A caccia di simboli nei libri di Francesco Boer

Per la seconda volta incontro Francesco Boer in una libreria. Un luogo classico in cui incontrare uno scrittore, chiaramente, ma nella mia testa lo colloco più facilmente nella natura mentre osserva l’andirivieni delle formiche o studia le forma delle foglie di un arbusto. In alternativa sepolto da mille libri e totalmente immerso nei suoi studi. Da tutto questo nascono i suoi libri, tra cui gli ultimi per l’editrice Il Saggiatore Troverai più nei boschi (2021) e Il piccolo libro del fuoco (2022).
Ecco che cosa ci ha raccontato.

 

Giorgia Favero – Nella tua biografia ti definisci esploratore, naturalista, scrittore – naturalmente – ma anche simbologo. Che cosa significa essere un simbologo e che chiave di lettura hai trovato nel simbolo, tanto da farne uno dei perni della tua indagine della realtà e della tua ricerca?

Francesco Boer – Ho iniziato a studiare i simboli perché sono un passaggio oltre la superficie delle apparenze, verso un significato ulteriore che attende come un potenziale, in ogni cosa che ci circonda. Il mondo, e la nostra vita, possono apparirci spenti, privi di senso: è una impressione che tutti, prima o poi, abbiamo provato, un pensiero doloroso che ci schiaccia come se fosse un peso sulle spalle. Riscoprire la portata simbolica dell’esistenza è una possibile via d’uscita da questo vicolo apparentemente cieco. Non è la ricezione passiva di una verità eterna, già pronta, ma un lavoro di ricerca e al tempo stesso anche di creatività, per ampliare la percezione con il significato. Il simbologo segue antiche rotte e ne traccia di nuove, e così crea connessioni, una rete di assonanze e affinità che permette di superare alcune divisioni altrimenti insormontabili, permettendo connessioni fra discipline diverse. La storia dell’arte e il mondo della tecnica, la psicologia del profondo e la geopolitica, antiche ritualità religiose e gesti quotidiani: il simbolo è presente in ogni cosa ci riguardi, perché è uno dei pilastri del nostro essere, un modo fondamentale che struttura il nostro pensiero e le nostre azioni. Con i nessi simbolici si possono così ricucire gli strappi di incomunicabilità che si sono aperti nel nostro panorama culturale a causa dell’eccessiva specializzazione. Non verso un appiattimento unitario, né a una raffazzonata confusione fra discipline, ma con un dialogo fra prospettive diverse, capaci di arricchirsi a vicenda nel confronto simbolico.

 

Giorgia Favero – La tua ultima pubblicazione, Il piccolo libro del fuoco, lascia largo spazio anche a un altro tipo di simbolo, quasi un racconto che si fa simbolo: il mito. Il mito, pur essendo molto antico, racconta molto di ciò che siamo oggi come singoli individui e può offrire tutt’ora degli spunti pedagogici validi. Quali miti ti hanno affascinato di più nella scrittura di questo libro?

Francesco Boer – Il mito di Prometeo, intimamente connesso col fuoco, è una narrazione complessa che ha continuato a far parlare di sé attraverso i secoli, cambiando forma attraverso riscritture di nuovi autori, pur mantenendo sempre la stessa carica archetipica. La forza del fuoco, la travolgente potenza del progresso umano: è sia una conquista, che la trasgressione di un volere divino. La fiamma, e tutto ciò che significa, è sì nostra, ma non di diritto. L’abbiamo sottratta con il furto, ci appartiene soltanto grazie all’inganno. Si tratta di un mito, certo, e ai più basterebbe questa definizione per scartare tutto, come se si trattasse di un vaneggiamento privo di conseguenze. Eppure storie come questa esprimono ansie e speranze radicante nel profondo della nostra anima culturale, e che altrimenti troverebbero difficilmente voce. Ignorarle non porta a nulla, perché le spinte sotterranee da cui queste voci hanno origine continuano pur sempre a influenzare attivamente le nostre vite. È necessario dunque imparare nuovamente ad ascoltare il mito: non screditandolo, come una fantasia del passato, né prendendolo troppo alla lettera, quasi fosse una profezia infallibile; ma interpretandolo, interrogando la narrazione e sé stessi, per capire cosa quella storia significhi per noi, oggi, per il mondo in cui viviamo.

 

Giorgia Favero – Nel tuo esaminare in lungo e in largo il fuoco, tra mitologia e cronaca, tra simbolo e letteratura, ti sei mosso non solo nel tempo ma anche nello spazio, dimostrando come in molti casi anche culture molto lontane dimostrano delle radici comuni. Qual è stato per il te il valore del confronto culturale nella stesura del libro?

Francesco Boer – Uscire dal proprio contesto, paradossalmente, è un modo per conoscere più a fondo la propria cultura, a cui pur sempre si appartiene in un certo grado. Nel corso delle mie ricerche, mi capita di passare dall’India all’Oceania, per poi arrivare magari alle popolazioni precolombiane del centro-America: non lo faccio per turismo culturale, per una fascinazione escapista verso l’esotico, ma nell’ottica di un dialogo fra visioni affini a quelle della nostra storia. Affine, va detto, non significa identico, né intercambiabile: troppo spesso la ricerca comparata tende a schiacciare le differenze culturali, banalizzando i singoli dettagli per creare un ipotetico mito “originale”, come se questa fonte unica, ammesso che esista, abbia per forza più valore dei suoi derivati. Al contrario, io sono convinto che sono proprio le diversità di espressione, le varianti culturali, a costituire il materiale sommamente prezioso del confronto e della ricerca simbolica.

 

Giorgia Favero – Cosa ti ha spinto alla scrittura di un libro sul fuoco e quale dei tanti simboli e significati indagati è stato per te quello più significativo, quello al quale ti senti più affascinato?

Francesco Boer – I simboli a volte attraggono con un incanto appena sussurrato, eppure ricco di fascino, irresistibile. Altre volte invece urlano con una voce quasi violenta, e anche lì è impossibile ignorarli. C’è stato un periodo in cui mi trovavo – simbolicamente e letteralmente – circondato da fuochi: l’incendio della cattedrale di Notre-Dame; le fiamme che hanno avvolto Minneapolis, durante le proteste per l’uccisione di George Floyd; gli spaventosi roghi che avvolgevano l’Amazzonia, la Siberia, l’Australia, e poi anche la loro versione ridotta (ma non meno spaventosa) nei boschi nostrani, anche quelli vicini, in cui passeggiavo fin pochi giorni prima, e che ora erano ridotti in cenere e carboni. Capivo che non si trattava soltanto di avvenimenti esterni: a ognuno di questi fuochi corrispondeva un bruciare interiore, fatto di angoscia e disperazione, ma anche di una profonda, spaventosa fascinazione. Scrivere il libro, a questo punto, è stata una necessità, il bisogno di trovare una risposta a una domanda apparentemente insolubile.

È impossibile, per me, ignorare la gravità dell’infuocata situazione in cui siamo. A livello collettivo, però, è proprio ciò che stiamo facendo: spaventati e conturbati, neghiamo la realtà e pure il simbolo. Facciamo di tutto per distrarci con altro, e se il problema ci sfiora la buttiamo sullo scherzo, nascondendoci dietro la misera maschera dell’ironia. In questo scenario, l’immagine più significativa e tremendamente attuale è forse quella – fra storia e leggenda – di Nerone che suona la lira e canta, mentre Roma brucia. 

 

Giorgia Favero – In questo dualismo irrisolto tra il bene e il male del fuoco emerge più volte anche un “grido ambientale”, quello del nostro pianeta che brucia a causa del riscaldamento climatico, una conseguenza della nostra ipertrofia nella padronanza del fuoco attraverso la tecnica. Infatti, come scrivi chiaramente nel libro, «Spegnere le fiamme [innescate dalla tecnica] significa rinunciare alla propria potenza». Considerando la smania umana di potenza, credi che si possa arrivare a un momento in cui si possa rompere l’illusione di crescere senza far bruciare tutto?

