Favolacce: morire basta per rinascere?

Favolacce (2020) dei fratelli D’Innocenzo è un’opera complessa da definire, una favola nera in cui non vi sono eroi e forse neanche dei veri e propri cattivi; una favola oscura che ci porta all’interno di una realtà sospesa tra l’assurdo e l’onirico.

Pur essendo l’opera ambientata ai giorni nostri sembra di trovarsi in un limbo, i personaggi sono incapaci di ogni tipo d’azione – e anzi, gli adulti che si sono assuefatti alla realtà ne sono incapaci, ma chi agisce sono i bambini o meglio i quasi adolescenti: sono gli unici che riescono a concepire un’estrema via di fuga e (forse) consapevolmente prendono un’estrema decisione. Nel finale la voce narrante legge alcune parole dal diario di una giovane protagonista affermando di essere dispiaciuta di aver raccontato una storia al limite dell’assurdo, ma ora il tragico finale ci “riporterà a iniziare da zero”.

Ma è davvero la morte l’unica soluzione per poter rinascere? La morte delle nuove generazioni sembra essere ciò che riesce a purificare le vite ormai perdute dei genitori, una redenzione non richiesta, ma essenziale. I genitori che hanno condannato a morte inconsapevolmente i propri figli attraverso la loro infelicità e incomprensione sembra vengano condannati alla sofferenza, ma attraverso questa assolti.

Eppure la morte non basta, perché il ciclo delle vite dannate e assuefatte continua e lo si nota nelle ultime immagini che raffigurano un ennesimo dramma familiare.

Ma se neanche morire è sufficiente, come si può rinascere dalle ceneri del proprio fallimento? Il triste messaggio dell’opera è ciò che spaventa di più ascoltare e vedere: la realtà è senza scampo e per quanto si voglia cercare di fuggirne essa è pronta nuovamente a tendere un agguato, le ceneri che ci portiamo dentro saranno la nostra cicatrice eterna. Si può scegliere di morire prima di essere assuefatti da una realtà che ci priva della nostra sensibilità, come fanno i giovani protagonisti, o si può scegliere di non scegliere e agire come i genitori.

In un noto romanzo di Günter Gräss, Il tamburo di latta, il giovane protagonista rifiuta la sua realtà su cui incombe la minaccia del nazionalsocialismo e decide di provocarsi un danno fisico per non crescere più e di non esprimersi se non attraverso il suono del suo tamburo di latta. La scelta del protagonista è dovuta al fatto che egli afferma di non voler vivere in un modo dove l’individualità è scomparsa, dove non vi sono più eroi o rivoluzionari, ma solo coloro che hanno deciso acriticamente di vivere una realtà in cui non sono più protagonisti, ma spettatori. Ciò che pensa il giovane protagonista del romanzo descrive esattamente quello che è il messaggio che i giovani protagonisti di Favolacce vogliono passi attraverso lo schermo: si deve lasciare la scena prima di diventare privi di sensibilità e delle grandi qualità umane da romanzo quali l’ambizione, l’umanità, l’empatia.

I genitori dei giovani protagonisti sono affetti da una malattia tipica dell’età moderna: la continua ricerca di qualcosa che superi ciò che già si possiede. Sono incapaci di prendersi la responsabilità delle proprie scelte e talmente incentrati su sé stessi che diventano cechi di fronte alle esigenze dei propri figli, tanto da non riuscire a vedere ciò che accade alla luce del sole dinanzi ai loro occhi.

I genitori mancano di empatia perché concentrati sulla propria insoddisfazione ed eterna sensazione di non essere mai abbastanza, una terribile sensazione di “normalità” sembra li assalga. Sono incapaci di ambizione perché inconsciamente non vogliono uscire dal microcosmo di una provincia immaginaria troppo reale e asfissiante di cui fanno parte, l’atto estremo dei bambini è un atto di ribellione, la ribellione è un sentimento forte che si cela dietro anche gesti estremi. La morte come ribellione è un concetto difficile e forse a tratti paradossale, la ribellione intesa come azione qui si trasforma in un atto che pone fine ad ogni azione. L’umanità e la paura dei giovani protagonisti è tangibile quando poco prima dell’atto estremo una lacrima riga un volto; è straziante che siano così indifesi e soli e per questo disperatamente costretti ad agire.

