Fino all’ultimo respiro, ricordando Jean-Luc Godard

È morto il 13 settembre 2022, il 3 dicembre avrebbe compiuto 92 anni: Jean-Luc Godard, nato a Parigi nel 1930, una delle più importanti personalità della Storia del Cinema, uno dei maggiori esponenti della Nouvelle Vague, ma soprattutto un uomo, che ha scelto di inserire la parola fin in quel lungometraggio o – come avrebbe forse detto uno dei suoi amici dei Cahiers du Cinèma e fondatori della medesima corrente cinematografica, François Truffaut – in quel tourbillon che è la vita. Tra i suoi capolavori che hanno segnato la storia del cinema ricordiamo: À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro) del 1961 con Jean Seberg e Jean Paul Belmondo, considerato uno dei manifesti della Nouvelle Vague; Le mépris (Il disprezzo), del 1963, basato sull’omonimo romanzo di Alberto Moravia, con Michel Piccoli e Brigitte Bardot; Bande à part, del 1964 con la celeberrima corsa al Louvre ripresa nel 2003 nell’altrettanto celeberrima scena di The Dreamers di Attilio Bertolucci.

Una morte programmata quella del regista: un suicidio assistito avvenuto in Svizzera a Rolle, in secondo piano, sullo sfondo, nelle pieghe del montaggio, come uno di quei rumori di strada o di una macchia di luce che caratterizzano le inquadrature della Nouvelle Vague che puntano a catturare l’anima delle cose. In primo piano in quei giorni, invece, i riflettori erano puntati su un altro addio, quello di e a una donna, la Regina Elisabetta.

«-Fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore. E tu, cosa sceglieresti?
-Il dolore è idiota. Io scelgo il nulla. Non è meglio… ma il dolore è un compromesso. O tutto o niente».

All’indomani della morte di Jean-Luc Godard riecheggiano inevitabilmente queste celebri battute di À bout de souffle, scambiate tra Patricia e Michel e a loro volta citazione dal romanzo Palme selvagge (1939) del Premio Nobel William Faulkner. Artista e uomo rivoluzionario, ribelle e anticonformista, anche Jean-Luc Godard ha scelto il nulla: in quanto regista ha diretto la propria vita fino all’ultimo respiro e di fronte al dilemma, in quanto uomo, del dolore e del nulla, ha scelto il nulla. Kierkegaardianamente scagliato nell’esistenza, eliminato Dio come figura deterministica, paternalistica e consolatrice, e consapevole – come affermava Jean-Paul Sartre celebre nella conferenza L’existentialisme est un humanisme (1945) – che «L’uomo è condannato a essere libero», ha scelto il nulla ed è stato questo il suo addio, per alludere a un refrain di Million Dollar Baby (2005) di Clint Eastwood: «Tra le querce e i cedri dispersi tra il nulla e l’addio».

Jean-Luc Godard è stato un regista totale, in continua sperimentazione e contraddizione, fondatore nel 1969 di un collettivo di estrema sinistra, il Gruppo Dziga Vertov, e per il quale il cinema è prima di tutto montaggio e dovrebbe mostrare quello che non succede e che non si può vedere da nessun altra parte, neppure su Facebook – come lui stesso aveva dichiarato durante una Conferenza Stampa del Festival di Cannes nel 2018 in occasione della presentazione del suo ultimo lavoro, Le livre d’images. Il suo ultimo respiro arriva da un oltretomba lontano: i titoli dei giornali e le rapide notizie televisive sulla sua morte si sono stagliate come un frame dal buio proprio come in questo suo ultimo radicale e innovativo oggetto cinematografico.

Immagino Godard in parte come il Napoleone de Il Cinque maggio manzoniano: un uomo fatale, un uomo che ha incarnato e che ha orientato lo spirito del proprio tempo e che per questo si è paradossalmente eternato; ma comunque un uomo, un uomo nella propria finitezza e un uomo disarmato di fronte al mistero della morte, cui sceglie però di andare incontro, come quel celebre treno dei fratelli Lumière in arrivo alla stazione della Ciotat andava incontro agli spettatori.

Immagino la vita di Godard sia come la celebre corsa del piccolo Antoine Doinel nel finale di uno dei manifesti della Nouvelle Vague, Les 400 coups (I 400 colpi) del 1959 di François Truffaut, sia come quel celebre tourbillon de la vie cantato da Jeanne Moreau in un altro manifesto di tale corrente cinematografica del medesimo regista, Jules et Jim del 1962, tra leggiadria e malinconia, tra spensieratezza e fatale determinazione: la vita come un lungo piano sequenza verso un capolinea e la vita come un gomitolo la cui armonia è proprio il caos. La vita che – sia in una dimensione lineare sia in una dimensione circolare, sia in una qualche prospettiva ultraterrena sia in una prospettiva materialista – è movimento, in greco “kìnesis”. Il “cinema” ha proprio a che fare etimologicamente con la vita e questa è stata la vita di Jean-Luc Godard, da cui mi piace congedarmi affidandomi alle parole conclusive di Il grande Gatsby, «Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato».

 

Rossella Farnese

 

[Photo credit Jeremy Yap via Unsplash]

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Tra le molteplici declinazioni della parola ” viaggio “

Estate 2022: la prima estate in cui si potrà tornare a viaggiare senza lockdown, mascherine e green pass, “come nell’epoca pre-covid”, ossia in libertà. Ebbene sì, perché viaggiare implica e tende alla libertà: si viaggia a condizione di essere liberi e parallelamente si viaggia alla ricerca della libertà. 

Scrive Walt Whitman in Song of the open road: «Afoot and light-hearted I take to the open road,/ Healthy, free, the world before me,/ The long brown path before me leading wherever I choose»1. Una canzone, questa della seconda edizione di Leaves of grass (1856), che è un inno alla libertà e alla leggerezza calviniana; un invito a intraprendere un percorso di quête – quasi da eroe fiabesco o da protagonista di un Bildungsroman2 e un’esortazione, scandita dal refrain «allons!», a scegliere e ad affermare se stessi. «Allons! from all formules!»: il viaggio, sia inteso in senso metaforico, come esplorazione interiore e conseguente vagabondaggio spensierato e positivo nella strada aperta della vita, sia inteso in senso letterale, richiede “libertà da” e “libertà per”, libertà da ogni regola, da ogni formula, da ogni convenzione, da ogni pregiudizio e libertà per rischiare, per uscire dalla propria comfort zone, per sospendere la propria routine, per salpare da uno «sheltered port» e andare dove si vuole, padroni assoluti di sé, andare «where winds blow, waves dash, and the Yankee clipper speeds by under full sail» (W. Whitman, Song of the open road). 