Francesco Boer – Il momento della disillusione, in un modo o nell’altro, arriverà. A far la differenza è il modo con cui l’illusione di potenza si infrangerà: può essere come un risveglio, una presa di coscienza, o in modo del tutto traumatico, la dura realtà che si riafferma con uno sconvolgimento di portata disastrosa. A essere realisti, è verso quest’ultimo esito che ci stiamo collettivamente incamminando, e pure a passo spedito. Non farsi illusioni, però, non significa arrendersi a un compiaciuto pessimismo. Questo libro vuole essere anche il tentativo di non abbandonarsi alla disperazione: non basta descrivere il problema, si può e si deve immaginare soluzioni. E magari è proprio il simbolo a poterci suggerire strade nuove, che ci allontanino dall’abisso. Forse, nel caleidoscopio dei miti, possiamo raccogliere un’ispirazione rimasta inespressa, capace di cambiare il nostro deleterio modo di vivere.

 

Giorgia Favero – La ricchezza di questo libro, come anche di altri libri che hai pubblicato, è che il racconto è accompagnato anche da bellissime illustrazioni. Perché questa scelta e chi ha selezionato concretamente le illustrazioni?

Francesco Boer – Ho svolto di persona la ricerca iconografica, di pari passo con la stesura del testo. C’è una circolarità fra i paragrafi e le illustrazioni: a volte l’immagine precedeva il testo, suggerendone lo sviluppo, che a sua volta portava a nuove figure, con un processo che a volte sfociava in una creatività quasi onirica. Navigavo seguendo miraggi, eppure sentivo che non stavo girando intorno, e che anzi quel procedere errabondo era l’unico modo per raggiungere la meta che cercavo.

 

Giorgia Favero – Il libro Troverai più nei boschi invece si propone come un “manuale per decifrare i segni e i misteri della natura”, che quindi viene indagata con occhio preciso e analitico. Ma la relazione tra lo scrutatore e lo scrutato viene ripresa più volte con fare altrettanto indagatore. Per esempio scrivi che «L’uomo di animo sensibile entra nel bosco. Lo fa come se entrasse in un tempio a lui proibito. Cerca un contatto con la natura, ma al tempo stesso porta dentro di sé un senso di colpa, il misfatto di appartenere a quell’umanità che ha devastato e continua a rovinare la natura»: questo senso di colpa secondo te è davvero così diffuso? Ed è un sentimento intrinseco all’essere umano o di origine più contemporanea?

Francesco Boer – Distinguere fra costruzione culturale e tendenza innata è difficile e problematico. Preferisco concentrarmi sul fatto che il sentimento sia molto diffuso, e di radice antica, e che al giorno d’oggi sia più attivo che mai. Il senso di colpa influenza con grande intensità diversi aspetti della nostra vita, e il rapporto con l’ambiente è uno di essi. Una volta riconosciuta la sua esistenza si può iniziare a lavorarci sopra, a interpretarlo simbolicamente: capire quanto e come ci limiti, e chiedersi se possa essere trasmutato, magari persino sublimato in una risorsa per un futuro migliore.

 

Giorgia Favero – La ricerca di un equilibrio umano-naturale è auspicata più volte all’interno del libro, ma come abbiamo già detto l’interesse per il tema ambientale emerge anche da altre tue pubblicazioni. Secondo te in che modo si può concretizzare davvero questo equilibrio?

Francesco Boer – Non è facile, perché comporta una rinuncia: di possesso, di potere, di capacità di controllo. Per secoli, l’essere umano si è comportato come un piccolo despota, comandando sul territorio con pretese assolutiste. In quest’ottica perversa, ogni cosa è o una risorsa, o un ostacolo. Animali e piante, boschi, fiumi, montagne: ciò che non poteva essere usato, andava tolto di mezzo. È un regno miope, perché ben presto si rivela insostenibile; la sua economia lo porta per forza al collasso. Ma prima ancora, è un modo d’essere colmo di bruttezza, perché isola l’uomo in un delirio di onnipotenza, tagliandolo dal resto del mondo e condannandolo a un isolamento che in ultima analisi priva la vita di senso.  Alla fine, è l’uomo stesso a soccombere, avvelenato dalla sua avidità: ben lontano da essere un re, diventa egli stesso merce della propria economia scellerata – anch’esso, o risorsa o scarto di un sistema.

Credo che il simbolo sia anche un vettore di empatia; la riscoperta del valore di ciò che ci circonda, una bellezza che diventa un legame quasi fraterno. Una parentela simbolica con gli elementi del mondo, che sia un albero o il cielo stellato.  Lo sfruttamento e la devastazione, a questo punto, appaiono impensabili: non li si rifugge per dovere, o per senso di colpa, ma spontaneamente, così come si porta cura e rispetto verso coloro a cui vogliamo bene.

 

Giorgia Favero – Il titolo del libro, che ci lascia una sorta di sospensione, deriva da una antica citazione di Bernardino da Chiaravalle che ci apre anche spunti di riflessione sul senso, ma anche sulle nostre modalità pedagogiche. Vuoi spiegarci il senso di questo riferimento e in che modo pensi sia attualizzabile nel mondo odierno?

Francesco Boer – Si tratta di un’apertura verso il mondo, un ascolto attivo che passa anche attraverso il dialogo simbolico. “Troverai più nei boschi che nei libri”, dice la frase completa, quasi a sottolineare il pericolo di un’istruzione impositiva. Se imparo la mia verità, per quanto parziale, poi finirò per imporla sulla realtà complessa che mi circonda. È meglio mantenere una ricettiva umiltà, osservare e interagire, anche lasciarsi spiazzare da esperienze che contrastano con quello che credevamo di sapere. Certo, non è affatto facile, e qui sta appunto il ricorso al libro , apparentemente negato dalla massima: si tratta di re-imparare un modo di porsi, di raccogliere, di farsi trascinare. Anche il bosco più vivo, altrimenti, resterebbe muto di fronte a un’anima chiusa.

 

Giorgia Favero – Questa indagine attenta della realtà, questa ricerca di significato profonda tocca alcuni punti in comune con il pensare filosofico. Del resto ci sono anche molti filosofi che dal loro passeggiare nella natura e dalla ricerca di simboli hanno trovato spunti per la propria filosofia (ad esempio Nietzsche). Ce ne sono poi anche altri (come Hegel) che non si sono invece lasciati incantare dall’immersione nella natura, trovandola distante dall’esercizio del pensiero. Tu come vedi questo rapporto tra filosofia e natura (in senso lato)? Che cosa significa per te fare filosofia?

Francesco Boer – Non sono mai stato attratto dal pensiero più rarefatto, quasi astratto dalla realtà concreta: tutto sommato, mi pare che la servetta trace avesse le sue ragioni. D’altro canto, anche il materialismo più superficiale mi riesce di difficile sopportazione, e porta a trappole ben più insidiose di un pozzo. Il fascino che la simbologia esercita su di me sta proprio di essere nel mezzo, un rapporto che lega idee e immagini, sensazioni e oggetti concreti. Permette di camminare con un occhio puntato verso le stelle, e uno attento alla terra; e magari di scoprire i rapporti sottili che collegano queste due metà dell’essere. In questo senso, non credo che l’esperienza della natura sia in conflitto col pensiero, e anzi il concetto stesso di “natura” è una complessa amalgama di entità viventi e idee umane, un ecosistema in cui possono trovare posto e nutrimento anche le nostre riflessioni.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit nikita velikanin]

la chiave di sophia 2022

Esistere di più, esistere di meno

«Che cosa esiste?» – ci chiediamo, fin da bambini. E se la domanda resta sempre la stessa, via via che cresciamo le possibilità di risposta si moltiplicano e si assottigliano. Forse perché, nel tentativo di rispondere alla domanda «che cosa esiste?», ci accorgiamo presto di quanto sia importante cercare di capire innanzitutto se il concetto di esistenza sia o meno univoco.

