello stesso concetto racchiuso dal termine, si sta oggi assistendo ad un ampliamento smisurato dell’idea di salute e, ovviamente, del suo negativo la malattia. In altri termini, la confusione che si crea tra il senso normale e il significato normativo del concetto di salute sta comportando anche una modalità di riflessione distorta attorno al fine della pratica medica, fare il bene del paziente, che dilata l’obiettivo da perseguire provocando un’integrazione di sempre nuove sfere della vita all’interno del campo terapeutico della medicina stessa.

In particolare, il sociologo della salute Pierre Aïach fa notare come il concetto di salute sia divenuto un valore che può legittimare ogni forma di intervento medico; infatti si concepiscono sempre nuove forme di esercizio medico mirante a porre a freno (fumare, bere alcol, praticare alcune forme sessuali) o ad incentivare (praticare alcune determinate pratiche sportive, mangiare seguendo una determinata dieta ecc.) alcuni comportamenti. Dunque, egli sostiene che a causa dell’indeterminatezza del concetto di salute, dovuto al fatto che esso è un costrutto normativo utilizzato, però, con un significato normale e naturale, si sta assistendo ad un progressivo sviluppo della medicina, la quale s’interessa sempre più a nuovi ambiti della vita umana1. Ne segue che il concetto di salute sia diventato onnicomprensivo e ciò comporta, come sostiene McLellan, che: «c’erano una volta dei bambini indisciplinati, qualche adulto timido e certi signori che, calvi, portavo il cappello. Oggi tutte queste descrizioni possono essere attribuite a delle malattie – entità con nomi, criteri diagnostici e una serie crescente di opzioni terapeutiche»2.

Dunque, l’indeterminazione del concetto di salute – il quale però viene utilizzato come se fosse un termine ricco di significato – che si può riscontrare nella naturalità dell’osservazione del comportamento umano, permette allo stesso di estendersi sempre più e di ritenere come patologie delle situazioni di vita che sino a poco tempo fa, pur provocando un qualche tipo di “dolore” nell’uomo, non erano seguite da prassi terapeutiche. Tale situazione trova nel sociologo Peter Conrad uno dei suoi massimi descrittori, in quanto egli coniuga la definizione ufficiale secondo la quale per medicalizzazione della vita s’intendono «i processi attraverso i quali delle condizioni umane vengono trasformate in problemi medici». Dunque, delle situazioni che un tempo erano ritenute normali episodi della vita umana, divengono ora delle questioni che rientrano nel campo veritativo della medicina, ovvero considerate passibili di essere descritte nel linguaggio della patologia e della normalità3. Lo stesso Conrad sostiene che l’osservazione di alcune strutture proprie dell’esistenza dell’uomo sono investite da un grado di giudizio proprio dell’osservatore, il quale ritiene che le stesse non siano desiderabili (ad esempio la calvizie, le gambe gonfie a fine giornata, gli occhi irritati dopo essere stati troppo al computer, i bambini che giocano troppo, i bambini che giocano troppo poco) e per tal ragione devono essere fatte oggetto della medicina che le deve curare.

Si può affermare che la medicalizzazione della vita altro non sia che l’attuazione nel mondo reale di quello che Louis Henri Jean Farigoule (conosciuto come Jules Romains) aveva teorizzato nell’opera teatrale del 1923 Knock o il trionfo della medicina, la cui trama è molto semplice: un medico di campagna cede il proprio posto lavorativo al medico Knock, il quale si ritrova in un paese in cui nessuno ricorre al medico e dove la sua presenza, come quella del medico che gli ha ceduto l’attività, è superflua. In pochi mesi Knock riesce a mutare tale situazione e a far sì che tutti gli abitanti si rivolgano a lui al fine di preservare il proprio naturale stato di salute. Questa mutazione fu resa possibile perché l’idea di Knock sulla medicina è che essa dovesse agire sempre più all’interno della vita delle persone al fine di tutelare la salute (dunque lo stato naturale e vero della dimensione umana), la quale è totalmente in balia dei mille agenti patogeni che s’innestano nella vita dell’uomo. A questo proposito Romains fa dire a Knock:

«ammalarsi: concetto sorpassato, che non può resistere di fronte all’avanzare della scienza moderna. Salute è solo una parola […] conosco solo individui più o meno affetti da malattie più o meno disparate e con esiti più o meno rapidi. Naturalmente, se dite loro che stanno benissimo, non chiedono di meglio che credervi. Ma così li ingannate»4.

In definitiva si può sostenere che quando nei giornali o nei dibattiti si parla di medicalizzazione si sta parlando dell’estensione della medicina nel campo di vita, situazione che sotto molti aspetti è assolutamente desiderabile e degna di essere portata avanti, ma in alcuni casi può rivelarsi una gabbia attraverso la quale i soggetti possono riconoscersi solo in virtù della medicina e possono cedere i loro sentimenti, la loro umana voglia di progettarsi nel mondo alla semplice assunzione di alcuni farmaci. Quando parliamo di medicalizzazione della vita e del suo significato non stiamo in alcun modo affermando che la medicina sia un male, o che alcune nuove forme di cura non siano progettate per il bene dell’uomo, ma ci stiamo unicamente interrogando in maniera etica sul fine più alto della medicina, ovvero quello di fare il bene per l’uomo. Fare il bene vuol dire aiutare lo stesso a rimettersi in piedi per affrontare la vita, non fornire degli ausili che possano allontanare lo stesso dalle responsabilità e dalle bellezze che la stessa vita offre.

Francesco Codato

NOTE:
1. Vedi P. Aïach, L’ere de la medicalisation. Ecce homo sanitas, Economica, 1999.
2. F. McLellan, Medicalisation: A Medical Nemesis, in The Lancet, V. 369, p. 627.
3. P. Conrad, The medicalization of society, The Johns Hopkins University Press, 2007.
4. J. Romains, Knock o il trionfo della medicina, Liberilibri, Macerata 2007, pp. 58-59.

