La battaglia per i diritti delle donne non si è mai fermata

L’istituzione dell’8 marzo come giornata simbolo della lotta per la rivendicazione dei diritti delle donne viene fatta risalire alla tragedia accaduta a New York di seguito all’incendio scoppiato nella fabbrica tessile Cotton, dove persero la vita molte lavoratrici. In realtà l’istituzione del Womens’ day risale storicamente al congresso del Partito socialista svoltosi a Chicago nel febbraio 1908 dove venne discusso di abusi sul lavoro, diritto al voto e discriminazione sessuale. Da quel giorno i movimenti di protesta non si sono mai fermati e continuano tuttora a mutare e a trasformarsi servendosi di ogni mezzo dai più moderni social alle piazze.

È fondamentale ricordare l’8 marzo come il giorno in cui le donne rivendicano una battaglia giornaliera per tutti i diritti che ancora oggi sono loro negati, perché non è bastata la grande conquista del diritto al voto, ma ciò per cui oggi si lotta sono le pari opportunità.

Troppe ancora sono le disparità salariali, troppe molestie accadono fuori e all’interno dell’ambiente lavorativo e c’è ancora troppa omertà sui femminicidi (di cui si è segnato un record assoluto pochi mesi fa, il più alto tasso degli ultimi dieci anni). Troppi ancora sono gli abusi non denunciati per paura della ritorsione sulle vittime. Sono argomenti che tutti abbiamo modo di ascoltare e molte donne purtroppo di vivere ogni giorno sulla propria pelle, ma queste non dovrebbero essere battaglie relegate solo alle donne: una società civile è quella che in toto combatte per i diritti di ogni suo cittadino, perché agli occhi della società dobbiamo essere tutti cittadini con pari diritti, opportunità e doveri. E purtroppo non lo siamo ancora.

La società deve essere educata al rispetto, all’uguaglianza e alle pari opportunità. In un contesto assai diverso, ma in cui si parlava di privazione di dignità e diritti, Primo Levi asseriva che fin quando non avremmo riconosciuto a tutti la dignità umana il ricordo e la lotta non si sarebbero potuti fermare: così fin quando all’ultima donna non sarà riconosciuta la sua libertà personale, individuale, sociale e lavorativa nessuna rivoluzione può terminare.

È curioso, asseriva Simone de Beauvoir ne Il secondo Sesso, che tutti i popoli hanno una storia fatta di tradizioni ed eventi determinanti, ma non le donne. Le donne non hanno mai avuto stato, nazionalità e storia, ma hanno vissuto come bambole di carne nella mano degli uomini, che non hanno permesso una divisione dei sessi che si ha solo biologicamente, ma non storicamente. Le donne, afferma la filosofa, si sono emancipate solo uscendo dal focolare paterno dove erano state relegate per secoli ad accudire generazioni che non gli sarebbero appartenute.

Asserisce la de Beauvoir: «C’è una strana malafede nel conciliare il disprezzo per le donne con il rispetto di cui si circondano le madri. È un paradosso criminale negare alla donna ogni attività pubblica, precluderle la carriera maschile, proclamare la sua incapacità in tutti i campi, e affidarle l’impresa più delicata e più grave: la formazione di un essere umano. Ci sono molte donne a cui i costumi, la tradizione negano ancora educazione, cultura, responsabilità, attività, che sono privilegio degli uomini e nelle cui braccia, ciò nonostante, si mettono senza scrupoli i figli, come prima le si consolava con delle bambole della loro inferiorità nei confronti dei maschi; si impedisce loro di vivere; in compenso, si permette loro di giocare con bambole di carne e d’ossa. Bisognerebbe che la donna fosse perfettamente felice o che fosse una santa per resistere alla tentazione di abusare dei suoi diritti».

Le donne si svincolano nella rivoluzione e nella lotta che dona loro l’indipendenza grazie alla quale sono capaci di educare le nuove generazioni a costruire una società civile. Oggi è quanto mai importante ricordare queste parole e farne un vessillo: non solo le donne, ma tutti dobbiamo educare al rispetto perché non basti più una scusa per uno schiaffo, non si dica più che donne “se la sono cercata” per un atteggiamento o un abito, perché nessuna donna subisca pressioni per la sua gravidanza a lavoro, perché tutte abbiano il diritto di abortire, perché nessuna donna veda negato un diritto concesso a un uomo.