Nelle fondamenta della cultura occidentale vi è Odisseo, non solo emblema dell’uomo multiforme capace di astuzia pratica ma anche del viaggiatore per eccellenza bramoso di ritornare a Itaca, simbolo di quel “porto riparato” con acque calme, del focolare domestico, della patria e degli affetti, ma al tempo stesso stimolo di sfida e di ricerca continua. Non a caso, in un altro libro miliare per l’Occidente, la Divina Commedia, Dante, colloca Odisseo con l’amico Diomede nell’ottava bolgia tra i consiglieri fraudolenti soprattutto per aver convinto i suoi compagni a intraprendere quel «folle volo», cioè varcare le colonne d’Ercole, che gli sarà fatale. Tuttavia il Poeta non può non ammirare la grandezza titanica dell’eroe omerico, che, ignaro della Grazia del dio cristiano, ha osato fare oltraggio agli dei, cercando di superare i limiti imposti agli uomini e macchiandosi così del peccato pagano di hybris (tracotanza). Lo ha fatto, però, perché mosso dal desiderio di conoscere, che è proprio dell’essere umano: «considerate la vostra semenza/ fatti non foste a vivere come bruti,/ ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante, Inf.. XXVI, vv.118-120). 

Odisseo, nuovo Prometeo, diventa simbolo di sfida agli dei, di slancio verso l’ignoto e della profonda dignità della condizione umana, che, ad esempio, la logica dello sterminio nazista, riducendo gli uomini solo ad un numero di matricola, cerca in tutti i modi di annullare, come racconta tra le pagine di Se questo è un uomo Primo Levi, per il quale, in una visione laica del mondo, ricordare il canto di Ulisse tra gli abissi di Auschwitz, che mira a ridurre gli uomini allo stato animale, è un modo per ritrovare la propria dignità, sommersa tra gli orrori del lager. 

Un viaggio orizzontale, geografico, quello di Ulisse cui Dante contrappone un altro viaggio, il proprio, un viaggio verticale, ultraterreno, come l’itinerario della Commedia, teso verso il vertice ultimo, Dio. 

Di molti tipi di viaggio – cronachistici, fantastici e metaforici – è percorsa tutta la Letteratura successiva, dal Milione, resoconto del viaggio in Oriente di Marco Polo dettato a Rustichello da Pisa e riletto da Italo Calvino in Le città invisibili (1972), ai poemi epico-cavallereschi quali l’Orlando furioso, dal Grand Tour, moda settecentesca dell’aristocrazia e della classe media colta, soprattutto inglese e francese, intesa come pellegrinaggio laico verso i luoghi della Storia della civiltà occidentale, al desiderio di evasione e di esotico di fine Ottocento fino al disorientamento dell’uomo novecentesco, smarrito tra i frantumi del proprio io e i tentacoli di alienanti metropoli. 

Abbiamo bisogno di viaggiare perché abbiamo un desiderio intrinseco di conoscere e di conoscerci. Come scriveva John Steinbeck in Travels with Charley (1962), «le persone non fanno i viaggi, sono i viaggi che fanno le persone»; viaggiamo per perderci e ritrovarci, come invita Charles Baudelaire in chiusura di Les fleurs du mal (1857): «au fond de l’inconnu per trouver du nouveau»3; e viaggiamo, forse, come Guido Gozzano in La signorina Felicita, «per fuggire altro vïaggio», consapevoli però, come già ammoniva Orazio nelle sue Epistole, che «caelum non animum mutant qui trans mare currunt»4. Consapevoli, infine, che viaggiare significa anche cambiare, come ci ricorda un virale tormentone basato su alcuni versi di Fernando Pessoa: «Partire!/ Non tornerò mai,/ non tornerò mai perché mai si torna./ Il luogo ove si torna è sempre un altro la stazione a cui si torna è diversa./ Non c’è più la stessa gente né la stessa luce, né la stessa filosofia».

 

Rossella Farnese

NOTE
1. Letteralmente: «A piedi e con cuore leggero mi metto in viaggio per la strada aperta, / In salute, libero, il ondo dinnanzi a me, / Il lungo sentiero marrone di fronte a me che conduce ovunque io voglia» (ndr).

2. Il Romanzo di formazione, un genere letterario che narra la crescita, l’evoluzione, di un personaggio verso la maturazione (ndr).
3. Letteralmente: «nelle profondità dell’ignoto per trovare qualcosa di nuovo» (ndr).
4. Letteralmente: «mutano non il loro animo, ma il cielo coloro che vanno per mare» (ndr).

[immagine tratta da Unsplash]

la chiave di sophia 2022

Sguardo alla Luna: polisemia del satellite terrestre

Citata sin dall’opera con cui si è soliti fare iniziare la Letteratura Italiana, cioè il Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi (1224), come «sorella» dell’uomo, in quanto creatura di Dio e parte della bellezza dell’Universo, la Luna ha sempre rivestito un ruolo singolare nella vita di tutti gli uomini di ogni tempo come punto di riferimento universale, simbolo di mistero, di imperturbabilità e di alterità, meta ultima verso cui evadere o interlocutrice amica, proiezione rovesciata della Terra, a una distanza siderale.

Testimone eterna e lontana del dramma umano, la Luna è presenza assidua nei Canti di Leopardi, dalla luce lunare delicata e pura in apertura dell’Ultimo canto di Saffo («verecondo raggio della cadente luna» vv.2-3), alla serena e dolce notte lunare in La sera del dì di festaqueta […] posa la luna» vv.2-3), dall’astro notturno con cui il poeta intrattiene un intimo colloquio rivolgendovisi con gli appellativi affettivi di «graziosa» e «diletta» alla Luna «silenziosa», «eterna peregrina», «giovinetta immortale» cui, in una notte silenziosa e deserta, simbolo del desolato scenario dell’esistenza, un pastore errante dell’Asia rivolge con ingenua semplicità continui interrogativi senza risposta, la protesta pacata e rassegnata di tutti gli uomini che aspirano a una condizione superiore, ideale ma solo vagheggiata, alla Luna, bella e dolce ma irraggiungibile («Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che, fai,/ silenziosa luna?»).