Nella Metafisica Aristotele afferma che l’«essere si dice in molti modi»1, benché sempre in relazione a un unico principio, e una buona parte della storia della metafisica può essere letta all’insegna delle diverse declinazioni a cui questa tesi è stata sottoposta. Alcuni filosofi contemporanei, ad esempio, negano che «esistere» possa avere più di un significato, mentre altri la pensano diversamente. A tal proposito, il filosofo Achille Varzi distingue almeno tre posizioni2. Secondo la prima, entità di tipo diverso possono esistere secondo forme o modalità diverse: ad esempio, per il filosofo Gilbert Ryle i corpi materiali esisterebbero in un «senso diverso» da quello in cui esistono le entità mentali3. La seconda posizione nega che tutte le asserzioni esistenziali abbiano la stessa portata: il filosofo Rudolf Carnap, ad esempio, è portavoce del profondo divario tra questioni esistenziali «interne» ed «esterne» a una data struttura linguistica4. Secondo la terza posizione, detta realismo interno, non si può parlare di esistenza in senso assoluto, in quanto sarebbe ingenuo pensare di poter fornire un’immagine del mondo che non rifletta nessun pregiudizio dello schema concettuale a cui facciamo riferimento5.

A problemi ontologici di questo tipo sono dedicati alcuni incontri di laboratorio del progetto di logica, filosofia e narrazione per bambini e ragazzi La valigia del filosofo. Alcune attività legate al tema dell’esistenza animano i primi incontri dei percorsi didattici officina Frullapensieri e officina delle idee, rivolti rispettivamente ai bambini dagli 8 agli 11 anni e ai ragazzi dagli 11 ai 14 anni. La scelta di iniziare il viaggio alla scoperta di alcuni dei temi fondamentali della filosofia analitica a partire dalla domanda su ciò che esiste nasce dal desiderio di impostare il percorso didattico in un preciso quadro di riferimento, in cui possa emergere l’importanza, per fare filosofia, di approfondire il rapporto tra linguaggio e ciò che, appunto, riteniamo faccia parte della realtà in cui viviamo.

Le attività di brainstorming su ciò che i bambini pensano che possa essere scritto nel catalogo universale, un elenco di entità che, secondo loro, esistono, sono spesso molto divertenti. Nell’ascoltare il modo in cui motivano le loro scelte, si può capire quali siano le loro più o meno timide posizioni filosofiche. Più la discussione si fa accesa, più i bambini cercano basi solide per sostenere le proprie tesi, il più delle volte riuscendo ad accogliere l’invito a considerare il punto di vista degli altri. Ed ecco che le argomentazioni via via costruite a sostegno delle diverse posizioni filosofiche contribuiscono chiaramente alla formazione di un’idea condivisa: per dire che una cosa esiste, dipende da cosa si intende.

Nella nostra esperienza non abbiamo mai incontrato un bambino di orientamento talmente scettico da mettere in dubbio l’esistenza degli oggetti materiali, ossia di quelle entità concrete con cui ci troviamo a interagire ogni giorno. Se tra i filosofi vi sono molte discordanze, è anche vero che generalmente si trovano d’accordo nel supporre che il nostro mondo comprenda almeno gli oggetti materiali che per definizione sono ordinari, concreti e tangibilissimi.

Ma quando si parla di nuvole, ombre e baci, ecco che arrivano le diatribe:

– Si possono disegnare!

– Ma non si possono toccare!

– Eppure si possono vedere!

– I baci no!

– Ma si possono sentire!

È sorprendente osservare quanto la capacità filosofica dei bambini riesca a cogliere in modo intuitivo quelle distinzioni alle quali i filosofi hanno da sempre dedicato la loro attenzione nel tentativo di definire il concetto di esistenza. A volte, e non di rado, i bambini arrivano ad ammettere gradi di esistenza, nelle cose. La diatriba qui sopra, ad esempio, si risolse con un bell’e va bene, facciamo che esistono, ma un po’ di meno!

 

La valigia del filosofo

 

NOTE:
1. Cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 2, 1003b.
2. A.C. Varzi, Metafisica. Classici contemporanei, Laterza, Bari 2008, pp. 6-7.
3. G. Ryle, Il concetto di mente, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 17-18.
4. R. Carnap, Il neoempirismo, Utet, Torino 1969, pp. 626-652.
5. H. Putnam, La sfida del realismo, Garzanti, Milano 1987, pp. 28-33.

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Il tempo, anche quello di Planck. Dialogo con Fabio Fracas

Continua il nostro dialogo con il fisico Fabio Fracas a proposito di un tema su cui da secoli si interroga la fisica e, ancora da più tempo, la filosofia: il tempo. Potete leggere la prima parte all’interno della nostra rivista La chiave di Sophia #13 – Il senso del tempo!

 

In alternativa alla nostra visione ordinaria del tempo scandita in istanti, il filosofo francese Bergson riesce a dimostrare come il tempo che noi viviamo sia invece una durata reale, un fluire interiore costante, che non può essere frammentato in ore, minuti e secondi, perché «La durata assolutamente pura è la forma assoluta della successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore». In tal senso il tempo è allora un processo. Possiamo parlare ancora di un tempo della scienza e un tempo vissuto?

La posizione di Bergson tiene conto proprio di quanto emerso precedentemente. Quello che dobbiamo chiederci – a mio avviso – è se abbia ancora senso, alla luce dei principi controintuitivi della fisica quantistica, dover necessariamente distinguere fra un tempo della scienza e un tempo vissuto e la mia opinione al riguardo è negativa. Cerco di spiegare più approfonditamente questo concetto introducendo una definizione sulla quale – sempre a mio personale avviso – sarebbe oramai necessario che tra filosofi e scienziati (ma più in generale, fra tutti gli studiosi dei diversi campi dello scibile) si aprisse un costruttivo confronto: Quantum-Like. È indubbio che la fisica quantistica abbia condotto a un cambio di paradigma nel pensiero del Novecento ma ciò che sta emergendo è che i nuovi concetti e le nuove logiche introdotte da questa branca della fisica ora potrebbero essere utilizzate ‘in senso lato’ anche per descrivere eventi e fenomeni che non si collocano materialmente all’interno del ristretto ambito della fisica delle alte energie.

Nel caso di Bergson, con un approccio Quantum-Like si potrebbe ipotizzare che esista una dualità tempo della scienza/tempo vissuto – analoga ma solo dal punto di vista logico a quella onda/corpuscolo appena descritta – che fa sì che entrambe le rappresentazioni del tempo convivano simultaneamente fino a quando chi ne fa esperienza non ne determina la concretizzazione nell’una o nell’altra forma. Il tempo della scienza, quindi, non sarebbe più l’unica rappresentazione del tempo vero cronologico dato che anche il tempo vissuto, coincidente con la durata della coscienza, ne costituirebbe una sovrapposizione.

 

La questione del tempo è stata al centro del dibattito filosofico sin da Aristotele, il quale definì il tempo come «numero del movimento secondo il prima e il poi» (Fisica, IV, 12, 219 b). Nella concezione neoplatonica, da Plotino ad Agostino, il concetto di tempo è collegato, anziché al moto del mondo fisico, all’anima e alla sua «vita interna». Per Plotino il tempo, «immagine dell’eternità» (Enneadi, I, V, 7) è il movimento mediante il quale l’anima passa da uno stato all’altro della sua vita. Interessante è la relazione posta tra tempo e l’eternità, relazione che sembra descrivere molto bene il nostro rapporto con lo scorrere del tempo e la sua difficile accettazione. L’eternità è infatti desiderio profondo dell’uomo. Perché secondo te c’è questa forte tensione all’eternità e dunque all’immortalità?

Il rapporto fra l’uomo e il tempo è l’elemento cardine che consente la definizione di concetti molto profondi e complessi come la crescita e l’evoluzione sia personale, sia sociale, sia di specie. In questo senso è collegato direttamente al grande mistero della vita e di conseguenza, alla tensione per l’immortalità e alla paura della caducità umana. Per Plotino, come giustamente ricordato, il tempo è ‘immagine mobile dell’eternità’: si articola in passato, presente e futuro ed è solo grazie all’unità e alla correlazione di questi tre momenti che è possibile percepirlo e definirlo. «Se alle cose generate si togliesse il futuro, esse cadrebbero immediatamente nel non essere, perché così acquisterebbero a ogni istante qualcosa di nuovo; se alle cose non generate si aggiungesse il futuro, accadrebbe loro di decadere dalla dignità di esseri veri» (Enneadi, III,7,4).