Costruiamo una società di umani che rispettano umani, umani che godono di pari opportunità e che lottano perché mai più ne subiscano soprusi. L’8 marzo si faccia in modo che sia in ogni gesto, in ogni lotta quotidiana e che sia simbolo di una lotta che ha ancora molti traguardi da tagliare.

 

Francesca Peluso

 

[Immagine tratta da Unsplash.com]

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“Bianco” Natal? Qualche dubbio sul presepe “tradizionale”

La Basilica dell’Annunciazione, a Nazareth, offre uno spettacolo insolito, almeno ad un visitatore italiano: la piccola cinta muraria attorno alla chiesa, infatti, è decorata con mosaici, affreschi, murales e bassorilievi provenienti da ogni parte del mondo, ognuno raffigurante una Madonna con Bambino “assimilata” alla cultura di provenienza. C’è la Madonna coreana, con un coloratissimo hanbok; c’è quella tailandese, coronata dal tipico copricapo a forma di stupa; ce n’è una etiope, nera, ed una cinese, asiatica, e così via, in una galleria ricchissima di costumi, razze e colori che circonda come un abbraccio l’intera basilica.

Il pensiero corre facilmente al Natale appena passato e alle usuali polemiche sollevate dai soliti noti in merito ad alcune scelte di rappresentazione del presepio. In particolare, sono state lanciate accuse di blasfemia verso alcune installazioni, come quella di Viareggio, che ha posto quest’anno un bambinello nero nella mangiatoia, quella di San Miniato Basso, in cui nel presepe vivente la Sacra Famiglia era interpretata da una famiglia senegalese, o quella di Rieti, in cui la Comunità Giovanni XXIII di don Oreste Bensi ha affidato a una coppia di immigrati ed alla loro bambina risiedenti nella comunità i ruoli principali. Lega e Forza Nuova, tra gli altri, si sono scagliati contro quella che ritengono essere una mancanza di rispetto verso la “religiosità italiana”.

Niente di nuovo né nelle polemiche né nella provenienza delle stesse, ma oggi come ieri non cessa di stupire l’insensatezza di certe posizioni. Vale la pena notare come, all’interno dei Vangeli, non si trovi una singola descrizione fisica dell’aspetto di Gesù, neanche un benché minimo dettaglio, non un cenno all’altezza, al colore di occhi o capelli, alla forma del viso. Agostino da Ippona, che da vescovo considerava le scritture come divinamente ispirate, interpreta questa mancanza affermando che Dio ha voluto che in Cristo si riconoscessero tutte le genti, e pur avendo quindi Gesù avuto un determinato aspetto in vita, di quale esso fosse si è persa ogni traccia per permettere a ciascuno di sentirsi parte della storia della salvezza.

Espressioni artistiche come quelle ammirabili a Nazareth riflettono precisamente questo principio: non avendo una iconografia “canonica” del Cristo, almeno in senso stretto, questi cambia volto, etnia, costumi e perfino postura a seconda della sensibilità dell’artista, e diventa caucasico, semita, nero, asiatico, alto, basso, grasso, magro, rispondendo non solo all’origine geografica e culturale, ma anche alla contingenza storica dell’opera in questione. Non è certo un caso, ad esempio, che la maggior parte dei “nostri” Gesù siano raffigurati in abiti rinascimentali o in tuniche romane, piuttosto che con un ben più probabile tallit.

Fin dalla sua istituzione ad opera di Francesco d’Assisi a Greccio, il presepe ha funzione principalmente simbolica, intende ricalare la nascita di Cristo nella storia presente, esattamente l’opposto quindi di congelare un momento nel tempo e lasciarlo ad una contemplazione distaccata e distante. Includere i migranti all’interno del presepe non è una mancanza di rispetto, ma al contrario un atto di riflessione storica profondamente calato nel presente, consapevole di un processo che non si fermerà per le paure o le nostalgie di gruppi più o meno ampi di persone, e che riconosce da ultimo una presenza culturalmente ed etnicamente variegata nei nostri territori che non andrà certo a diminuire.

