Tutto, ovunque, nello stesso momento: il multiverso

Il fisico americano Hugh Everett III, nel 1957, azzardò un’interpretazione della meccanica quantistica che lui definiva “a molti mondi” (e che chiamiamo multiverso). Riassunta in modo il più possibile chiaro (e perciò impreciso), Everett pensava che l’unico modo per confermare la contemporaneità di stati diversi previsto dalla fisica quantistica fosse contemplare l’esistenza di più mondi paralleli, uno per ogni possibilità.
Considerata più che altro un esempio di fringe science (a metà con la fantascienza), la teoria ha ottenuto popolarità negli anni, sia in campo scientifico, dove una minoranza di fisici la postula come conseguenza della teoria delle stringhe e della teoria delle bolle, sia soprattutto in campo di cultura pop. Romanzi, fumetti, film, videogame e serie tv si sono buttati sul concetto di mondi paralleli come nuova miniera d’oro di idee e trovate narrative.

Quello che viene spesso trascurato, però, è la risultante filosofica della teoria del multiverso, che può rappresentare il colpo di grazia definitivo a un antropocentrismo agonizzante fin dalla rivoluzione copernicana. Col progresso scientifico, l’uomo al centro del mondo e signore della creazione si è scoperto una specie tra tante, abitante di un pianeta minuscolo e marginale che orbita intorno a una stella che è una su miliardi, galleggiante in un universo sterminato, vuoto, oscuro, minaccioso e indifferente. La fisica quantistica toglie anche l’ultimo supporto metafisico alla vita umana: la sua unicità, e quindi il suo senso. Se esiste un universo in cui si realizza ogni mia possibile scelta, che senso ha la mia decisione qui e ora? Se esistono miliardi di miliardi di “me”, che importanza posso avere io come individuo?

A sorpresa, questo è il punto centrale di Everything Everywhere All at Once, il film dei The Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert) che ha sbancato all’ultima edizione degli Oscar. Il nodo centrale è uno scontro generazionale, quello tra l’iperattiva, stressata e infelice Michelle Yeoh (Evelyn) e sua figlia in cerca di attenzione e affetto Stephanie Hsu (Joy).
Quest’ultima, o meglio una sua versione alternativa, ha una visione d’insieme sul multiverso che la porta a un disperato e assoluto nichilismo. Ogni cosa e ogni persona, ripetute quantisticamente all’infinito, non hanno valore, e il risultato è un panorama mortificante, un nulla pieno di tutto, un crudele gioco di insensatezza cosmica. In preda a una simile angoscia esistenziale, comprensibilmente, la ragazza cerca conforto dalla mamma.

A Evelyn è chiesto di trovare una risposta impossibile, un barlume di senso in un multiverso spaventoso, sempre più complesso, sempre più oscuro e terrificante… e in qualche modo la trova, complice la natura di fabbrica dei sogni che è il cinema. Tra esplosioni di puro dadaismo e psichedelie surreali, trovate piacevolmente folli che fanno apparire il film come un trip acido particolarmente strutturato, si scava disperatamente alla ricerca di qualcosa da salvare in un cosmo alla deriva. In orizzonti di senso svaniti che portano inevitabilmente all'(auto)annientamento, di fronte all’abisso del nulla, la risposta si trova, nascosta, umile e sofferta, in una quotidianità di affetti che si concretizza nelle relazioni. Di fronte all’abisso, l’amore eroico e ostinato che insiste a valorizzare contro ogni evidenza l’oggetto del proprio affetto è l’unico argine possibile alla disperazione.

Tra le pieghe di citazioni dei Wachowski, Satoshi Kon e Kubrick, parodie di Ratatouille e scene sentimentali tra sassi, dita di wurstel e improbabili inserzioni anali, Everything Everywhere All at Once dimostra un’inaspettata profondità, una consapevolezza acuta e dolorosa di una generazione che chiede alla precedente una sola cosa: di esserci, di condividere per quanto possibile tempo, esperienze, emozioni… e magari di trovare proprio in questo una singola scintilla di senso persa nella sterminata oscurità di un multiverso che non offre alcun punto di riferimento.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Greg Rakozy via Unsplash]

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Esercizi di libertà con Jonathan Livingston

Nel nostro quotidiano affannarci cercando di compiere i nostri tanti doveri può capitare che non ci si interroghi affatto sulla libertà né sulla mancanza di essa. Non è affatto semplice, infatti, comprendere se un concetto così bello e, allo stesso tempo, inafferrabile faccia parte della nostra vita e se la libertà che crediamo di avere corrisponda alle nostre più profonde esigenze. In questo senso, forse, sarebbe utile riappropriarci del diritto di comprendere come e dove sentiamo che essa si eserciti affinando la capacità di guardare dentro noi stessi, attività spesso trascurata per mancanza del tempo necessario all’introspezione. Una persona, per esempio, potrebbe sentirsi libera se riesce a dedicarsi ad un’attività che ama senza alcuno scopo preciso oppure se può gestire il proprio tempo in autonomia. Queste e altre innumerevoli forme di libertà, spesso, provengono da una ricerca individuale durante la quale, probabilmente, sorgeranno spontanee alcune domande “preliminari”: io sento di essere libero? Ho un mio spazio libero? O, in una fase successiva, dove si è cacciata la mia libertà che sento di aver perduto?

Esattamente a questo genere di domande si trova a rispondere il famigerato gabbiano Jonathan Livingston nel romanzo di Richard Bach che, riletto oggi, appare davvero illuminante. il gabbiano, infatti, rivendica una libertà particolare: la libertà di chi desidera con tutto se stesso seguire una voce altra che non è quella del gruppo sociale al quale, comunque, appartiene ma è una voce interiore, alla quale sente di non poter resistere:

«A un miglio dalla costa un peschereccio arrancava verso il largo. E fu data voce allo Stormo. E in men che non si dica lo Stormo Buonappetito si adunò, si diedero a giostrare ed accanirsi per beccare qualcosa da mangiare. Cominciava così una nuova dura giornata.
Ma lontano di là solo soletto, lontano dalla costa e dalla barca, un gabbiano si stava allenando per suo conto: era il gabbiano Jonathan Livingston. […] La maggior parte dei gabbiani non si danno la pena di apprendere, del volo, altro che le nozioni elementari: gli basta arrivare dalla costa a dov’è il cibo e poi tornare a casa. […] A quel gabbiano lì, invece, non importava tanto procurarsi il cibo, quanto volare. Più di ogni altra cosa al mondo, a Jonathan Livingston piaceva librarsi nel cielo» (R. Bach, Il gabbiano Jonathan Livingston, 1977).