Il ‘non essere’, in Plotino è direttamente connesso al non avere un futuro e di conseguenza, se si pensa alla parabola della vita umana – dalla nascita, all’età adulta, alla vecchiaia – la morte fisica viene a coincidere con la mancanza di un futuro e al ‘non essere’ dell’individuo stesso. Al contrario, l’eternità in senso aristotelico coincide con “ciò che è fuori dal tempo” e in questa accezione viene successivamente sviluppata fino ad arrivare alla determinazione di ‘eterno presente’ formulata da San Tommaso. Un eterno presente, cristallizzato nel pensiero cristiano, al quale sono estranei tempo e successione, principio e fine.

Eppure, secondo il filosofo Emanuele Severino, quando Aristotele afferma che la filosofia nasce dal ‘thauma’ non intende dire che nasce dalla ‘meraviglia’ bensì da un ‘angosciato terrore’. La filosofia stessa, quindi, sarebbe una forma di difesa nei confronti della morte, pericolo estremo dell’uomo. Nel Congresso Internazionale “All’alba dell’eternità” del 2018, Severino propone il seguente pensiero: «La filosofia non nasce come atto di meraviglia di “intellettuali” o di professori di filosofia di fronte a problemi che non sono in grado di risolvere, ma come difesa nei confronti del pericolo estremo per l’uomo. L’uomo da quando vive si difende dalla morte iscrivendola in un senso globale del mondo, in cui egli stabilisce un’alleanza con quelle che ritiene le potenze supreme, tentando in tal modo di arginare il pericolo della morte. Ma la filosofia comprende che il mito non può difendere adeguatamente dalla morte e che è necessario in relazione al terrore un rimedio che abbia i caratteri dell’incontrovertibilità».

Tendere all’immortalità, sconfiggere la morte, può quindi coincidere con la ricerca di un senso profondo della realtà stessa o quanto meno di quella parte di realtà che noi esseri umani siamo in grado di percepire, riconoscere e interpretare.

 

Se guardiamo alla filosofia contemporanea, Martin Heidegger invece di delineare una definizione della nozione di tempo (in Essere e tempo), considera la temporalità nelle sue tre dimensioni: passato, presente e futuro, come le caratteristiche costitutive dell’uomo in quanto essere «gettato» nel mondo (l’esserci, il Dasein) e, come tale, legato al passato, al presente, ma anche proiettato nel futuro attraverso le proprie progettualità. Con quale approccio tu ti confronti con questa tripartizione? Sia in quanto fisico, sia in quanto Uomo.

Come ho scritto anche all’interno del mio saggio del 2017 Il mondo secondo la fisica quantistica (Sperling & Kupfer Editore), la mia personale opinione “è che la filosofia e la fisica – che dialogano fra loro dal tempo degli antichi greci e probabilmente ancora da prima – con l’avvento della fisica quantistica sono state obbligate a confrontarsi profondamente l’una con l’altra per cercare di definire, assieme, una nuova chiave di lettura della realtà”. Premetto questa considerazione, perché ritengo – almeno per quanto mi riguarda – che non esista una distinzione fra quello che, in quanto fisico, conosco della Natura e ciò che, come Uomo, ho la possibilità di esperire ogni giorno. E naturalmente, questa mia posizione vale anche nei confronti del tempo.

Il Dasein di Heidegger, come Essere costituito dalla propria temporalità, è una definizione traducibile con “Esser-ci” (espressione introdotta da Pietro Chiodi), dove il suffisso “ci” serve per indicare la modalità con cui l’Essere si manifesta concretamente nella storia. Dasein, quindi, nella mia personale comprensione può significare l’assumersi il proprio ruolo nel momento in cui è necessario farlo: essere ‘là’ e in quel momento. In questo senso, il passato, il presente e persino il futuro possono rivelarsi tutte occasioni giuste per esserci, in differenti modalità e situazioni. Certamente, ciò che è stato già lo conosciamo, quello che stiamo vivendo lo scopriamo attimo dopo attimo e sul futuro possiamo solo fare delle congetture e delle previsioni, ma se osserviamo questa tripartizione come un rivolo che scorre dalla sorgente e ingrossandosi si trasforma in un fiume per poi sfociare al mare, possiamo avvicinarci al senso stesso dell’ineluttabilità. È vero: il flusso dell’acqua potrebbe interrompersi per un periodo di tempo più o meno lungo, essere deviato da un impedimento o potrebbe verificarsi un qualsiasi altro evento; ciononostante, prima o poi arriverà al mare. E questa certezza, che contrasta ontologicamente con l’eterno presente di San Tommaso, diventa essa stessa dubbio quando, seduti in un punto della sponda, contempliamo solo quel breve tratto del fiume che ci si para dinnanzi.

Il dubbio, nella mia personale visione, diventa quindi l’unico strumento concreto a mia disposizione – sia come fisico sia come Uomo – per confrontarmi con la Natura, con la realtà e con il tempo. Una posizione già nota ed espressa chiaramente anche dal filosofo Bertrand Russell, “Non si dovrebbe mai esser certi di niente, perché nulla merita certezza, e così si dovrebbe sempre mantenere nelle proprie convinzioni un elemento di dubbio, e si dovrebbe essere in grado di agire con vigore malgrado il dubbio”; e ancora più radicalmente da Voltaire: “Il dubbio è scomodo ma la certezza è ridicola”.

 

Elena Casagrande

 

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Pascal e il Kundalini Yoga: due filosofie a confronto

«Noi conosciamo la verità, non solamente con la ragione, ma anche con il cuore; è in quest’ultimo modo che noi conosciamo i primi principi ed è invano che il ragionamento, che non vi ha parte, cerca di impugnarli». 
Pascal, Pensieri, edizione Bompiani, anno 2000, pensiero 479

In questo famoso brano dei suoi Pensieri, Blaise Pascal (1623-1662) ridimensiona il ruolo della ragione come unica facoltà conoscitiva, aggiungendo un’altra facoltà, il cuore.
Come sarebbe un mondo in cui cuore e pensiero razionale lavorano in sinergia? In cui conoscere possa significare anche sentire, capire, comprendere col cuore e forse avere una prospettiva più ampia e completa della realtà che ci circonda?

Per Pascal l’uomo non è solo cervello e non conosce solo con esso: è ragione e cuore, pensa con entrambi. Cuore e intelligenza sono dunque in sinergia: la razionalità dimostra di essere un’ottima chiave per conoscere l’universo fisico, ma una chiave limitata per aprire il mondo ben più ricco e complesso della realtà intesa in senso più ampio, in primis della realtà intima dell’uomo. Quando parla di cuore, o meglio di intelligenza del cuore, Pascal si riferisce all’idea delle Sacre Scritture, nelle quali il cuore rappresenta il baricentro intellettuale e morale della persona e il luogo di incontro con DioNe deriva che il pensiero, che costituisce per Pascal il proprium dell’uomo, è un pensiero del cuore che sente, che intuisce, che ha una sua finezza– e della ragione insieme.

Ma Pascal non è il solo a parlare dell’importanza di conoscere col cuore e centrarsi sul cuore.

La riscoperta del “potere” del cuore è il fulcro del Kundalini Yoga, di cui maestro e fondatore è stato Yogi Bhajan, che dall’India ha portato le conoscenze e la filosofia del Kundalini in occidente nel 1969.