Aggrapparsi a tradizioni religiose spacciandole per nazionali è un’operazione che snatura il senso più vero e profondo di dette tradizioni, costringendo in una veste locale un messaggio nato per essere invece universale. Senza contare il fatto, ovviamente, che se si volesse davvero essere storicamente accurati, ci sono ben poche possibilità che una famiglia ebrea del I secolo a.C. somigliasse a quella, rigorosamente europea e caucasica, rappresentata nel presepe “tradizionale”.

Giacomo Mininni

 

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Apocalisse dell’amore: David Casagrande intervista se stesso

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Anzitutto mi faccia dire che trovo presuntuoso che lei abbia accettato questo incontro.

Lei voleva intervistarmi, io ho acconsentito: dov’è la presunzione? Trovo piuttosto singolare che uno chieda un favore a qualcuno, sperando che costui glielo rifiuti.

Senta, vorrei essere breve, e m’impegnerò per riuscirci: detesto ogni secondo che passo con lei.

La capisco. Starmi vicino non è facile: ho un carattere terribile. Anch’io, se fossi un’altra persona e mi conoscessi, mi detesterei. Ma partiamo, dunque!

Partiamo dall’articolo sulla meraviglia. Lei sostiene che la gratitudine che proviamo innanzi alla meraviglia si chiama “amore”. Però non spiega minimamente cosa sia l’amore: potrebbe descriverci questo sentimento?

Scrive il Tao-te-ching: «Il Tao che può essere detto non è l’eterno Tao». Tao significa sentiero: io ritengo che l’Amore-vero sia esattamente questo: il punto d’arrivo (e quello di partenza) d’una strada su cui dirigere i nostri passi. Noi uomini possiamo percorrere varie direzioni, evidentemente, ma solo la strada dell’Amore è giusta.
Il problema è che, esattamente come l’eterno-Tao della tradizione cinese, anche l’Amore-Vero lo possiamo dire in mille modi, ma non riusciremo mai a coglierlo, perché l’amore-che-può-essere-detto non è l’Amore-Vero.

Come risolvere questa scollatura tra Amore-vero e amore quotidiano?

Cercando di cogliere, per approssimazione, l’Amore-vero nelle varie tipologie di amori-umani e, una volta individuato, declinarlo nella pratica.

Sia più chiaro.

Kierkegaard insegna che l’uomo è tripartito in corpo, anima e spirito, ponendo questi tre aspetti in grado crescente di perfezione. Perfezione che, però, si raggiunge solo nella sintesi: lo spirito è, appunto, sintesi tra corpo e anima: ricomprendendo i due estremi nell’eterno che li ha posti, è perfezione. Ora, a ciascuno di questi tre lati dell’umano, corrisponde una diversa tipologia d’amore.
All’elemento corporeo corrisponde l’amore fisico, la prossimità corporale. All’elemento pneumatico dell’uomo corrisponde il rispetto, l’amicizia. All’elemento spirituale corrisponde la compassione.
Delle tre, la tipologia di amore-umano che più si avvicina all’Amore-vero, è la compassione, ed è tale perché ricomprende in sé passione e rispetto, e li infinitizza.
Quando agisco con compassione, seguo la via dell’Amore-vero, pur mantenendomi nell’ambito dell’amore-umano: questo perché la compassione, essendo universale, eternizza tanto la passione quanto il rispetto.
In questo senso, così si spiega il mio articolo del mese scorso: quando mi-meraviglio io amo, perché nelle cose che provocano stupore, avverto la gratuità dell’altro-da-me; attraverso di essa, sento in me compartecipazione alla vita-del-mondo, mi inserisco sulla strada giusta – anche se poi spetta a me seguirla fino in fondo: non basta stupirsi di qualcosa per dire: sono giunto all’Amore; la strada è molto più impervia. In ogni modo, più ci stupiamo, più avvertiamo com-passione, e più l’avvertiamo, più avviciniamo l’Amore.

Ma i fondamenti dell’uomo non sono lo scontro, la lotta, il desiderio di predominanza?

Queste sono le radici dell’homo-sapiens, cioè d’una razza di scimmie, non dell’essere-umano, cioè di quella creatura che ha studiato filosofia e astronomia. Ed è questa, in verità, la cosa che più mi spaventa di questo mondo: vedo molti homines-sapientes, ma pochi esseri-umani.

La sua teoria dell’Amore-Vero, che si manifesta in compassione, prevede anche una sorta di nobilitazione del sesso?