Potremmo dire, quindi, che la fase più delicata, importante ed emozionante nella ricerca della propria libertà sia proprio accorgersi della mancanza di essa, solo avendone la percezione, infatti, si può agire concretamente per riconquistarla nonostante non sia sempre semplice. Per conquistare l’agognata libertà potrebbe essere necessario operare delle scelte anche drastiche e, spessissimo, si rischia di non venir compresi dagli altri. Jonathan Livingston stesso prova l’esperienza dell’emarginazione dal gruppo sociale perché nessuno dei suoi simili riesce a comprendere la sua inquietudine e le sue idee che, di fatto, se fossero accolte romperebbero un equilibrio, un ordine costituito, una serie di riti già ben collaudati. Per questo motivo, al nostro gabbiano non resta che recidere, almeno temporaneamente, alcuni legami e andar via verso un mondo nuovo dove troverà altri simili a lui coi quali confrontare le proprie idee, perfezionare le tecniche di volo che ama tanto e tramandare la sua idea di libertà, ovvero trarre felicità e soddisfazione personale nel compiere un atto senza un fine concreto«In capo a sei mesi, Jonathan aveva sei allievi, tutti esuli e reietti, ma pieni di passione. E curiosi di quella novità: volare per la gioia di volare!» (ivi).

Ed ecco come, pur nella sua brevità, il romanzo di Bach ci invita a cercare con tutte le nostre forze quella libertà che fa parte di noi, anche quando ci sembra di averla smarrita. Nelle ultime pagine il cerchio va a chiudersi per non finire mai: sarà un altro gabbiano a portare avanti lo slancio ideale di Jonathan Livingston e, forse, ha proprio ragione quando ricorda al suo adepto (e a noi) che: «Per tutte le cose, Fletcher, è questione d’esercizio!» (ivi).
Sarebbe davvero importante, per tutti noi, accogliere questo monito ed esercitarci a ritrovare la nostra peculiare libertà, regalandoci anche il diritto quasi dimenticato di praticarla. Nella nostra quotidianità dovremmo provare a dedicarci all’ascolto interiore, così da far emergere i nostri bisogni anche quando temiamo che quest’attività possa rubare tempo ad altri impegni più “concreti”. Tendere l’orecchio e mettersi nella condizione di riuscire ad ascoltare la propria voce più profonda potrebbe rivelarsi, infatti, il dono più bello e prezioso da fare a noi stessi.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[immagine tratta da Unsplash]

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Giustizia e forza tra Rousseau e Pascal

In natura sopravvive chi ha i mezzi migliori. Che si tratti di forza in senso stretto o di altre caratteristiche che possono esser considerate tali in senso più generale – come un efficace mimetismo o la secrezione di sostanze deterrenti – l’osservazione dei fenomeni naturali ha prodotto l’idea di “legge del più forte”. Questa espressione, però, se trasposta dal contesto naturale a quello sociale rischia di essere facilmente male interpretata e di legittimare atteggiamenti dispotici nei contesti più disparati: mobbing sul lavoro, bullismo nelle scuole, violenze in contesti familiari, venendo meno a quella che probabilmente è la caratteristica fondamentale della società, e cioè la tutela del più debole.

Nel Diritto del più forte (terzo capitolo del primo libro de Il contratto sociale), Rousseau si propone di mostrare l’incomprensibilità della nozione di “diritto del più forte” tracciando una netta distinzione tra la nozione di forza e quella di diritto. Se infatti ammettiamo la validità di questa idea, se accettiamo che il diritto sia un’istanza subordinata alla forza e dipendente da essa, ne deriva che il più forte è legittimato nel suo soverchiare il più debole, e che chi ha la forza di imporsi lo faccia anche a buon diritto. Tuttavia in questo caso il diritto non aggiunge nulla alla forza: il più forte non ha certamente bisogno di questa legittimità per imporsi, piuttosto egli lo fa in virtù di questa sua natura stessa; il più debole, dal canto suo, non si sottomette per dovere, bensì per necessità. Recita Rousseau: «Che un brigante mi sorprenda al limitare di un bosco: non soltanto dovrò per forza dare la borsa, ma, quando potessi sottrarla, sarei in coscienza obbligato a donarla? Perché, in fin dei conti, la sua pistola è sempre una potenza» (J.J. Rousseau, Du contrat social, 2010).
Da questo testo emergono dunque principalmente due idee. Innanzitutto il fatto che la nozione di diritto e quella di forza siano nettamente distinte, e l’espressione “il diritto del più forte” equivale in fin dei conti a “la forza del più forte”, poiché il diritto non aggiunge nulla al potere d’azione della forza. La seconda, più sottile, è che il diritto non costringe materialmente, bensì obbliga, cioè agisce a livello di coscienza morale. La forza s’impone da sé, il diritto chiama.

Questa distinzione mirabilmente condotta stronca una volta per tutte i tentativi di legittimare un sopruso sulla base della forza (sono più forte, quindi è giusto che comandi io), perché la legittimazione avviene sul piano del diritto, e non di una situazione di fatto. Ciò sembra risolvere una serie di questioni spinose, ma in realtà proietta dietro sé un’ombra, di cui sicuramente Rousseau era consapevole, che era già emersa con fascino nel pensiero di Pascal in Giustizia, forza1.
In questo testo Pascal, che riflette sulla relazione tra queste nozioni, mette in luce la problematicità della distinzione di cui sopra. La giustizia necessita della forza, perché da sé non si impone: essa è ciò che legittima o meno uno stato di fatto. Alla forza, dal canto suo, serve esser giusta per legittimare il suo esercizio, per non essere tirannica. Tuttavia, se da un lato «la forza è facilmente riconoscibile», proprio in virtù della sua natura, dall’altro «la giustizia è soggetta a disputa»: di ciò sono testimoni gli innumerevoli dibattiti sulla natura della giustizia, da Platone ai giorni nostri. Di questa ambiguità ha storicamente approfittato la forza, imponendo le sue ragioni e dichiarando (con forza) d’esser giusta. «Così – conclude Pascal – non potendo fare in modo che ciò che è giusto fosse forte, si è fatto sì che ciò che è forte fosse giusto».