«L’amore è il flusso costante e consistente della vita. È il veicolo del Prana. È il Divino che si manifesta nella radiosità. È, è sempre stato e sempre sarà».
Yogi Bhajan, 6 gennaio 1986

Ho avuto la fortuna di avvicinarmi a questi insegnamenti e precetti durante il periodo di “permanenza” forzata a casa a causa del Covid. Il Kundalini Yoga non si limita a insegnare l’esercizio fisico, la meditazione e le tecniche di respirazione yoga in quanto tali, ma insegna alle persone come vivere, come relazionarsi tra loro, e come relazionarsi a Dio riscoprendo la centralità del cuore, senza tralasciare però l’importanza di una mente lucida e di un pensiero razionale chiaro.

Guru Rattana Kaur, allieva storica di Yogi Bhajan, spiega molto accuratamente le tecniche, ma soprattutto la filosofia racchiusa nel Kundalini Yoga. Nel manuale L’evoluzione a un mondo centrato sul cuore con il Kundalini Yoga e la meditazione (edizioni Macro 2016) scrive:

«Yogi Bhajan ha proposto un percorso spirituale in cui l’elevazione non implica di trascendere il corpo. Ci ha offerto una tecnologia spirituale adatta alla gente comune, che ha famiglia, che vive in ambienti urbani, si sposa, ha dei figli e si guadagna da vivere. In definitiva, ci ha insegnato a onorare la nostra umanità, a rendere sacra la sessualità, incoraggiandoci a essere prosperi».

Il centro energetico del cuore, insegna il Kundalini, ha un impatto che è 108 milioni di volte più efficace di quello della testa.

Due filosofie molto diverse, quella di Pascal e quella indiana del Kundalini, ci conducono alla stessa riflessione: l’uomo non è solo cervello, è anche e soprattutto cuore. Nel cuore trova il suo baricentro, la sua intimità, la sua scintilla divina. Che mondo sarebbe se riuscissimo davvero a farli “lavorare” in sinergia, senza prevaricazioni?

 

Martina Notari

 

[Photo credit Nicola Fioravanti su unsplash.com]

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Intervista ai Ludosofici: quando la filosofia incontra l’arte

L’Associazione Coi Ludosofici viene fondata nel 2010 da Ilaria Rodella e Francesco Mapelli che, insieme a Costanza Faravelli, Irene Pozzi e Cristina Sturaro, progettano esperienze e contenuti, originali e coinvolgenti, con lo scopo di attivare il pensiero critico, la consapevolezza e la creatività di bambini e adulti. Vengono utilizzati strumenti e metodologie derivanti dalla filosofia, dalla didattica dell’arte e dal teatro. Le attività si fanno ispirare dal patrimonio storico, dalla musica, dai film, dal digital manifacturing, dai colori, dalle foglie, dai palazzi, dalle fabbriche e, soprattutto, dalle altre persone. Con i Ludosofici si pensa facendo, per rendere visibile l’invisibile. Collaborano con prestigiosi musei (Triennale di Milano, Guggenheim di Venezia, Mart di Trento e Rovereto, Gallerie d’Italia…), con importanti festival, come Festivaletteratura di Mantova o il Festival della Mente di Sarzana. Progettano insieme a istituzioni come il Comune di Mantova o come il Comune di Milano. Collaborano con scuole e biblioteche in progetti volti a formare cittadini protagonisti del proprio tempo. Organizzano gli “Stati Generali Filosofia Bambini” col patrocinio UNESCO, a volte il festival filosofico per famiglie “A spasso con Sofia” e, sempre a volte, il Mese della filosofia. Hanno pubblicato Tu chi sei? ( 2014) e Questa non è una rosa insieme (2019) a Corraini Edizioni. Hanno ideato e progettato la sezione FilosoFare all’interno del sussidiario Leggere è… per le classi IV e V per Mondadori Educational e hanno curato il numero 0 di Internazionale Kids, insieme a Pietro Corraini, per cui continuano a curare la rubrica di filosofia. Hanno progettato insieme alle edizioni Corraini la newsletter FarFarFare, rivolta a insegnanti e educatori che non smettono di sperimentare.

 

Ciao Ludosofici! Da dove nasce il vostro desiderio di fare filosofia insieme ai bambini? 

Nasce dal fatto che i bambini sono naturalmente impertinenti e, non avendo, per ovvi motivi, alcuna riverenza nei confronti né del passato, né della storia, né tantomeno della filosofia (che non sanno neanche cosa sia), hanno una freschezza e una semplicità (da non confondere con superficialità) davvero unica  nel proporre domande e nello scorgere nuovi sentieri di ricerca. 

 

Il vostro progetto filosofico è molto legato al mondo dell’arte. Come vedete il rapporto tra arte e filosofia? Nelle vostre proposte educative viene prima l’arte o la filosofia?

Sono estremamente legate le une alle altre, senza un ordine gerarchico preciso o predefinito, in quanto sono due varchi diversi per accostarsi all’invisibile, all’astratto, al concettuale. Nel gruppo abbiamo tutti una formazione filosofica, ma abbiamo trovato nell’arte un linguaggio accessibile ai bambini e che ci evitava, al contempo, di non cadere in superficiali banalizzazioni dei concetti. In più abbiamo trovato una naturale corrispondenza tra bambini, filosofi e artisti, grazie a una serie di similitudini che possiamo sintetizzare così: sono aperti al campo del possibile, sono pronti a sfidare la visione comune e di ribellarsi alle convenzioni, sono curiosi di scoprire quello che si nasconde tra le crepe e  sono inventore di metafore e nuovi significati.

 

Nelle vostre attività c’è una radice munariana molto forte. Anche per La valigia del filosofo Bruno Munari rappresenta un riferimento, soprattutto per le attività rivolte ai più piccoli: nel laboratorio Segno, dove vai?,  per esempio, viene valorizzato il ruolo delle regole come elementi logici fondamentali per lo sviluppo della creatività. Quali aspetti della pedagogia attiva munariana vi hanno influenzato di più?  

In un’intervista Munari diceva che i bambini non rompono i giocattoli, ma li smontano per vedere come sono fatti dentro. Ecco, anche noi quando progettiamo i laboratori, cerchiamo il più delle volte di smontare domande e concetti, dando ai bambini gli strumenti e la possibilità di rimontarli poi in modo autonomo, scardinando una visione stereotipata della realtà circostante.

 

Fare attività con i bambini non dev’essere tanto facile, in questo periodo. Vi siete rivolti a qualche strumento digitale per proseguire con le vostre attività?

Abbiamo inaugurato la newsletter FarFarFare (www.farfarfare.it), rivolta a insegnanti, educatori e operatori dove poter trovare strumenti da rielaborare in modo aperto con i bambini.

 

A proposito di imparare giocando e dell’importanza del concreto per far esplorare ai bambini l’astratto, quando è nato il nostro progetto abbiamo deciso di affidarci a  una valigia. Questo da una parte perché la valigia è un contenitore di oggetti, di esperienza concreta, e tramite gli oggetti è possibile portare i bambini e i ragazzi al ragionamento, allo sviluppo delle idee e dei concetti. Dall’altra parte perché, metaforicamente, la valigia contiene più laboratori con tematiche logico-filosofiche. Se voi foste un oggetto, quale sareste?

Mi viene da dire un aquilone: leggero ma che allo stesso tempo ha bisogno di un elemento forte come il vento per alzarsi in volo e che spesso non va nelle direzione che gli si cerca di imporre. 

 

La valigia del filosofo

 

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“Nato il quattro luglio”: a cosa può portare lo spirito nazionalistico?

Gli anni ’60 hanno sempre suscitato in me un grande interesse per le tendenze musicali, per le lotte ai diritti umani, per i cortei, per l’aria di libertà che sembrava respirarsi. Ho sempre visto quel periodo come un momento in cui le coscienze dei giovani si sono risvegliate all’unisono e hanno cercato di farsi spazio in una società che per lungo tempo non li aveva ascoltati. Furono anni controversi le cui vestigia sono ancora presenti, ma vorrei porre l’attenzione su un evento che senz’altro ha segnato un punto cruciale della storia contemporanea: la guerra in Vietnam (1955-1975). Per farlo vorrei partire dall’analisi di un film di Oliver Stone che credo racchiuda appieno quello che fu lo spirito di quegli anni.