Favolacce è una parabola amara che cattura l’attenzione dello spettatore, lo trasporta in una storia macabra, oscura, simile a un incubo e forse ciò che spaventa di più è che sia in effetti reale, troppo reale. Non c’è risposta alle domande dello spettatore che deve accettare che a volte bisogna soltanto riflettere e osservare; la grandezza di un’opera d’arte sta nel suscitare domande che non hanno risposta e spingerci oltre il nostro piccolo microcosmo: in questa prospettiva Favolacce è sicuramente un’opera eccezionale.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta dal film]

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Una parola per voi: rinascita. Aprile 2019!

«Fanny calò davanti a Silente, spalancò il becco e inghiottì lo zampillo verde: esplose in fiamme e cadde a terra, implume e raggrinzita. […] e Fanny, fenice neonata, […] cinguettava piano sul pavimento…»

Harry Potter e l’Ordine della Fenice, J.K. Rowling

Il 21 aprile quest’anno si celebra la Pasqua, festività cristiana che ricorda la resurrezione di Cristo. Esulando dalle implicazioni religiose, noi de La Chiave di Sophia abbiamo voluto riflettere sul concetto di rinascita a partire da questa citazione tratta dal quinto libro della saga di Harry Potter. La protagonista è Fanny, la fedele fenice del mago Albus Silente, preside di Hogwarts e personaggio centrale – sia nella saga che nella vita di Harry. In questa scena Fanny si sacrifica per difendere Silente inghiottendo quello “zampillo verde”, incantesimo mortale scagliato da Voldemort. La fenice però, come da leggenda, perisce tra le fiamme per poi risorgere dalle sue stesse ceneri: dopo quel suo sacrificio la ritroviamo infatti neonata e cinguettante. Una rigenerazione magica e fantastica, certo, ma non dobbiamo dimenticare che tutti noi, in svariati modi diversi, possiamo reinventarci, azzerare tutto e rinascere a nuova vita. Siete curiosi di scoprire quali film, romanzi, canzoni e opere d’arte trattano il tema della rinascita? Ecco cosa abbiamo selezionato per voi questo mese – buona Pasqua e rinascita a tutti!

 

UN LIBRO

mangia-prega-ama-chiave-di-sophiaMangia prega ama – Elizabeth Gilbert

La Liz delle prime pagine sembra godere di una vita piena, desiderabile dai più, ma vede ben presto la sua esistenza sgretolarsi sotto le pieghe di una depressione galoppante e di un rapporto matrimoniale al tramonto. Sceglie così di dare inizio a una nuova narrazione di sé, intraprendendo un lungo cammino che la porterà in Italia, in India e in Bali. Un viaggio alla riscoperta del piacere dei sensi, della bellezza, del valore dell’elevazione spirituale e di quel puro amore che non vuole il sacrificio bensì la fioritura del proprio io.

 

 

 

UN LIBRO JUNIOR

meravigliosa-criniera-di-monty-la-chiave-di-sophiaLa meravigliosa criniera di Monty – Gemma O’ Neill

Protagonista di questo veloce album dalle grandi e colorate illustrazioni è un leone dalla folta criniera. Parecchio vanitoso, Monty a volte trascura gli amici passando il tempo a specchiarsi, finché una spiacevole disavventura lo farà “rinascere”,  aiutandolo a capire l’importanza dell’ascolto del suo prossimo. Un libro per bambini piccoli, dai 2 ai 4 anni circa.

 

UN FILM

apropositodihenry-chiave-di-sophiaA proposito di Henry – Mike Nichols

La natura ci insegna che ad ogni morte corrisponde una rinascita, che all’inverno segue immancabilmente la primavera, ma per l’animo umano una simile resurrezione non è altrettanto automatica: spesso, infatti, neanche ci si accorge di essere morti. In A proposito di Henry di Mike Nichols, del 1991, il protagonista ha tutto: un lavoro prestigioso, un bel conto in banca, una bella famiglia-trofeo, molti amici. Accecato da ciò che ha, Henry dovrà perdere tutto per capire di non avere in realtà niente, e sarà un’amnesia in seguito a un tragico incidente a permettergli di ripartire da zero, finalmente rinascendo a una vita più densa e significativa della precedente. Paradossalmente, solo vedere e accettare la propria “morte” ci permette di rinascere a nuova vita.