Non esattamente. L’amore fisico non è atto-sessuale, è piuttosto bisogno-di-contatto: ciò significa che la compassione non necessita del coito, ma della prossimità fisica con l’oggetto amato.
Tuttavia è evidente che l’atto sessuale, filosoficamente, è illuminante su come l’Amore-Vero necessiti parimenti di rispetto e contatto: quando infatti mi accosto alla persona che penso d’amare e toccandola, baciandola, penetrandola, capisco che (oltre a desiderarla) rispetto ogni sua caratteristica (anche i suoi difetti), allora giungo a capire la com-passione (passione-insieme).
Se invece non ne rispetto le particolarità, cercando in lei solo precisi canoni estetici, allora non ho più a che fare con un singolo, ma con un corpo: di conseguenza, non sto “facendo-l’-amore”, mi sto “accoppiando”.

Lei mi sta dicendo che quando amiamo il partner, l’amiamo con la stessa forza con cui dovremmo amare, generalmente, il mondo…

Le sto dicendo l’opposto! Sul mondo – su ogni ente del mondo – dobbiamo aspergere la stessa compassione che riverseremmo sulla persona che vogliamo al nostro fianco.
Tutto ciò, naturalmente, sperando di intrattenere relazioni veramente d’amore … eviterò, per signorilità, di parlare qui di altri tipi di rapporti, basati s’uno squallido do ut des: ignobile mercato delle vacche ove i favori sessuali sono scambiati con oggettistica varia. Queste “relazioni” somigliano all’Amore-Vero (e alla compassione) esattamente come lo sterco somiglia alla Sachertorte.

Come facciamo a capire che l’amore che proviamo per una persona è compassione, e ci può guidare all’Amore-Vero? Come possiamo essere certi della purezza del sentimento?

Occorre ripartire da sé stessi: vede, non esiste un solo modo di innamorarsi, non esiste un solo tipo di amore, perciò dobbiamo imparare ad ascoltare le nostre emozioni. Se, quando guardiamo una persona, proviamo solo desiderio o solo rispetto, e non riusciamo a sintetizzare le due cose, evidentemente non l’amiamo.

Quali sono dunque i sintomi dell’innamoramento?

Non esiste un’eziologia: io guardo i singoli sperando di cogliere l’Universalità, non il minimo comun denominatore, quello è compito dello scienziato (con l’evidenza che la scienza non spiega il mistero, e il senso, della totalità umana); al massimo potrei raccontare quello che è successo a me, ma non credo che v’interesserebbe. Di certo una cosa è chiara: l’Amore-Vero non chiede d’essere ricambiato: lo dimostra la vita-del-mondo, che non necessariamente ama i singoli, mentre esistono singoli che amano la vita-del-mondo.

Certo, è bello pensare che lei abbia ragione: mi spaventa sapere che lei, però, sbaglia. Il mondo è odio, terrore.

Quella dell’Amore è la-strada, non l’unica-strada. Ognuno si determina a seconda delle scelte che compie: nulla obbliga l’uomo a prendere una particolare direzione, se non vuole. Ed è evidente che chi sceglie l’Amore, oggigiorno, è in minoranza.

(continua, purtroppo…)

David Casagrande

La crisi : un ritorno di senso?

Ogni giorno, puntualmente, sentiamo parlare di crisi.

Crisi economica. Crisi finanziaria. Crisi dei valori e della moralità. Crisi delle relazioni e dell’amore. Crisi personale ed esistenziale, che ci risucchia, in un aller-retour di perdersi e ritrovarsi.

Per riflettere sul valore contemporaneo di una crisi onnipresente, vorrei fare un passo indietro, recuperando il significato etimologico del termine stesso.

La parola “crisi”, infatti, deriva dal verbo greco κρίνω, che letteralmente significa “separare”, “dividere”.

Originariamente, tuttavia, ciò a cui esso rinviava era la dimensione pratico-lavorativa del settore agricolo poiché, nella trebbiatura, veniva utilizzato per definire il momento ultimo della raccolta del grano, ovvero quello dedicato alla separazione del frumento, dalla paglia e dagli elementi di scarto.

La crisi, dunque, equivarrebbe ad un’operazione di separazione, divisione.