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Quel labile confine che separa il normale dal patologico: riscoprire il carattere normativo della salute

Nei precedenti articoli abbiamo visto come il concetto di salute, pur essendo utilizzato quotidianamente, porti con sé una grossa difficoltà ad essere oggettivato e riassunto in termini chiari ed univoci. In altre parole la questione fondamentale che riguarda l’ambito della comunicazione della salute verte sulla medesima questione che pose, a suo tempo, Abraham: «la salute cos’è? Una valutazione soggettiva o un insieme di dati oggettivi, che soltanto i calcoli della medicina ufficiale possono confermare?»1. L’interrogativo da cui nessuna persona che agisce nell’ambito della salute può prescindere è quello di comprendere se sia o meno possibile determinare, grazie alle analisi mediche e alla statistica, una condizione naturale di salute.

Quando parliamo di naturalità ci riferiamo ad una condizione che prescinde da ogni riferimento culturale o giudizio di valore, ovvero stiamo sostenendo che sia del tutto possibile osservare e definire in modo oggettivo cosa sia la salute. Ovviamente, per realizzare tale oggettività si fa ricorso alla statistica, quindi ad una serie di osservazioni protratte nel tempo che devono garantire delle modalità, le più oggettive possibili, per determinare la naturalità dello stato di salute. A tale certezza naturale si può però contrapporre una serie di dubbi sui parametri con cui queste medie statistiche determinano i criteri specie-tipici. Infatti, come sostengono Wulff, Pedersen e Rosenberg all’interno dell’opera Filosofia della medicina: «il concetto statistico di normalità solleva un ulteriore problema. Come può la persona che conduce i test essere sicura che gli individui studiati fossero normali o sani? Probabilmente, ha selezionato un certo numero di persone che si sentivano e sembravano sane e questo significa che in fin dei conti la definizione di salute e malattia […] dipende dalla vaga impressione di qualcuno sullo stato di salute di un gruppo di persone. Questa conclusione non coincide con l’affermazione secondo la quale lo stato di salute è una questione di fatto e non un giudizio di valore»2.

All’interno di questo dibattito assumo particolare importanza le tesi espresse da Georges Canguilhem nell’opera Il normale e il patologico (1966), in quanto lo stesso asserisce che non esiste una condizione normale in sé e per sé, criticando in tal modo tutta la tradizione che da Claud Bernard (il fondatore della medicina sperimentale) in poi ha affermato questa maniera di riferirsi al normale e al patologico, asserendo che tale modalità non sia derivata da una ricerca scientifica, ma corrisponda ad un puro dogma. A questo proposito scrive: «l’identità reale dei fenomeni normali e patologici, apparentemente così differenti e caricati dall’esperienza umana di valori opposti, è diventata, nel corso del XIX secolo, una sorta di dogma»3. Canguilhem critica anche la pretesa, che sempre da Bernard ha preso il via, di poter pensare la salute quale media statistica, asserendo che: «riteniamo che si debbano considerare i concetti di norma e di media come due concetti differenti di cui ci sembra vano tentare la riduzione ad unità con l’annullamento dell’originalità del primo. Ci sembra che la fisiologia abbia di meglio da fare che cercare di definire oggettivamente il normale, e cioè di riconoscere l’originale normatività della vita»4. Ne segue che Canguilhem ci ricorda che la salute non è normalità se non nella misura in cui è normatività, e quindi il sapere che si pretende oggettivo, la scienza medica, non può enunciare o scovare le norme della vita in senso positivo e unico. A questo proposito ribadisce che: «il concetto di norma è un concetto originale che non si lascia, in fisiologia più che altrove, ridurre a un concetto oggettivamente determinabile con metodi scientifici. Non si da dunque, propriamente parlando, una scienza biologica del normale»5. Per tal ragione la malattia non si può misurare come uno scarto rispetto a norme prefissate una volta per tutte, ma essa corrisponde ad un mutamento nella qualità del vivere, cioè il confine tra normale e patologico è molto labile e ciò che sembra normale per una persona può essere patologico per un’altra. Il ragionamento di Canguilhem smaschera la presunta facilità della nozione positiva di salute, ponendo in rilievo come non sia possibile poter parlare di normalità quale dato oggettivo scevro da ogni giudizio di valore.

Ciò che risulta importante cogliere dalla lezione di Canguilhem è come tuttora si continui a fare molta confusione tra i concetti di normalità e normatività, poiché la salute viene continuamente intesa e comunicata come uno stato normale, quando, invece, essa è un insieme di considerazioni rinvenibili nella biologicità dell’uomo unito ad una serie di giudizi di valore attribuiti da chi esamina quei dati biologici, fornendo così un quadro normativo più che normale della salute. Caratterizzare il concetto di salute quale derivato oggettivo dell’osservazione neutra compiuta attorno allo stato di naturalità dell’umana esistenza, limando ogni riferimento ai valori culturali, conduce verso la sovversione della logica che aveva portato alla creazione della medicina stessa, catena logica riassunta da Canguilhem nel seguente modo: «è innanzitutto perché gli uomini si sentono malati che vi è una medicina. È solo secondariamente – per il fatto che vi è una medicina – che gli uomini sanno in che cosa essi sono malati»6. Infatti, indicando la salute quale concetto normale-naturale si sta affermando che è per il fatto che esista la medicina, che determina cosa è normale e cosa non lo è attribuendo a tale divisione un carattere oggettivo e scientifico, che le persone sanno di essere malate o meno. Per tal ragione è fondamentale ritornare a ragionare  e comunicare lo stato normativo più che naturale del concetto di salute, riuscendo così a dare giustizia ad una disciplina così fondamentale e indispensabile quale è la medicina.