 

UNA CANZONE

shake-it-ou-florence-machine-chiave-sophiaShake it out – Florence + The Machine

Questa canzone narra di come i demoni del passato possono perseguitarci: «every demon wants his pound of flesh», ogni demone vuole la sua libbra di carne, canta Florence Welch. Ma, come dice il ritornello: «it’s hard to dance with a devil on your back/so shake him off!». Tornare a danzare liberi, senza quel fardello, è possibile: bisogna però scuoterlo via, «shake it out». Senza temere l’oscurità, perché è sempre più buio prima dell’alba («it’s always darkest before the dawn») – prima della rinascita. E anche un cuore privo di grazia può essere strappato via dal petto per permetterci di ricominciare pieni di nuove prospettive («I am done with my graceless heart/so tonight I’m gonna cut it out and then restart»).

 

UN’OPERA D’ARTE

chiave-sophiaMarcanciel Stuprò ha fatto l’uovo  Marcanciel Stuprò

Claudio Cintoli (1935-1978), noto con la firma-anagramma di Marcanciel Stuprò – così spiegata in una lettera a Marcel Proust del 1974: «Caro Marcel, c’è stupore e stupro nel tuo nome… forse per me i giuochi di parole sono come le ciliegie, uno tira l’altro. Così ho continuato a giocare attorno al nome Marcel: L’arc en ciel, i sette colori della recherche…» ‒ si confronta con il tema della nascita, della morte e della rinascita, unendo provocatoriamente citazioni dalle Sacre Scritture alla ritualità della vita, segnata dallo spirito e dal sangue. È il caso di Aceldama (dall’aramaico “campo di sangue”), una serie di dittici di immagini ritraenti l’artista imbrattato dal sangue mestruale, una via crucis pagana, simbolo della negazione della vita. Emblema della sua produzione è l’uovo, figura della rigenerazione e metafora della creatività, come emerge nel suo manifesto, la dadaistica sequenza fotografica in quadricromia, affissa per le strade di Roma e Milano nel maggio 1976, Marcanciel Stuprò ha fatto l’uovo, e nella performance Crisalide, dodici minuti di attesa e di angoscia dilatati, durante i quali Cintoli si dibatte in posizione fetale in un sacco, lancia a terra e rompe un uovo da un varco creato da una lama, fino al momento in cui il suo corpo, libero dal sacco, scivola sul pavimento. (Foto scattata da Rossella Farnese durante la mostra On the road, allestita presso la Galleria d’Arte Contemporanea Pio Monti di Roma in Piazza Mattei nell’estate 2017).

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Federica Bonisiol, Giacomo Mininni, Rossella Farnese

 

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Una parola per voi: malinconia. Ottobre 2018

A partire da questo mese i nostri Selezionati per voi – libri e film cambiano la loro veste. D’ora in avanti ogni mese sceglieremo per voi una parola: un’emozione o uno stato d’animo tipico del periodo che andremo a vivere, che vi presenteremo di volta in volta con una poesia o una citazione. Selezioneremo allora, come d’abitudine, libri, film, canzoni e opere d’arte legati alla parola del mese! Come vi sembra questa nostra proposta?

Si alzi il sipario e iniziamo con “malinconia”, parola introdotta dalla poesia Canzone d’autunno del poeta Paul Verlaine.

I singulti lunghi
dei violini
d’autunno
mi struggono il cuore
d’un languore
monotono.

Ah squallido
e smunto, quando
risuonan l’ore
io mi ricordo
dei giorni in fuga
e piango;

e vado errando
nel cupo vento
che mi trasporta
di qua, di là,
simile alla
foglia morta.

 

Fil rouge del mese è l’autunno e la sensazione di languore malinconico che ci fa ripiegare su noi stessi, lasciandoci sospesi fra una stagione nuova e una vecchia ormai conclusa, piena di ricordi. Veniamo trasportati dalle stagioni senza poter controllare lo scorrere del tempo (siamo sospinti di qua e di là come foglie morte), ma al contempo il mutare dei colori attorno a noi, le foglie che cadono, l’aria frizzante e le giornate più corte ci provocano nel cuore uno struggimento speciale e dolce – una sorta di dolore misto a piacere che temiamo ma ricerchiamo. Singhiozzi e violini: Verlaine richiama una musicalità che gli era familiare e crea una sconfinata voglia di rimembrare – magari di quand’eravamo bambini e la scuola ricominciava portando con sé doveri, novità e crescita.

