Risposte globali per problemi globali

Il mondo contemporaneo si trova sul limitare di un crepaccio. Sotto di lui, come un torrente impetuoso all’interno di un canyon, scorrono i problemi e le sfide della nostra epoca; con un’azione di erosione, lenta ma continua, essi minano la stabilità della nostra posizione, facendoci rischiare la caduta nello strapiombo. Fuor di metafora, le Nazioni, la società e tutti noi – singoli individui – siamo di fronte a un bivio: trovare soluzioni per affrontare, o arginare, i problemi e le sfide del mondo contemporaneo o arrenderci e consegnarci nelle mani dell’inevitabile.
Per alcuni il punto di non ritorno è stato già superato: la crisi climatica avrebbe raggiunto una radicalità tale che le azioni che possiamo operare non possono fare nulla per evitare il declino dell’umanità. Per altri la situazione è drammatica ma, impegnandoci con decisione, potremmo essere in grado di limitare il problema nel presente e trovare soluzioni per risolverlo nel futuro. Per altri ancora, infine, un insanabile ottimismo li convince che l’apparato tecnico/tecnologico sia sicuramente in grado di affrontare la sfida, come in parte ha già mostrato di saper fare nel corso della storia umana.

Ma non esiste solamente la crisi climatica. L’uomo contemporaneo è accerchiato da una quantità tale di difficoltà, preoccupazioni e questioni da ritrovarsi la maggior parte delle volte disarmato e indifeso. Terrorismo, crisi migratoria, guerre economiche, assetti geopolitici instabili, scarsità di risorse, impoverimento culturale e crisi demografica sono solo la superficie di questa condizione terrificante.

Innanzitutto non bisogna lasciarsi sopraffare, analizzando con spirito critico ciò che ci si pone davanti. La prima riflessione che potrebbe emergere sarebbe quella di riconoscere la sostanziale interdipendenza che caratterizza questi problemi. Ciò è conseguenza necessaria della caratteristica sempre più complessa del mondo contemporaneo. “Complesso” non significa “complicato” ma intrecciato profondamente in un insieme di nodi, a formare una struttura resistente e compatta. Ciò significa che la prima azione da compiere è quella di riconoscere questa complessità, accettarla e capire che per affrontarla è necessario tenere conto delle infinite interconnessioni che formano – e non esauriscono – questo insieme.

Proprio questa caratteristica di complessità trascina la nostra seconda riflessione: questi problemi formano una matassa globale che nei suoi intrecci impatta sulla vita di tutti, nessuno escluso. Questa è anche una conseguenza necessaria della globalizzazione che ha contraddistinto lo sviluppo della società umana negli ultimi tempi e, riconosciuto questo fatto, dovrebbe allora risultare immediatamente chiaro che le azioni intraprese per affrontare queste questioni non possono che essere conseguenza di una risposta globale. Con buona pace dei sovranismi – la cui caratteristica intrinseca antistorica dovrebbe essere immediatamente visibile dopo la nostra, seppur breve, descrizione – risulta chiaro che risposte messe in campo a livello regionale, nazionale e “continentale” non possono più essere sufficienti per affrontare i problemi della contemporaneità e, anzi, si costituiscono esse stesse come nuovi problemi in quanto ostacolano una (se possibile) soluzione.

Ma come ottenere una risposta globale? Tentativi sono stati fatti – pensiamo alla COP21 a Parigi del 2015 e alle successive, come la COP27 che si sta svolgendo in questi giorni in Egitto – ma è evidente a tutti che finché gli accordi saranno siglati seguendo le disponibilità dei singoli Stati e con condizionalità ben difficili da far rispettare (basti vedere il ritiro degli Usa, sotto l’amministrazione Trump, dagli accordi di Parigi o, più recentemente, le posizioni di India e Cina) questi tentativi non faranno altro che rimanere tali. Il problema sostanziale è che non esiste una reale autorità che determini e regoli il gioco delle parti. Ogni singola Nazione (giustamente) tiene da conto i propri interessi individuali ma ciò la porta a mettere sul “piatto dei doveri” le minori risorse e il minor impegno possibili e a dedicarsi alla minor intraprendenza possibile. E può fare questo proprio perché non esiste un garante globale che obblighi ad un serio impegno i singoli Stati, avendo l’autorità di imporre reali sanzioni per il non rispetto degli impegni. In sostanza, un’unione globale di stati, che si articoli nei tre poteri fondamentali – legislativo, amministrativo e giudiziario – con tutte le controversie e proporzionalità del caso. Tentativi verso un’unione delle nazioni sono già stati intrapresi dopo la prima e dopo la seconda guerra mondiale, rispettivamente la SDN (Società Delle Nazioni) e l’ONU. La prima è già stata sciolta, mentre i problemi del mondo contemporaneo stanno sancendo il definitivo fallimento della seconda: il peso degli ammonimenti, delle (relativamente poche) azioni e delle indicazioni delle Nazioni Unite sono il più delle volte insignificanti su larga scala. Gli interessi particolari dei singoli Stati costituiscono una forza motrice troppo forte per essere minata da un organismo la cui autorità non è possibile da far rispettare, proprio perché non dispone né di sufficienti apparati volti allo scopo né di un reale principio valido per imporre quell’autorità.

La questione è ovviamente enormemente complessa ma risulta fondamentale iniziare a riflettere sulle sfide della nostra epoca a partire da un dato di partenza incontrovertibile: esse necessitano di risposte globali, essendo i problemi stessi globali.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit NASA via Unsplash]

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Il gioco del silenzio

Parole, risate, pianti, suoni, rumori.