Ciò che ho reputato interessante, però, è la seconda sfumatura etimologica, più positiva e costruttiva, che ho potuto ritrovare leggendo il significato del suo secondo uso, ovvero quello di “giudicare”, “valutare”.

Quindi, sì, quella frattura generata dalla parola “crisi” esiste, è percepibile; a caratterizzarla, tuttavia, non dovrebbe essere la sterilità, quanto più la sua apertura al giudizio e all’analisi critica.

 

Il termine crisi fa parte dell’insieme di quelle parole da cui ogni giorno siamo travolti che, a forza di ripeterle, si svuotano di senso, divenendo quasi inutili, povere di un significato sepolto dalle macerie della storia.

Per riflettere sulla crisi che ha letteralmente spezzato in due il mondo, non è più sufficiente essere spettatori passivi di un’informazione liquida, alla Bauman.

Ciò di cui c’è bisogno è il fare, un fare produttivo volto alla costruzione di un avvenire che, dalle macerie del presente, può sbocciare in un progetto voluto dall’intera collettività.

Al contrario, quando si sente parlare di crisi, ci troviamo di fronte ad una paralisi individuale e collettiva.

Questa ha causato la perdita di senso di un presente, e a sua volta di un passato e di un futuro, rispetto ai quali siamo diventati completamente ciechi e inpotenti.

 

Ricominciare dalla crisi, per ritrovare il senso dell’universalismo: è questo ciò che sostiene il sociologo francese Michel Wieviorka.

Ma che cosa si intende per universalismo? È una fede? Un’ideologia a cui tenersi aggrappati per salvarsi dalle sabbie mobili del malessere sociale da cui veniamo risucchiati? È forse un’illusione?

Il sociologo, in un recente libro intitolato “Retour au sens[1]”, sostiene che la perdita di senso della società contemporanea è stata causata da una forte crisi dell’Universale, ovvero dell’insieme di quei valori che, quali l’uso della ragione, il diritto e la moralità, avrebbero dovuto garantire il progresso, attraverso il loro adattamento in ogni epoca storica.

Come l’analisi realizzata da Wieviorka nel suo ultimo libro ha proposto, sono stati proprio questi valori universali ad aver determinato una sorta di regresso rispetto quelle che erano le aspettative di benessere.

La ragione si sarebbe trasformata in barbarie. I valori, in ideologia, un’ “ideologia dell’alto”, come la indicherebbe l’autore attraverso l’espressione di “universalisme d’en haut”, in opposizione con quell’ “universalisme d’en bas”, di cui si sono fatti promotori tutti i gruppi minori, sottomessi e subordinati alla volontà di un etnocentrismo europeo e occidentale capace di schiacciare i più vulnerabili.

Ciò che infatti si dovrebbe mettere in atto , secondo il filosofo Etienne Balibar, sarebbe la promozione di un “universalismo di liberazione”, spesso associato alla stessa ventata d’aria fresca portatrice di speranza e riconoscimento, propria dei diritti dell’uomo.

È in nome di questi diritti, diritti che attraverso la messa al centro del valore della dignità dovrebbero creare quel senso di appartenenza di ogni individuo ad una realtà più amplia, quella dell’umanità appunto, che tra il 1960 e il 1970 sorsero dei movimenti di decolonizzazione aventi per obiettivo l’emancipazione della diversità dalla supremazia occidentale, un’emancipazione non unicamente territoriale e fisica, ma soprattutto ideologica.

Il rischio di tali movimenti di liberazione cui oggi possiamo divenire vicini testimoni attraverso l’esplosione del fenomeno migratorio, non è forse quello di “reificare” il valore dei diritti umani, facendone l’elogio, correndo il rischio di trasformarli a sua volta in “universali” produttori di un nouvo conflitto, invece di costituire le basi per una società articolata dalla valorizzazione del riconoscimento? Non rischierebbero anch’essi di diventare, come si è dimostrato nel caso dell’uso della ragione e come bene lo hanno dimostrato i filosofi della scuola di Francoforte rispetto all’uso di una ragione puramente strumentale, auto-contraddittori nella loro struttura? E se quest’universalismo dei valori di tutta l’umanità, e quindi l’elevazione dei diritti umani a pura astrattezza si realizzasse, ciò non provocherebbe forse la resa del particolare, cancellando così la ragione per la quale sono nati, cioè l’attenzione verso ogni singolo essere umano in quanto portatore, in se stesso, di diritti inalienabili?

