L’architettura come volto del potere

Non è un mistero che le produzioni culturali di una società siano strettamente legate al tipo di politica che la governa e all’ideologia che la pervade. La letteratura, per esempio, non è mai totalmente avulsa dalle correnti di pensiero dominanti di un’epoca, nemmeno quando l’autore ne prende le distanze o vi si oppone, poiché qualsiasi riferimento al reale, qualsiasi tematica trattata e qualsiasi confronto si voglia mettere in piedi non possono evitare di affacciarsi a una situazione politicamente e socialmente ben strutturata. Così accade anche per la musica e per le arti figurative, anche se è molto probabilmente l’architettura a rappresentare il campo d’azione creativa dove emerge in modo più palese il legame tra arti e pensiero politico.

D’altronde il binomio architettura-politica ricorre instancabilmente sin dall’antichità, quando i regnanti, per enfatizzare il loro potere, facevano costruire templi e mausolei dall’aspetto grandioso, che rappresentassero al meglio la loro aura divina e la loro invincibilità. Molto spesso questi interventi non si limitavano alla costruzione di monumenti isolati, ma modificavano il volto di un’intera città, aggiornando il tessuto urbano e adeguando edifici pubblici e privati a un gusto ben preciso, che comunicasse visivamente i principi ideologici del leader politico. Basti a pensare al Foro di Traiano nell’antica Roma, o, in tempi più recenti, alla costruzione ex novo della città di San Pietroburgo per avere ben chiaro quanto sia stretto il legame tra leadership e forme architettoniche.

Non c’è da meravigliarsi, dunque, che ogni epoca abbia un suo stile architettonico identificativo, che cambia principalmente con il cambiare di sistemi di governo, di situazioni socio-politiche e religiose sia locali che internazionali, di sistemi di produzione e di ideologie condivise. Il primo Rinascimento italiano, dominato dall’equilibrio e dall’armonia delle forme architettoniche, è un’epoca di ritorno al classicismo “all’antica”, voluto da cardinali, signori e duchi quali Ludovico il Moro e Federico da Montefeltro per dare alle loro città un aspetto tale da ricordare i fasti dell’antica Roma, cui il loro governo pretendeva di somigliare per valori e idee inseguiti e agognati. L’architettura neoclassica, similmente, volle abbandonare il lusso sfrenato e l’esasperazione delle forme dell’età barocca, per ritornare a un equilibrio che ben si sposava con gli ideali razionali dell’Illuminismo e con le politiche liberali di età napoleonica. E così si potrebbe andare avanti fino ai giorni nostri, ininterrottamente e per qualsiasi tipo di costruzioni, anche le più funzionali: un esempio plateale, in tempi recenti, è rappresentato dalle vaste aree residenziali delle città sovietiche, caratterizzate da grandi edifici dalle linee estremamente semplici, uniformi e ripetitive, in pieno accordo con l’ideologia comunista imperante nei paesi dell’Est Europa dal periodo staliniano fino al crollo del Muro di Berlino.

Ma perché è proprio l’architettura a essere così fortemente dipendente, in modo più o meno voluto, dalle dinamiche socio-politiche di una data regione geografica in un dato periodo storico? Lo spazio architettonico rappresenta lo spazio materiale nel quale l’uomo vive e opera, il luogo reale che entra a far parte della sua vita come dimensione tridimensionale indispensabile, al fianco della natura, per dare un senso alle sue attività e, di fatto, per rafforzare la sua identità, sia a livello culturale che ideologico. Più semplicemente, l’architettura, insieme alla natura, si pone nella mente dell’uomo come immagine del mondo, e in quanto tale essa ha il potere di tradurre in spazio tridimensionale convinzioni, stili di vita e assetto politico di una società. Ancor di più, essa può essere non solo il risultato tangibile di certe scelte ideologiche e politiche, ma molto spesso essere essa stessa, su volere di chi governa, a determinare quelle convinzioni e quegli stili di vita. Un chiaro esempio di ciò è riscontrabile nell’importanza che i regimi totalitari del Novecento, fascismo in primis, diedero all’architettura, che aveva il compito di rafforzare, mediante determinate forme, il senso di appartenenza dell’uomo a un sistema sociale e politico dettato dall’alto ma evidentemente “giusto”, in quanto onnipresente nel mondo reale dell’individuo e dunque nella sua vita.