Siamo travolti ogni giorno dalla confusione della vita.

Con questo promemoria filosofico vorrei dare un giusto spazio a qualcosa di cui ci dimentichiamo spesso e a cui non facciamo caso: il silenzio.

Prova a chiudere gli occhi, tutto ancora non è scomparso vero? Senti ancora voci attorno a te. Allora spegni i pensieri e segui uno dopo l’altro i battiti del tuo cuore. Tum, tum, tum. Non c’è ancora silenzio.

Fermati dunque, riapri gli occhi e osserva un piccolo anche insignificante dettaglio che ti circonda, ad esempio come risplende la luce su una superficie liscia e trasparente o come è poroso il cemento sotto ai piedi. Senza utilizzare l’udito, ci sei quasi.

Concentrati ora a rimanere immobile ad ascoltare soltanto quello che ti sta intorno. Il silenzio lo puoi trovare solo dentro di te, quando ti fermi ad osservare il mondo, fuori.

I silenzi sono molti e di diverso tipo; possono essere fatti di parole trattenute, di pace o di stupore. C’è un silenzio di gioia di fronte alla meraviglia e un silenzio di dolore durante un lutto. Il silenzio dell’attesa è quando sei in tensione verso un suono che verrà, di cui non conosci ancora la natura, ma che speri sia familiare, che sia piacevole. Non c’è mai un silenzio vuoto, solo e sterile. Il silenzio, per essere tale, è sempre preceduto ed è conseguenza di una frequenza in movimento.

Tutti questi silenzi ad ogni modo te li porti dentro, tra un pensiero e l’altro, tra un respiro e l’altro.

C’è chi dice che a volte il silenzio è meglio di mille parole e a parer mio è vero: è la miglior risposta che si possa dare in certe circostanze. 

«Quanto può dirsi, si può dir chiaro; e su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere» a detta del logico e filosofo del linguaggio Ludwig Wittgenstein. Il silenzio diventa anche la sezione che limita il non conosciuto, ciò che si ignora.

È una forma di rispetto ambivalente nella comunicazione, a volte lo è per sé, per non dire parole improprie e ascoltare, altre volte lo è anche per gli altri, per lasciare libera espressione alle opinioni altrui che permettono di rivelare chi si ha davanti per quello che è. Il silenzio spesso è anche un modo per prendere del tempo e comprendersi, per capire gli sbagli, per trovare un punto in comune, per semplicemente ritrovarsi.

Il silenzio ti permette di conoscerti per quello che sei alla fine, è un sincero amico della tua coscienza che ti mette alle strette, con il quale convivi facilmente solo se non hai mostri nell’armadio.

Il silenzio ti rende solo ciò che sei, nulla di più, nulla di meno. Ti rende vulnerabile alle paure e ti lascia in balìa dei tuoi demoni, ma non lasciarti ingannare: ti tempra e ti prepara alla confusione che puoi trovare fuori da te stesso. Nel silenzio puoi trovare pace e serenità, puoi trovare te stesso e forse anche le risposte di cui hai bisogno.

Basta ascoltarlo, basta dargli il giusto tempo, basta dargli il giusto spazio e il giusto valore.

E tu sei capace di ascoltare il tuo silenzio?

Al prossimo promemoria filosofico

A presto

 

Azzurra Gianotto

 

NOTE
1. L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino, 1964.

[Credit Jessica F]

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La seduzione della contraddizione

Se, come ho scritto tempo fa in Il peggior vizio filosofico qui su La chiave di Sophia, un pessimo vizio per qualsiasi pensiero filosofico è la perdita di quello sguardo curioso e innocente nei confronti del mondo, un vizio forse altrettanto grave è il sommario giudizio semplicistico che si trae di fronte a situazioni complesse solo per averne un subdolo tornaconto. Mi spiego meglio.

A chi avrà frequentato qualche facoltà di filosofia, o partecipato a qualche conferenza o letto qualche libro magari non proprio ben pensato, sarà parsa l’idea che in fondo anche per i filosofi il mondo è troppo difficile da interpretare, soluzioni definitive non ce ne sono, la cosiddetta ricerca è sempre aperta, la verità non la conosce nessuno, ecc. Ordinaria amministrazione di scenari post-moderni.

E anche se scavando un po’ in profondità e ripercorrendo le strade che poi vengono malamente riassunte in quelle massime spicciole, un certo senso quelle frasi possono anche averlo, è vero che le apparenti conclusioni scomode per i filosofi, cioè quelle aperte e sconclusionate, si rivelano in realtà a vantaggio loro e del loro ego. Ma come?

Si pensa sempre che i cosiddetti filosofi vogliano far pensare le persone per poterle portare a conclusioni o a prospettive nuove rispetto al modo di ragionare e di vivere comune. Certamente questo compete i migliori filosofi e non chiunque sia bravo a parlare. Il punto però è che spesso anche notevoli menti cascano in uno stanco discorsetto come quelli citati sopra ma solo perché, alla fin fine, nella confusione mentale generata saranno sempre loro ad essere cercati e presi a riferimento: prima ti confondo le idee, così poi verrai da me per cercare ordine.

L’intero non-sapere post-moderno funziona in modo simile: non potendoci essere un sapere stabile, un riferimento certo, sembra di aver raggiunto il punto vero di tutto il percorso culturale dall’antichità a oggi. E quindi di aver fatto un passo verso la verità, verso la sincerità della conoscenza, contro a dogmi, campanilismi, saperi obsoleti.