Una luna già carica di una sensibilità moderna, tutta novecentesca, tormentata ed esistenziale, quella di Leopardi, che ha un “fastidio che gli ingombra la mente” e a cui “la vita è male”, e che continua ad esempio nell’incipit dell’Assiuolo di Pascoli («Dov’era la luna? Ché il cielo/ notava in un’alba di perla,/ ed ergersi il mandorlo e il melo/ parevano a meglio vederla») in un’atmosfera da favola decadente un po’ sospesa e un po’ angosciosa scandita da un sinistro singulto di refrain, un «pianto di morte». E pianto di morte sarà quello rivolto da Alfonso Gatto a una «luna di pietà» che imbianca la guerra in Alla voce perduta. E a una luna di pietà si rivolgerà anche Ungaretti nel ricordare in Veglia la notte passata «vicino a/ un compagno massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio».

Se Montale predilige ambientazioni più assolate, tuttavia in Satura II contempla la Fine del ’68 proprio dalla luna, «il modesto pianeta che contiene filosofia, teologia, politica,/ pornografia, letteratura, scienze palesi o arcane» assumendo così un’ottica rovesciata, uno sguardo dal di fuori, la sua è una terra vista dalla luna. Quella luna dove già Ariosto nel canto XXXIV aveva mandato Orlando a recuperare il senno, perso per amore di Angelica, quella luna agli antipodi della terra, imperturbabile, dove si raccoglie tutto ciò che si perde nel mondo a causa della sconsideratezza umana. Quella luna ariostesca che affascina Calvino che ne fa un simbolo di leggerezza, intesa nell’accezione appunto tutta calviniana del termine, come saggezza, fermezza interiore, atarassia e al tempo stesso spiritosa e superiore irriverenza. E in questo dialettico gioco di specchi si inseriscono le riflessioni di Sergio Solmi sulla Luna del poeta francese Jules Laforgue, nelle cui Complaintes si ritrova l’influenza anche della celebre canzone popolare Au clair de la lune.

Una luna quindi non solo letteraria e scientifica ma anche popolare, una luna da canzonetta, una luna da romantica cartolina da cliché, una luna che è di tutti, una luna universale, una luna che «fa lume a tutti/dall’India al Perù/ dal Tevere al Mar Morto», una luna che «viaggia senza passaporto», come ci ricorda una filastrocca dalla disarmante attualità, La luna di Kiev di Gianni Rodari che con un clin d’œil al Cantico delle Creature e con quella leggerezza calviniana e quell’ingenuità propria degli antichi e dei fanciulli, cara a Leopardi e a Pascoli, si chiede se la luna di Kiev sarà la medesima di quella di Roma o soltanto sua sorella e lascia la parola alla luna stessa che replica «Ma son sempre quella!/ – la luna protesta- /non sono mica un berretto da notte sulla tua testa!» regalandoci un’immagine che, un po’ come quella della Signorina Felicita di Gozzano a cui la luna sopra un campanile sembrava «un punto sopra un “i” gigante», riesce ancora a strapparci un sorriso.

 

Rossella Farnese

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Amore fil rouge della vita

«I am human and I need to be loved just like everybody else does» cantavano così gli Smiths nella canzone How soon is now? appartenente all’album Hatful of Hallow (1984). E sulla tomba di Raymond Carver è scolpito un frammento letto al suo funerale dalla donna che più ha amato, la poetessa Tess Gallagher: «E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?/ Sì./ E cos’è che volevi?/ Potermi dire amato, sentirmi/ amato sulla terra.»1 E in una lettera per la sua amata Caitlin il poeta Dylan Thomas scriveva: «Non ti voglio per un giorno […] ti voglio per tutta la vita […]»2.  L’amore, che come dice il Poeta «move il Sole e l’altre stelle», è proprio il tourbillon dell’universo e il fil rouge delle nostre vite, come si vede già dalla copertina – un gomitolo rosso un po’ sfilato che passa annodandosi attraverso alcune maglie di una stretta rete in corda – di un libro che ho letto molto lentamente, quasi come una coccola, durante l’autunno perché sin dalla prima impressione era troppo, troppo bello, troppo denso di poesia, di letteratura, di arte, di vita vissuta, di parole scelte quasi scolpite sulla carta, Ogni storia è una storia d’amore di Alessandro D’Avenia. L’amore è il fil rouge delle nostre vite perché l’uomo brama di dare un senso alla propria vita e di trovare un equilibrio, quel mix di ebbrezza e di leggerezza calviniana di una vita vissuta appieno, e la risposta è l’amore, l’amore che è ciò che «muove Omero e il mare», come dice Osip Mandelstam, l’amore che è «crudele ma è la sola cosa che c’è», come scrive Zelda Sayre in una lettera a Scott Fitzgerald.

Ogni storia è una storia d’amore. Quella di D’Avenia è un’affermazione e leggendo il libro non possono restare dubbi: una galleria di trentasei racconti la cui cornice è doppia, da un lato le protagoniste, donne – perché la donna è sin dagli albori della letteratura occidentale «il viaggio e la meta»3 ‒ compagne di vita di grandi artisti, donne che hanno amato oscillando tra i due poli dell’amore e del disamore, fino al sacrificio di loro stesse o in conflitto con la Musa che già abitava il cuore di quegli uomini, dall’altro, i racconti stessi insieme formano una storia d’amore, quella di uno scrittore che ha avvolto in un gomitolo la materia del suo scrivere lanciandolo ai suoi lettori per arrotolarlo, come si legge nei ringraziamenti conclusivi, «Grazie a te, lettore, che hai voluto tenere un capo del filo del racconto e ti sei lasciato guidare fino a qui arrotolando il gomitolo che io mi sono lasciato alle spalle […]»4.