Francesco Codato

NOTE:
1. G. Abraham, C. Peregrini, Ammalarsi fa bene. La malattia a difesa della salute, Feltrinelli, Milano 1989, p. 80;
2. Ivi, pp. 65-66;
3. G. Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino, 1998, p. 19;
4. Ivi, p. 144;
5. Ivi, p. 190;
6. G. Canguilhem, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1998, p. 191.

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L’importanza dell’elemento culturale per la comunicazione medica

Lo scopo della medicina è quello di prevenire ed eliminare il dolore (malattia) che assale ogni soggetto umano. Per tal ragione siamo soliti definire la medicina come la scienza che assume quale proprio fine il debellare le malattie, costruendo così un rapporto che si basa sulla relazione: medicina (soggetto) – cura (mezzo) – guarigione della malattia (fine)¹. Tale descrizione, seppur molto persuasiva, non riesce a restituire in maniera completa la complessità dell’agire medico, poiché come scrive il noto storico della medicina Giorgio Cosmancini: «si sente spesso affermare, da molti fra gli addetti ai lavori –ricercatori, clinici, docenti universitari–, che la medicina è una scienza […]. Così non è. La medicina non è una scienza, è una pratica basata su scienze e che opera in un mondo di valori. È, in altri termini, una tecnica – nel senso ippocratico di téchne – dotata di un suo proprio sapere, conoscitivo e valutativo, e che differisce dalle altre tecniche perché il suo oggetto è un soggetto: l’uomo. La téchne iatriké, l’originaria ars curandi, la perenne arte della cura, è una tecnica, un’arte, un mestiere – il mestiere del medico – che ha una sua propria tradizione, una sua propria vocazione, una sua propria cultura. In seno a tale cultura, la tecnica è il mezzo, ma l’anthropos, l’uomo, è il fine ultimo, o primo»².

In altri termini, seguendo la definizione di Cosmancini, la medicina è una disciplina che, abbinando e accorpando molti saperi specialistici, assume come proprio fine l’uomo e tenta di costruire una serie di situazioni tecnico-terapeutiche che possano riportare i soggetti a superare il dolore provocato dalla crisi patologica al fine di ristabilire il loro equilibrio vitale. Avendo come fine l’uomo e dovendo intervenire costantemente su di esso, è di estrema facilità cogliere come sia assolutamente indispensabile lavorare anche sul contesto e sulle forme culturali che donano senso allo stesso modo di esperire e di dare identità all’intendersi quali uomini. Non a caso Giovanni Berlinguer, scrive: «le malattie umane non sono un fenomeno puramente biologico. Esse variano non solo tra individuo e individuo, ma secondo le epoche, le zone del mondo, le classi sociali. Esse sono probabilmente uno degli specchi più fedeli e più difficilmente ineliminabili del modo con cui l’uomo entra in rapporto con la natura, attraverso il lavoro, la tecnica e la cultura, cioè attraverso rapporti sociali determinati e acquisizioni scientifiche storicamente progredienti»³.

Tale modalità di attribuire significato alle malattie viene magistralmente riassunta dal grandissimo filosofo Michel Foucault il quale, all’interno di un articolo scritto nel 1966 dal titolo “Message ou Bruit?”⁴, sostiene che gli organi umani non producano dei messaggi oggettivi e naturali che la medicina ascolta, ma gli stessi producono dei rumori che la medicina interpreta in relazione a dei criteri culturali che le donano senso ed esistenza. Questo pensiero, che potrebbe sembrare di estrema difficoltà interpretativa, si spiega in maniera molto agevole facendo riferimento a tutte le novità scientifiche che continuamente rivoluzionano gli schemi culturali di tutti noi e della medicina stessa. Pensiamo, ad esempio, agli smartphone ai tablet ecc., che oggi costituiscono una delle fonti principali attraverso le quali ci informiamo e doniamo senso alle nostre espressioni quotidiane. Questi apparecchi oggi vengono comunemente utilizzati sia dai pazienti che dai medici in diverse modalità e con scopi differenti per monitorare o ricevere informazioni sulla salute. Generalmente controlliamo costantemente, attraverso alcune app e alcuni device collegabili allo smartphone, il battito cardiaco o il numero di passi giornaliero, ma tale situazione non è sempre esistita né si presta ad essere oggettivata una volta per tutte; anzi, deve essere costantemente interpretata da medici, i quali devono restituire a tale dato un valore che si parametra in relazione ad una serie di componenti che sono proprie del singolo soggetto e della cultura nella quale lo stesso cresce e dona forma alla propria vita. Questo banalissimo esempio mostra come il lavoro del medico, avendo come proprio fulcro il bene per l’uomo, non può sottrarsi ad una analisi costante della realtà contemporanea che porta con sé una serie di strumenti, di innovazioni o più generalmente di codici culturali che sono imprescindibili all’interno delle modalità di creazione del senso dell’esperienza umana che necessita l’ausilio della pratica medica. Ne segue che le parole del filosofo francese Georges Canguilhem assumano sempre più significato: «quale che sia l’interesse di uno studio delle malattie che tenga conto della loro varietà, della loro storia, del loro esito, tutto ciò non deve eclissare ad ogni modo l’interesse per quei tentativi di comprensione del ruolo e del senso della malattia nell’esperienza umana»⁵.

Risulta dunque chiaro che le diverse forme di comunicazione della salute, sia nella sua forma pubblicitaria che nella relazione diretta tra medico e paziente, devono in ogni caso tenere bene presente l’elemento culturale che dona senso alle singole vite dei soggetti, e che si devono plasmare ad esso, senza avere la presunzione di trovare dei sistemi linguistici universali che possano far passare gli stessi concetti a tutti in maniera univoca. Questo si avvera perché la salute è un problema oggettivo che deve essere trattato e comunicato in maniera soggettiva e che racchiude dentro di sé la pienezza dei riferimenti culturali che contribuiscono ad attribuire un significato all’esistenza di tutti noi.

