Il tempo giusto

Le parole del mito sono patrimonio transculturale dell’umanità. Attraverso una variegata miscela di suggestioni, ciascuna cultura elabora i propri miti che sono, in fondo, modelli di comprensione dell’esistenza umana. La narrazione del mito serve a tener vive queste parole e la ripetizione di schemi e figure fissa nell’ascoltare (o in generale nel fruitore) alcuni specifici insegnamenti. 

Con una certa periodicitá, mi accade di tornare a leggere i versi della storia di Leandro ed Ero, sui quali giá qualcosa avevo provato a dire. Mi hanno sempre suggerito un senso di attesa: divisi da un’infida lingua d’acqua, i due amanti sono costretti alla clandestinità. Nottetempo Leandro sfida i flutti, guidato da una lucerna tenuta viva da Ero. Egli sfida la tempesta una volta di troppo o, forse, nel momento sbagliato e viene condotto dai marosi sulla riva opposta, esanime, tra le braccia della sua amata. L’attesa lascia il passo all’audacia: nonostante il mare sia in burrasca, il giovane tenta l’impresa per amore di Ero. Avrebbe dovuto attendere, essere prudente, attendere un momento più propizio.

La sapienza occidentale sovrabbonda di indicazioni riguardo al tempo opportuno in cui agire, in cui collocare una determinata azione. Ma è sempre possibile distinguere tra un momento propizio e uno nefasto? É sempre possibile, anzi, è sempre sensato attendere la venuta di un momento migliore? E se il tempo opportuno non avesse a che fare tanto con la riuscita dell’azione, quanto più con la necessità del tentantivo?

Rileggere i versi di Ovidio, questa volta, mi ha suggerito che talvolta bisogna far valere la propria esistenza rispetto alle condizioni spazio-temporali in cui ci si trova: occorre situarsi nel tempo che abbiamo, senza sfiorire nell’attesa di un attimo in cui tutto parrebbe compiersi da sé. Agire significa anche fare i conti con la possibilità di un esito inatteso, con la forza dei nodi che il tempo tesse attorno alla vita umana: significa anche rischiare qualsiasi cosa, abbandonare ogni misura di cautela. L’amore pare essere il configurarsi di questa situazione in cui non tutto è calcolabile, non ogni rischio è prevedibile, anzitutto per l’insondabilità della persona coinvolta che nel gesto d’amore si mette a tema. È l’amore un che di inatteso e ciò che si sa dell’inatteso è che occorre avvicinarsi, andargli incontro, per sperare di saperne qualcosa. Saperne qualcosa, sentirne un qualche sapore.

Emanuele Lepore

 

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Europa ed Italia a confronto con le pratiche assicurative nell’era dei test genetici

La possibilità di accertare, mediante test genetici, la presenza di una predisposizione individuale a contrarre determinate patologie e più in generale la possibilità di conoscere il profilo genetico di un individuo per trarre indicazioni sul suo futuro stato di salute hanno sollevato alcune questioni di natura etica anche in ambito assicurativo. Ci si chiede se i progressi nelle conoscenze genetiche possano incidere sul sistema assicurativo, se sia lecito utilizzare test genetici per una più equa ponderazione del rischio individuale e per una più adeguata riformulazione dei calcoli attuariali sull’aspettativa di vita.

Il sistema assicurativo è favorevole a tenere sotto controllo le informazioni riguardanti la situazione genetica dei singoli nell’ambito della modulazione dei premi, allo scopo di realizzare mercati più conformi alle situazioni di rischio. Le discriminazioni che potrebbero essere messe in pratica nella sottoscrizione di un contratto potrebbero estendersi all’esclusione dalla copertura assicurativa di intere fasce di popolazione portatrici di un corredo genetico ad alto rischio1.

Il problema dell’impiego dei test genetici in ambito assicurativo è stato avvertito negli Stati Uniti prima che altrove in quanto il sistema sanitario vigente in tale Paese è basato sul sistema delle assicurazioni private, ovvero sulla stipula consensuale da parte dei privati di una varietà di polizze con compagnie assicuratrici che forniscono una copertura assicurativa per le spese mediche che derivino da infortuni o malattie2.