 

UN LIBRO

chiave-di-sophia-parla-ricordoParla, ricordo – Vladimir Nabokov

Quell’andare errando a cui Voltaire dà voce nella sua Canzone d’autunno risuona tristemente nelle pagine, forse ormai perdute nel limbo della memoria, di Parla, ricordo di Nabokov. Questi insegue ovunque la sua Musa, la Nostalgia. Nostalgia per una patria perduta, per una lingua, per una vita rubata. Sopra ogni cosa la nostalgia di cui racconta è per una bellezza ormai perduta, imputabile alla crudele mano umana e all’azione erosiva del tempo che porta ad una sconsolata ed irrimediabile solitudine.

UN LIBRO JUNIOR

la-chiave-di-sophia-scrivilalaguerraScrivila, la guerra – Luigi Dal Cin, Simona Mulazzani

Un album illustrato con un lungo contenuto testuale, ideale per portare i bambini d’oggi indietro nel tempo, a quando la guerra faceva piangere e non dava da mangiare. Il piccolo protagonista tira fuori la sua guerra e la scrive nel taccuino nero che il papà gli ha regalato dopo essere tornato dal fronte. La guerra, infatti, non può rimanere dentro, altrimenti finisce per soffocarti. Un libro semplice e commovente, che lascia nei cuori una sana scia di malinconia, consigliato a tutti i piccoli lettori dai 6 ai 10 anni all’incirca.

UN FILM

chiave-di-sophia-frantzFrantz – François Ozon (2016)

Presentato in anteprima alla 73ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, il film di François Ozon è un omaggio al cinema dei classici, versione moderna di Broken Lullaby di Lubitsch, ispirato a sua volta alla pièce L’homme que j’ai tué di Maurice Rostand. Nell’atmosfera elegante e rétro del primo dopoguerra, tra la Germania e la Francia del 1919, attraverso la sapiente scelta del bianco e nero per documentare il passato e evocare il grigiore di una vita in lutto, il thriller psicologico di morte e rinascita indaga il triangolo affettivo tra Anna, il defunto Frantz e Adrien, il poeta annientato dal ricordo, freudianamente sostituto dell’oggetto perduto. Frantz, leitmotiv di tutta la storia, è evanescenza pura, assenza così evidente da rendersi paradossalmente presenza protagonista e i versi della Chanson d’automne di Verlaine, che risuonano malinconici lungo la pellicola, rivelano la sua archetipica funzione rigeneratrice.

UNA CANZONE ITALIANA

chiave-di-sophia-ultimo-bacioL’ultimo bacio – Carmen Consoli

È una chitarra malinconica, accompagnata da archi leggeri, a raccontarci “l’eroico coraggio di un feroce addio”, la fine di un amore siglata da un bacio sotto la pioggia, momento di stacco tra la promessa di una vita in due e la realtà della solitudine che verrà. La ballata dal cuore gonfio di Carmen Consoli fa di “mille violini suonati dal vento” un eco di quelli cantati da Domenico Modugno in Piove e dei “violini d’autunno” di Verlaine, sottofondo musicale di un “per sempre” pieno di rimpianto e nostalgia, la certezza che ogni pioggia che verrà riporterà mente e cuore a quella che ha lavato via le lacrime dalle guance di due amanti separati-uniti dal loro ultimo bacio.

UNA CANZONE STRANIERA

the wall chiave di sophia pink floydComfortably Numb – Pink Floyd

Lampi del passato ad illuminare un oscuro presente. Ciò è quanto accade a Pink, la rockstar protagonista del pezzo Comfortably Numb della band inglese Pink Floyd – nonché dell’album The Wall (1979). Sulle note di uno dei migliori assoli di chitarra di David Gilmour, nei versi cantati da Roger Waters e dallo stesso Gilmour, la canzone racconta delle allucinazioni provocate al musicista dall’inoculazione del farmaco che avrebbe dovuto farlo uscire dall’abulia depressiva in cui è scivolato. In questi deliri, emerge l’immagine del passato, vagheggiato malinconicamente da Pink come porto sicuro al quale tornare dopo aver affrontato i marosi della sua vita da rockstar – ed essere naufragato in un’esistenza di eccessi, ridotto alla scoglio del guardare assente lo schermo di una tv in una camera d’albergo.