Francesco Codato

NOTE:
1. Cfr. F. Codato, Il diritto di essere tristi. Per una filosofia della depressione, Alboversorio, Milano 2015, pp. 13-18;
2. G. Cosmancini, Il mestiere del medico, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. XI;
3. G. Berlinguer, Storia e politica della salute, Franco Angeli, Milano 1991, p. 33;
4. Articolo contenuto in: M. Foucault, Dits et écrits V. 1, Gallimard, Paris 2001;
5. G. Canguilhem, Le malattie, in Scritti sulla medicina 1955-1989, Einaudi, Torino 2007, p. 20.

Considerazioni sulla dimensione ‘salute’: il contributo di Gadamer, tra verità e armonia.

«L’armonia nascosta è più forte di quella manifesta[1]». Citando questo aforisma di Eraclito, Gadamer si avvia all’analisi della dimensione della salute: di ciò che «consiste proprio nel prodigio di un’armonia salda, ma nascosta[2]».

La salute richiede armonia, tanto in riferimento all’ambito sociale, quanto all’ambiente naturale: solo ciò può permettere di inserirsi pienamente nel ciclo naturale della vita. Ciò che l’autore pare sostenere a chiare lettere è che non è la salute bensì la malattia a manifestarsi nei termini di ciò che si oggettiva da sé, ciò che invade un determinato organismo. E in questo contesto il sintomo sta ad indicare, nello specifico, quello che di una determinata malattia si manifesta: cosicché «[…] il vero mistero si trova nel carattere nascosto della salute. La salute non si dà a vedere[3]». Infatti «esiste anche una misura naturale insita nelle cose stesse. In verità non è possibile misurare la salute, proprio perché essa rappresenta uno stato di intrinseca adeguatezza e di accordo con se stessi, che non può essere superato da nessun altro tipo di controllo[4]».

La salute si propone come quell’ordine, quell’adeguato equilibrio dello svolgersi della vita, come assenza di gravità (in quanto i pesi dell’esistenza si elidono l’un l’altro): nella sua segretezza, essa si percepisce come senso di ben-essere e soprattutto nel momento in cui, essendone consci, si è aperti alla intraprendenza, alla conoscenza, nella dimenticanza di se stessi e degli sforzi, nella scogliera della vita.

Gadamer definisce la salute come un esserci, non un sentirsi, come un essere parte del mondo, nella comunicazione con le altre forme di vita, occupati con attività e gioia nei compiti particolari dell’esistenza; si manifesta come ritmo che la vita assume, in quel processo perpetuo in cui l’equilibrio permane adeguato: «L’armonia della salute dimostra la sua vera forza proprio in quanto essa non stordisce come il dolore penetrante o il delirio paralizzante dell’anestesia che in verità indicano o procurano disturbo[5]».

Alla luce di queste brevi riprese, si ci potrebbe chiedere come “tradurre” questi flussi di pensiero nella vita pratica. Prendendo ad esempio l’ambito del rapporto terapeuta-ammalato, si potrebbe allora ritenere che il compito del medico si identifichi con il ristabilire la salute del malato (in primo luogo), ma inducendo in lui il “riproporsi” di quell’unità che quest’ultimo aveva con se stesso, dandogli così modo di riappropriarsi delle sue capacità, facendogli riscoprire la possibilità di rientrare nell’esistenza. La salute, infatti, si caratterizza come quella totalità (hólon) che penetra nel mondo della natura «in virtù della propria vitalità, in sé compiuta che continuamente si autoriproduce[6]».

Il medico non potrà mai avere la completa illusione che caratterizza la capacità pratica e la produzione. Egli sa che nel migliore dei casi a trionfare non è lui stesso o la sua abilità, ma la natura sostenuta dal suo aiuto. […] La scienza medica è l’unica in fondo a non produrre nulla, ma a dover fare i conti espressamente con la prodigiosa capacità della vita di ristabilirsi ed equilibrarsi da sola. Il compito peculiare del medico consiste proprio nell’aiutare a conseguire il conseguimento della salute. […] Lo scopo principale è di riuscire infine a far trionfare nuovamente la verità anche sopra la falsità della malattia[7]

Riccardo Liguori

NOTE

[1] G. Colli, La sapienza greca, Eraclito, Adelphi, Milano, 1980, fr. 14 [a20], pag. 35.

[2]H. G. Gadamer, Über die Verborgenheit der Gesundheit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1993; tr. it. a cura di Marialuisa Donati e Maria Elena Ponzo, Dove si nasconde la salute, Raffaello Cortina, Milano 1994, pag. 140.

[3] Ivi, pag. 116.

[4] Ivi, pag. 117.

[5] Ivi, pag.225.

[6] Ivi, pag. 98.

[7] Ivi, pag.99.

Cogliere le informazioni sulla salute: sappiamo come leggere un articolo di giornale?

Gli articoli relativi alla salute spopolano in giornali, riviste, blog ecc., proponendoci informazioni molto varie relativamente alla scoperta di nuove malattie, di recentissimi approcci terapeutici o focalizzandosi sulle proprietà salutari di qualche alimento. Queste fonti informative sono essenziali per tutti noi, poiché riescono a donarci strumenti e consigli tramite i quali possiamo contribuire a preservare la nostra salute o correre ai ripari, se essa viene compromessa da qualche malattia. Nonostante ciò, tutti noi abbiamo avuto modo di sperimentare quanto queste forme divulgative siano molto difficili da interpretare: per fare un breve esempio, spesso si legge su alcune riviste quanto faccia bene mangiare la cioccolata, ma il mese successivo potremo imbatterci in un articolo pubblicato probabilmente nella medesima testata che sostiene esattamente il contrario. Tale situazione si avvera in virtù del fatto che gli articoli in questione richiamano studi condotti in qualche università, senza mai scendere troppo nel dettaglio di chi ha condotto veramente quegli studi, su chi li ha finanziati e, quasi sempre, senza fornire alcun dato reale che possa in qualche modo giustificare “scientificamente” il contenuto stesso dell’articolo. A tutto questo bisogna anche aggiungere che frequentemente si avvera pure la situazione contraria, ovvero gli articoli divulgativi vengono redatti con terminologie troppo “auliche” per essere interpretabili da chi non possiede alcuna base scientifica o specifica della materia di cui si tratta.