Benché l’analisi di Pascal abbia una conclusione piuttosto sconfortante, ci sembra di poter trarre un insegnamento importante da queste lezioni. Il rischio di un sopruso è sempre dietro l’angolo, e le ragioni emergono lampanti da questi due testi. La giustizia non può essere imposta, la sua dimensione essendo quella morale: essa agisce a livello di coscienza individuale. Una regola imposta forzosamente è necessariamente tirannica, poiché essa deve essere l’espressione del senso di giustizia di una comunità, sia essa un gruppo di colleghi di lavoro, una classe scolastica oppure uno Stato. Ognuno, nella vita di tutti i giorni, ha la responsabilità di far esistere la giustizia nel contesto in cui vive, e ciò, come si è visto, non può essere imposto da fuori, ma deve uscire da dentro. Ecco perché invece di seguire ciecamente una regola comportandoci così da sudditi, è importante, seguendo il proprio buonsenso, individuare il significato della stessa, interiorizzarlo ed agire come chi sta al mondo con la consapevolezza del senso di ciò che fa. Una società giusta non è separabile dalla responsabilità dei propri cittadini.

 

Pietro Bogo

NOTE
1. Si tratta del novantaquattresimo pensiero contenuto in Pensieri. Le brevi citazioni che seguono sono tratte da questo pensiero.

 

[Photo credit Tingey Injury Law Firm via Unsplash]

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Alla ricerca dei confini del paesaggio attraverso Wittgenstein

Nel Tractatus logico-philosophicus, Ludwig Wittgenstein pone la tautologia e la contraddizione come situazioni-limite del discorso sensato, ossia come confini non valicabili dell’espressione linguistica del pensiero, perché al di là di essi vi sarebbe semplicemente non-senso. Esse rappresentano quindi i casi marginali della dicibilità; mentre nello spazio tra questi due termini è concepibile una descrizione articolata del mondo.

La tautologia ripete sempre l’identico (piove o non piove) e si dice che è incondizionatamente vera, perché non ha alcuna condizione di verità. Invece, la contraddizione pone e toglie contemporaneamente qualcosa, sotto il medesimo rispetto (piove e non piove) e per questo si dice che non è vera sotto nessuna condizione. Né tautologia né contraddizione sottostanno a delle condizioni, come invece accade alle proposizioni sensate, impedendo di istituire relazioni determinate ad altro. Secondo Wittgenstein questa posizione di confine conferisce ai due termini il carattere di essere privi di senso e tuttavia non insensati, poiché essi continuano ad appartenere al linguaggio, essendo il modo in cui esso dà segno del proprio estinguersi. Nella tautologia e nella contraddizione il dissolversi di ciò che può essere detto, e di come può essere detto, delinea la funzione ambivalente di queste due situazioni: da un lato delimita il dicibile e dall’altro lato si rivolge a ciò che non può essere detto perché semplicemente si mostra. I confini possono significare non solo le frontiere di sensatezza del mondo, ma anche luoghi di indagine, in cui esplorare, oltre il dicibile, quello che non può essere comunicato ma solo mostrato.

Senza approfondire ulteriormente le questioni del Tractatus, tautologia e contraddizione, in quanto limiti del discorso sensato ma non insensate, portano a riflettere e ad insistere sui margini di senso del nostro modo di esprimerci per comprendere il mondo, muovendosi nelle periferie dove forse la sensatezza viene meno ma si intravedono nuove opportunità di ricerca. In questa prospettiva, parallelamente alla funzione-limite di tautologia e contraddizione nel linguaggio, si potrebbe domandare quali sono i confini del paesaggio e quali sono le condizioni di possibilità dei nostri spazi di vita in quanto strutture di senso di una medietà equamente distante dal difetto e dall’eccesso. Se il paesaggio designa una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni che lo vivono, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni, si può provare a delineare i poli di una zona temperata, entro la quale si esprimono i contesti di vita delle persone, manifestazione della varietà dei patrimoni culturali e naturali e fondamento delle loro specificità.

Come la tautologia, a un livello generale, si associa all’idea di ripetizione della stessa cosa o del medesimo segnale che ha come effetto la realizzazione del massimo ordine, perché in essa non c’è posto per l’irrompere di eventi casuali o disturbanti, nell’ambito del paesaggio l’identità, portata alla sua estrema declinazione, richiama la pretesa di immutabilità di un territorio e della comunità che lo abita. Si parla, ad esempio, di società tradizionali che tramandano pratiche e comportamenti culturali definitivamente codificati. Si parla anche di purezza e incontaminatezza di ambienti naturali e sociali da preservare, che presuppongono un modello archetipo ed edenico. Si pensi, infine, al concetto di tipicità, utilizzato oggi in diversi ambiti tra cui il cibo e l’architettura, come espressione e garanzia di persistente autenticità.

Dall’altra parte dell’identità sta la contraddizione, dove qualcosa è posto e tolto contemporaneamente: tutto pretende di comunicare con tutto e il risultato è il massimo della casualità e del movimento. Le relazioni con ciò che è diverso proliferano incontrollate e le connessioni che è possibile istituire sono tutte equivalenti, spegnendo sul nascere l’emergere di un senso. All’interno del discorso sul paesaggio, la contraddizione viene rappresentata da luoghi che sono non-luoghi, come quegli spazi della provvisorietà descritti da Marc Augé (aeroporti, parchi-divertimento, centri commerciali…), attraverso cui non si possono decifrare relazioni sociali, storie condivise o segni di appartenenza collettiva. I non-luoghi sono incentrati soltanto sul presente e sono altamente rappresentativi della nostra epoca, caratterizzata da impermanenza, transitorietà e individualismo.