UN’OPERA D’ARTE

chiave-di-sophia-turner-fightingThe fighting Téméraire – William Turner

Le acque placide del Tamigi, una grande nave a vela della Marina inglese trascinata da un moderno rimorchiatore e un caldo tramonto che altro non rappresenta che l’inesorabile volgere al termine delle glorie di quella nave da guerra, reliquia della vittoriosa battaglia di Trafalgar ora dismessa e condotta lentamente alla demolizione. L’immagine è semplice e immediata. Parla di un passato glorioso che è definitivamente concluso, di un’età dell’oro che non tornerà, del destino di tutti e di tutte le cose, il quale, impietoso, conduce alla decadenza anche i più valorosi. La pietà resta solo negli occhi di chi, rimanendo, assiste con vena malinconica al tramonto di eroi le cui gesta soltanto sopravvivranno al logorante trascorrere del tempo.

 

Al prossimo mese, con la prossima parola.

 

Francesca Plesnizer, Sonia Cominassi, Federica Bonisiol, Rossella Farnese, Giacomo Mininni, Riccardo Coppola, Luca Sperandio

 

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Il cosmo e Leopardi

Al giorno d’oggi, sono soprattutto i fisici a interessarsi del destino dell’universo. Diversi sono gli scenari possibili: forse nei prossimi miliardi di anni l’infinita distesa delle stelle e dei pianeti rimarrà più o meno così come la vediamo oggi, o forse una continua e inarrestabile espansione porterà l’intero cosmo al congelamento e alla “morte termica”. Un’altra ipotesi non ancora del tutto smentita è la possibilità del cosiddetto “Big Crunch” (l’esatto opposto del “Big Bang”): l’universo che, invece di espandersi, si contrae e ripiega su di sé, annientando e riducendo a un punto inesteso se stesso e quanto era al suo interno.

Ma, un tempo, la domanda su quale sia il futuro che attende quanto è in Natura era innanzitutto un interrogativo da filosofi, da teologi, da letterati. Giacomo Leopardi, ad esempio, si è posto esattamente questo problema in due magnifici componimenti racchiusi in quella affascinante raccolta di scritti che porta il titolo di Operette morali, e ha tentato di risolverlo non mediante l’uso di qualche complicato e costoso apparecchio scientifico, ma soltanto facendo uso del proprio intelletto.

Nel primo dei due testi, il Cantico del gallo silvestre, Leopardi riporta un discorso tenuto proprio su questo tema – il futuro del mondo – da un certo leggendario gallo selvatico che, secondo alcuni maestri e scrittori ebrei, non solo sarebbe immensamente saggio (e dunque dotato, proprio come l’uomo, della ragione e dell’uso della parola), ma avrebbe anche dimensioni colossali (esso infatti, affermano i resoconti, «sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo»).

L’orazione pronunciata dal gallo silvestre intende indagare innanzitutto la natura umana, sviluppando poi considerazioni cosmologiche di più vasta portata. In particolare, il gallo rileva un’ana­logia tra quella che è la tendenza della coscienza in stato di veglia (spegnersi nel sonno) e quella che è la tendenza insita in ogni essere (il dirigersi inesorabilmente verso l’istante della propria distruzione). Questa simmetria non è casuale: a chi abbia occhi per vedere, infatti, appare chiaramente che «l’essere delle cose abbia per proprio ed unico obbietto il morire», ossia abbia come “obbiettivo”, scopo e destino finale il proprio annientamento. Basta guardarsi attorno per verificare di persona come «in ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte. […] Ogni parte dell’uni­verso si affretta [infatti] instancabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile». La vita e la coscienza – entrambe configurazioni dell’essere – sono delle parabole che tendono irrimediabilmente verso il luogo del loro stesso tramonto e spegnimento.

Sulla base di queste considerazioni, lo sguardo del gallo si fa poi di gran lunga più ampio, arrivando ad abbracciare e a descrivere non solo le sorti della razza umana, ma perfino quelle dell’inte­ro universo. An­ch’es­so infatti, come tutte le cose, «continuamente invecchia»; anch’esso condivide il destino comune a «qua­lunque [altro] genere di creature mortali, la massima parte del [cui] vivere è un appassire». Tenuto conto di ciò, il gallo può formulare la grande profezia con cui si chiude il terribile e maestoso Cantico: «tempo verrà» – dice il sapiente animale – «che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta». È la fine di tutte le cose: dei «grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età», non rimarrà infatti né «segno né fama alcuna: parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà neppure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso [ovvero: “il meraviglioso e terribile enigma dell’esistenza, prima di essere adeguatamente compreso e risolto dal­l’uma­nità”], si dileguerà e perderassi».