A questo proposito due studiosi italiani, Paolo Legrenzi e Carlo Umilità, all’interno di un notevole libro dal titolo Neuro-Mania mettono in luce come alcune forme patologiche vengano presentate in giornali divulgativi, quotidiani e settimanali non d’interesse medico, corredate da informazioni neuroscientifiche che ne accentuano i risultati. In particolare i due mostrano come i dati indicati a supporto delle patologie siano in molti casi parziali e mal scritti, ovvero la specificità e la complessità degli stessi è talmente elevata che potrebbe essere compresa solo da uno strettissimo numero di addetti ai lavori. Per confermare la loro tesi riportano alcuni studi che hanno messo in mostra la qualità delle credenze delle persone relativamente alle neuroscienze; in particolare essi si soffermano su uno studio eseguito dall’università di Yale [1] tendente ad accertare se un’eventuale predilezione per le spiegazioni neuroscientifiche affondi o meno le proprie radici nei modi di rappresentazione del mondo da parte del grande pubblico. Lo studio ha rivelato che una spiegazione, se corredata da indicazioni “neuro”, anche se generiche, ha più appeal nei lettori rispetto ad una tesi non supportata da tali dati. Inoltre, ha messo in luce come nessuno, tranne gli esperti del settore, riesca a cogliere la differenza tra dati corretti e sbagliati, poiché il solo presupposto che la tesi sia giustificata e supportata da dati “neuro” è sufficiente per riporre fiducia in tale tesi. Ciò comporta che la propaganda sui risultati ottenuti della prospettiva “neuro” è riuscita a persuadere gli animi del grande pubblico sulla validità oggettiva delle tesi espresse. A questo proposito Legrenzi e Umiltà asseriscono: «bisogna essere davvero esperti per non farsi ingannare. Per tutti gli altri, e cioè la grande maggioranza delle persone, l’aggiunta dell’informazione neuro, di per sé corretta, fa la differenza. La differenza che corre tra una spiegazione credibile e una ritenuta sbagliata. In altre parole, la spiegazione sbagliata diventa credibile grazie all’arricchimento neuro che ha, per così dire, un potere salvifico. Le persone tendono a fraintendere il senso di tale arricchimento, che trasforma in spiegazione soddisfacente quella che, in sua, non lo è. In altre parole l’informazione neuro è un valore aggiunto che rende credibile qualcosa di fasullo» [2].

Tale situazione viene ribadita dagli studi di Jörg Blech, giornalista e divulgatore scientifico-medico per Der Spiegel, il quale sostiene che gli articoli che si trovano in molte riviste non specializzate spesso vengono scritti da giornalisti che, seppur molto bravi nel fare il loro lavoro, non se ne intendono di medicina. A questo proposito scrive: «molte delle notizie diramate della stampa sono riprese dai giornalisti in maniera assolutamente acritica. Possibili terapie vengono di colpo strombazzate come se fossero rimedi sensazionali, ma nella maggior parte dei casi dopo un po’ di tempo non si ha più notizia di esse. La tendenza all’esagerazione è una malattia professionale di molti giornalisti che si occupano di medicina: spesso, per far sembrare importanti e significativi i loro servizi, essi gonfiano i dati sulla diffusione di certe malattie e il pericolo che queste possono costituire» [3]. Su questo tema sono stati scritti innumerevoli articoli e Blech sceglie di giustificare la sua affermazione facendo riferimento allo studio condotto dall’Harvard Medical School pubblicato nel giugno del 2000 [4], nel quale venivano esaminati 207 articoli riguardanti tre farmaci, pubblicati nel Wall Street Journal, nel New York Times, nel Washington Post, in altri 33 giornali e apparsi sulle principali televisioni nazionali. I risultati furono molto chiari: nel 40% degli articoli mancavano dati e cifre sull’asserita efficacia dei farmaci, inoltre nei rari articoli che riportavano qualche cifra si parlava solo dei dati sull’utilità relativa dei farmaci. Nella quasi totalità degli articoli non si parlava né degli effetti collaterali né si riportavano gli esiti di altri studi; in più, quando l’articolo era scritto da un esperto della materia non si riportava mai se esso avesse qualche rapporto o legame finanziario con i produttori di farmaci.

Il piccolo spunto di questo articolo mira a porre una domanda banalissima: siamo sicuri di saper leggere un articolo medico riportato in un giornale? Riusciamo, cioè, a selezionare gli aspetti principali di tali articolo e ponderare l’idea che ci faremo leggendo lo stesso, cogliendo quando si tratta di un messaggio rilevante e quando invece non lo è?

Tale ragionamento risulta banale solo all’apparenza, poiché tutti noi leggiamo una marea di notizie e scegliamo quelle che ci convincono maggiormente; tuttavia, quando si tratta di salute è necessario farsi qualche domanda in più prima di sposare una particolare tesi riportata in uno dei nostri giornali preferiti, in particolare è necessario capire esattamente da quale fonte proviene l’informazione, quali dati esistono a supporto e chi ha prodotto (e con quali interessi) gli stessi, e soprattutto se tali articoli sono scritti in modo da essere oggettivamente compresi anche da chi non si trova tutti i giorni a lavorare o leggere di queste particolari forme patologiche.

In conclusione è possibile affermare che comunicare la salute è di certo un’attività difficilissima, ma allo stesso tempo recepire le informazioni sulla salute e saperle soppesare con buon senso è forse uno dei maggiori sforzi che ognuno di noi, tutti i giorni, è chiamato a compiere.