Tra la monotonia dell’identità e la cacofonia della diversità assoluta, risuona la polifonia del paesaggio. In mezzo a questi due poli risiedono dunque le zone temperate dove si creano le condizioni di possibilità per la costituzione di paesaggi vivibili. Eppure, come la tautologia e la contraddizione fanno parte del discorso sensato, in quanto segni limitanei del suo estinguersi, anche identità e non-luoghi appartengono al paesaggio. Questa posizione di confine conferisce ai due termini di essere le frontiere della vivibilità dei luoghi e tuttavia non invivibili. Essi allora ci invitano a insistere sugli spazi di senso marginali, ma non per questo insensati, e sul senso degli spazi marginali, ma non per questo emarginati.

Umberto Anesi

[Photo credit Qingbao Meng via Unsplash]

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L’impossibile scelta tra pace e giustizia

Non è mai stato facile essere pacifisti, né è mai stato immediato capire cosa fosse giusto fare, dire, pensare nel momento in cui grandi avvenimenti storici arrivano a sconvolgere una quotidianità che tenta ingenuamente di considerare la propria relativa tranquillità come eterna.

Lo sapeva bene Lev Tolstoj, che fu addirittura scomunicato dalla Chiesa russa ortodossa in merito alle sue posizioni fieramente pacifiste. Non solo nei suoi romanzi, ma anche e soprattutto in altri scritti meno conosciuti, in Contro la guerra russo-giapponese, nella lettera allo zar del 1881 e in quelle al filosofo Hugo Engelhardt (1882-1883), nei saggi della maturità La mia fede e Il regno di Dio è in voi, Tolstoj insiste fermamente sulla necessità di non agire mai attraverso la violenza, attraverso le armi, attraverso la forza, fosse anche per difendersi. Il mondo nuovo, dice, potrà nascere solo da un rifiuto radicale di ogni forma di conflitto, che avrà modo di “contagiare” l’umanità come fosse un’epidemia.

Di idee radicalmente opposte era il filosofo, contemporaneo e compatriota eppure estremamente distante, Ivan Il’in. Monarchico e hegeliano, Il’in fu un fervente sostenitore dello zar, e fu costretto alla fuga quando Lenin e l’Armata Rossa presero il potere durante la Rivoluzione di Ottobre. In numerosi articoli e interventi – e soprattutto in una delle sue opere più famose, Resistenza al male con la forza (1952)  Il’in deride i fiacchi e inconcludenti appelli per la democrazia del mondo europeo verso l’Unione Sovietica e insiste che, al momento in cui il male si presenta, è dovere morale reagire a esso con la forza, col conflitto armato, con la violenza. Cercare la pace, in questo caso, sarebbe un atto di complicità col male che andrebbe invece sradicato.

Non è un caso che i due autori presi in causa siano entrambi russi. Impossibile non tentare in qualche modo di riportarne le riflessioni a un’attualità che, ormai da più di un anno, bussa prepotentemente alle nostre porte, condizionando la nostra (ora lo sappiamo) fragile quotidianità di lavoro, famiglia, svago, in modi che non avremmo ritenuto possibili fino a poco fa.

Ma chi ha ragione? Tolstoj o Il’in? Cosa fare, dire o pensare per ritenersi “dalla parte giusta”? In un dibattito pubblico che si arrocca sempre più e sempre peggio in tifoserie da stadio, in cui ogni barlume di pensiero critico e sistema complesso è scartato come inutile sovrappiù, dove schierarsi per essere a posto con la propria coscienza? Questa guerra nel cuore dell’Europa somiglia da vicino ai test che gli studenti universitari discutono nelle ore di Filosofia Morale. Il più famoso è senza dubbio il “dilemma del carro ferroviario” di Philippa Ruth Foot, che invita l’ascoltatore a scegliere se lasciare che un treno lanciato a tutta velocità travolga cinque persone sui binari, o deviarne la corsa scegliendo di ucciderne una sul binario a fianco. Non agire e lasciare che cinque persone muoiano, o intervenire attivamente ed essere responsabili materiali e morali della morte di un innocente?

La questione è la stessa in politica estera, lo stesso aut aut che lascia poche alternative. O continuiamo a inviare armamenti sempre più sofisticati, contribuendo attivamente al prolungamento di una guerra che sta mietendo migliaia di vittime, o ci facciamo da parte, rifiutandoci di intervenire in nome della pace, lasciando così che la fiera popolazione ucraina sia travolta e fagocitata dal regime russo.
Non c’è un’alternativa che sia eticamente soddisfacente, non c’è una ricetta o una “mossa” che garantisca la propria appartenenza alle schiere dei giusti in contrapposizione a una massa di “cattivi” da poter additare a cuor leggero sui social. C’è il destino di due paesi in gioco, dell’intero pianeta se l’escalation continua, milioni e milioni di vite uniche e non rimpiazzabili sulle quali non è possibile fare secondi tentativi.

In una simile situazione, è la coscienza di ognuno che decide quale sia il “bene superiore” da perseguire, che sia il pacifismo di Tolstoj o l’interventismo di Il’in. Basta ricordarsi che il Bene, quello vero, è già da un pezzo fuori dalla rosa di scelta.

 

Giacomo Mininni

 

[Photo credit Christian Wiediger via Unsplash]

 

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Il linguaggio osceno della comunicazione politica populista

Se c’è una cosa che tutti sicuramente impariamo durante la nostra esistenza è che l’oscenità rappresenta qualcosa che stimola contemporaneamente disgusto e interesse. E in fondo, forse, anche piacere. Dall’osceno nasce un nuovo linguaggio simbolico, che viene impiegato per creare un’inedita rappresentazione dell’umanità e della società. Anche grazie al processo di mediatizzazione e piattaformizzazione, tipico del terzo millennio, si può notare come l’oscenità sia diventata via via la forma-regina del linguaggio politico, in particolare quello populista. Analizzando la persona politica di Trump, ad esempio, Žižek, a ragion veduta, afferma:

«Attraverso tutte le sue scioccanti volgarità, sta dando ai suoi seguaci una narrazione che ha un senso – molto limitato e contorto, nondimeno un senso – che ovviamente funziona meglio della narrativa della sinistra moderata. Le sue spudorate oscenità servono come segni di solidarietà con le cosiddette persone comuni (“vedi, sono come te, siamo tutti uguali sotto la pelle”) […]» (S. Žižek, Hegel e il cervello postumano, 2020).