A livello europeo la Risoluzione del 16 marzo 1989 del Parlamento Europeo sui problemi etici e giuridici della manipolazione genetica «in merito all’analisi genomica nel campo delle assicurazioni: 19. stabilisce che le assicurazioni non hanno alcun diritto di chiedere, prima o dopo la stipulazione di un contratto assicurativo, l’esecuzione di analisi genetiche, né la comunicazione dei risultati relativi ad analisi genetiche già effettuate e che le analisi genetiche non devono diventare una condizione preliminare nella stipulazione di un contratto assicurativo; 20. ritiene che gli assicuratori non possano pretendere di essere informati sui dati genetici a conoscenza dell’assicurato;  in merito all’analisi genomica nei procedimenti penali: 21. chiede che le analisi genetiche possano essere richieste nei procedimenti penali solo in via eccezionale e – esclusivamente su decisione del giudice – in settori specificamente delimitati; in tale contesto si può ricorrere solo a quelle parti di un’analisi genomica che siano importanti nella fattispecie e non consentano di trarre conclusioni sulle informazioni genetiche nel loro insieme».

Sotto l’aspetto legislativo lo scenario europeo si presenta alquanto eterogeneo, alcuni Paesi hanno emanato leggi ad hoc adottando disposizioni specifiche e vietando agli assicuratori sia di richiedere ai clienti di sottoporsi ad indagini genetiche prima della stipula del contratto, sia l’esito di test genetici già effettuati3; altri Stati non hanno messo in atto alcun intervento legislativo continuando ad applicare, anche nell’ambito delle informazioni genetiche, la disciplina sulla protezione dei dati sensibili. In questo caso, la mancanza di una normativa specifica viene in parte compensata dalla presenza Codici etici e deontologici o Linee Guida nazionali ed internazionali volte ad orientare la condotta dell’operatore che si accinge ad eseguire indagini genetiche richieste da enti di diversa natura (datori di lavori, compagnie assicurative, ecc…).

Per quanto riguarda l’Italia, già da qualche tempo è stato sviluppata una particolare disciplina di protezione legale diretta a preservare fortemente la riservatezza delle informazioni genetiche4.

L’autorizzazione generale del Garante per la protezione dei dati personali n. 2/1999 relativa al trattamento dei dati sensibili da parte di banche, assicurazioni, ecc… non permette il trattamento di dati genetici da parte di soggetti che esercitano attività assicurative; la tutela delle informazioni genetiche è parte dei diritti fondamentali della persona e il sistema pubblico non può utilizzarle per limitare la libertà e l’uguaglianza.

Sempre sul versante assicurativo, il Codice Civile italiano al capo XX riconosce alle imprese assicuratrici la possibilità di disporre delle sole informazioni sullo stato di salute attuale del contraente, il quale è tenuto a fornire al riguardo le notizie di cui è a conoscenza, con esclusione delle informazioni genetiche di carattere predittivo5. Quindi, in Italia la richiesta da parte delle compagnie di assicurazione di accedere ad alcuni dati sensibili, riguardanti il patrimonio genetico della persona hanno incontrato una ferma resistenza; a tale proposito si può ricordare anche l’art. 46 del vigente Codice di Deontologia Medica, in base al quale: «il medico non deve eseguire test genetici o predittivi a fini assicurativi od occupazionali se non a seguito di espressa e consapevole manifestazione di volontà da parte del cittadino interessato che è l’unico destinatario dell’informazione».

Alla luce di tali disomogeneità di condotta dei vari Stati europei, il 26 ottobre scorso il Consiglio d’Europa ha approvato, sotto forma di raccomandazione, un testo volto a proibire alle compagnie di assicurazione di utilizzare e richiedere test genetici per determinare premi o indennizzi assicurativi.

Il testo, pur non essendo vincolante per gli Stati, potrebbe risultare utile nel caso di ricorsi alla Corte europea dei diritti umani da parte di singoli cittadini o associazioni. Creare una casta inferiore di persone sfavorite geneticamente sarebbe inaccettabile è quindi fondamentale salvaguardare i diritti degli assicurati e garantire un corretto utilizzo dei dati inerenti la loro salute.

Silvia Pennisi

NOTE:
1. COHEN L. (1999), The Human Genome Project and the Economics of Insurance: How Increased Knowledge May Decrease Human Welfare, and What Not To Do About It,  “Annual Review of Law and Ethics”, vol. 7,  pp. 219-238.
2. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA (1999), Orientamenti bioetici per i test genetici. Sintesi e Raccomandazioni, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’informazione e l’editoria, Roma, pp.,104-109.
3. I paesi coinvolti sono: Austria, Belgio, Francia, Danimarca e Lussemburgo.
4. Si veda D.lgs 196/2003, Capo V – Dati genetici – Art. 90 (Trattamento dei dati genetici e donatori di midollo osseo).
5. Si vedano art. 1897 relativo alla Dimunuzione del rischio e art. 1898 che si occupa dell’Aggravamento del rischio.