Francesco Codato

NOTE
1. Cfr S. Birch, P. Bloom, The curse of knowledge in reasoning about false beliefs, in “Psychological Science” n. 5, 2007;
2. P. Legrenzi, C. Umiltà, Neuro-mania, Il Mulino, Bologna 2009, p. 71;
3. J. Blech, Gli inventori delle malattie, Lindau, Torino 2006, p. 59;
4. Ibidem, pp. 59-60.

Le molteplici vie interpretative dei messaggi legati alla salute: dal contesto al valore dell’informazione

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Nel precedente articolo abbiamo visto come il concetto di salute, pur rappresentando uno dei cardini dell’umana esperienza, non può essere ridotto ad una sola e chiara unità di senso, ma la sua posizione e determinatezza dipendono dai continui mutamenti che i contesti socio-culturali attribuiscono alla nozione di uomo e al relativo concetto stesso di salute. In altri termini, non esiste una sola definizione di salute ma sussistono una moltitudine di concetti tra loro simili che, valutati nella loro interezza, riescono a restituire il senso del concetto medesimo. Inoltre, abbiamo visto come una delle situazioni fondamentali all’interno di questo paradigma sia quella di riuscire a comunicare con chiarezza e con metodo la propria definizione di salutare al fine di ottenere un “vantaggio competitivo” che possa persuadere gli animi nell’assecondare tale dimensione unificante il senso.

Questo ragionamento, che sulla carta può apparire molto teoretico e di difficile interpretazione, è stato ben riassunto da un esempio, spesso citato nella letteratura bioetica, che trova una esemplare rappresentazione nel libro di Nikolas Rose, La politica della vita, Einaudi 2008 (pp. 224-227). L’esempio di Rose fa riferimento al sito internet del Prozac creato nel 2001 dalla Eli Lilly per promuovere l’alfabetizzazione scientifica tramite la divulgazione di forme di salvaguardia della salute, che ebbe un enorme successo a livello di visite. Come riporta Rose (p. 226), l’home page di questo sito era intitolata “La tua guida per valutare e guarire dalla depressione”. Il sito, da quanto dichiarato, non voleva sostituirsi alla diagnosi medica né proporsi come forma alternativa alla stessa, ma si prefiggeva la volontà di aiutare le persone a capire cosa fosse la depressione e quali misure si potessero attuare per curarla o prevenirla. Per realizzare tale proposito il sito forniva non solo una spiegazione biologica della patologia associandola a disfunzioni di neurotrasmettitori ecc., ma esponeva come per prevenire e superare questa patologia fosse necessario cambiare il proprio sé, ovvero praticare ciò che in filosofia assume il nome di “tecniche del sé”, tanto che lo stesso Rose scrive: “il processo di guarigione, riportato nel sito, prevedeva un intero dispiegamento di tecniche del sé: praticare scoperta di sé, volersi bene, mangiare bene, […] e leggere il volantino informativo di Prozac.com” (p.227).

Da questo piccolo esempio possiamo trarre almeno due grandi spunti di riflessione, la prima è che per porre le basi per la diffusione di un concetto relativo alla salute, in questo caso per divulgare cosa sia la depressione, non basta individuare un messaggio focalizzato unicamente sul farmaco o sulle cause che possono portare a riscontrare tale patologie, ma è necessario inserire tale messaggio nell’ambito di una dimensione di senso più ampia che preveda dei cambiamenti all’interno della vita dei soggetti. Il sito del Prozac mirava proprio a questo: non soltanto fornire informazioni sul farmaco o sulla patologia, ma offrire le stesse all’interno di un contesto che fosse facilmente assimilabile da chiunque visitasse il sito e che potesse farlo diventare un vettore di “alfabetizzazione scientifica”. In altri termini, le differenti modalità di espressione della comunicazione della salute, mirando ad uno specifico contesto di riferimento, pongono in essere delle modalità di trasformazione della soggettività in grado di orientarne la peculiare esplicazione nel mondo. Il sito del Prozac e la campagna pubblicitaria creata per questo farmaco ha rivoluzionato il modo d’intendersi stesso del soggetto, infatti noi tutti oggi sappiamo dell’esistenza della depressione, ovvero dell’infelicità patologica, e associamo comunemente la stessa non solo al campo della salute, ma anche a delle modalità differenti con le quali poterla usualmente definire o inquadrare, situazione che prima della stessa campagna nessuno di noi avrebbe potuto fare. Ne segue che la divulgazione del messaggio relativo alla depressione è riuscito a cambiare il contesto di base sul quale noi agiamo e attribuiamo importanza alle nostre espressioni vitali quali indicatori di salute.

Se la prima riflessione è relativa alle modalità con le quali è necessario comunicare, ovvero far breccia sul contesto di senso che si deve modificare, la seconda è relativa alla valenza del messaggio stesso che si pone in essere. Anche in questo caso l’esempio di Rose è fondamentale, poiché produrre alfabetizzazione riguardo la salute, dunque cambiare e agire sui contesti, può essere interpretato eticamente almeno sotto due diverse modalità espressive: da una parte si può cogliere tale situazione come una forma benefica d’informazione che può portare dei grandi vantaggi ad alcune persone, generando un reale valore per l’utente e per la sua vita; dall’altro lato questo fenomeno può essere visto come creazione di un concetto assimilabile alla mera vendita o creazione di notorietà del brand che produce la soluzione a quel problema. In altre parole, agire sull’alfabetizzazione vuol dire lavorare sul contesto di senso, che può, a sua volta, portare a creare delle necessità e dei bisogni fittizi che non esistevano in precedenza, o viceversa vuol dire fornire delle risorse per catalizzare, organizzare e rispondere a bisogni reali che non avevano ancora trovato completa espressione.