In questo modo l’oscenità è veicolo e strumento non solo di solidarietà, ma anche e soprattutto di riconoscimento. Il senso di riconoscimento, come quello di appartenenza, è essenziale a tutti gli uomini, a tutte le autocoscienze, come direbbe probabilmente Hegel. Tutti desiderano essere inclusi da qualche parte e in qualche cosa. Allora, la politica populista, che forza sul concetto di somiglianza, tende a sfruttare in maniera continuativa, quasi estenuante, un linguaggio performativo tale da ricreare un’immagine organica di popolo, e quindi un’identità collettiva.

Il leader politico populista, attraverso la tecnica della disintermediazione, si racconta come un cittadino ordinario, esattamente come i propri elettori, sia nei suoi discorsi sia nei suoi gesti. Egli ha il carisma e la capacità di intercettare l’umore del suo elettorato, per riproporlo allo stesso in una chiave che nella maggior parte dei casi viola le più basilari norme di decenza, giacché egli parla come parlerebbe il popolo. Il linguaggio osceno sperimentato dalla comunicazione populista instilla il seme dal quale nasce l’idea che il leader politico è e fa ciò che il popolo vuole che sia e che faccia.

Il sentimento del popolo, o meglio risentimento, viene raccolto e politicizzato dalla dinamica populista, la quale, quasi mai lo risolve. Il populismo, infatti, si nutre delle falle che si manifestano all’interno del sistema democratico, tenta sempre di mantenerle e sa che per sopravvivere ha bisogno di un’Opinione Pubblica che percepisca costantemente l’instabilità e il pericolo della crisi.

L’oscenità, non solo piace, ma si eleva a sacro e a pubblico:

«Le oscenità non si limitano più agli scambi privati, esplodono nello stesso pubblico dominio, permettendomi di soffermarmi sull’illusione che sia tutto solo un gioco osceno mentre io rimango innocente nella mia intima purezza» (ibidem).

Il popolo crede, perché la politica populista viene coltivata quasi come se fosse una missione di fede, in cui il focus è tutto concentrato sul popolo “vero”, che di conseguenza legittima il potere d’azione del leader stesso. Così, l’osceno populista agita gli elettori contro dei “nemici”, li fomenta contro un malessere che un Altro ha creato. “Nothing’s your fault. It’s them, it’s them, it’s them, probabilmente Trump tornerà a ripeterlo agli statunitensi e al mondo, dopo il recente annuncio della sua ricandidatura alle primarie del 2024. 

Nel frattempo, tutti noi, che formiamo la camaleontica Opinione Pubblica, possiamo riflettere su quanto l’oscenità sia oscena, specialmente nel momento in cui produce discorsi e gesti conflittuali e primitivi di “un me contro un te”, perché essi inevitabilmente ci conducono ad un esito di poteri totalmente asimmetrico. La deriva verso cui si spinge e ci spinge la comunicazione populista, come una bomba, allora, può essere disinnescata dall’uso ragionato e ragionevole del senso di riconoscimento che in modo positivo include, ossia ci dà l’opportunità di percepirci e sostenerci a vicenda anche nella nostra diversità e pluralità, e non elude.

 

Ilaria Turrisi
Siciliana di annata 1992, appassionata di temi di attualità e dell’interazione multi- e interdisciplinare tra le branche del sapere, ha conseguito con lode la laurea magistrale in filosofia contemporanea presso l’Università degli studi di Messina. Oltre alla lettura, alla scrittura, al cinema e alla musica, si diletta nel lavoro a maglia e nella ideazione e creazione di collage analogici e digitali.

 

[Photo credit Jon Tyson via Unsplash]

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Giordano Bruno e la metafora dell’asino

Prigionieri del ritmo incalzante della vita, quante volte lasciamo che fatti ed eventi che dovrebbero esigere la nostra attenzione passino inosservati o ci lascino indifferenti? Probabilmente non ce ne accorgiamo perché ci siamo assuefatti al modus vivendi dell’inerzia mentale: non vogliamo perdere tempo e allora scegliamo di non voler sapere e ci accomodiamo nello stato della “beata ignoranza”. Forse lo facciamo per una questione di quieto vivere o forse perché abbiamo bisogno di anestetizzarci emotivamente, dal momento che la vita già “ci regala” preoccupazioni in abbondanza.

Il filosofo nolano Giordano Bruno, nella Cabala del Cavallo Pegaseo (1585), definiva questa forma di ignoranza «asinità di semplice negazione», ritenendo che sia propria di coloro «che non sanno, non presumono di sapere» e nondimeno vogliono sapere (cfr. G. Bruno, Cabala del Cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico, 1985)

L’asinità di semplice negazione è una sorta di moderno analfabetismo di ritorno, da cui ciascuno di noi può essere affetto quando, pur essendo in grado di comprendere, valutare e agire scientemente, per pigrizia intellettuale o per non affaccendarci in problemi che crediamo non ci riguardano, disconnettiamo la ragione e da animali pensanti regrediamo allo stato di asini insipienti, «che tutte le facoltà dell’anima uniscono nella sola capacità di ascoltare e credere» (ibidem).
Così ci disabituiamo a pensare autonomamente e diventiamo bisognosi di una guida spirituale o di un leader carismatico che pensa e decide per noi. Deleghiamo la nostra libera facoltà di ragionare e di agire a delle autorità che ci sovrastano, alle quali, come asini consenzienti, crediamo e obbediamo.
Quante volte ci siamo fatti abbindolare dalle cangianti tendenze della moda, dalla legge del mercato o dagli influencer del momento, che ci instillano gusti che non sono i nostri e bisogni che non abbiamo? E noi, similmente a marionette, mettiamo nelle mani altrui il senso e la direzione della nostra vita, perché non abbiamo elaborato un pensiero nostro, non sappiamo cosa vogliamo, cosa sia giusto o vero, perché, in realtà, non ci soffermiamo a guardare dentro noi stessi, dal momento che farlo costa fatica e coraggio.

L’asinità ha anche il volto della presunzione. Lo sapeva bene Bruno che aveva dovuto scontrarsi con i dogmatici saccenti del suo tempo, che aveva etichettato come «asini per cattiva disposizione». I saccenti, ingabbiati nei “paraocchi mentali” di una dottrina, presumono di essere i depositari dell’unica e incontestabile verità e dunque di non avere più nulla da imparare. E, ostentando un’intransigente quanto sterile superiorità intellettuale, si sentono autorizzati ad avversare, perseguitare e condannare chi è portatore di opinioni differenti dalle proprie.