Quello dell’architettura dunque è un vero e proprio linguaggio, con un suo codice, una sua forza e un suo significato, fatto non solo di capitelli dorici, ionici e corinzi, ma anche e soprattutto da un legame inscindibile con la storia della società umana, della quale è parte integrante e fondamentale. Conoscere questo linguaggio può aiutare a comprendere in modo più approfondito e completo alcune dinamiche storiche che, dalle pagine dei libri, possono apparire talvolta troppo astratte e distanti dalla nostra esperienza diretta e dalla nostra realtà di tutti i giorni.

 

Luca Sperandio

 

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Introduzione senza parole: “La Metamorfosi di Narciso”

Oggi ai filosofi si rimprovera di usare come oggetto d’indagine preferito il concetto di arte attribuendole una specie di missione metafisica, che le farebbe, parafrasando Heidegger “mettere in opera la verità”. Così si risente del fatto che l’arte venga sottratta dall’azione della pratica artistica, dal suo luogo, dai suoi ateliers, come un territorio di silenzio che l’analisi concettuale verrebbe a disturbare. L’arte e la filosofia sono giunte a superare l’esercizio di una “teoria estetica” dando vita ad una simbiosi, dove ciascuna ha bisogno dell’altra per comunicare. Assioma che richiama la necessità di almeno due interlocutori − non a caso, il termine “comunicare” significa in primo luogo “condividere”. Questo non vuol dire che la relazione instaurata con gli oggetti non sia comunicazione: tali relazioni non possiedano le stesse caratteristiche della comunicazione tra due soggetti, ma ne condividono parte dei processi percettivi che costituiscono qualsiasi esperienza umana.

Non approfondiremo questa riflessione, ma proporremo a partire da essa, un salto di dimensione “artistica” e “corporea”, che spieghi la scelta di un’opera, come la Metamorfosi di Narciso (1937) di Salvador Dalì. La comunicazione artistica “eccede” qualsiasi linguaggio, collocando i soggetti in una “quarta dimensione”: non solo temporale, contingente all’atto del fluire, ma piuttosto il frutto della sintesi tra creazione e osservazione. Essa è il luogo che ciascun professionista dovrebbe raggiungere per dar vita ad una comunicazione “artistica”. L’idea emerge dalla struttura del quadro, dalla coesistenza delle sue parti secondo le regole di cui non sempre si è capaci di esternare le formule. L’artista compone la sua opera rivolgendosi al potere di interpretare tacitamente il mondo e gli uomini e di coesistere con loro. La forza dell’arte è di mostrare come qualcosa diventi significato dalla disposizione spaziale/temporale dei suoi elementi. In una delle sue autobiografie, Diario di un genio Dalì scrive: «Tutti vogliono sapere il metodo segreto del mio successo: si chiama metodo paranoico-critico. Da più di trent’anni l’ho inventato e lo applico con successo, benché non sappia ancora in che cosa consista. Grosso modo, si tratterebbe della sistemazione più rigorosa dei fenomeni e dei materiali più deliranti, con l’intenzione di rendere tangibilmente creative le mie idee più ossessivamente pericolose».

Metodo che applica in quest’opera, dove ripropone la trasformazione del personaggio mitologico calandolo nell’estetica e nel suo surrealismo. A sinistra del quadro si vede dipinta, con colori caldi, la figura umana di Narciso, in posizione fetale e pronto alla trasformazione. Sulla destra, con colori più freddi e con la precognizione della morte, si staglia una mano che ha le stesse forme del corpo di Narciso. Una mano tiene tra le dita un uovo dal quale nasce un fiore. Sullo sfondo una serie di personaggi, statue e figure che richiamano al Rinascimento; a cui si aggiungono elementi contrastanti, per dare sfogo all’inconscio e complicare il lavoro interpretativo dei critici.