Al contrario però, chi si muove in quella direzione troppo facilmente non sta facendo altro che riporre tutto ciò che vorrebbe oltrepassare (verità, sapere, riferimenti) dentro se stesso anziché nel mondo. Affermare orgogliosamente che la realtà, ad esempio, è contraddittoria perché non può darsi alcuna verità assoluta che la ordini e che dunque ogni prospettiva intrapresa è ugualmente legittima, comporta inevitabilmente un giudizio di verità su quello che sto dicendo. E quindi sulla mia persona.

Nel momento in cui ogni riferimento si perde e la lancetta della bussola del mondo gira a vuoto, sarò sempre io – che ho contribuito a creare questa situazione – ad essere ricercato e interrogato, proprio grazie a quel grado di verità che comunque ho trasmesso in precedenza e che ho attribuito a me stesso. In questo modo, si compie perfettamente la congiunzione tra relativismo (solo le prospettive individuali e parziali hanno valore reale) e individualismo (dunque, io valgo perché a valere è la mia opinione). Non sapendo interpretare ciò che ho fuori, riempio me stesso: così pensa l’accentratore di pensiero di oggi, che però dimostra di avere alle spalle un deserto conoscitivo notevole.

Lo sforzo del pensiero deve sempre essere quello di giungere alla massima conclusione possibile, alla spiegazione profonda di ogni parte che sentiamo riguardi ciò di cui ci occupiamo, di superare le contraddizioni apparentemente invalicabili a costo di dover poi tacere, di non aver quasi più da pensare: un peso che smettesse di cadere all’infinito smetterebbe di essere un peso, diceva Michelstaedter, smetterebbe di essere se stesso. E così, giungere a un punto fermo del pensiero, non cedere alle seduzioni facili che ci lasciano sempre galleggiare in opinioni comode per la nostra sopravvivenza, deve poter far riflettere anche alla possibilità di non pensare più, di uscire temporaneamente dal proprio essere. Bisogna imparare a «parlar grande o tacere» diceva Nietzsche. Bisogna imparare a star dritti sulla schiena del rigore, anziché cedere (troppo) alle seduzioni facili.

 

Luca Mauceri

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Master of None: il viaggio come scoperta di sé

Creata da Aziz Ansari e Alan Yang, Master of None è una serie televisiva firmata Netflix che racconta la storia di Dev, ragazzo indiano sulla trentina che fa l’attore, e della sua vita a New York. La serie non è il solito spaccato sulla società contemporanea, piuttosto mostra a tutti gli effetti uno dei mali atavici della nostra generazione: capaci di tutto, maestri di niente.
Dev è un Master of None, ma cerca di uscire dalla terra di mezzo in cui la sua condizione lo costringe. Alla fine della prima stagione decide di partire per dimenticare la sua ultima relazione fallimentare: prende il primo volo e va in Italia per apprendere i segreti della pasta.

«Quando Zarathustra ebbe trent’anni, lasciò il suo paese e il lago del suo paese e andò sui monti»1.

Spinto dalla forte esigenza di ricongiungersi con la propria soggettività, salpa. Si sposta dal luogo di origine scegliendo di portar con sé solo la sua più grande passione, si spoglia di tutto per assorbire il più possibile dalla nuova terra.
Diventa apprendista in un pastificio tradizionale, in cui riscopre l’autenticità della produzione manuale.

«C’è ancora un altro mondo da scoprire – e più d’uno! Alle navi, filosofi!»2.

Dev ha voglia di scoprire, imparare, e di domande ne ha. Anche troppe. Il problema è che non trova risposte, o non vuole ascoltarle. Come dice il claim della serie: “Lui è Dev: un uomo con tante domande e nessuna risposta”. Questo, però, non lo ferma. Anzi, è il motore del personaggio.

Nel primo episodio della seconda stagione gli rubano il cellulare. Lui va in giro per la città alla ricerca del colpevole. Il suo vagare, tra stereotipi e citazioni del cinema italiano in bianco e nero, si interrompe solo davanti alla realtà: scopre l’autore del furto, ma gli è impossibile ottenere giustizia. Dev ha compiuto un viaggio nel viaggio per tutta Modena e la sua ricerca non è stata vana: l’ha portato alla consapevolezza di sé e della sua solitudine.

Ma questo è solo l’inizio del viaggio di Dev.

Quando il suo migliore amico Arnold viene a trovarlo in Italia, parte di nuovo, con lui. Dev affronta un nuovo viaggio con il ruolo di “voce della coscienza” cercando di far entrare Arnold in contatto con il suo sé attraverso le nuove consapevolezze acquisite, mentre l’amico compie a sua volta un viaggio nei ricordi che lo mette a confronto con il suo Io passato.
La memoria lo trae in inganno e le sue illusioni amorose cedono.

Il viaggio, per Arnold, è una breve esperienza che lo riporta a New York e alla sua vita da single.
Anche Dev ripartirà presto, ma l’insaziabile viaggiatore non smette di scoprire: del viaggio fa parte anche il ritorno. Anzi, è il momento in cui lo spostamento trova un senso. Il suo rientro a New York è una scoperta nella scoperta, perché è tornato a casa arricchito dalle diversità con cui si è confrontato e che hanno dato un significato alla sua fuga dalla grande mela. Il viaggio in Italia gli ha dato nuovi occhi e questo gli permette di rivedere le precedenti abitudini newyorkesi e quelle acquisite in Italia in modo diverso. Ne rimane insoddisfatto.

«Ci vuole più coraggio e forza di carattere per fermarsi o addirittura per volgersi indietro che per andare avanti»3.