Bruno aveva coraggiosamente affrontato anche la stolta follia degli «asini per divina acquisizione», gli ignoranti per fanatismo religioso, i suoi carnefici. Il fanatismo religioso non solo riduce la capacità di pensare allo stato di quiescenza, ma inebetisce finanche la coscienza morale. Per cieca fedeltà, il fanatico religioso obbedisce acriticamente all’autorità divinizzata di un leader (politico o religioso) anche quando gli ordina di violare la dignità altrui, trucidare e condannare a morte il cosiddetto nemico, che ha commesso il “reato” di pensarla in modo diverso o che ha manifestato apertamente il suo dissenso.

Ogni giorno i telegiornali ci sbattono in faccia fatti di insensata brutalità, perpetrati dagli uomini contro l’umanità tutta, in nome di un Dio che dice sante le guerre e meritevoli del paradiso gli assassini autorizzati per fede, o a causa di un despota che dispone della legge e della giustizia arbitrariamente. E noi? Non possiamo stare a guardare con un atteggiamento di imperturbabile irresponsabilità. La denuncia di Bruno va oltre il suo tempo e continua a condannare l’asinità che ancora oggi ha il volto negativo dell’arroganza e della stoltezza, dell’inoperosità e dell’indolenza. Ogni qualvolta deleghiamo o lasciamo correre, rinneghiamo la nostra natura di animali pensanti e ci imbestiamo, e, a causa dell’ottusità, diventiamo responsabili così che ricadono su di noi quelle colpe per i mali del mondo che accolliamo agli altri.

Bruno, però, individua anche un’asinità positiva, un antidoto contro quella insana e folle: l’asinità sensata. Quest’ultima, a differenza dell’altra, ha il volto dell’umiltà, perché è constatazione che siamo fallibili e non onniscienti, che rispetto alla verità siamo sempre mancanti, che c’è sempre da imparare. L’asinità sensata è inquieta, non sta comoda nello stato di mancanza, anzi è esortazione costante alla ricerca, impegno quotidiano alla riflessione per l’azione, apertura al dialogo e al confronto. È quel saper di non sapere che allerta la ragione e la coscienza morale a essere vigili, a non perdere di vista i fini, a prestare attenzione a ciò che accade e a farsene carico responsabilmente. È quel bisogno di interrogare per comprendere che ci salva da ogni errore e conflittualità.

Finché rimarremo connessi con la nostra ragione, rimarremo connessi con la nostra umanità, la sapremo esprimere al meglio e faremo del nostro mondo un posto migliore.

 

Marilena Buonadonna

 

[Photo credit hay s via Unsplash]

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Eroi umani, troppo umani: tra forza e fragilità

Avevo 17 anni quando ho letto Un uomo di Oriana Fallaci. La giornalista era riuscita magistralmente a trasmettere anche a me la fascinazione e il trasporto che lei, in quanto compagna di Alèxandros Panagulis, provava per lui. A quell’età, non ancora del tutto disincantata sul mondo e sulla vita, avevo trovato in lui un eroe.

Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi”, scriveva Brecht in una delle sue opere teatrali. E perché mai? Cosa c’è di male in un eroe?, potremmo chiederci. Il senso è che l’attesa dell’eroe, del deus ex machina che piomba nel caos e vi mette ordine, spoglia l’individuo della sua azione e della sua creatività. Se l’umanità ha bisogno di eroi, significa che è un’umanità che aspetta senza agire. Ecco perché Alèxandros Panagulis era un eroe così credibile: perché era del tutto eroico e del tutto imperfetto.

Frequentavo il liceo classico e di eroi ne sapevo qualcosa. La letteratura antica infatti ha regalato moltissime figure impegnate in eroiche missioni causate da dèi avversi – penso ad Aiace, Ettore, Eracle; eroi che muoiono ma in qualche modo restano invincibili. E poi c’è l’eroe degli eroi, Odisseo: il distruttore di Troia, l’impeccabile mente. Lui qualche debolezza la mostra: piange al ricordo dei compagni perduti, si strugge di nostalgia per Itaca; questo perché è umano e l’incipit dell’Odissea lo spiega subito chiaramente iniziando proprio con quella parola, “uomo”1. I tempi cambiano in Grecia soprattutto con l’Ellenismo, quando decadono i valori classici e tutto è in balia di una nuova divinità, la tùche, la sorte. In questo periodo si affaccia una nuova lettura dell’eroe Giasone, quella di Apollonio Rodio nelle Argonautiche. Il nuovo Giasone è amèchanos, “privo di risorse”, nella stessa misura in cui Odisseo per Omero è polùtropos, “dall’ingegno multiforme”: non si tira fuori dal pericolo da solo, sono gli dèi e una donna, Medea, a salvarlo in varie situazioni mentre lui, letteralmente, “non sa cosa fare”. Questo Giasone del 245 a.C. sembra proprio “un eroe che ha bisogno di eroi”, un eroe che dubita delle sue capacità; antieroe classico ma proprio per questo eroe ellenistico. Un uomo in preda alla sorte.

C’è poi un’altra rilettura dell’eroe classico meritevole d’esser considerata: l’Ulisse di James Joyce. Il libro omonimo esce nel 1922, dopo una guerra che ha ridisegnato i profili del mondo e gli orizzonti valoriali, nonché nel pieno sviluppo delle teorie psicanalitiche. Lo scopo è proprio quello di creare un parallelo tra l’eroe e un qualsiasi uomo della modernità. Lui, così come la moglie Molly (parallelo di Penelope) e Stephen Dedalus (parallelo di Telemaco), racchiudono alcune fragilità tipiche umane quali la diffidenza, l’infedeltà, la passività; la loro eroicità sta nel resistere alle soffocanti sovrastrutture sociali, alle convenzioni e alle aspettative, pur nelle loro debolezze.