Questo è spesso il rischio che si corre ogni qual volta si racchiude un valore in una definizione, costituendo un muro che lo svuota di senso.

Possa essere l’importanza di un corretto uso della ragione critica, possa essere l’immensa valenza di quegli elementi cardini dell’esistenza umana che sono i diritti umani.

 

Quello che manca oggi è l’ascolto. L’ascolto dell’altro e di noi stessi. L’ascolto dei silenzi che ci costituiscono, delle ferite che ci appartengono. E il rispetto. Quel rispetto che i diritti dell’uomo dovrebbero insegnarci a rivolgere verso l’altro. Quello spazio tra noi e il mondo che non si appoggia sul disinteresse ma che si mescola e si nutre dell’essenza che ci accumuna: la dignità.

È pertanto in nome di questa dignità che la ricostruzione di un tessuto sociale basato su una nuova autenticità dovrebbe diventare un bisogno necessario.

Se gettassimo la spugna, se smettessimo di respirare con l’altro, nascondendoci nella nostra bolla di cristallo, quelle stesse sabbie mobili rischierebbero di risucchiarci.

Sara Roggi

[Immagini tratte da Google Images]

 

 

[1] M. WIEVIORKA, Retour au sens, Pour en finir avec le déclinisme, Editions Robert Laffont, Paris, 2015.

Hannah Arendt: come la banalità genera il male

Il modo in cui Hannah Arendt descrive il momento della condanna a morte di Adolf Eichmann è impeccabile. Impeccabile nel peso che ogni singola parola espressa, acquista. Impeccabile nel valore che riesce a comunicare nella descrizione di alcuni particolari e di quei gesti che, anche durante il processo del 1961, hanno fatto la differenza, mettendo a nudo le contraddizioni di una mentalità perversa, incarnata in quell’essere umano, accusato di essere uno dei responsabili di uno dei più tragici crimini contro tutta l’umanità.

«Eichmann andò alla force con grande dignità. Aveva chiesto una bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. […] Percorse i cinquanta metri della sua cella alla stanza dell’esecuzione calmo e a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie e le ginocchia, chiese che non stringessero troppo le funi, in modo da poter restare in piedi. “Non ce n’è bisogno”, disse quando gli offersero il cappuccio nero. Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso»1.

Quello che possiamo percepire anche attraverso una prima e veloce lettura è il ritratto di un protagonista, la rappresentazione di un uomo che, fino all’ultimo, si è sentito al centro della scena. Anzi, egli non solo ha fatto in modo che le luci fossero rivolte su di lui fino alla chiusura del sipario, ma ha inoltre contribuito alla stessa costruzione della rappresentazione di quella scena teatrale finale che, attraverso la sua condanna a morte, lo proclamava e lo innalzava quasi come se, i suoi, fossero stati dei gesti eroici.

Nessuna colpa, nessun rimorso. Per lui quelli commessi non erano crimini orrendi, senza pietà e dei quali doveva essere ritenuto responsabile.

D’altronde, sostenne Eichmann, egli si occupava solamente del trasporto dei deportati verso i campi di concentramento: personalmente, non aveva mai ucciso nessuno, aveva solo rispettato gli ordini ed era diventato un piccolo ingranaggio di quella macchina infernale2, alimentata dall’odio verso il diverso, l’altro. Chi poteva dunque essere considerato il vero responsabile dell’uccisione degli ebrei? Poteva Eichmann definirsi innocente, solo per il fatto di aver rispettato le decisioni e gli imperativi di un comando superiore cui aderiva e cui non poteva in alcun modo sottrarsi? Che fine fanno la responsabilità e la colpa?

Hannah Arendt in Responsabilità e giudizio spiega come talvolta, quando un crimine commesso coinvolge un grande numero di attori, si finisce con il sostenere il valore di una responsabilità collettiva, in altre parole, una dimensione globale alla quale nessuno può sottrarsi. È importante ammettere tuttavia che l’idea di una responsabilità universale non solo impedisce che vengano definiti gradi di colpevolezza differenti a seconda del crimine commesso da ogni singolo individuo; ciò che è ancora più grave è che questo possa essere utilizzato come strumento attraverso il quale ciascuno, attraverso la logica del “se nessuno è colpevole, nemmeno io lo sono”, riesce a sentirsi innocente e ad uscirne “pulito”.