Una domanda però c’è – come si legge nella prima riga del Prologo – «L’amore salva5, e la ricerca di una risposta, motore e filo del libro, la troviamo nell’Epilogo, «siamo uomini perché possiamo coniugare i verbi al futuro e divini perché possiamo coniugarli al futuro anteriore»6 e l’amore è il paradosso del futuro anteriore.

Siamo uomini perché abbiamo un volto – e possiamo capirlo tanto più in questi tempi in cui indossiamo mascherine ovunque e quando incontriamo qualcuno vederlo con la mascherina o senza è molto diverso – cioè un viso rivolto all’orizzonte, un viso per entrare in relazione con le stelle, un viso che è desiderio (“de-sidera” “dalle stelle”) di destinazione, un viso che si apre alla meraviglia della bellezza e che ci apre alla felicità.

Siamo persone – dal greco prosopon che indica sia la maschera teatrale sia il volto, perché un personaggio è tale, cioè ha una storia, perché entra in relazione con il mondo attraverso la sua presenza, perché ha un volto – non “individui” – come la società attuale tende a considerarci ‒ cioè siamo tagliati, non siamo degli atomi indivisibili e il sesso (dal latino “secare” “tagliare”) è «il dono di essere fatti per amarsi». Ed è proprio l’eco del mistero di questa ferita costitutiva che possiamo ascoltare nelle storie raccolte da D’Avenia, storie d’amore che hanno protagoniste – cioè “coloro che combattono in prima fila, che rischiano per primi” ‒  donne perché le donne sentono la vita dal di dietro e sono loro stesse dimora della vita, storie d’amore, scandite dal loro prototipo, il mito di Orfeo ed Euridice, perché solo l’amore, letteralmente “a-mors” “senza morte”, ci sottrae alla polvere, ci fa scavalcare la nostra ombra spazio-temporale e crea una tregua dalla morte. E un prezzo da pagare per la nostra salvezza c’è ed «il rischio, perché niente ci fa correre il pericolo di smarrirci come l’amore […] ma l’uomo è eroe e la donna eroina quando accetta tutto il rischio della vita, e questo rischio si chiama amare» ed è l’unica vera trasgressione ed è il paradosso del mito di Orfeo ed Euridice: in amore ci si deve perdere per ritrovarsi perché «l’amore comincia sempre come scoperta di un’assenza» – «Il y a toujours quelque chose d’absent qui me tourmente»7, scrive Camille Claudel in una lettera a Auguste Rodin – l’amore «ci porta in un territorio nuovo, ci fa uscire da noi per farci sperimentare la vita vera», l’amore è «un aumento di luce».

 

Rossella Farnese

 

NOTE
1. Alessandro D’Avenia, Ogni storia è una storia d’amore, Milano, Mondadori, 2017, p. 24
2. Ivi, p. 225
3. Ivi, p. 306
4. Ivi, p. 315
5. Ivi, p. 9
6. Ivi, p. 306
7. trad. it. C’è sempre qualcosa di assente che mi tormenta.

[immagine tratta da Unsplash]

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L’arte di amare da Dante a Fromm

«Amor, ch’a nullo amato amar perdona» (Inferno V, v. 103): ho sempre trovato questo celebre verso dantesco incredibilmente forte quanto spiazzante. Il poeta afferma che Amore (in adnominatio, essendovi tre parole con la stessa origine etimologica, Amor, amato, amar) a nessuno (come è preferibile intendere quel nullo nel senso latino del termine nullus e non considerare come latineggiante l’intero costrutto cioè a nullo quindi “da nessuno”) se è amato risparmia, condona come se fosse una condanna, il fatto di riamare a sua volta. Se fosse così sarebbe troppo facile e troppo triste secondo me, impari a vantaggio di chi ama, non ci sarebbe scelta, solo questione di fortuna: chi viene amato non potendosi sottrarre al dardo di Amore, quasi come un automatismo, potrebbe solo sperare – verbo che a mio parere andrebbe relegato al mito di Pandora e mai più usato – di essere amato da qualcuno da cui si sente attratto e innamorato a sua volta.

Di certo tutte le creature hanno un bisogno assoluto di amore, nel senso passivo del termine, cioè di “essere amati”, ma si tratta come spiega Erich Fromm1, nel suo saggio, caposaldo della psicanalisi, L’arte di amare (1956), di un amore egoistico, infantile che «segue il principio: amo perché sono amato» e immaturo che «dice: ti amo perché ho bisogno di te» e di certo il furor amoris in quanto tale appunto è potente ma la brama di una qualche fusione erotica «è forse la più ingannevole forma d’amore che esista», perché, continua Fromm, «amare qualcuno non è solo un forte sentimento» o una sensazione che in quanto tale viene e va ma «è una scelta […] un impegno».

Facciamo un passo indietro per chiederci, come Raymond Carver2, «di cosa parliamo quando parliamo d’amore?». Intendiamo delle unioni simbiotiche attivo-passive sadomasochistiche o intendiamo una fusione interpersonale e con il mondo circostante? Ancora una volta Fromm, che nella prima parte del suo saggio ne mette in dubbio il titolo: se l’amore è un’arte e non una più o meno piacevole esperienza casuale, se l’amore significa “amare” e non come ritengono i più “essere amati”, se il focus è sulla funzione di amare e non sull’oggetto da cui essere amati e da amare allora l’amore «richiede sforzo e saggezza» nel senso che l’amore è «un sentimento attivo, non passivo, una conquista, non una resa». Riprendendo la distinzione spinoziana l’amore è un’azione non una passione, quindi l’uomo ama e può praticare il potere umano di amare solo in libertà, l’amore cioè non è la conseguenza di una qualche costrizione ma una «sensazione di vitalità e di potenza» che riempie di gioia ed è nell’atto del dare che trova la sua più alta espressione, un dare non per ricevere ma che è in se stesso traboccante di felicità e in questo senso «l’amore è una forza che produce amore» e non solo una relazione con una persona perché amare veramente significa amare il mondo e amare la vita, le altre sono «forme di pseudo-amore che in realtà sono forme di disintegrazione dell’amore».