Il nostro umano, troppo umano vive un altro viaggio alla scoperta di se stesso nella sua città natale. L’Italia lo raggiunge anche oltre oceano, con l’arrivo di Francesca, la nipote della proprietaria del pastificio in cui ha lavorato.

Francesca nel “nuovo mondo” è finalmente libera dalle responsabilità che le pesavano nel suo paese, libera di capire cosa davvero vuole, libera, finalmente, di ricongiungersi con il proprio sé. Con Dev supera i confini che si era imposta. Insieme, vivono l’ebbrezza del perdersi e lo stupore di ritrovare con l’altro loro stessi.
Un nuovo viaggio, uno sguardo a New York dall’alto di un elicottero mette chiarezza nei loro sentimenti e trasforma la città nota in una nuova meta da esplorare.

«Conosci te stesso è tutta la scienza. Solo alla fine della conoscenza di tutte le cose, l’uomo avrà conosciuto se stesso. Le cose infatti sono soltanto i limiti dell’uomo»4.

Se Arnold decide di tornare indietro e di sopire il suo desiderio di ricongiungersi con la donna che ha amato per una vita, rimanendo intrappolato nella realtà e nella negazione del ricordo, Francesca scopre a New York che ha rinunciato a se stessa per gli altri. Sarà capace di compiere il suo primo atto egoistico, scegliersi e reincontrare la propria soggettività?

E Dev sarà capace di costruire una vera relazione con Francesca, prendere delle decisioni e mettere in atto ciò che ha imparato dai numerosi viaggi fuori e dentro di sé, superando così la sua condizione di inettitudine, se pur con slancio superomistico?

«Per essere felici, quanto poco basta per essere felici!»5.

Probabilmente, progettare un nuovo viaggio.

 

Martina Crapanzano

Martina ama camminare, ma non ha una meta. Piano piano dalla Sicilia, terra in cui è nata, ha raggiunto Roma. Ha vissuto tre anni della sua vita tra metropolitana e università, ma ha ricominciato a camminare per dirigersi a Torino. Lì, tra una storia e un sorso di tè, ha viaggiato sull’autobus, perdendosi nei suoi sogni. Così è partita ancora: è andata a Treviso, dove nel weekend compie interminabili camminate lungo il Sile. Non sa ancora se si fermerà qui, ma adesso sa che può lasciar tutto e partire ancora. Camminando.
Scrive per Nuok da dicembre 2015, potendo unire le sue più grandi passioni: la scrittura e il viaggio.

 

NOTE:
1 F.W.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Incipit;
2 F.W.Nietzsche, La Gaia scienza, aforisma 289;
3 F.W.Nietzsche, La volontà di Potenza, aforisma 80a;
4 F.W.Nietzsche, Aurora, aforisma 48.
5 F.W.Nietzsche, Così parlò Zarathustra, Mezzogiorno.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Prendi una mamma e aggiungi un po’ di filosofia. Intervista a Vittoria Baruffaldi

Donna, filosofa, madre, insegnante. Quattro identificazioni che offrono le linee guida per iniziare a conoscere Vittoria Baruffaldi. Nella vita, Vittoria insegna filosofia e storia ai ragazzi del liceo e suggerisce a se stessa di fare la mamma con filosofia. Queste ultime le parole che fanno da sottotitolo al suo libro, Esercizi di meraviglia 1, un testo che dimostra il profondo legame che esiste tra quotidianità e filosofia (punto di partenza e al contempo obiettivo del nostro stesso progetto editoriale). La realtà che trapela dalle pagine del libro della Baruffaldi è la realtà quotidiana di una mamma come tutte le altre. Solo, con un pizzico di filosofia in più, la quale fa da insaporitore alle piccole-grandi osservazioni e riflessioni di ogni giorno. In questo modo, nelle pagine scritte dalla Baruffaldi, Socrate insegna alle lettrici a non usare troppo dogmatismo nei confronti dei figli; la lezione del Tractatus Logico-Philosophicus di Wittgenstein offre spunti interessanti per un approccio con le prime paroline proferite dai nostri bambini; le massime eleatiche 2 fungono da interpretazione dell’egocentrismo che i bambini sviluppano attorno ai due anni; e via così dicendo. Se questi accostamenti vi incuriosiscono, vi suggeriamo la lettura del testo, e nel frattempo vi offriamo questa breve intervista all’autrice. Buona lettura!

 

Parliamo del suo libro, Esercizi di meraviglia. In questo testo lei propone una riflessione eminentemente filosofica riguardo i vari momenti che caratterizzano la vita di una donna che sta per diventare, o è diventata, madre: dall’attesa e dalle speranze tipiche della gravidanza alle gioie e alle preoccupazioni proprie dell’infanzia dei figli. Com’è nata, dunque, l’idea di accostare alcune pagine di storia della filosofia alla sua quotidianità di donna e di mamma?

esercizi-di-meraviglia-vittoria-baruffaldi-la-chiave-di-sophiaEsercizi di meraviglia è la storia di una madre e un bambino che si fanno delle domande, e provano a illuminare il senso del loro rapporto, e delle cose che accadono intorno a loro. Il bambino si meraviglia di fronte al mondo, e la madre prova a re-imparare a meravigliarsi insieme a lui, e così dà un nome nuovo alle cose, persino a se stessa. Il tratto d’unione tra la filosofia e l’essere madre è proprio la meraviglia, quel primo passo, verso le domande, i capovolgimenti, le possibilità.

La nostra società è fortemente intrisa, forse più che in passato, di stereotipi e pregiudizi, non sempre valicabili. A questo proposito vorrei chiederle: che significato ha per lei il concetto di maternità? Crede si possa andare oltre alla costruzione prettamente culturale di questo concetto?