All’interno di questo scenario apocalittico, che assegna al cosmo nel suo complesso il destino di precipitare nel buio di un nulla senza fine, sembra però ancora essere possibile un ultimo barlume di speranza. Esso ci è offerto da Leopardi nell’altro testo delle Operette di cui intendiamo parlare: il Fram­mento apocrifo di Stratone di Lampsaco. In esso, l’antico filosofo Stratone (cioè Leopardi stesso) osserva che «i diversi modi di essere della materia, i quali si veggono in quelle che noi chiamiamo creature materiali, sono caduchi e passeggeri; ma niun segno di caducità né di mortalità si scuopre nella materia universalmente»; infatti, afferma Stratone, mentre «le cose materiali […] periscono tutte» e hanno tutte «fine» e «incominciamento», «noi veggiamo [al contrario] che la materia [in generale] non si accresce mai di una eziandio menoma quantità, [e che] niuna anco menoma parte della materia si perde, in guisa che [= “di modo che”] essa materia non è sottoposta a perire». Ne risulta che «la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab aeterno», sicché «si dovrà giudicare che […] non provenga da causa alcuna» e che, nonostante il «continuo trasformarsi delle cose da una in altra», la materia in se stessa non sia per questo «venuta meno in qual si sia particella».

Dopo aver richiamato, con tali parole, il principio di conservazione della quantità di materia (e quindi dell’energia), Stratone ne deduce che, qualora le forze che agitano la materia dovessero distruggere l’universo attuale, allora, «venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno [necessariamente] di questa [= “a partire da questa”] nuove creature, distinte in nuovi generi e in nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo». Stante l’eternità delle singole particelle di materia, infatti, la distruzione di un universo (il quale altro non è se non l’insieme delle relazioni temporaneamente intrattenute da tali particelle) non può che essere seguita dalla creazione di un altro universo ancora, non certo dal nulla assoluto.

Questo nuovo scenario cosmologico è di gran lunga più rassicurante del precedente, in quanto non conduce più gli esseri umani di fronte a quel cupo e atroce scenario in cui consiste l’ince­ne­ri­men­to totale, definitivo e senza possibilità di ritorno dell’intero universo. Certo, alcune righe di Leopardi lasciano intuire che egli ritenga che l’oscura profezia enunciata dal “gallo silvestre”, nonostante tutta la sua carica negativa, possa apparire per certi versi esteticamente più appagante della pur affascinante conclusione raggiunta da “Stratone” nel suo ragionamento perfettamente consequenziale. Nel § 261 dello Zibaldone, egli scrive infatti: «il sentimento del nulla […] è il sentimento di una cosa morta e mortifera. Ma se questo sentimento è [reso] vivo [ed è stimolato e innalzato dal canto poetico], […] la sua vivacità prevale nell’animo del lettore alla nullità della cosa che fa sentire, e l’anima riceve vita (se non altro passeggiera) dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose, e sua propria». Ma che Leopardi, da ultimo, propenda proprio per l’ipotesi di un’e­ter­­na rinascita dell’universo dalle sue ceneri è certo, perché egli stesso, in una nota autografa inclusa nella seconda edizione delle Operette morali e posta in calce al Cantico del gallo silvestre, dichiara che la teoria lì presentata ha una «conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, [infatti,] l’esi­stenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine».

 

Gianluca Venturini

 

BIBLIOGRAFIA:
1. Leopardi, Operette morali, a cura di P. Ruffilli, Garzanti, Milano 2011 (1a ed. orig. 1827);
2. Leopardi, Zibaldone di Pensieri, a cura di A.M. Moroni, Mondadori, Milano 2008, 2 voll.

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Squisito! – Ruth Reichl

Billie Breslin lascia la California per trasferirsi a New York, dove ambisce al posto di segretaria per Squisito!, celebre rivista gastronomica della Grande Mela. Sin da piccola Billie ha un talento naturale, un palato attraverso il quale riesce a distinguere anche gli ingredienti più complessi, a visualizzare alchimie di sapori, a prevedere perfette sinfonie di gusti. Talento che si rifiuta di utilizzare in cucina da quando un doloroso evento ha invertito per sempre la rotta della sua vita.