Nato il quattro luglio, film del 1989, fa parte di una serie di tre pellicole che Stone diresse cercando di focalizzarsi ogni volta su un punto di vista diverso: prima quello degli americani e poi dei vietnamiti. Nella pellicola sopracitata è evidente sin dalle prime scene come lo sguardo sia posto sugli americani, sul loro forte spirito nazionalistico e su come la guerra sia presentata ai giovani. Il piccolo protagonista assiste nella prima inquadratura alla parata del 4 luglio con una bandierina e un elmetto, lo si vede giocare con dei piccoli fucili quasi ad essere un segno premonitore di quello che sarà il suo futuro. Successivamente lo si vede diventare un giovane forte e atletico che dopo aver ascoltato una conferenza di un Marines decide di arruolarsi per la guerra in Vietnam “per difendere e preservare il grande spirito americano”. 

Ma la guerra è sempre dissolutrice, distrugge i sogni giovanili di gloria e di riscatto e ben presto ci si ritrova a chiedersi se quello in cui si è creduto abbia senso dinanzi alla rovina e alla distruzione che essa ha portato. Non è più una guerra per lo Stato ma diventa una lotta per la sopravvivenza e ci si rende conto che il popolo “maligno” che si era andato a combattere è semplicemente un popolo come un altro, dilaniato e spaventato dalla guerra. Tornato in patria il protagonista è cambiato nel corpo e nell’animo, così come tutti coloro che vi parteciparono: spesso si legge che chi andò in Vietnam tornò cambiato nel corpo e nella mente, e così fu.

La guerra in Vietnam per i giovani americani era un’occasione di servire il paese come avevano fatto i padri, i nonni, solo pochi decenni prima. Eppure l’esperienza avrebbe dovuto insegnare quanto la guerra fosse deleteria, si sarebbe dovuto ricordare il numero di vittime, le famiglie distrutte, la fame, ma negli anni ’60 vinse su tutto nuovamente lo spirito nazionalista e il forte motivo economico. Si manifestò contro questo nuovo flagello e vi furono molti cortei pacifisti, ma solo quando tutto finì ci si rese conto che una nuova generazione di americani era andata distrutta.

La guerra in Vietnam ha dato conferma di come la storia non abbia ancora un’accezione critica, sembra non insegnare e soprattutto sembra che gli ideali nazionalisti abbiano ancora la meglio sui cittadini. L’idea di forza, potere e sopraffazione acceca l’uomo a tal punto da non fargli più avere una visione volta al futuro e alle conseguenze delle proprie azioni, ma riduce il suo sguardo al mero presente. Combattere quella guerra – come tutte le guerre del resto – volle dire abbandonare la propria giovinezza e innocenza e diventare improvvisamente adulti con consapevolezze nuove che avrebbero per sempre cambiato le loro vite. Uccidere, distruggere e annullare ogni tipo di morale vuol dire far morire parte di sé stessi.

Canzoni, film, cortei, documentari animarono il mondo degli anni ’60 e le strade dell’America, se è vero che la storia non aveva sortito alcun effetto sino a quel momento sembra che la guerra in Vietnam abbia suscitato il più grande movimento di giovani mai visto, i quali avevano preso consapevolezza di ciò che volevano essere e del mondo che volevano vivere. Fu un movimento planetario, una presa di coscienza collettiva. Le immagini di quegli anni ancora oggi destano meraviglia ed emanano voglia di pace e libertà. Questo spirito è rimasto in parte nella nostra cultura e ancora oggi per noi deve essere un monito, un esempio.

Credo che ciò che gli anni ’60 ci hanno insegnato sia che non bisogna mai assopirci e lasciarci guidare ciecamente da alcuna idea o ideale che ci viene impartito in nome di uno Stato, bisogna essere vigili per cambiare il nostro mondo o anche la nostra piccola realtà. Essere coraggiosi e consapevoli vuol dire prendere atto di ciò che è stato e avere uno sguardo lungo su ciò che vogliamo sarà. Non permettiamo più che il sonno della ragione generi mostri, ma siamo attenti a renderla sempre vigile e critica.

 

Francesca Peluso

 

[Immagine tratta dal film]

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Non è più tempo d’eroi

Nel dibattito pubblico, dominato dall’emergenza coronavirus, in questi mesi abbiamo continuamente sentito parlare di eroi. Prescindendo intenzionalmente dalla congiuntura storica (l’epidemia), socio-politica (i pesanti tagli alla sanità in Italia) ed economica (una crisi che perdura, con fasi alterne, dal 2008), viene da domandarsi, dal punto di vista esclusivamente filosofico, se questo XXI secolo sia tempo di eroi, tempo di miti. C’è ancora posto per l’eroismo, per una leggenda che non si limiti alla narrazione propagandistico-politica? O magari l’origine del mito è già di per sé una costruzione “partigiana” che si sedimenta nel tempo ed entra a far parte della tradizione?

«Sventurata la terra che ha bisogno di eroi.»

In questo contesto non può che tornare alla mente una delle più note citazioni che Bertold Brecht mette in bocca al suo Galileo. Una società che avverte il bisogno di costruirsi grandi narrazioni per giustificare gli sconvolgimenti del presente, per mascherare responsabilità, per annacquare la durezza stessa dell’attualità, è una società malata nei suoi principi? Ma non è proprio la costruzione di modelli eroico-idealizzati un bisogno fisiologico dell’uomo, ancor più antico della nascita della scrittura? Sì, inevitabilmente. Occorre allora evidenziare quali siano le differenze fra la narrazione leggendaria tradizionale e quella del terzo millennio.

L’idea che non sussistano più le condizioni storiche, sociali – magari perfino antropologiche – che hanno in passato consentito la produzione dei grandi miti, è eccessivamente semplicistica. Lo spartiacque fondamentale può essere considerato l’invenzione di internet, dalla quale è scaturita la rivoluzione digitale. Viviamo, innanzitutto, in quella che Mauro Carbone chiama «civiltà delle immagini»: siamo «bombardati in modo incessante e sempre più massiccio» da stimoli visivi, la cui durata in termini di tendenza, di viralità – in particolare sui social – è minima. Questa potrebbe essere una prima condizione che ha frenato lo sviluppo di narrazioni eroiche durature, articolate come quelle dell’epos classico, nelle quali l’attenzione del pubblico era condizione per lo sviluppo della trama (basti pensare all’uso di topoi ed epiteti formulari per tenere alta la concentrazione dell’uditorio).

E qui veniamo al secondo elemento che distingue la nostra epoca in termini di narrazioni epiche: l’oralità. Specularmente al proliferare delle immagini come mezzo immediato di comunicazione, ha fatto seguito un decadimento della cultura dell’ascolto, dell’attenzione verso la parola pronunciata. Ascoltare richiede tempo, pazienza, empatia. Tutti fattori che la frenesia della modernità digitale riduce ai minimi termini, lasciando come unici elementi di valore la rapidità (si pensi alla velocità di connessione) e la quantità (i bytes, la massa di informazioni accumulabili).

Proprio attorno al tempo ruota l’ultimo fattore discriminante fra la persistenza del mito antico e la volatilità della narrazione digitale. «Il tempo – come ha notato Riccardo Fedriga – nel quale vengono iscritti i documenti sul web è un tempo eternamente presente», al punto da instaurare un regime temporale che può essere considerato «dittatoriale», in ragione della sua immutabilità. La predominanza del mondo digitale, anche in termini di produzione e diffusione della cultura, con la sua (ossimorica) monoliticità cangiante, rende impossibile quella stratificazione delle varie tradizioni che era stata così fondamentale nella costruzione del mito antico. Questa caratterizzazione dei contenuti su internet, nella loro asetticità, nel loro essere compartimenti stagni, potrebbe aver inibito il mescolamento delle varie fonti a cui attingere per una narrazione eroica: sembriamo possedere una precisissima conoscenza di tutte le singole tessere del puzzle ma non siamo in grado di ricomporle in un quadro unitario.