Il problema fondamentale relativo alla comunicazione della salute che ci si pone in bioetica è proprio questo, ovvero quando le azioni di divulgazione sono generate per il bene della collettività e quando invece esse sono generate per il solo profitto di chi detiene i brevetti di un particolare farmaco o di una particolare istituzione sanitaria?

Risolvere tale quesito è praticamente impossibile, poiché l’indeterminatezza oggettiva del concetto di salute pone in essere delle dinamiche interpretative del tutto soggettive del messaggio comunicativo che, agendo su contesti generali che poi si personificano, danno vita molteplici e soggettive vie interpretative. Ne segue che la citazione di Rose, riportata nelle righe precedenti in cui si mette in luce cosa il sito del Prozac proponesse quale forma d’informazione, può essere salutata da alcuni come una manna dal cielo e, nel contempo, vista da altri come mera forma di pubblicità del più basso livello culturale.

Produrre un messaggio univoco e senza alcun dubbio etico all’interno della sfera della salute è assolutamente impraticabile e chiunque agisce in questo difficilissimo campo, come vedremo nei prossimi articoli, deve continuamente lavorare sui contesti e confrontarsi con questo immenso quesito per riuscire a generare informazioni capaci di apportare reale valore alle singole persone che si trova ad assistere.

Francesco Codato

La salute, un concetto difficile da definire e comunicare

Nel contesto della nostra vita quotidiana la parola salute rappresenta uno dei vocaboli che pronunciamo e sentiamo proferire maggiormente dagli altri. Generalmente siamo convinti che tale termine significhi e designi un concetto chiaro ed estremamente facile da individuare e riconoscere. Ad esempio, basti pensare al fatto che se avvertissimo un qualunque tipo di scompenso vitale (malattia) non sosterremmo di essere in salute, viceversa se trovandoci all’interno di un perfetto equilibrio vitale che ci consente di perpetuare tutte le nostre attività quotidiane riteniamo di essere in salute. Questa semplicissima evidenza si complica quando vogliamo comunicare il nostro stato o divulgare lo stesso agli altri, infatti, chi di noi non si è mai sentito stanco, “giù di morale” e quindi, pur non riuscendo ad identificare nessun punto biologicamente determinato e localizzabile (ovvero di facile comunicazione) non si sarebbe definito in salute? Oppure chi, pur provando dei lievi malesseri che non lo fanno sentire in salute, è riuscito ad identificare e a comunicare agli altri il suo status senza per questo essere definito una persona lamentosa, non degna di essere considerata come priva di salute?

Da queste banali osservazioni possiamo capire come il concetto di salute porti con sé una difficoltà estrema ad essere sintetizzato in parole semplici e comunicabili perfettamente agli altri, non è un caso che la natura stessa della comunicazione e dunque dell’identificazione del significato di tale termine abbia da sempre, sin dall’antica Grecia, portato con sé una marea di quesiti etico-esistenziali che trovano forma ed oggetto nella filosofia. Il problema fondamentale che più ha alimentato le riflessioni attorno a questo tema è quello di determinare se il concetto di salute corrisponde unicamente all’assenza di malattia, riducendo di fatto il nostro vivere ad un puro modello meccanico nel quale esistono delle falle che bisogna continuamente riparare, oppure se esso si riferisca ad un qualcosa che prescinde dalla sola disfunzione biologica e si rifà ad un contesto storico-biologico-sociale che determina i modi stessi con i quali il soggetto sostiene di essere in salute.

Il primo modello preso a riferimento, che potremo chiamare modello meccanico, sostiene che esistano delle evidenze di funzionamento dei corpi che sono propri di ogni specie, dunque ritiene che sia definibile come sana una persona che “funziona” secondo le modalità proprie della specie umana, viceversa se un individuo non rispetta queste condizioni è definibile come malato. Un chiaro esempio può essere rappresentato dalla capacità di camminare, in quanto se è normale per un essere umano camminare, qualora tale situazione non avvenga in un soggetto, esso è malato e quindi non godo uno stato di piena salute. Potremo, dunque, sinteticamente affermare che il modello meccanico considera la salute come pura assenza di alterazioni organiche. In maniera totalmente differente il secondo modo d’intendere la salute, che potremo definire olistico, sostiene che una malattia non può essere intesa come sola alterazione organica, ma deve essere percepita come alterazione di un equilibrio esistenziale. Risulta chiaro che per tale teoria la definizione di salute prescinde dalla sola identificazione delle lesioni organiche e ha a che fare con la dimensione personale e soggettiva con la quale un individuo vive ed esperisce se stesso nel mondo. Se il modello meccanico ha avuto una grossissima diffusione nel ‘700 e nel ‘800, verso la metà del secolo scorso l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha codificato una definizione di salute, a cui tutt’ora ci riferiamo, che sposta l’accento su una definizione olistica, infatti la salute si deve intendere per l’OMS come:“uno stato completo di benessere fisico, psichico e sociale, e non come una mera assenza di malattia o infermità”.

Si può cogliere, da questa definizione, come oggi il concetto di salute non rappresenti un dato totalmente oggettivabile, ma si presti ad una serie molteplice di interpretazioni che spostano lo stesso da un universale oggettivo ad un elemento modificabile e plasmabile da chiunque riesca a comunicare in maniera efficace la propria idea di salute agli altri. Dunque, con la dissolvenza del concetto di salute quale identificazione del perfetto equilibrio biologico dell’uomo e con l’apertura all’interpretazione esistenziale di tale concetto si è imposto un modello attraverso il quale comunicare e trasmettere differenti aspetti o approcci del concetto stesso di salute diventa uno degli elementi fondamentali che costituiscono l’orizzonte concettuale e medico che stabilisce l’idea che noi ci plasmiamo di cosa voglia dire essere sani. La rubrica che proponiamo mira, già dal prossimo articolo, a individuare e a dar luce a diverse strategie comunicative che sul web, sui giornali o per voce dei professionisti che si occupano direttamente di salute o di ricerche attorno ad essa, si sono attuate e si attuano al fine di porre il concetto di salute al centro del proprio messaggio.