Squisito! si rivelerà per Billie una grande avventura, un caleidoscopio di conoscenze e nuove esperienze, purtroppo destinate ad interrompersi bruscamente. La rivista chiuderà i battenti per bancarotta e toccherà proprio a Billie rispondere agli ultimi reclami dei clienti in quella maestosa casa newyorkese ormai vuota, abbandonata dai colleghi e destinata a trasformarsi in un’abitazione privata. Proprio in questa circostanza Billie farà una scoperta inaspettata: una stanza segreta che custodisce una corrispondenza epistolare risalente a settant’anni prima, lettere inviate da una ragazzina al celebre chef James Beard, nei tragici anni della seconda guerra mondiale. Billie, grazie alle parole di Lulu, cariche di gioia di vivere, coraggio, determinazione e speranza, intraprenderà un cammino alla ricerca di quella ragazzina del passato, ma anche e soprattutto di se stessa.

Squisito! è una storia che profuma di zenzero, arancia e cannella. E’ una storia zuccherosa al primo morso, ma con un retrogusto deciso e speziato. Billie per tutta la vita ha combattuto con il suo sentirsi inadeguata, inadatta, a volte addirittura invisibile. Poi accade ciò che non sarebbe mai dovuto succedere, e da quel momento si chiuderà in se stessa, si trincererà in un cieco senso di colpa, annientando il proprio essere, annullando la propria anima e privandosi di ciò che più ama fare: cucinare. Finché Lulu, una ragazzina cresciuta durante la guerra non si farà spazio nella sua vita e nei suoi pensieri, creando una piccola crepa nell’armatura di Billie. Una crepa dalla quale ben presto entreranno luce, vita, rinascita e forse persino l’amore.

Lo stile di Ruth Reichl è caldo e accogliente, guida il lettore tra le strade di New York, tra personaggi unici, caratteristici, modellati con cura e maestria. Il cibo, la cucina, l’arte culinaria, riempiono la narrazione di odori, sapori, dettagli che rapiscono i cinque sensi del lettore. Come la gastronomia italiana di Sal Fontanari che, nel cuore di New York, dona ai clienti non solo salumi e formaggi, ma anche una porzione di sentimenti tipicamente italiani: ospitalità, condivisione, umorismo, ilarità.

E’ come se pensassero che tornando a casa troveranno un po’ dell’ottimismo di Sal, incartato insieme al formaggio.

Squisito! è una lettura piacevole, dai toni delicati e dai sapori dolci, ma non solo. E’ un libro che ci invita ad andare avanti nonostante tutto, a diventare ciò che desideriamo essere, ad assumerci i rischi azzerando i timori. Perché in fondo la vita è molto simile ad un soufflé e, come direbbe James Beard…

 l’unica cosa che fa sgonfiare un soufflé è sapere che ne avete paura.


Stefania Mangiardi

[immagine tratta da Google immagini]

C’era una volta l’Amore

Ogni donna ha un segreto, ha un amore sciupato che affiora e divora il suo cuore malato. E’ sincero il segreto, è quella musica dolce che in passato l’ha fatta sognare e adesso non serve ad un bel niente. E se c’era una volta l’amore, ho dovuto ammazzarlo. Cesare Cremonini

Ogni donna, ogni uomo, ogni persona, vive l’amore ogni giorno. Non importa che sia San Valentino, Natale o il proprio compleanno. Tante cose – forse a volte troppe – nella vita, parlano d’amore.

Camminava a passo sostenuto, camminava senza contare i suoi respiri, camminava pensando a troppe cose, o – per meglio dire – cercando di non pensare a qualcosa in particolare. A qualcosa non era proprio la specificazione esatta, perché era qualcuno che cercava di non pensare, quel qualcuno che l’aveva ferita.
Era passato ormai qualche mese, e lei camminava per le strade di una grande città nel giorno di San Valentino. Aveva sempre detto “E’ un giorno come un altro”: in quei tre anni passati con lui non c’era stato bisogno di nessun giorno speciale, perché lo erano tutti. Era speciale guardarsi, trovarsi a dire le stesse cose inaspettatamente, pensare all’unisono, decidere insieme senza concordarlo. E poi c’erano quei giorni passati interamente a fare l’amore, quei giorni in cui avevano trovato il primo treno utile per partire verso una meta decisa all’ultimo. Quei giorni in cui avevano litigato fino a diventare assuefatti dall’odio. Quei giorni in cui un ultimo bacio pensavano che non ci sarebbe mai stato. Quei giorni in cui si ritrovavano a ridere, ridere e ancora ridere insieme. Quelle sere in cui avevano bevuto talmente tanto da non ricordarsi nemmeno dove avevano lasciato le paure. Quei giorni in cui non c’era stato bisogno di parlare, perché c’erano state soltanto lacrime. Lacrime che prontamente erano state spazzate via dai chiarimenti, dal volerci credere ancora, dal volersi vivere ancora. Perché lei aveva sempre creduto in quell’ancora. Aveva sempre creduto che avrebbero potuto affrontare qualsiasi battaglia, e anche qualunque guerra.
Eppure, da qualche mese, non avevano vinto. Avevano perso tutto. Si erano persi loro. Non sarebbe stata in grado di dire se ci fosse stato un giorno esatto in cui avevano smesso di capirsi e brillare insieme. Non se n’era accorta, non aveva fatto caso al loro spegnersi lento. Pur amandolo, non si era accorta di non essere più amata. Non si era data il tempo di capire se la vita da sola potesse fare per lei, non si era data attenuanti al dolore, non si era concessa respiri che fossero dedicati soltanto a se stessa.