In conclusione, l’avvento di internet e del mondo digitalizzato sembra aver influito significativamente sulla narrazione epica, precludendo al XXI secolo lo spazio per la figura dell’eroe (beninteso, non per le azioni eroiche tout court). È chiaro che questo non implica in alcun modo una valutazione moralistica nei confronti di una delle più grandi invenzioni tecnologiche della storia umana: la rivoluzione digitale, pur con le sue disuguaglianze e con le sue ciriticità, ha aumentato la nostra capacità di accesso alle conoscenze, contribuendo in modo decisivo alla democratizzazione del sapere. Chissà che anche l’età digitale non possa avere i suoi eroi e i suoi cantori; forse è ancora troppo sottile la distanza storica per poter giudicare.

 

Edoardo Anziano

 

BIBLIOGRAFIA
Brecht, Vita di Galileo, in I capolavori di Brecht, Einaudi, Torino, 1963
Carbone, Nota introduttiva, in E.Cassirer, Eidos ed eidolon, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009
R. Fedriga, Web: la dittatura del presente

[Photo credit Şafak Atalay via Unsplash]

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L’insostenibile leggerezza dell’essere e il passato che non ritorna

«L’idea dell’eterno ritorno è misteriosa e con essa Nietzsche ha messo molti filosofi nell’imbarazzo: pensare che un giorno ogni cosa si ripeterà così come l’abbiamo già vissuta, e che anche questa ripetizione debba ripetersi all’infinito! Che significato ha questo folle mito?»1.

In questo modo Kundera si presenta ai lettori. Con parole quasi agghiaccianti, avvalendosi del pensatore tedesco, introduce nella sua opera principale, L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), l’idea del passato che ritorna. 

Lo stesso ispiratore, Nietzsche, ne era terrorizzato. «Il pensiero più abissale»2 così definiva l’eterno ritorno dell’identico. Un’idea che è tanto complessa quanto antica. Il filosofo tedesco, infatti, in terre svizzere davanti al comparire di quel così strano ammasso di pietra, rischiarì una concezione presente già nell’antica Grecia, prima che il “tafanod’Atene, Socrate, comparse nei pensieri e nelle opere di Platone.

La differenza tra Nietzsche e i Presocratici, messi a confronto nella concezione del tempo, non si limita solo ai duemila anni di distanza dal loro umile comparire in «quest’atomo opaco del male»3Infatti, se per gli antichi greci l’eterno ritorno presupponeva una concezione ciclica del tempo, una ciclicità puntuale nella natura, per il pensatore tedesco anche il più insignificante evento è destinato a ripresentarsi all’infinito come a un succedersi di mondi perfettamente identici nei minimi particolari, separati gli uni dagli altri da periodiche conflagrazioni universali. 

«Il mito dell’eterno ritorno afferma, per negazione, che la vita che scompare una volta per sempre, che non ritorna, è simile a un’ombra, è priva di peso, è morta già in precedenza, e che, sia stata essa terribile, bella o splendida, quel terrore, quello splendore, quella bellezza non significano nulla. Non occorre tenerne conto […] Cambierà qualcosa se si ripeterà innumerevoli volte? Sì, qualcosa cambierà: essa diventerà un blocco che svetta e perdura, e la sua stupidità non avrà rimedio»4.

Le cose «appaiono prive della circostante attenuante della loro fugacità»5. L’effimero scompare e con esso il fascino della nostalgia. In questi termini, l’idea dell’eterno ritorno dell’identico è capace di spaventare anche il più temerario degli uomini, consapevole del peso ineluttabile che dovrà sopportare. In confronto le sette fatiche di Ercole appaiono come una scampagnata in collina. Infatti, se ogni cosa è destinata a ripersi all’infinito «siamo inchiodati all’eternità come Gesù Cristo sulla croce»6. Il peso della responsabilità come un fiume che separa due regni, la vita e la morte, insorge come un macigno difficile da sviare; «il fardello più pesante che ci opprime, ci piega, ci schiaccia al suolo»7.

In sintesi, indagare sulle conseguenze di questo concetto non è impresa facile. Troppi pensatori si sono imbattuti tra follia e risentimento nelle parole di Nietzsche, finendo poi per perirne: Deleuze, Löwith, Ferraris per fare qualche esempio. Possiamo però affermare con più sicurezza che in un mondo incompleto, mancando del ritorno del passato, eventi cruciali come il tramontare d’imperi, le innumerevoli guerre fratricide, o il comparire della ghigliottina francese in nome della Dea Ragione; tutto ciò ci può apparire come un umile comparsa nella Grande Marcia della storia tanto da lasciar perdere, quasi con ignoranza, perché non vissute in prima persona. In questo modo ci raccontiamo «è andata così, è il destino; non c’è nulla da farci»8Ci dimentichiamo, cioè, della profonda perversione morale che appartiene all’anima capace di tutto ciò. Scordiamo cosa significhi vivere un espediente, soccombere ai riflessi delle nostre azioni belle o angosciose che siano

Meglio dimenticare, girare le spalle al passato che tinto di porpora sembra svanire nel futuro prossimo che ci prestiamo a compiacere; cancelliamo connessioni celebrali, che potrebbero chiarirci chi siamo veramente; affoghiamo nel vino dell’ignoranza per poter andare avanti. Così che il masso dell’eterno ritorno si fa misero sassolino dentro le nostre tasche bucate e così passiamo la nostra esistenza. 

Impossibile poter biasimare questa scelta. Dopotutto, lo stesso Nietzsche una volta scrisse «L’uomo si meraviglia di sé stesso, di non poter imparare a dimenticare e di rimanere attaccato al passato: per quanto possa correre lontano o velocemente, la catena corre con lui. […] Allora l’uomo dice: “Mi ricordo” e invidia l’animale che dimentica immediatamente»9.

Perciò, dimentichiamo. Anche quello che abbiamo appena letto: non era importante, «non occorre tenerne conto come una guerra fra due Stati africani del XIV secolo»10.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE:
1.M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984 
2.F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, 1883-85 
3.G. Pascoli, Myricae, 1897
4.M. Kundera, op.cit.
5.Ibidem.
6.Ibidem.
7.Ibidem.
8.G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, 1837 
9.F. Nietzsche, Considerazioni Inattuali, 1876 
10.M. Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, 1984

[Photo credit unsplash.com]

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Guarire con la filosofia

Fin dall’antichità, filosofia e medicina sono apparse come materie strettamente collegate, affondando sin da subito le radici l’una nell’altra: Aristotele, Ippocrate e Galeno sono alcuni tra i più famosi esempi del sodalizio tra queste due discipline. Epicuro definisce la filosofia come pharmakon, rimedio per raggiungere la felicità dell’anima, così come in seguito Seneca e Cicerone; Boezio la immagina come una bella e austera donna  venuta a portare consolazione al suo spirito provato.

Pare che attualmente i legami tra filosofia e medicina risiedano più nell’ambito della bioetica e della morale in generale, volti a giudicare come giusti o sbagliati prassi strettamente cliniche, le quali risultano però, sul piano pratico, difficilmente influenzabili e modificabili: il tutto comporta una spiacevole gerarchizzazione in senso piramidale delle discipline, che vede il pensiero filosofico occupare il gradino più basso.

Eppure c’è una disciplina, forse non unanimamente accettata come scienza naturale dalla comunità degli esperti, che medicalmente cura i disturbi che le competono con un percorso terapeutico che pone l’individuo a confronto con gli aspetti più profondi dell’esistenza umana: la psicoanalisi. Nata dalla mente e dalla penna di Sigmund Freud e diramatasi in tante correnti e applicazioni pratiche quasi quante ne furono le teste che la studiarono per prima, la psicoanalisi è la teoria che ricerca le spiegazioni dell’agire umano nell’inconscio, ovvero quella parte della psiche che contiene impulsi, emozioni, modelli comportamentali e tutto ciò di cui il soggetto non ha consapevolezza ma che contribuiscono a costituirlo. Tale teoria rappresenta la terza grande “umiliazione narcisistica” per l’uomo (dopo la rivoluzione copernicana e il darwinismo), forse la più grave, perché è quella che toglie la centralità all’Io nelle dinamiche di composizione e azione del soggetto.