[Immagine tratta da assicuriamocibene.it]

[T] ERRORE

Terrorismo: una guerra che ha come obiettivo la psiche umana e collettiva, laddove la realtà percepita non è quella reale.

Attentati terroristici, bombardamenti, raid: queste sono le parole che accompagnano i titoli dei nostri quotidiani. Il fenomeno del terrorismo non è un’emergenza, ma un dato di realtà. Combatterlo è un dovere, restando consapevoli dell’impossibilità di un suo completo sradicamento. Oggi ci riferiamo soprattutto al terrorismo di matrice islamica. Tuttavia, oltre ad essere sbagliato, è pericoloso convogliare le forme di sedizione su una religione.
Siamo di fronte ad un’islamizzazione della radicalità e non ad una radicalizzazione dell’Islam. I simpatizzanti dello Stato Islamico sono coloro che necessitano di un’ideologia che possa sostenere la loro ribellione.

Il terrorismo è un fenomeno in crescita. Sono circa 35.000 i morti nel 2015, ma non è un numero assai cospicuo. Si pensi, per esempio, che le morti causate da incidenti domestici sono ben superiori (250.000 decessi all’anno)1.

Inoltre, da un punto di vista economico, i danni diretti sono valutati intorno ai 55 miliardi di dollari, tuttavia, se pensiamo ai trilioni di dollari in circolazione nel mondo sono cifre quasi ininfluenti.

Eppure, lo spirito del terrore è al centro del nostro mondo, in particolar modo quello mediatico, diventando una patologia comunicativa. Appare, così, più drammatico di quanto esso sia in realtà. È più rilevante quello che si riesce a far dire ai media del nemico rispetto a quello che si proferisce attraverso i propri. Le parole sono importanti. Esse creano un’immagine mentale che si sedimenta dentro la psiche. Occorre incitare la propria folla, ma l’obiettivo finale è quello di suscitare nelle persone del campo avversario delle emozioni negative.
Inoltre, come ci ricorda Noam Chomsky «sfruttare l’emozione è una tecnica per provocare un corto circuito su un’analisi razionale e, di conseguenza, il senso critico dell’individuo».

L’obiettivo dell’assoggettamento della mente all’ansia, alla paura, all’impotenza ha un impatto più intenso rispetto al danno diretto causato da un attacco.
La percezione del rischio e la paura diventano gli indicatori di come le persone rispondono alle minacce terroristiche. Esse sono chiamate ad una risposta, la quale esige un mutamento cognitivo e comportamentale per reagire allo stress.
Le emozioni che ne derivano sono molte, così come le risposte comportamentali. L’impulso a fuggire da una situazione percepita come pericolosa è una risposta coerente e fisiologica, ma talvolta queste risposte si attivano anche in assenza di un’effettiva minaccia incombente. La paura causata da una sproporzionata percezione del pericolo influenza i comportamenti delle persone, sia come singoli che come folla, portando a decisioni inadeguate ed irrazionali.
La domanda alla quale è opportuno rispondere è: “Rischio reale o presunto?”
La consapevolezza della realtà circostante diventa la nostra arma di difesa e rievocando le parole di Lucio Caracciolo «il terrorismo non deve cambiare le nostre vite

Jessica Genova

NOTE:
1 http://www.epicentro.iss.it/ Il portale dell’epidemiologia per la sanità pubblica. A cura del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute.

Malati di rischio? Le conseguenze della predizione genetica.

“CORO: Ma non forse tu andasti anche oltre? PROMETEO: Ho fatto desistere i mortali dal prevedere la morte?

CORO: E qual farmaco trovasti a quel male?

PROMETEO: Cieche speranze in essi collocai”

                                                                   Eschilo

Negli ultimi decenni sembra esserci stata un’evoluzione nella medicina tale da indurre, nei medici, uno spostamento dell’attenzione dalla malattia al rischio di malattia; in altri termini si è passati da una medicina prettamente sintomatico-diagnostica a quella che possiamo definire una “medicina del rischio”, il cui obiettivo è scoprire e curare le patologie ancor prima che abbiano prodotto sintomi o ancor prima che diventino diagnosticabili. In questo contesto di predizione giocano un grande ruolo la genetica e la pratica dei test genetici; infatti, mentre un test genetico diagnostico prevede l’analisi di uno specifico gene, del DNA o dell’assetto cromosomico per riscontrare o eventualmente escludere un’alterazione associata ad una malattia genetica o su base genetica, i test genetici predittivi consentono l’individuazione di genotipi che non sono direttamente causa di malattia, ma comportano un aumento del rischio (suscettibilità) a sviluppare una patologia se associati all’esposizione a fattori ambientali che la favoriscono o alla presenza di altri fattori genetici scatenanti. I test genetici predittivi non riescono ad appurare con assoluta certezza se, quando e con quale gravità la persona interessata si ammalerà, sono però in grado di individuare i soggetti con un rischio di ammalarsi considerevolmente più elevato rispetto alla popolazione generale.