Quello che mi interessava era proprio parlare della maternità dal punto di vista del “pensiero”. La filosofia non è un farmaco: fornisce chiavi di lettura, pone domande, sconvolge credenze cristallizzate. È una possibilità per trovare noi stessi, insomma, e abbandonare stereotipi e modelli imposti (che sulle mamme abbondano da ogni fonte). È una possibilità per essere la madre che si è, una madre complessa, fluida, in fieri.

Potremmo dire che il suo percorso di studio e di vita (da studentessa ad insegnante di filosofia) ha condizionato il suo essere madre e la sua personale riflessione riguardo questo suo nuovo “ruolo sociale”. Capovolgendo la prospettiva, ritiene che la maternità abbia altrettanto condizionato il suo modo di guardare la filosofia?

Fare la mamma con filosofia è l’opposto di fare la mamma che “la prende con filosofia”. La prima è colei che si complica la vita, a suon di domande, dubbi e capovolgimenti. Vantaggi? Imparare a sbagliare, capire; diventare la madre che si sceglie di essere. La maternità non ha cambiato il mio modo di guardare la filosofia, forse solo un maggiore interesse per il pensiero femminile, per una filosofia ben piantata dentro l’esistenza. Prediligo le strutture frammentarie, le “piccole illuminazioni”.

Solitamente questa è l’ultima domanda che rivolgiamo ai nostri interlocutori, ma con lei mi permetto di anticiparla. Che cos’è “filosofia”, che cosa ha rappresentato e cosa significa per lei ora?

Una grande passione, sin dai tempi del liceo. Un modo d’illuminare l’esistenza quotidiana, senza alcuna pretesa di riduzione a una qualche verità. Avere il coraggio di pensare – dare voce agli interrogativi che tutti ci poniamo prima o poi –, stare presso di sé e uscire fuori da sé.

Veniamo ora al suo lavoro: lei è professoressa di filosofia e storia al liceo. L’insegnamento è per lei una passione o in passato si prospettava una diversa posizione professionale?

È il mestiere che volevo fare e che mi piace fare: dopo dodici anni entro ancora in classe sorridendo. Le materie che insegno esercitano un grande fascino sugli studenti.

A proposito degli studenti, lei lavora con gli adolescenti, ragazzi al contempo fragili e determinati. Tornando con la mente a quando io stessa ero studentessa della scuola superiore, mi rendo conto che instaurare un dialogo proficuo con i ragazzi di questa fascia d’età non sia affatto semplice. Considerando il fatto che l’insegnante in questione è chiamato a parlare di storia e filosofia, materie che al giorno d’oggi sembrano collocarsi agli antipodi degli interessi dei giovani, la questione si complica. Che osservazioni ci propone a questo proposito?

Io ho una visione molto positiva dei ragazzi d’oggi: li trovo curiosi, intuitivi. Personalmente li vedo coinvolti dalle mie materie, soprattutto dalla filosofia, che dà loro gli strumenti per comprendere l’architettura, la complessità – anche di informazioni – in cui vivono. Per essere buoni insegnanti bisogna aggiornarsi, usare le tecnologie didattiche in maniera sensata, saper facilitare i processi d’apprendimento in maniera attiva. È necessario essere flessibili e creativi anche nell’insegnamento, essere in grado di adattare quest’ultimo a seconda degli studenti (si creano alchimie differenti di classe in classe, da alunno a alunno) e agganciare ciò che si spiega con la loro contemporaneità. Bene, oggi ti spiego la Fenomenologia dello spirito di Hegel, ma ti spiego anche perché è importante, a cosa ti può servire, come si lega col tuo vissuto. Oppure parto da cose relative al senso comune per mostrar loro come si possa fare filosofia anche attraverso la vita.

Facciamo infine un passo indietro al periodo dell’infanzia. Sulla spinta delle influenze provenienti per lo più da altri paesi europei, anche l’Italia, negli ultimi anni, ha iniziato ad abbracciare la causa della filosofia applicata ad attività e laboratori rivolti ai bambini. Alla luce della sua esperienza di “mamma-filosofa”, cosa pensa del binomio filosofia-infanzia? Nel suo piccolo ha provato a giocare con la filosofia assieme alla sua bambina?

Ho avuto dei contatti con ragazzi e ragazze che si occupano di P4C: mi piace l’idea della filosofia come scoperta formativa, e spero che mia figlia possa partecipare a uno di questi laboratori. Per ora mia figlia va all’asilo, impara con naturalezza e gioca. Quando la vado a prendere le chiedo: ti sei divertita? “Sì”, mi risponde, e questo mi basta. A casa mi vede spesso leggere e scrivere, e quindi gioca a leggere e scrivere. Le racconto miti platonici rivisitati e storielle ambientate ai tempi di Napoleone. Le do quello che conosco. “Ti diverti?” le chiedo, e mi risponde: “Sì”. Per ora mi basta questo.