Anche Alèxandros Panagulis, rivoluzionario che fa della liberazione della Grecia dalla dittatura (1967-1974) la sua ragione di vita, sfoggia numerose ombre. Inizialmente il suo personaggio sembra molto chiaro: stoicamente eroico sopporta anni di carcere, torture e umiliazioni. È proprio con la scarcerazione e il ritorno nella società che la facciata comincia a spaccarsi e il sogno a infrangersi: scopre che la sua Grecia non ha più bisogno di eroi e si accontenta della nuova, falsa democrazia in comando e comincia a perdere fiducia nel popolo, cade nell’alcool, nell’infedeltà sistematica, cede alla rabbia. I Greci non lo vedono più come un eroe e lui non si sente un eroe. Finché, “misteriosamente”, la sua auto si schianta contro un muro a pochi giorni da un suo discorso in parlamento in cui avrebbe svelato alcuni documenti segreti. La Grecia si sveglia nuovamente e il suo funerale, il 5 maggio del 1976, è seguito da mezzo milione di persone che invadono Atene al grido “Alekos zi zi zi” (“Alekos vive vive vive”). Scrive Oriana Fallaci: «Ecco perché sorridevi tanto misteriosamente ora che calavi dentro la fossa dove il Gran Sacerdote […] ruzzolava grottesco […] calpestando la statua di marmo, credendo che soltanto quella restasse di un sogno, di un uomo».

Durante il lockdown causato dal Covid-19 ho assistito improvvisamente a un mondo che riversava ogni dove quella parola, eroe, a proposito degli operatori sanitari. In che cosa sono diversi da noi questi eroi? In che cosa vi assomigliamo? Tra le tante domande e risposte provvisorie, continuo a ricordare in quanti in quei giorni hanno detto “Non sono un eroe, faccio semplicemente il mio lavoro”; eppure li ignoriamo, continuiamo a considerarli eroe. Provo una certa desolazione nel constatare quanto ci venga spontaneo credere che l’abnegazione nei confronti degli altri, l’altruismo e il rispetto, possano appartenere soltanto a degli umani speciali, e non a tutti noi, chiunque di noi, noi umani.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1.“Andra moi ennepe, Mouse, polutropon” racconta Omero, in italiano: “Cantami, o Musa, dell’uomo multiforme”. Andra significa appunto “uomo” ed è la primissima parola di tutta l’Odissea.

[Photo credits Unsplash-com]

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Agire in modo ecologico: Jonas e la responsabilità

Il Climate Clock di New York riporta quanto tempo abbiamo per evitare l’innalzamento di CO2 e scongiurare una catastrofe climatica senza precedenti: ad oggi segna all’incirca sei anni1.Di fronte a questo pericolo che ci sovrasta, sembra mancarci un segnavia, una bussola morale che possa guidare le nostre azioni al fine di salvare il nostro pianeta, il nostro futuro, noi stessi. Esistono numerose associazioni che, tramite manifestazioni e proposte, cercano e di offrirci una via di fuga da questa situazione che sembra unidirezionale. Eppure, manca una presa di coscienza effettiva da parte della maggior parte della popolazione che permetta di concepire la gravità della questione e a che cosa si stai andando incontro.

Tra le file della filosofia, in nostro soccorso interviene Hans Jonas, il quale può davvero aiutarci in questo nostro intento. Infatti, nella sua celebre opera Il Principio Responsabilità, sottolinea che il vero problema è l’uomo stesso: il suo potere di agire è arrivato a sovrastare e a incidere sulla natura stessa, mettendo a repentaglio ogni esistenza prossima. Di fronte a tutto ciò si apre un vuoto etico incolmabile.

L’azione umana ha sempre preso parte entro un orizzonte limitato, in cui l’uomo non generava squilibri nel sistema della biosfera: la natura si prestava sempre come autonoma e superiore. Da questa posizione, risulta che le finalità umane non erano mirate a sfruttare la natura quanto piuttosto a garantire un innalzamento verso una condizione migliore individuale, proponendo etiche di carattere escatologico. Con l’avvento del positivismo e della rivoluzione industriale questa prospettiva cambia radicalmente: si fa spazio una idea di società che segue un progresso tecnico verso un benessere concreto, comportando uno sfruttamento del presente in vista del futuro. In questo nuovo modus operandi, l’uomo si considera in grado di dettare una direzione dinamica del tempo, a discapito di una staticità temporale entro cui operare per il proprio presente.

A una stretta visione di questi nuovi fatti, ci si accorge però subito di una problematica: ogni proiezione del futuro vive solo di immaginazione perché non riguarda un qualcosa di già noto e tutelabile, ma una novità mai testata. È questo il limite di ogni progresso: costruire una immagine generale senza entrare nei dettagli, ma sono proprio questi che sono rilevanti in una società operante. Subentra quindi un primo fattore da prendere in considerazione: l’ignoranza. Tra la conoscenza predittiva e gli effetti veri futuri esiste una discrasia incolmabile; ogni favorimento del futuro che comporta sacrifico del presente, può ritorcersi contro l’uomo nel suo sviluppo.

Da questa situazione di inconoscibilità, un aiuto viene offerto dalla paura. Questo sentimento, infatti, permette all’uomo di riconoscere i suoi limiti strettamente naturali: quello che egli è lo deve alla natura, compresi i suoi giudizi di valore, frutto di un bagaglio accumulato nel tempo. Ne risulta che l’uomo non ha capacità di onnipotenza, ma che anzi deve essere colui che garantisce quello stesso equilibrio naturale, che gli permette di essere ciò che è. Qualsiasi visione ideologica di supremazia deve essere frenata dando precedenza a una progettazione che consideri la posizione naturale dell’uomo come essere limitato. In questo senso il detto “il fine giustifica i mezzi” non è un motto degno di attenzione, perché quello stesso fine potrebbe turbare l’equilibrio.

Ciò che deriva da tutto ciò è un senso di responsabilità che l’uomo deve garantire verso il suo stesso futuro: ogni azione deve essere pesata con autocontrollo e critica, senza manie ideologiche non fondate. Questa stessa responsabilità non può fondarsi su una reciprocità, in quanto i venturi non hanno voce in capitolo nelle decisioni presenti ma ne subiranno le conseguenze. Il rapporto instaurato, infatti, non risulta essere di matrice empirica, ma di matrice ontologica: garantire un’idea di umanità adatta alla vita, con la possibilità di vivere in modo autentico e con dignità. Non si tratta di un obbligo esterno imposto, quanto piuttosto di un rispetto di ciò che siamo e di ciò che tutti devono godere, in quanto ognuno non è né più né meno di altri.