E dopo quei mesi, passati a cercare il modo di ricostruirsi, pezzo dopo pezzo, si ritrovava a camminare per le strade di una delle loro tante città, il giorno di San Valentino. Le sembrava tutto amplificato ora; non aveva mai fatto caso a quanti palloncini rossi e rosa tappezzassero le strade. Non aveva mai fatto caso a quanti baci vengano dati il giorno di San Valentino, non aveva mai guardato gli occhi delle persone. Gli occhi che ora sembravano brillare.

Si accorse che anche i suoi brillavano, luccicavano, si riempivano di lacrime. Due lacrime rigavano le sue guance. Due lacrime colme di rimmel, sporche di dolore, malate d’amore. Si fermò per un attimo. Fermò la sua corsa contro il dolore, fermò i suoi passi veloci. Si fermò, fermò il suo cuore distrutto. E, per la prima volta da quando si erano lasciati, pianse. Pianse a dirotto. Pianse in mezzo ad una strada di una grande città. Pianse senza avere più lacrime. Pianse senza saper più contare i respiri. Pianse. Pianse. E ancora pianse.
Pensò a quel giorno in cui lui l’aveva lasciata, quel giorno in cui lei gli aveva detto soltanto che non era poi un grande problema, perché sarebbe riuscita benissimo a cavarsela da sola. Quel giorno che aveva fermato lacrime, vita e dolore. Quel giorno che aveva voluto evitare tutto questo. Quel giorno in cui le sue labbra si erano limitate a chiudersi in un sorriso di convenienza. Quel giorno in cui sapeva che non l’avrebbe mai più rivisto.

Quel giorno che – ormai – era così lontano. Quel giorno in cui le lacrime non erano uscite perché avevano aspettato il momento giusto. Il momento in cui l’amore si era trasformato in dolore. Il momento in cui aveva lasciato che il dolore la prendesse del tutto. Il momento in cui tutto il male era pronto a diventare bene. 

Quel San Valentino a cui non aveva mai pensato, era diventato il primo giorno in cui le era rinato il coraggio di amarsi. Amarsi e A(r)marsi. Smettere di sopravvivere e ricominciare a vivere. Quando il dolore lascia il posto alla vita, quello era stato il suo momento. Capendo che amare se stessa sarebbe sempre stato qualcosa su cui contare, capendo che l’amor proprio genera anche quello che ti regalano gli altri.

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Se c’era una volta l’amore – nel mondo di oggi – ogni persona almeno in un’occasione, ha cercato di ammazzarlo. Gli ha dato calci, pugni e schiaffi finché non l’ha rincontrato.
L’unico amore che rimane sempre, è quello per ciò che ci fa sentire vivi. Noi stessi. Noi con le nostre passioni e i nostri sogni da realizzare. Noi con i nostri difetti e i nostri momenti no. Noi con le nostre paure e troppi dubbi. Noi col nostro impegno e la nostra determinazione. Noi che prima di guardare indietro, dobbiamo guardare avanti. Noi che prima di guardarci dentro, dobbiamo guardare quello che vogliamo raggiungere. Noi che prima di dire “E’ impossibile”, dobbiamo essere in grado di provare cosa significhi.

Esattamente undici anni fa, circa a quest’ora, ho avuto un incidente in cui ho rischiato la vita. Non so per quale strano caso, da quel giorno credo all’impossibile. Credo alla vita un minuto alla volta. Credo perfino all’amore, nonostante io abbia dovuto ammazzarlo più di qualche volta.

Amare se stessi è l’inizio di una storia d’amore che dura una vita. Oscar Wilde

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da Google Immagini]