Nella società occidentale contemporanea capitalistica, in una civiltà quindi non orgiastica, l’individuo moderno in una routine di lavoro meccanico e di divertimenti passivi, ben nutrito e soddisfatto sessualmente, consuma alcol, droghe e atti sessuali senza amore per produrre uno stato simile a quello provocato dalla trance cioè per andare avanti in modo momentaneo senza soffrire troppo ma senza in realtà riempire il baratro che lo divide dai propri simili da cui resta estraneo tutta la vita. Spiega Fromm che «la felicità odierna consiste nel divertirsi» e «divertirsi significa consumare», tutto è oggetto di scambio e consumo, in realtà palliativi che aiutano a essere, forse consapevolmente, inconsci della propria solitudine perché «gli autonomi non possono amare, possono scambiarsi i loro fardelli di personalità e sperare in uno scambio leale».
Alla base c’è l’errore freudiano di considerare l’amore esclusivamente come espressione dell’istinto sessuale che al contrario è invece una manifestazione di un bisogno di amore, lo spiega sempre Fromm con parole che andrebbero tenute ben in mente: «L’amore non è la conseguenza di un’adeguata soddisfazione sessuale ma la felicità sessuale – e la conoscenza della cosiddetta tecnica sessuale ‒ è una conseguenza dell’amore».

Innamorarsi è l’emozione più meravigliosa della vita, è un attimo, è una freccia che scocca in direzioni reciproche e che scombussola, disorienta, cambia, è desiderio di uscita da sé e di fusione ma l’intensità del folle amore iniziale va superata con l’intensità del sentirsi permanentemente innamorati, secondo me è questa l’arte, che in sanscrito vuol dire “andare verso”, di amare, l’alternativa è provare l’intensità della solitudine, perché sembra un paradosso ma in amore «due esseri diventano uno e tuttavia restano due». L’amore maturo è unione che preserva l’integrità e dice «ho bisogno di te perché ti amo».

 

Rossella Farnese

 

NOTE:
1. Erich Fromm (1900-1980) sociologo, filosofo e psicanalista tedesco, autore di un saggio di psicologia politica, Fuga dalla libertà (1941), arricchito con il successivo Dalla parte dell’uomo (1947), del best seller internazionale L’arte di amare (1956), cui seguì un altro best seller Avere o Essere? (1976). Nei suoi studi si è occupato soprattutto del processo di formazione e della dialettica tra individuo e società.
2. Raymond Carver (1938-1988) scrittore, saggista e poeta statunitense, autore della raccolta di racconti brevi Di cosa parliamo quando parliamo di amore? (1981, trad it. Garzanti 1987), cui segue Cattedrale (1983, trad. it. Mondadori 1984).

[Immagine di copertina tratta da pixabay]

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Il “De rerum natura” di Lucrezio

Il De rerum natura (Sulla natura delle cose) è l’unica opera che abbiamo di Lucrezio – conservata integralmente da due codici del IX secolo denominati per la loro forma O (Oblongus) e Q (Quadratus) e riportata alla luce dall’umanista Poggio Bracciolini nel 1418 – ed è la prima opera di poesia didascalica della letteratura latina. Pietra miliare della storia del pensiero occidentale per l’afflato universale di quel Lucrezio “relativamente ottimista”, secondo l’analisi di Francesco Giancotti (1989), o al contrario poeta dell’angoscia, secondo le riflessioni di Luciano Perelli (1969).

Articolato in sei libri e composto in esametri, il poema, sin dal titolo – che traduce l’opera più importante di Epicuro, Sulla natura appunto – intende divulgare l’epicureismo, dottrina eversiva e antitradizionalista che invitava al disimpegno dall’attività pubblica (si pensi al làthe biósas di Epicuro, cioè “vivi in disparte”) e al piacere, inteso come sommo bene intellettuale cui pervenire mediante l’atarassia, cioè l’assenza di turbamenti. Inoltre, altri cardini dell’epicureismo erano sostenere che gli dei esistono ma non intervengono nelle vicende umane e non fare alcuna distinzione tra religio e superstitio. Ciò viene esemplificato nel primo libro (vv.62-101) dove Lucrezio sceglie il sacrificio di Ifigenia come exemplum per affermare i delitti della religione: « […] la vita umana giaceva sulla terra, turpe spettacolo, oppressa dal grave peso della religione […] fu proprio la religione a produrre scellerati delitti […] Tanto male poté suggerire la religione».

Riprendendo modelli antichi quali Esiodo ed Empedocle, sebbene Epicuro avesse condannato la poesia come fonte di inganni che allontana dalla comprensione razionale dell’universo, Lucrezio sceglie la poesia epico-didascalica per raggiungere anche gli strati più alti della società – proprio quelli che non si erano opposti all’influenza della cultura greca – e perché considera la dolcezza dei versi un antidoto all’amara medicina della filosofia, come spiega ad esempio nel proemio del quarto libro: «Come i medici quando cercano di somministrare ai fanciulli l’amaro assenzio, prima cospargono l’orlo della tazza di biondo e dolce miele, affinché l’ingenua età puerile ne sia illusa fino alle labbra  e intanto beva l’amaro succo dell’assenzio […] così io, poiché questa dottrina appare spesso troppo ostica  […] ho voluto esporla a te nel melodioso carme pierio e quasi aspergerle del dolce miele delle Muse» (vv.10-25).

Lucrezio indaga le cause dei fenomeni, esortando il lettore-discepolo a seguire un percorso educativo, proponendogli una verità sulla quale lo chiama a prendere posizione e sostituisce alla retorica del mirabile la retorica del necessario, articolando spesso le sue argomentazioni intorno alle formule non est mirandum, nec mirum, necesse est (non c’è da meravigliarsi, è necessario) cioè i fenomeni della natura sono necessariamente concatenati tra di loro e connessi con una serie di cause oggettive. Altra cifra stilistica propria del poema è il sublime: gli scenari e i toni grandiosi sono volti a spronare il lettore affinché sia specchio della sublimità dell’universo, affinché si emozioni per la natura e affinché sia egli stesso un eroe come Epicuro, che ha liberato l’umanità dai terrori ancestrali.