Le condizioni patologiche che possono essere testate da un test genetico predittivo sono essenzialmente alcuni tipi di cancro, malattie neurologiche che colpiscono il sistema nervoso, malattie neuromuscolari e patologie cardiache. In particolare, le analisi molecolari svolgono un ruolo essenziale per la diagnosi presintomatica di soggetti con suscettibilità ereditaria ai tumori. Nel caso di patologie tumorali lo scopo dei test genetici predittivi è essenzialmente quello di cercare di garantire un attento controllo del rischio, di incrementare la diagnosi precoce ed effettuare i giusti interventi per evitare che si sviluppi la patologia, quindi, eventualmente, intraprendere specifiche misure di prevenzione.

La medicina predittiva si compone dell’interazione tra indagini di laboratorio, analisi statistiche, calcoli di probabilità, identificazione dei fattori di rischio genetici ed ambientali di malattia al fine di pronosticare la probabile storia clinica del singolo individuo o di rallentare lo sviluppo della patologia genetica che potrebbe insorgere, anche se, nella maggior parte dei casi, dopo una diagnosi predittiva non si può fare nulla per la prevenzione e la cura della patologia ad insorgenza tardiva diagnosticata. Le recenti acquisizioni ottenute dalla medicina attraverso la ricerca genetica assicurano un’elevata capacità di predizione, ma ad essa non corrisponde lo sviluppo di possibilità di intervento preventivo o terapeutico. Sono pochissimi i casi in cui i test predittivi sono in grado di garantire una possibilità di “autodifesa” monitorando lo stato di salute di soggetti portatori di un rischio genetico e offrendo l’opportunità di intervenire in modo tempestivo nel passaggio dalla predisposizione allo sviluppo di una determinata patologia all’insorgere della malattia stessa svolgendo, appunto, un’azione preventiva.

Generalmente, un risultato positivo del test indica che si è portatori del gene mutato mentre un risultato negativo significa che non si è portatori del gene mutato (ciò non implica una totale invulnerabililtà alla patologia). Tuttavia, può presentarsi una terza possibilità: anche se è stato riscontrato un gene mutato può essere estremamente difficile stabilire se in quel determinato caso si svilupperà la patologia, quando insorgerà, quanto sarà grave e quanto velocemente progrediranno i sintomi. Quando si decide di sottoporsi ad un test genetico vanno discusse con il genetista tutte queste possibilità.

I candidati ai test di suscettibilità provengono soprattutto da famiglie con una storia di comparsa frequente di una determinata patologia genetica; non conoscendo tutte le possibili mutazioni genetiche e, dunque, non essendo in grado di fare screening sui soggetti asintomatici nella popolazione generale ci si limita a identificare la singola alterazione in un malato e a ricercarla nei consanguinei. Lo scopo delle indagini genetiche predittive è avviare protocolli di prevenzione in soggetti predisposti e ciò comporta intensificare gli accertamenti, assumere medicinali, controllare lo stile di vita. Spesso, per la scarsa specificità dei test i risultati possono essere carenti e i rischi di sviluppare quella determinata patologia possono portare soggetti clinicamente normali a diventare per anni “pre-pazienti”, “non pazienti” o “malati di rischio” che ricorrono in maniera esasperata a controlli medici e sviluppano sintomatologie psicosomatiche, inoltre, la consapevolezza di poter un giorno sviluppare una patologia genetica potrebbe provocare nei soggetti psicologicamente più deboli stati d’ansia e panico difficilmente gestibili. Quale può essere, quindi, il senso di una diagnosi genetica predittiva e della sua comunicazione al soggetto se non esiste alcuna possibilità terapeutica? Comunicare una suscettibilità potrebbe portare a danni psicologici devastanti o potrebbe permettere alla persona interessata di essere più libera e consapevole nella pianificazione della propria vita futura? Ha senso poter sapere, in teoria fin dalla nascita, che abbiamo considerevoli probabilità di ammalarci, per esempio, di cancro al seno oppure il rischio è accrescere l’angoscia?

 

Silvia Pennisi

[immagine tratta da donnamoderna.com]

Giovani e azzardo

Amato come il rischio, odiato comea prigione.

Il gioco d’azzardo è da sempre qualcosa che affascina l’uomo, facendo credere di essere alle redini del comando, avvolgendolo nel caldo manto del “tin-tin” ripetuto delle macchinette che fingono di regalare soldi.