 

Federica Bonisiol

 

NOTE:
1. Vittoria Baruffaldi, Esercizi di meraviglia. Fare la mamma con filosofia, Giulio Einaudi Editore, Torino 2016
2. L’essere è e non può non essere. Il non essere non è e non può essere. (Parmenide, Poema Sulla natura)

 

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La fine di un amore non cambia mica l’universo (credo)

È dura riconoscere la fine di un amore! (Mi fa quasi ridere scriverlo a due giorni di distanza da San Valentino, ricorrenza a cui molti tengono e che molti festeggiano, eppure… questo l’allegro argomento del giorno). Ricominciamo dai…

È dura riconoscere la fine di un amore, specie se si tratta di un amore durato un periodo di tempo sufficientemente lungo per riconoscergli senza troppa presunzione la qualità di amore “vero”. Non che la durata di un rapporto determini inevitabilmente la sua importanza; ma all’infuori della convivenza o del matrimonio, quello temporale è sicuramente un fattore che contribuisce a definire la profondità di una relazione. Il tempo da dedicarsi, il tempo da trascorrere insieme è forse il regalo più bello che due innamorati possano farsi. Si suppone infatti che il tempo sia la vera chiave per scoprire al meglio la persona che si ha di fronte, per conoscerne con meno approssimazioni possibili le caratteristiche, per amarne i pregi e per accettarne i difetti. La durata di un rapporto a volte sembra determinarne la saldezza, sembra renderlo immune a qualsiasi tipo di intemperie.

Eppure, la durata di un rapporto, sa essere anche una vera scocciatura, una nebulosa indefinita che non ci permette di distinguere raggio d’azione e confini della relazione. La durata di un rapporto d’amore è infatti direttamente proporzionale alla difficoltà di stabilirne la fine! Il tempo trascorso insieme, carico di bei momenti ma anche di difficoltà superate, ci fa credere invincibili. Il tempo vissuto à deux ci sembra il più convincente fattore legittimante per sopportare gli screzi del presente e per trovare la forza e la voglia di andare avanti. Come se di bei momenti da vivere insieme ce ne potessero essere ancora tanti; come se le difficoltà superate ci permettessero di affrontare e scavalcare anche quelle attuali o addirittura quelle che si potrebbero presentare nel futuro.

Quando il tempo trascorso insieme lo si è guardato con sempre rinnovata incredulità, come fosse qualcosa di veramente incredibile nella sua bellezza, come si può capire se è davvero giunto il momento di dichiararsi tregua reciproca? Quando si ha sempre guardato con soddisfazione e orgoglio a quanto si è saputo costruire, come poter riconoscere la necessità di pronunciare la parola “fine”?

L’amore e l’odio sono le due forze che muovono il mondo e assieme a lui anche noi poveri umani. Che ci affanniamo tanto con domande e preoccupazioni di ogni genere, come se il mondo lo dovessimo portare sulle nostre spalle, come se la fine di una relazione potesse cambiare completamente le carte della nostra partita. Ma infondo noi umani non siamo altro che pedine microscopiche di un gioco di cui non conosciamo le regole, e forse nemmeno il nome. Ma di cui sappiamo invece l’obiettivo finale. Certo, perché la conoscenza delle tattiche per vincere ci appartiene senza volerlo. Lo scopo del gioco è quello di essere felici, di conoscere il bene, quello vero. Sì, proprio quello che i vari filosofi che abbiamo letto e studiato si sforzavano di individuare e definire.

Allora personalmente dico: pazienza se non sappiamo definirlo, pazienza se non sappiamo descriverlo a parole. Il bene lo sentiamo, lo riconosciamo senza volerlo; impossibile girarci attorno, impossibile confonderlo. Ed è quindi domandandoci se rispecchia o meno l’idea del bene, del bene-per-noi-stessi e del bene-per-l’altro, che possiamo capire se il nostro rapporto d’amore è giunto o no alla sua fine. Siamo ancora capaci di donare e di ricevere il bene? Riusciamo ancora a farci del bene malgrado il tempo che è passato, i cambiamenti che abbiamo subito, le nuove scelte che abbiamo intrapreso?

La risposta DOVREBBE essere semplice…

Mal che vada, vi ricordo che i testi di Schopenhauer sono sempre in commercio! (Ma cercatelo da soli, perché io oggi mi rifiuto proprio di citarlo).

Federica Bonisiol

[Immagine tratta da Google immagini]

“E quindi uscimmo a riveder le stelle”

Oh rete d’astri, quanta meraviglia,
contro cui il guardo uccellino s’impiglia,
mi sono fatto ardito matematico
(e astrologo e filosofo astigmatico)
pur di cader nel fosso tenebroso

Pier Franco Uliana
Siderea arx mundi, De Bastiani, 2009.

Non so se sia stata la somma di una serie di casualità o una prolifica congiunzione degli astri che mi ha portata ultimamente a riflettere sul cosmo. C’è da dire anche che i fisici di questi tempi vanno di moda ed emerge un rinnovato interesse verso la ricerca e la scienza, la quale a sua volta si dimostra sempre più generosa nell’offrirci risposte o almeno nell’indirizzare le domande giuste.
Dopo la stimolante lettura delle Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) di Carlo Rovelli – un prezioso libricino in grado di affascinare astrofili e non – e con la scusa di mettere alla prova tecnicamente la mia nuova macchina fotografica, mi ero decisa a fotografare le stelle, integrando il mio consueto peregrinaggio estivo con mete segnalate, dagli enti promotori del cosiddetto “turismo astronomico”, come buoni punti di osservazione.