Con vivace concretezza espressiva, quasi con una percettibilità corporale della vasta gamma di esempi esplicativi volti a illustrare l’argomentazione astratta, da un punto di vista contenutistico l’opera tratta l’origine della vita sulla terra e la storia dell’essere umano. Né gli animali né gli uomini sono stati creati da un dio ma si sono formati per particolari circostanze come il calore e l’umidità del terreno; il nostro mondo, nato dall’aggregazione di atomi che si muovono nel vuoto e si urtano tra di loro, è un casuale circuito di nascita e di morte e anche l’anima non si sottrae ai processi di disgregazione e muore con il corpo. Afferma così il poeta filosofo nel terzo libro (vv.839-842):

«Nulla è dunque la morte per noi, e per niente ci riguarda, poiché la natura dell’animo è da ritenersi mortale […] quando non esisteremo più e si produrrà la separazione del corpo e dell’anima […] di certo nulla potrà accadere a noi che allora più non saremo […]».

L’opera è maestra anche per l’uomo contemporaneo; Lucrezio si contrappone alle visioni teleologiche del progresso umano e confuta la tesi stoica della natura provvidenziale: non c’è stata nessuna mitica età dell’oro, la natura è matrigna, segue le sue leggi e nessun dio può piegarla alle esigenze dell’individuo. Egli inoltre valuta positivamente il progresso materiale se volto al soddisfacimento dei bisogni primari, lamenta invece con una visione sconsolata la decadenza morale che il progresso porta con sé e che fa sorgere bisogni innaturali come l’ambizione e la guerra che corrompono la vita dell’uomo, che avrebbe invece bisogno di poche cose, secondo la dottrina epicurea.

 

Rossella Farnese

 

[photo credit Robert Lukeman via Unsplash]

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La continua conquista della libertà nella non-autobiografia di Björn Larsson

«Libertà va cercando, ch’è sì cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta» (Dante, Divina commedia, Purgatorio, Canto I): Virgilio presenta Dante a Catone, custode dell’accesso al monte del Purgatorio, come un cercatore di libertà. Nel caso del Poeta essa è declinata come libertà dal male, intrinseco nella condizione umana; nel caso dell’Uticense, invece, come libertà politica, perseguita con il gesto estremo e al tempo stesso eroico del suicidio, che Dante infatti eccezionalmente non condanna – si pensi al contrario a Pier delle Vigne nella selva dei suicidi (Inferno XIII).

La libertà è un a-priori mai scontato, uno dei diritti fondamentali e inalienabili dell’essere umano, una bandiera nazionale e un ideale individuale e collettivo da tutelare, per la quale – e a volte, ahinoi, in nome della quale – combattere. Refrattaria a ogni definizione, la libertà è una necessità che ognuno a modo suo ricerca ma è anche una componente insita nella definizione stessa di “essere umano”, tralasciando le pagine di Storia sulla schiavitù e quelle delle diverse Religioni sulla creazione dell’uomo: siamo liberi in quanto siamo ma è nell’affermare noi stessi che affermiamo anche la nostra libertà. Ed è questo il leitmotiv di Bisogno di libertà (Iperborea, 2007), la non-autobiografia di Björn Larsson. Nel ripercorrere la propria vita, senza alcuna mera autocelebrazione da scrittore (liberatosi programmaticamente quindi da quel cliché autobiografico povero di valore letterario, come spiega anche nella postfazione Paolo Lodigiani) l’autore analizza alcuni episodi per lui cruciali attraverso i quali ha potuto e voluto ricercare quel bisogno che dà il titolo al libro.

«Non si nasce liberi, lo si diventa» (B. Larsson, Bisogno di libertà, 2007)

Questo è il punto di partenza delle considerazioni dello scrittore svedese, docente di Letteratura francese all’Università di Lund, che ha composto la sua opera in francese, sebbene, come spiega nell’Avvertenza, si fosse riproposto di non scrivere mai un testo in una lingua che non fosse quella materna ma «dove prendersi delle libertà rispetto alle proprie decisioni, se non in un libro sulla libertà?» (ivi).

La libertà è una conquista e va rinnovata ogni giorno per tutta la vita, richiede di essere costantemente presenti a se stessi ‒ «chi è smarrito […] non è libero […]. Essere liberi non è perdersi e lasciarsi andare senza avere la minima idea di una direzione» ‒ e richiede la costruzione di un “io” stra-ordinario, un io cioè “fuori dall’ordinario”, un “io” che viva da protagonista la propria quotidianità secondo quella grandezza, ad esempio, del giovane Jay Gatsby ‒ «formare me stesso, piuttosto che lasciarmi formare, scegliere la mia vita, piuttosto che lasciarmi scegliere» (ivi). Un “io” che dica “no” all’individualismo conformista che è diventato di questi tempi un movimento di massa ‒ «Mi è impossibile capire la gioia che prova certa gente a confondersi con la massa» (ivi) ‒ quel “no” citato dallo stesso Larsson di una scena del film Brian di Nazareth dei Monthy Pyton – un “io” che sia la consapevole realizzazione di un proprio progetto:

«Per essere liberi bisogna essere padroni dei propri atti e non vittime di cause incontrollabili. Bisogna essere realisti, radicati nella realtà, e insieme sognatori, per non rimanere vittime involontarie del mondo reale» (ivi).

Nella prima parte del libro, Larsson analizza il suo «sogno di una vita in libertà» riflettendo sul rapporto «conflittuale ma inevitabile» tra libertà e amore e tra libertà e amicizia: tre assoluti totalizzanti che danno alla vita senso, pienezza e dignità ma che per essere vissuti richiedono un compromesso tra di loro e un confronto con la realtà; quindi un compromesso con se stessi, e fino a che punto si è disposti ad accettarlo? «Perché ho accettato la riunione, l’appuntamento o il caffè con quella persona con cui non ho quasi niente in comune? Perché andare a quella cena, se non ne ho più voglia? Alla lunga questi compromessi usurano» (ivi), afferma l’autore, per il quale contrarre legami a vita è un pericolo ma ritiene anche che «la convinzione di dover passare il resto dei suoi giorni senza vero amore gli toglieva l’appetito di vivere» (ivi). 