Francesco Codato

Il diritto di non sapere in medicina tra etica e diritto

Il medico di oggi deve fare i conti con una grande trasformazione del suo ruolo rispetto al passato e con una differente posizione del paziente, ora portatore di nuovi diritti.

Se nella cultura medica tradizionale, di stampo paternalistico, si contemplava un affidamento assoluto alla volontà del medico e l’intervento medico stesso era giustificato dallo stato di necessità nel quale versava il paziente il cui corpo poteva e doveva essere “preso in carico” dalla medicina, spesso indipendentemente dalla volontà del diretto interessato; oggi, invece, per quanto l’affidamento al medico costituisca ancora un aspetto fondamentale nella relazione di fiducia che dovrebbe instaurarsi tra il medico e il paziente, ci si trova in una prospettiva differente, maggiormente incentrata sulla responsabilizzazione del paziente e sulla tutela dei suoi diritti individuali.

Il fondamento normativo del diritto di non sapere si basa sull’interesse giuridicamente rilevante del paziente ad ignorare la propria condizione personale in assoluto; espressione di tale orientamento è il “consenso informato” che si fonda proprio sul principio di autonomia e autodeterminazione e che trova le proprie basi normative tanto nell’art. 13 della Costituzione Italiana che si preoccupa di difendere e garantire l’inviolabilità della libertà personale, quanto nell’art. 32, secondo comma, secondo il quale nessuno può essere obbligato a subire un trattamento sanitario al di fuori dei casi previsti dalla legge. Un ulteriore riferimento a riguardo può essere il Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196: “Codice in materia di protezione dei dati personali” ovvero la legge sulla privacy in cui il “diritto alla privacy” viene inteso come diritto di escludere dalla propria sfera privata determinate informazioni che vogliono arrivarci dall’esterno.

Se sosteniamo la tesi secondo la quale l’autonomia della persona è il fondamento del suo diritto di non sapere si pone immediatamente una questione strettamente etica: il rispetto dell’autonomia implica l’obbligo assoluto di non informare colui che ha chiesto di rimanere nella ignoranza?

Il dovere del medico di informare il paziente sulle sue condizioni di salute dovrebbe arrestarsi di fronte al rifiuto di quest’ultimo di essere messo al corrente sul risultato di esami diagnostici, prognosi, prospettive di guarigione, trattamenti ed eventuali alternative, ma ritengo che il diritto di non sapere non possa essere considerato assoluto soprattutto per il possibile presentarsi di situazioni di emergenza che comportano responsabilità mediche importanti. Diventa quindi fondamentale che il diritto di non sapere venga discusso con il paziente nella fase informativa precedente al consenso all’esame diagnostico proposto ed è importante che il tutto venga confermato con le ordinarie procedure (scheda ambulatoriale, cartella clinica, ecc…). Ritengo fondamentale che il diritto a non essere informati venga sì discusso, ma, se necessario, “sospeso” con responsabile decisione dal medico, soprattutto qualora siano in pericolo interessi vitali per la persona, per soggetti terzi, per la società e per il medico stesso.

Un documento del 1998 dell’American Society of Human Genetics[1] dal titolo “Paper on Professional Disclosure of Familial Genetic Information” enumera alcune situazioni eccezionali che possono consentire di rivelare informazioni genetiche senza il consenso e l’autorizzazione dell’interessato:

– quando sia ipotizzabile un danno grave per il paziente,

– nel caso in cui siano falliti tutti i tentativi di incoraggiare il paziente alla comunicazione di tali informazioni che potrebbero risultare utili per alcuni familiari a rischio,

– se sono in pericolo interessi vitali per altri soggetti (es. elevato rischio di malattia di un consanguineo) e se la patologia riscontrata è curabile.

In questo contesto situazionale il medico può violare il segreto professionale informando il terzo che si trova in una situazione di potenziale pericolo? Si configura in questo modo un conflitto di interessi, una situazione di contrapposizione tra la decisione di una persona a sottoporsi ad un esame diagnostico che può rivelare l’elevato rischio di malattia anche in un familiare e la volontà di non sapere, o di non far sapere tale informazione. Ci troviamo di fronte alla necessità di bilanciare gli interessi in conflitto: l’interesse alla privacy deve indietreggiare di fronte alla necessità di tutelare un interesse di pari o superiore rango ovvero la salute di altri soggetti. Detto altrimenti, il diritto alla riservatezza del malato potrebbe soccombere di fronte al diritto alla salute del soggetto sano.

Lo stesso Codice di Deontologia Medica all’art. 12, riguardante il trattamento dei dati sensibili, permette al medico il trattamento dei dati personali del paziente, anche in assenza del consenso di quest’ultimo, quando vi sia l’urgenza di salvaguardare la vita o la salute del paziente stesso o di terzi; ne consegue che il medico non è responsabile della violazione del segreto professionale, ciò non significa, però, che sia assolutamente obbligato ad informare i terzi che vengano a contatto con il malato, ad esempio, nel caso di AIDS, il partner; per il medico si tratta solo ed esclusivamente di un problema di coscienza, infatti l’unico responsabile in caso di contagio del partner sano sarà il soggetto malato.

Infine, un’ulteriore fattispecie potrebbe essere la richiesta di non sapere accompagnata dall’individuazione di una diversa persona delegata a ricevere le informazioni. In questo caso, è lo stesso art. 33 del Codice di Deontologia Medica che si preoccupa di tutelare la situazione prevedendo la possibilità, da parte della persona assistita, non solo di non essere informata ma anche di affidare ad un altro soggetto l’informazione. Non è prevista, invece, la delega al consenso di un trattamento che rimane comunque in capo al paziente che decide di non sapere.

[1] Il testo è consultabile all’indirizzo www.ashg.org.

Silvia Pennisi