È un vizio, ma non di quelli da una notte e via, così sarebbe semplice avere il coltello dalla parte del manico; il gioco d’azzardo è un cannibale che ti divora piano piano, pezzo per pezzo, partendo dalle cose materiali che possiedi, fino a sbranarti l’anima.

Eppure, ben sapendo tutto questo, il gioco d’azzardo si diffonde a macchia d’olio e purtroppo anche tra i più piccoli; non parlo solo di figli di accaniti genitori (magari! Almeno ci sarebbero una spiegazione logica e un capro espiatorio), ma anche di bambini provenienti da famiglie normali, ma forse talmente normali da sfociare nell’ingenuità più profonda, tanto da portare loro stessi i figli a giocare dopo la scuola.

Il gioco è una condizione umana dettata dal bisogno di fuga dalla realtà e perciò visto come qualcosa di innocuo, divertente e rilassante. Non si scorge quasi mai il pericolo che esso possa diventare una droga di cui si avrà continuamente bisogno.

È noto ormai che il numero di giovani, soprattutto dai 12 ai 18 anni, gioca spesso d’azzardo, sia online che offline, adducendo scuse quali ‘per divertimento’, ‘per vincere soldi’ o, peggio ancora, ‘lo fanno anche mamma/papà/nonno’, dunque l’emulazione che è caratteristica tipica degli adolescenti.

Il gioco d’azzardo è, oggi, una realtà in forte espansione e la crisi economica, insieme alla mancanza di prospettive, hanno aumentato il ricorso a questa attività, che è diventata patologica per i più giovani, anche a causa della facilità di accesso ai siti internet dedicati o per la diffusione di video poker o simili in luoghi frequentati soprattutto da adolescenti.

Una domanda, però, sorge spontanea: perché si arriva alla patologia tra i giovani? L’ossessione per il gioco d’azzardo è sicuramente da intendersi come amplificatore di un disagio e, come dice il Dott. Paolo Bagnare, psicologo, in un’intervista:

“la vincita facile ha in sé un aspetto magico che fa presa in giovani individui che non si sono del tutto lasciati alle sole il pensiero magico infantile. Questa difficoltà innesca però il meccanismo che ci dice alla dipendenza. L’adolescenza è un periodo  border  caratterizzato  da una forte fragilità, durante il quale spesso si cerca un appoggio esterno per supplire alla mancanza di definizione e di forza interiore. Il giovane è anche incline a sfidare il mondo degli adulti pur non avendo ancora piena consapevolezza delle sue azioni. La Rete è sicuramente un modo per entrare in contatto con un’attività tipicamente da adulti e il denaro non è la molla principale. Gli adolescenti apprezzano l’eccitazione del gioco e la capacità di entrare in un mondo altro dove perdersi e dimenticare tutti i problemi della quotidianità.”

Il gioco, dunque, come motivatore, come aggancio da trovare in mezzo alla bufera adolescenziale che caratterizza ogni essere umano di quell’età, e come dimostrazione dal fragilità e debolezza emotiva.

Iniziare a giocare per caso, spinti dai propri genitori che come ‘premio’ di buon comportamento portano i figli in sala giochi, dimostra sempre di più l’assenza di valori e la vacuità morale che pervade la nostra società odierna, perché è palese la mancanza di dialogo genitore-figli, l’inadeguatezza dei primi nel non cogliere la gravità delle conseguenze del loro gesto alla loro apparenza innocuo e il totale oblio che mescola in un tutt’uno non impegno-divertimento-soldi-patologia (non omogeneo perché tutti e tre gli elenementi sono ben distinguibili, se ‘ascoltati).

Il morboso inseguimento del ‘soldo facile’ è una piaga ben estesa tra i giovani di oggi che, pur di comprarsi qualunque cosa, sono disposti a pagarla sempre e sempre di più, combattendo battaglie impari con delle macchinette programmate solo esclusivamente per vincere.

La nostra società ha il dovere di monitorare questa patologia sempre più diffusa, collaborando con la famiglia che per prima deve assicurare al giovane un’educazione votata al valore e al rispetto dei soldi, alla soddisfazione di sudarseli, alla capacità di guadagnarseli, sia con la scuola attraverso i racconti reali di chi la ludopatia l’ha vissuta sulla propria pelle, perché il manifesto appeso alla bacheca non serve, servono le testimonianze di chi ha vissuto l’inferno, divorato ogni giorno dalle fiamme, per poi riemergere e comprendere che la schiavitù del gioco è una dipendenza subdola ma anche superabile.

Valeria Genova 

[immagine tratta da Google immagini]