Strumentalizzare un concetto di responsabilità collettiva al fine di decolpevolizzarsi in quanto membro di una collettività in cui il dovere kantiano doveva ad ogni costo essere ascoltato e rispettato, in onore di un’ideologia, non può tuttavia permettere di dimenticare il valore di una responsabilità particolare che, anche Eichmann, avrebbe dovuto ammettere. Sotto il regime nazista, come nel caso di molte altri sistemi basati su una forte struttura ideologica, le norme imposte venivano assimilate come naturali e giuste e il loro rifiuto non era mai stato oggetto di una presa in considerazione. Gli ordini pertanto erano corretti e giusto era eseguirli. Al contrario, l’ingiustizia nasceva nel loro rifiuto.

In Banalità del male3 Hannah Arendt esprime chiaramente il suo giudizio a proposito dell’accusato: egli era una persona totalmente normale, a tal punto che perfino gli psichiatri lo avevano definito tale. Qualsiasi altra persona, dunque, avrebbe potuto prendere il suo posto ed essere accusato dello stesso crimine; ciò non toglie che, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto fare in modo che le cose cambiassero. Malgrado ciò potesse significare opporsi al sistema o costituisse una negazione del suo solito e profondo dovere morale. Nonostante un tale atto avrebbe potuto costargli la morte. Ma Eichmann no: fino all’ultimo si è dichiarato innocente.

Secondo Arendt, i giudici avrebbero dovuto sostenere che solo potenzialmente i cittadini di uno Stato avrebbero potuto compiere i crimini più inauditi, e che c’è un abisso tra ciò che egli ha fatto realmente e ciò che gli altri avrebbero potuto fare, tra l’attuale ed il potenziale4Eichmann doveva dunque essere ritenuto responsabile poiché attualizzò quegli ordini che, dall’alto, vegliavano su di lui come un imperativo categorico il cui valore assoluto era indubitabile e il cui rispetto non solo era necessario, ma per di più naturale.

Quanto può influire un’ideologia nella formazione della propria persona? Come fare in modo di poter preservare e custodire quella libertà che, attraverso un giusto utilizzo della ragione, ci permette di prendere delle scelte adeguate, secondo le circostanze? Il male commesso da Eichmann è stato sì, terribile. Malgrado ciò e senza giustificarlo, le azioni da lui commesse sono state frutto del rigoroso rispetto di un volere naturalmente reputato corretto.

Anche oggi, nel momento degli attentati terroristici in Francia e nel resto d’Europa ma anche in numerose altre occasioni, siamo diventati e continuiamo ad essere spettatori delle numerose manifestazioni della banalità del male. Adolf Eichmann è stato l’incarnazione di questa banalità. Una banalità che può provenire dall’ignoranza, sia volontaria, sia frutto di un’abitudine le cui profonde radici costituiscono le fondamenta di un’ideologia, la cui mostruosità non può essere percepita da chi, crescendo, è stato educato secondo il rispetto di particolari valori, credenze e imperativi morali.

Rilevare il peso che le circostanze esterne a noi può avere rispetto alle scelte che prendiamo, certo, è importante. Una cosa, tuttavia, è ammettere la loro influenza, tutt’altra è non prendersi carico, nonostante tutto, delle responsabilità dei propri atti e definirsi, come nel caso Eichmann, non colpevoli di una tragedia contro tutta l’umanità.

 

Sara Roggi

 

NOTE:
1. H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli Editore, Milano, 2011, p. 259.
2. H. Arendt, Résponsabilité et jugement, Editions Payot & Rivages, Paris, 2009.
3. Ibidem.
4. Ibidem.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Per un’etica del rispetto

Molto spesso parliamo di rispetto con leggerezza, in modo astratto o retorico, pretendiamo il rispetto dagli altri ma poi siamo i primi a dimenticarcene; il più delle volte lo diamo per scontato, quasi come se fosse una norma morale universale, senza però essere consapevoli che esistono persone che non sanno cosa sia. Ma Di che cosa parliamo, quando parliamo di rispetto? La domanda nasce spontanea di fronte all’insistito utilizzo della parola che viene adottata in contesti tanto diversi da far sorgere il sospetto del suo abuso. Read more