Guardare il cielo stellato per distrarsi dalle brutture del mondo o per perdersi nella meraviglia dell’infinito è una possibile chiave di lettura, ma la sete di sapere è la più grande virtù dell’uomo e le stelle rappresentano le muse – in apparenza immobili e silenziose – che accompagnano colui che è desideroso di conoscere.
Esplorando gli astri l’umanità ha iniziato a smarrirsi rendendosi consapevole della sua piccolezza. Il dominio della tecnologia è solo l’illusione di avere ancora una posizione centrale nell’universo, ma d’altra parte i progressi della scienza non fanno che rimarcare la nostra imperfezione e impotenza.
Cercando di superare questa sua condizione fragile e mortale, l’uomo ha dato origine alla filosofia, alla religione e all’arte.
Ma forse è proprio questa imperfezione che ci fa sentire più vicini al cosmo e tutt’uno con l’universo, concetto che il fisico Guido Tonelli – protagonista insieme a Fabiola Gianotti della scoperta del bosone di Higgs – spiega nel suo illuminante libro La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, 2016): ­«la forma delle cose nasce dall’imperfezione che ha rotto la simmetria delle origini». Da questo minuscolo difetto abbiamo avuto inizio anche noi.

Se però analizziamo da un punto di vista etimologico la parola cosmo, vediamo come non ci sia nessun riferimento all’imperfezione, anzi, essa deriva dal greco κόσμος (kósmos) che significa “ordine”; la filosofia stessa è nata con la cosmologia (kósmos e lógos, quindi discorso sull’ordine) nel tentativo di decifrare l’armonia del reale.
C’è voluto parecchio tempo perché il pensiero umano imparasse ad apprezzare anche la disarmonia e l’errore e l’arte ben esemplifica questo percorso. Pensiamo alla bellissima volta celeste di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, il cielo stellato che il pittore rappresenta agli inizi del XIV secolo è una metafora dell’ordine dell’universo, un universo meraviglioso e perfetto perché si identifica con Dio. Ma di certo i cieli più emotivamente impattanti della storia dell’arte sono i notturni stellati di Van Gogh, c’è qualcosa di stridente in queste rappresentazioni che paradossalmente le rendono più comprensibili, più umane, o meglio ancora più reali, nonostante non vi sia nulla di naturalistico in esse.

Van Gogh, Notte stellata - La chiave di Sophia

Vincent Van Gogh, “Notte stellata”, 1889

Tra Giotto e il pittore olandese passano ben sei secoli, molti cieli sono stati dipinti, sognati e immaginati in questo lungo periodo: gli astri celesti hanno ispirato artisti, poeti, viaggiatori, scienziati.
Penso per esempio all’Ariosto e alla sua dote visionaria che lo renderà capace di immaginare il primo viaggio dell’uomo sulla Luna. Nell’Orlando Furioso questa viene descritta come una sfera di immacolato acciaio, in conformità con l’incorruttibilità aristotelica dei cieli, ed è anche il luogo dove ritrovare la ragione perduta sulla Terra. Ariosto rende quindi omaggio all’ordine che regola la sua epoca, ma il suo potere immaginifico è lo sguardo anticipatore dell’arte.
Restando in tema, segnalo la mostra che qualche anno fa è stata allestita a Ferrara (Palazzo dei Diamanti) per celebrare i 500 anni dalla prima edizione dell’Orlando Furioso stampato proprio in questa città. Per comprendere un visionario bisogna sempre chiedersi cosa egli veda chiudendo gli occhi, ed è questo l’interessante punto di vista proposto dai due curatori che invitano ad entrare nell’universo dell’immaginario ariostesco.

Contemporaneo dell’Ariosto, Copernico scrive il suo De revolutionibus orbium coelestium nel 1512, mentre Galileo inventerà il telescopio nel 1609, quasi un secolo dopo il poema cavalleresco.
È evidente come ogni rivoluzione necessiti sempre del suo bardo: la poesia è utile alla scienza perché ha la sensibilità e l’intuizione di mescolare la materia senza limiti fisici e creare corrispondenze sensoriali in grado di ispirare le menti più acute.
Qualche settimana fa sono venuta a conoscenza (sempre per casualità o per disposizione astrale) del progetto Sentire le stelle, realizzato dal compositore Francesco Rampichini. Questo è costituito da un’interfaccia digitale in cui spostando il mouse è possibile ascoltare la mappa di una costellazione o di una sua singola stella, individuandone posizione e magnitudine attraverso il rapporto delle intensità luce/suono.
Ecco le corrispondenze a cui accennavo prima, interessante notare che questa ricerca ha anche una base linguistica: in sanscrito, antica lingua indoeuropea da cui provengono molti nostri vocaboli, suono si dice svara e luce si dice svar, i due termini hanno la stessa radice fonetica (che accomuna anche la parola sole).
La luce diventa quindi suono, le stelle ci parlano, il cosmo è vivo e comunica, non è solo un velo dipinto.

Nel libro di Rovelli che citavo inizialmente, l’autore ci spiega come il saper vedere e il saper ascoltare siano fondamentali non solo per il progredire della scienza, ma anche per comprendere meglio il nostro ruolo come essere umani: «noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia, non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo». Capire questo, significa anche adottare un comportamento di rispetto e di cura nei confronti del pianeta che ci ospita.

Per concludere: quest’estate mi sono fermata a osservar le stelle ma no, non sono riuscita a fare le foto che mi ero proposta. In compenso ho pensato al genio rivoluzionario di Copernico, all’ “oscuro labirinto” dell’universo che Galileo s’impose cocciutamente di decifrare e ad Astolfo che andò a cercare il senno di Orlando sulla Luna. Ma anche alle menti avide di sapere che si sono susseguite nei secoli fino ad oggi donandosi completamente alla scienza e all’emozione dell’animo sensibile dell’artista che guarda il cielo stellato.
Con un brivido ho sentito quanto l’umanità possa essere splendente anche nella sua naturale limitatezza, un potenziale che passa in secondo piano se si pensa alla stupidità e all’insensatezza diffuse nel mondo attuale.