Jonas stesso offre un monito da usare come guida:

«agisci in modo che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra» (Hans Jonas, Il Principio Responsabilità, 1979).

 

 

Tommaso Donati

Nato a Busto Arsizio il 04/05/2002, decide di intraprendere gli studi in Filosofia presso l’Univerisità Degli Studi di Milano. Lettore vorace, considera la riflessione critica come uno strumento indispensabile per la quotidianità.

 

NOTE
1. Dato acquisito direttamente dal sito di riferimento.

 

[Photo credit Markus Spiske via Unsplash]

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Ecolinguistica e globalizzazione nella prospettiva di Arran Stibbe

L’ecolinguistica, un campo di studi sviluppatosi negli ultimi decenni, analizza le interazioni tra la lingua umana e l’ambiente. Il concetto basilare è che non solo l’ambiente influenza l’evoluzione del linguaggio, ma che anche il linguaggio influisce sul modo in cui noi umani percepiamo e interagiamo con l’ambiente. La disciplina è andata costituendosi duranti gli anni ’90 del secolo scorso ed è ancora in fase di definizione. Non c’è infatti ancora pieno consenso tra gli studiosi rispetto alle caratteristiche, alle metodologie, agli obiettivi principali e ai possibili contributi che essa può fornire alla sostenibilità ambientale.

Il Professor Arran Stibbe è una delle figure più eminenti all’interno dell’ecolinguistica. Nell’articolo Ecolinguistica e Globalizzazione (Ecolinguistics and Globalisation 20121, mia traduzione dei seguenti passi), egli analizza gli impatti della globalizzazione sulla lingua. È interessante notare come con “globalizzazione” Stibbe si riferisca a un fenomeno che ha caratterizzato non solo gli ultimi decenni ma l’intera evoluzione umana. Nel testo, infatti, egli indica tre “ondate” di «globalizzazione significativa dal punto di vista linguistico». La prima è costituita dalle migrazioni delle popolazioni orali dalla loro originale “bioregione” a nuovi territori. Con il termine “bioregione” si intende «una regione che ha un particolare tipo di ambiente e caratteristiche naturali» (Cambridge Dictionary). Quando una popolazione si insedia in una bioregione, afferma Stibbe, essa sviluppa degli specifici strumenti linguistici che le permettono di adattarsi a quel particolare ambiente. È proprio per questo, sostiene l’autore, che la specie umana è stata in grado di spargersi così velocemente sulla superficie della Terra. Non solo: questa caratteristica spiega anche il degrado ambientale causato dalle popolazioni che migrarono repentinamente da una bioregione a un’altra senza così avere il tempo di adattare la propria lingua ai nuovi spazi.

La seconda “ondata” di globalizzazione, da un punto di vista ecolinguistico, è identificata da Stibbe nell’invenzione della scrittura. Questo cambiamento epocale da cultura orale a scritta ebbe due principali conseguenze: in primo luogo, fissò le narrazioni orali in strutture rigide, meno duttili alla mutevolezza degli ambienti; in secondo luogo, permise alle lingue delle popolazioni dominanti di diffondersi nel mondo e prendere il posto di infinte lingue locali. A detta di Stibbe, quando società dominanti conquistano o invadono culture non belligeranti, «le lingue che codificano le relazioni con l’ambiente si estinguono, e culture che avevano vissuto sostenibilmente nello stesso luogo per centinaia di anni vengono perdute». Da questa consapevolezza si è sviluppata tra gli ecolinguisti l’urgenza di occuparsi maggiormente della diversità linguistica e, conseguentemente, della biodiversità culturale.

Giungiamo dunque alla terza “ondata”, quella che poi ci riguarda più da vicino dal momento che prende in considerazione l’attuale globalizzazione, quella di cui sentiamo parlare tutti i giorni. Secondo Stibbe, nei tempi più recenti, abbiamo assistito alla «diffusione translinguistica di larga scala di particolari discorsi» come quello del progresso, del neoliberalismo, della crescita economica e del consumismo. Ciò ha avuto due conseguenze principali: da una parte, le narrazioni egemoniche hanno preso il posto di quelle locali nei media e nei sistemi educativi, minando quella preziosa interconnessione tra la diversità geografica e culturale; dall’altra, come nel caso dell’imperativo della crescita infinita, l’essenza dominante delle narrazioni egemoniche «contribuisce direttamente al comportamento ecologicamente distruttivo». In particolare, Stibbe identifica alcuni dispositivi linguistici che hanno un impatto negativo sul nostro rapporto con l’ambiente. Quello della “cancellazione”, per esempio, è il modo in cui vengono rimossi dal piano del discorso aspetti dell’esistenza che in realtà sono fondamentali. Stibbe sostiene che è l’intero mondo naturale ad essere stato rimosso dalla nostra quotidianità, o, quando non del tutto rimosso, a essere stato distorto. Basti pensare, per esempio, alle confezioni che si trovano al supermercato in cui sono rappresentati maiali, galli o mucche che pubblicizzano prodotti con la loro stessa carne.

Da questo breve assaggio dei temi e dei metodi dell’ecolinguistica emerge in modo chiaro che un approccio meramente tecnologico alla crisi ecologica non è sufficiente: la lingua plasma il nostro modo di interagire con il mondo, le nostre stesse azioni, e perciò non possiamo esimerci dall’analizzarla e metterla in discussione. Un buon esercizio può essere, per esempio, quello di osservare criticamente pubblicità, ma anche film, videoclip, riviste e addirittura libri per bambini (tendiamo infatti a sottovalutare il loro potere!) e cercare di comprendere quali sono i pilastri culturali su cui si sviluppano i loro linguaggi. Cogliere creativamente questa sfida all’interno della nostra società, e al contempo farsi ispirare da quelle culture le cui lingue sono riuscite ad adattarsi ecologicamente, è un buon primo passo per affrontare i complessi problemi che viviamo oggigiorno.

 

Petra Codato

NOTE
1.
 https://eprints.glos.ac.uk/1913/1/Ecolinguistics%20and%20Globalisation.pdf .

 

[Photo credit Esther Tuttle via Unsplash]

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