Se nella seconda parte del libro Larsson disserta in modo più filosofico sulla definizione di libertà, delineando una sorta di teoria superomistica – non nietzschiana ben inteso – di individuo dotato di un alto e consapevole livello di effettiva libertà, e se nella terza parte conclude con un decalogo di precetti per soddisfare il proprio bisogno di libertà, tuttavia Larsson non fa la morale a nessuno, consapevole che, come diceva Boris Vian, «ciò che conta non è la felicità di tutti, è la felicità di ognuno. Idem per la libertà».

 

Rossella Farnese

 

[Photo credit Eneko Urunuela via Unsplash]

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C’era una volta l’amore tra quotidianità e filosofia

«Cosa ci insegnano i filosofi sull’amore? Che è una gran confusione, ma che in fondo vale la pena di essere vivi solo se si può dire di aver amato»: si legge così sulla quarta di copertina di un libro che stuzzica sin dal titolo scritto sul dorso i lettori, quelli che, come me, a volte entrano per caso, in una libreria a caso, alla ricerca di un libro, non di quel libro di quell’autore, ma di un libro esattamente a caso, e che si muovono lenti, svagati e leggermente inclinati tra gli scaffali. Baruffaldi, C’era una volta l’amore (Einaudi, 2020): l’incontro è avvenuto così ed è stato amore a prima vista – un po’ come uno di quegli amori adolescenziali tratteggiati tra le pagine del libro stesso – un amore impaziente, curioso, avido, passionale e leggiadro, poi nostalgico. Ebbene sì, uno di quei libri che si leggono tutti d’un fiato, con la matita tra le mani alla ricerca delle frasi da sottolineare a trascrivere nella propria agenda di citazioni, un insieme di racconti brevi, quadretti a tinte flou che hanno la consistenza di quella bolla di sapone assente sulla copertina, brevi lezioni per innamorarsi con filosofia come recita il sottotitolo. 

Quotidianità e filosofia i due poli del libro il cui fil rouge è l’amore, quell’amore di cui l’autrice ammette di non aver capito nulla eppure di esserne attratta «perché non ha nulla a che fare con la forza: è sentire una certa debolezza», quell’amore – spesso un amore adolescenziale rievocato «E c’erano quelle risate; non ti sarebbe più capitato di fare l’amore e ridere» – che al contrario si riconosce benissimo «perché dentro c’erano tutti gli elementi che lo vanno a comporre: la passione, la gelosia, la sfida al sistema dei genitori che non lasciano le case libere, quella cosa che andava dalla pelle a quell’altra profondissima: noi due, per sempre.», quell’amore esclusivo per cui non mangi e non dormi ma credi solo nell’amore, in quell’amore che si fa «contro il sistema […] un amore sgangherato, mezzo vestito, mezzo nudo […] la bellezza dei capelli sparpagliati come le principesse, il vento sulle spighe […] due corpi giovani sudati che scivolavano uno sull’altro», e poi quell’amore tra grandi filosofi, da Nietzsche e Lou Andreas Salomé a Sarte e Simone de Beauvoir, da Abelardo e Eloisa a Hannah Arendt e Martin Heidegger. 

L’autrice, una professoressa di storia e filosofia che nel 2016 sempre con Einaudi ha pubblicato Esercizi di meraviglia, parla ora non con meraviglia ma con disillusione dell’amore, che è legato al desiderio, parola che «ha un’etimologia molto romantica: de-sidera, dalle stelle, qualcosa che è arrivato da lassù e sente nostalgia per le stelle, ormai lontane, una scia sottile», racconta di celebri liaisons tra personalità straordinarie in termini ordinari, perché l’amore fa parte della vita che «è una festa e bisogna starle dentro […]», analizza l’esperienza amorosa non con stupore ma con disincanto:

«le cose cambiano, niente rimane ciò che è: la vita è svagata. Come una lista della spesa, interrotta da qualche distrazione, pane un chilo di mele deters…, così si interrompe l’amore».

C’era una volta l’amore, appunto. Non solo però la disillusione, evocata già dal titolo e dall’illustrazione di copertina, di chi forse sconfitto e raziocinante, come suggeriva Jerome Klapka Jerome, crede che l’amore sia simile al morbillo, cioè una malattia da cui bisogna passare, ma anche riflessioni inserite in bozzetti leggeri calati nella quotidianità di tutti e che per questo toccano i lettori senza sminuire la potenza e la leggerezza calviniana propri dell’amore, che è un po’ come l’aoristo, «l’unico tempo verbale non definito. Un tempo libero, sganciato da vincoli di durata; un’azione semplice, netta, l’istantanea di un bacio», e che è, come diceva Platone, una “scintilla dell’universale”, un dettaglio: «da qualche parte, insomma, l’amore inizia: una lentiggine sulla palpebra sinistra, una risata buffa, quel modo di arrotare l’erre»

 

Rossella Farnese

 

[immagine tratta da Unsplash]

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La Cantatrice Chauve di Eugène Ionesco

Sessant’anni e qualche mese fa, l’11 maggio 1950, a Parigi, al Théâtre de Noctambules, veniva rappresentata per la prima volta la pièce di Eugène Ionesco (1909-1994) La cantatrice chauve composta nel medesimo anno – la pièce o meglio l’anti-pièce, come lo stesso autore la definisce, emblema di quel genere teatrale che va sotto l’etichetta di “teatro dell’assurdo” coniata dal critico Martin Esslin nel saggio The Theatre of the Absurd (1961).

Enigmatica e sorprendente, innovativa e provocatoria, La cantatrice chauve, che rende presenti, con un linguaggio sclerotizzato e disarticolato, il vuoto e il non-senso dell’esistenza, lasciò perplessi gli spettatori e la sua prima messinscena fu tutt’altro che un successo. Di certo, si divertì invece l’autore franco-rumeno nell’imparare l’inglese, notando la banalità delle frasi contenute nel manuale di conversazione, e nel leggere il romanzo Cluny Brown (in francese La Folle ingénue) di Margery Sharp, apparso nel 1944, vedendo poi nel 1946 la versione cinematografica eponima adattata da Ernst Lubitsch. Nuovamente inscenata nel 1955 al Théâtre de la Huchette la pièce riscosse questa volta un enorme successo e dal 16 febbraio 1957 La cantatrice chauve è sinonimo di Quartier Latin dove, al Théâtre de la Huchette tutte le sere – dal martedì al sabato a partire dalle ore 19 – viene ininterrottamente rappresentata nella messa in scena di Nicolas Bataille, alternata a un’altra pièce di Ionesco, La leçon, nella messa in scena di Marcel Cuvelier.