Spero quindi che Dante avesse ragione in quell’ultimo verso del suo Inferno, spero che questo (ri)veder le stelle ci indichi adesso un nuovo cammino di luce e di conoscenza, dandoci il giusto grado di speranza per renderci migliori.

Dorè, Incisione per Divina Commedia - La chiave di Sophia

Gustave Doré, incisione per la “Divina Commedia”, 1857

 

Claudia Carbonari

 

[Immagini tratte da Google Immagini]

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Filosofia: alla ricerca di un perché

«Perché?»

Questa è la domanda più frequente che mi viene rivolta quando rendo qualcuno partecipe della scelta in merito al mio percorso di studi universitario. E devo ammettere che mi trovo sempre in difficoltà su che risposta dare. Non è una questione banale come può sembrare, perché ha a che fare con l’intimo del proprio Io. Forse la domanda è proprio la risposta.

Cerco di spiegarmi meglio.

Fin dalle sue origini la filosofia occidentale si è dedicata al definire, circoscrivere e determinare – con le possibili eccezioni di Epicuro e successivamente Spinoza. Volenti o nolenti, questa è la nostra storia, e ci abbiamo a che fare ogni giorno della nostra esistenza. Così recitava la Dea nel poema di Parmenide Sulla Natura in relazione alle uniche due vie di ricerca che si possono pensare: «[…] l’una che “è”, e che non è possibile che non sia […] l’altra che “non è” e che è necessario che non sia»1. Su queste poche e a prima vista semplici parole si è scritto, discusso e dibattuto per secoli fino ai giorni nostri (basti vedere l’analisi filosofica contemporanea di Emanuele Severino), senza che mai si sia trovata un’interpretazione che accordasse tutti i pareri. Il problema – che ha appunto a che fare con tutti noi ogni giorno – è quello di definire qualsiasi cosa in modo univoco, perdendo quindi inevitabilmente il suo collegamento con il Tutto. È sufficiente pensare a Socrate e al suo metodo interrogativo: egli rivolgeva la domanda: «Che cos’è?» in relazione a qualsiasi cosa, con una sua conseguente determinazione. Proviamo ad applicare questo metodo alla nostra indagine: «Che cos’è la Filosofia?» Ecco un’altra questione dibattuta all’inverosimile senza risultato. E dal mio punto di vista è proprio la mancanza di una risposta uniforme a “salvarci”. Abbiamo trovato qualcosa che non può appartenere a categorie determinate, che non può essere definito in modo univoco e che riesce a sfuggire a quel meccanismo di circoscrizione che scuole di pensiero orientali come il Taoismo criticherebbero in modo ferreo. Qui entra in gioco la nostra personalità, il nostro essere diversi dagli altri. Ma la differenza sta proprio in questo diverso: è un diverso che non delimita – se vissuto in una certa maniera – bensì amplifica il risultato dato da ogni particolare che contribuisce all’essere della Filosofia.

La Filosofia ha a che vedere con il pensiero, inteso sia come pensiero personale di ogni individuo sia come pensiero in quanto tale. Sempre Parmenide nel sopracitato poema affermava: «Lo stesso è pensare ed essere»2. Il pensiero condivide con l’Essere la caratteristica di rinviare all’orizzonte ontologico della presenza: non ha confini o restrizioni, è libero e proprio questa è la sua grande forza. Proprio in relazione al pensiero, forse il contributo essenziale che ha apportato la filosofia occidentale è quello della ragione. A mio modo di vedere il problema sta nel fatto che ormai – forse da sempre – la razionalità determini la nostra filosofia, perdendo quindi quel collegamento iniziale con sé e la totalità che dovrebbe animarla. Perché, anche solo chiedendoci cosa essa sia, abbiamo determinato – se non la risposta – almeno il “modo” di rispondere. Ecco cosa intendevo affermando che forse la risposta viene a concordare con la domanda. “Perché?” è una porta che si apre al trascendentale, un viaggio nella vita alla ricerca di un qualcosa che poi riconosciamo combinarsi ed appartenere alla ricerca stessa.

La filosofia ha anche – soprattutto oserei dire – a che vedere con la vita quotidiana. È triste osservare come essa sia stata rinchiusa nelle facoltà universitarie, vanificando il suo scopo fondamentale: sorreggere la vita dell’Uomo, come messo semplicemente ma efficacemente in luce dallo scrittore svizzero Alain De Botton, ripreso anche dal periodico Internazionale3.  La sua utilità è imprescindibile nel quotidiano, ma ci si accorge di ciò solamente interiorizzandola ed applicandola. Non è difficile, la maggior parte delle volte è sufficiente solamente porsi degli interrogativi, che possono evitarci i pericoli del senso comune e dei luoghi comuni. E molto spesso la domanda è proprio quel particolare “Perché?” di cui abbiamo parlato finora. “Perché?” è un uccello che spicca il volo nel cielo della possibilità, che non si lascia imprigionare nella gabbia dell’opinione di massa anche se sembra accogliente e sicura. “Perché?” è il coraggio di Ragionare con la R maiuscola: di riflettere su ciò che accade criticamente, senza farsi mettere le parole in bocca da qualcun altro. “Perché?” è la nostra vita, fatta di impervi valichi da scalare, misteriosi passi da scovare ed incontaminate valli da scoprire.

«Perché Filosofia?», quindi.

Ora posso rispondere: «Perché no?»

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE:
1. Parmenide, Sulla natura, B2
2. Ivi, B3
3. A. De Botton, Perché la filosofia ci aiuta a vivere meglio, “Internazionale”, 20 febbraio 2015.

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