Sebbene in un primo momento il modello di studio neurobiologico, l’avvento della psichiatria con la prescrizioni di farmaci e la liberalizzazione della sessualità sembrava avessero smontato i presupposti della dottrina di Freud, in realtà proprio attraverso questi elementi, la piscoanalisi iniziava il suo processo di rivoluzione interna, analizzando il nucleo di quella svolta freudiana che al suo stesso creatore era rimasta velata. Autore di questo cambiamento è senza dubbio Jaques Lacan, psicoanalista e psichiatra sì, ma anche e soprattutto filosofo che ha individuato, nel percorso di analisi dell’inconscio, non solo un metodo per combattere problematiche psichiche sul piano clinico, quanto piuttosto un percorso d’avvicinamento a una verità traumatica che libera la propria voce. L’inconscio non grida frasi senza senso, ma si esprime attraverso un linguaggio; l’Io non deve mirare a dominare l’Es, pensandolo come un guazzabuglio di eventi rimossi, ma può cercare di avvicinarsi per disvelare e accettare una realtà che è già. Per Lacan nevrosi, psicosi e perversioni non sono, quindi, unicamente patologie ma veri e propri atteggiamenti filosofici che il soggetto malato assume nei confronti della realtà e che modificano la sua personalità.

Lo scopo della terapia psicoanalitica, quindi, come quello della filosofia, non è unicamente quello di portare il paziente al raggiungimento di benessere, soddisfazione personale o successo sociale, quanto piuttosto condurlo di fronte a quella sua verità, che include anche le coordinate del suo desiderio. E così, proprio come la ricerca filosofica, quella piscoanalitica alla scoperta di se stessi dura, come minimo, tutta una vita.

A questo punto, però, qualcuno potrebbe chiedere: perché mai intraprendere un percorso potenzialmente infinito e sicuramente indefinito di analisi di sé, che non comporta vantaggi immediati o che, addirittura, potrebbe condurre l’individuo che scava in se stesso a vivere momenti di crisi profonda? Non tutti potrebbero voler scoprire la propria verità, soprattutto a costo di attraversare i sentieri della sofferenza e del dubbio. Sicuramente la strada non è spianata, ma il rischio di vivere in superficie è anche quello di vivere immersi nel non-senso e nell’inautenticità. Psicoanalisi e filosofia insieme potrebbero invece restituirci pienezza e consolazione, comprensione e quindi maggiore capacità di accettazione di noi stessi, del mondo e soprattutto dell’Altro: “chi ha un perché per vivere può sopportare quasi ogni come”.

 

Vittoria Schiano di Zenise

 

[Photo credit Paxabay]

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“African genesis”: Valentin Mudimbe e il problema della filosofia africana

Tra i maggiori esponenti della moderna filosofia africana, Valentin Mudimbe ha indagato le modalità discorsive con cui la ricerca occidentale ha plasmato l’immagine dell’Africa nel tempo. Ripercorrendo la storia delle esplorazioni, i diari dei conquistatori, le tavole illustrate, la geografia, ma soprattutto l’antropologia, Mudimbe ha ricostruito un’archeologia della cosiddetta «colonizing structure»1, un filtro cioè attraverso cui l’Occidente coloniale ha cercato di rendersi comprensibile la diversità delle popolazioni che incontrava.

Questo filtro ad esempio ha stereotipizzato il concetto di tribù, connotandolo di una staticità che lo relega fuori dal tempo storico. Ma soprattutto il filtro aveva delle precise intenzioni politiche: riorganizzava lo spazio degli altri, le loro categorie, i riferimenti, la loro vocazione sociale e spirituale, avviando una metamorfosi tragica che puntava all’inglobamento della loro economia nel sistema economico proprio. Questo processo continuò anche dopo lo smantellamento degli imperi coloniali. L’Occidente è infatti spesso intervenuto per manovrare gli andamenti politici degli stati neonati, soprattutto nell’ambito della guerra fredda – si vedano a tal proposito gli omicidi di Patrice Lumumba e di Thomas Sankara, due dei più importanti politici democratici e riformisti, o gli appoggi internazionali concessi a dittatori come Joseph-Désiré Mobutu e Jean-Bedel Bokassa. Allo stesso tempo però molti leader africani del post-indipendenza, come i succitati dittatori, attizzarono questi interventi perché gli portavano notevoli benefici e rafforzavano le loro reti clientelari.

In questo senso Mudimbe parla di invenzione dell’Africa; e non solo nel senso antropologico e politico, perché anche l’immaginario stesso, tanto degli occidentali quanto degli africani, venne arrangiato secondo gli strumenti della colonizing structure. Tali metamorfosi risultarono poi in un trauma da snocciolare e da sconfiggere. Ecco allora l’Africa trovatasi costretta a raggiungere un certo senso di “modernità”, a riconsiderare se stessa secondo visioni estranee in nome del “progresso”, a cercare di riconquistare la propria identità sottratta da oltre un secolo di “civilizzazione”. L’Africa che si deve confrontare col suo simulacro, fabbricato da spiriti che non sono i suoi.

Questa condanna si rifletté soprattutto nella tradizione filosofica post-indipendenza (e degli anni di poco precedenti): vi sono discorsi sulle relazioni con l’Europa, confronti col proprio dramma linguistico, argomenti volti a svincolare il continente africano dai paradigmi delle scienze interpretative occidentali super-imposte, ma molto raramente appaiono filosofie particolari e locali. L’esempio del CODESRIA2 è a tal proposito lampante: costituito nel 1974 all’interno di un’organizzazione africana per lo sviluppo dell’economia (IDEP), aveva come scopo quello di decostruire i concetti delle scienze sociali occidentali per sviluppare alternativamente dei paradigmi africani. Si intendeva così emancipare le identità delle numerosissime popolazioni africane dagli echi ancora vivi della colonizing structure3. Ma come sostiene anche la classificazione discussa da Thandika Mkandawire, si è ancora nel contesto delle prime due generazioni di intellettuali africani – quelle cioè dove le riflessioni sono volte al confronto col trauma, e che sono caratterizzate da una fuga massiccia di cervelli verso gli altri continenti. È proprio lui che descrive questa stagione del pensiero come un fuoco di sbarramento terminologico4.

Le eccezioni però sono interessanti: Julius Nyerere ad esempio, primo presidente della Tanzania, riuscì a migliorare nettamente l’alfabetizzazione (in swahili) della popolazione e l’accesso ai servizi fondamentali facendo leva sul concetto di ujamaa, ossia di “famiglia allargata”, termine atavico che si richiama ai valori della collettività e dello sforzo comune, in nome di una specie di socialismo africano. Interessanti poi gli spunti della filosofia popolare: il detto zulu umuntu ngumuntu ngabantu, che significa “una persona è tale solo attraverso le altre persone”, incoraggia l’uguaglianza e la reciprocità, perché, nelle parole dell’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, “abbiamo bisogno degli altri esseri umani per essere umani”.

Tutte queste voci, a partire dalla scoperta dell’invenzione dell’Africa, concorrono nell’auspicare dei necessari scardinamenti intellettuali. Per Mudimbe ragionare su questo significa riscoprire le verità del continente, e per noi occidentali – nella più ampia prospettiva – rinunciare alla storia per far parlare le storie. Se ascoltassimo quanto i cosiddetti “altri” hanno da dire (cosa vuol dire pensare ancora agli “altri”? Perché devono esistere?), allora lo spirito occidentale capirebbe quanto ha sbagliato a non ascoltare mai nessuno.

 

Leonardo Albano

 

NOTE:
1. V. Mudimbe, The Invention of Africa, 1988
2. Council for the Development of Social Science Research in Africa.
3. J-L. Amselle, Il distacco dall’Occidente, 2009
4. 
T. Mkandawire, Extrait du rapport du secrétaire exécutif

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