Perché leggere questa pièce e assistere a una sua messa in scena, vi starete chiedendo? Perché vi strapperà numerose risate e al tempo stesso vi spiazzerà – in francese si userebbe il verbo bouleverser cioè vi sconvolgerà facendovi uscire dalla sala o chiudere il libro rivoltati come un calzino – perché ha un effetto catartico, tra quelle righe o su quel palco infatti ci siamo noi tutti eppure non è possibile che siamo noi, e, a parer mio, per il personaggio della bonne, la domestica.

In un décor borghese inglese, sei personaggi, due coppie, gli Smith e i Martin, un pompiere anonimo e la cameriera Mary, attraverso la desolante banalità del quotidiano, si esprimono in dialoghi vuoti, franti, convenzionali, parlano per non dire nulla, si ripetono, si contraddicono e sono in realtà la rappresentazione drammatica dell’incomunicabilità, del non senso della vita, della solitudine assoluta, dell’impossibilità di conoscere davvero l’altro, dell’assurdità della condizione umana – si pensi al crescendo in anafora della Scena IV con cui i coniugi Martin si riconoscono («Come è bizzarro, curioso, strano! Allora signora abitiamo nella medesima camera e dormiamo nel medesimo letto, cara signora. Potrebbe forse essere lì che ci siamo incontrati!»).

Un’anti-pièce che nel rispettare le regole di scrittura del teatro convenzionale – scambio di battute tra personaggi e materia ripartita in undici scene – ne fa parodia: se l’azione del teatro tradizionale è infatti dinamica, ricca di capovolgimenti e conduce a un epilogo che ne è il logico risultato, nel teatro di Ionesco invece l’azione è inesistente e la pièce si struttura attorno a interminabili conversazioni sconnesse e statiche.

Data l’inesistenza dell’azione nella pièce non vi è nessuna esposizione dei fatti e le informazioni fornite sono ambigue sin dal titolo: la cantatrice chauve infatti non esiste e di lei vi è solo un breve accenno nella scena X.

Vero soggetto dell’opera di Ionesco è la banalità delle parole: l’opera poggia infatti sul linguaggio e se nel teatro tradizionale il linguaggio è un efficace mezzo di comunicazione che permette ai personaggi di rivelare i loro pensieri nel teatro di Ionesco è invece disintegrato, vacuo, franto per mostrare la difficoltà di comunicare. Le battute sono generalmente brevi: frasi nominali si alternano a numerosi silenzi che regolarmente scandiscono il dialogo – cui i personaggi si sentono costretti dalle convezioni sociali – e traducono l’impossibilità di elaborare idee logiche perché non si ha da dire nulla. I personaggi chiusi in un luogo unico, il cui arredamento descritto succintamente – con accessori rigorosamente inglesi, qualificativo ripetuto assurdamente a oltranza in modo simbolico, umoristico e caricaturale ‒ è composto da poltrone inglesi, un focolare inglese e una pendola inglese che scandisce il tempo, sono bloccati all’interno di osservazioni stereotipate sottomesse ai luoghi comuni e all’evidenza. Privato di contenuto il linguaggio si riduce a suoni giustapposti in rima, onomatopee che riflettono il non-senso fino al frenetico finale in cui le due coppie ripetono «c’est pas par là, c’est par ici» prima che l’azione venga ripresa esattamente dall’inizio con i Martin che pronunciano le medesime battute degli Smith in un universo di noia dove tutto si assomiglia: i personaggi sono interscambiabili e il linguaggio ha perso il suo ruolo di intermediazione tra gli esseri umani.

 

Rossella Farnese

 

[Photo credit Rob Laughter su unsplash.com]

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Una citazione per voi: Sartre e la condanna della libertà

 

 L’UOMO È CONDANNATO A ESSERE LIBERO 

 

L’uomo è condannato a essere libero è l’affermazione di Jean-Paul Sartre fulcro della sua opera filosofica maggiore, LÊtre et le Néant, ovvero L’essere e il nulla (1943), e della celebre conferenza L’existentialisme est un humanisme, L’esistenzialismo è un umanesimo del 1945.

Per comprendere meglio la profondità della teoria sartriana è bene partire dai due principi fondamentali di Sartre ovvero l’existence précède l’essence e la distinzione tra être en soi (essere in sé) e l’être pour soi (essere per sé), cardini della sua ontologia.

Per Sartre l’existence significa uscire da se stessi, essere in ricerca di se stessi, superarsi per realizzarsi in qualità di individui, l’essence è invece un concetto limitativo, l’insieme delle caratteristiche proprie determinanti l’individuo. L’uomo per Sartre esiste per Sartre in quanto uomo e si determina poi con le sue scelte e le sue azioni.

Attraverso l’analogia del taglia-carta, Sartre distingue gli objets, cose determinate, fisse e complete, dai subjets, liberi e responsabili, coscienti e senza un’essenza determinata. A differenza di Leibniz, per Sartre l’essenza dell’essere umano non può essere affermata perché questo sarebbe in contraddizione con la capacità dell’uomo di trasformarsi continuamente. Gli esseri umani sono liberi o meglio condannati a essere liberi ovvero a scegliere e a scegliersi: l’uomo infatti non ha una natura intrinseca o un’essenza ma una coscienza auto-riflessiva capace cioè di auto-determinarlo.

Eliminato Dio, figura deterministica, paternalistica o consolatrice, scagliati nell’esistenza, gli esseri umani sperimentano un senso di abbandono: la realizzazione di una totale libertà, di essere e di dare senso alla propria vita, e di una correlata responsabilità – scegliendo scelgo per me e per il mondo – dà luogo a un’esperienza, piuttosto che a uno stato emozionale, di angoscia.

Non ci sono scuse per eludere la libertà e comportarsi da objet, l’uomo è artigiano della propria vita cui la libertà dà l’impronta di autenticità. La libertà rende l’uomo degno di essere uomo, non la si sceglie, è parte dell’essere umano e questa condanna alla libertà è il senso dell’esistenzialismo sartriano.

 

Rossella Farnese

 

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