La speranza di recuperare la condizione perduta, i tentativi di adattarsi al nuovo stato, i comportamenti familiari e sociali, l’oppressione della situazione, lo svanire del tempo sono gli ingredienti con i quali l’autore elabora la trama dell’uomo contemporaneo, un essere condannato al silenzio, alla solitudine e all’insignificanza. Da qui ne scaturisce, a mio avviso, la necessità di ritirarsi e chiudersi in un mondo tutto personale nel quale ritrovare un possibile sollievo e la negata serenità, ossia l’identità per sempre perduta. Si è incapaci di accettare le diversità, di rompere la realtà convenzionale, le abitudini di una società che rimane primitiva, ferma e ben salda su pregiudizi infondati e aberranti, che ha paura di scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa che possa scontrarsi contro i principi, molto spesso assurdi e incomprensibili, alla base della vita. Diversità non è sinonimo di follia, di malattia o di mostruosità, ma può produrre in noi la necessità di una vera e propria “metamorfosi”. Ci si trova di fronte ad un livello di significato eccedente che si pone al di là di ogni intenzione simbolica di comunicare un contenuto.

Così l’arista si trova nell’opera, nella psiche del creatore e del fruitore, intessendo un dialogo attivo con le vari sfere della cultura. L’opera d’arte in questo senso crea una struttura sociale, comunicativa ed interpersonale. Il suo messaggio (finalizzato come opera d’arte), non deve mai essere inteso come dato e dogmaticamente statico, esso è sempre una proposta, l’esempio dialogico di un lavoro creativo che comunica con il mondo e con noi.

Rosaria Iacovino

Rosaria Iacovino, nasce in Basilicata ventotto anni fa in un piccolo paesino di provincia, Castelsaraceno. Tra le sue passione c’è l’arte e la letteratura di tutti i generi, tranne quella mielosamente romantica. Ama viaggiare, conoscere usanze e posti nuovi.
Verso i quindici anni s’innamora profondamente della filosofia, un amore a prima vista, che la porta a trasferirsi a Firenze dove frequenta il Dipartimento di Filosofia, ed è prossima alla laurea in Scienze filosofiche con una tesi in Neuroestetica.
Adora scrivere sulla sua scrivania, ma presto dovrà comprarsene una nuova perché è quasi finito lo spazio sul piano di quella che ha adesso.
Sogna un domani da insegnante.

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L’arte non ha etichette

Ciascuno di noi possiede delle nozioni che, assimilate negli ambienti scolastici in lunghi anni di studio, risultano talmente radicate nella nostra mente da ostacolare, spesso e volentieri, il nostro spirito di osservazione, che, imprigionato tra le sbarre di rigide categorie (considerate inconsciamente ed erroneamente come scientifiche), non riesce più ad imporsi con forza e farci vedere le cose come stanno.

Me ne rendo conto specie quando a una qualche forma d’arte, o ancor meglio a una specifica opera o a un dato artista, si tende ad associare un aggettivo che, fungendo da generale (e generalizzante) categoria, lo assimila a decine o centinaia di altri prodotti artistici con i quali spesso ha pochissimo in comune, se non assolutamente nulla. Questo succede per qualsiasi forma artistica e, stando a quanto più mi compete, mi limiterò a dare un’idea di quanto, nell’arte figurativa, queste “etichette” possano risultare dannose e fuorvianti, nonostante possano sembrare, in un primo momento, dei comodi punti di riferimento per inquadrare epoche e protagonisti.

Questo è più o meno il sunto di come ciascuno, secondo l’insegnamento delle scuole secondarie, vede l’evoluzione delle arti: dopo la caduta dell’impero romano in Occidente ecco un lungo periodo di barbarie in cui l’arte regredisce, passando per Longobardi e dinastie carolingie; dopo l’anno Mille troviamo prima il Romanico e poi il Gotico, che cancella (almeno in architettura) il periodo precedente; con il Quattrocento arriva (finalmente!) il Rinascimento, che recupera la bellezza dell’arte antica cancellando gli “errori” del passato; dal Seicento si sviluppa il Barocco, pomposo, esagerato e bizzarro, al servizio delle menti “malate” di sovrani assoluti senza scrupoli e pertanto deplorevole; ecco che poi, nel tardo Settecento, torna l’arte classica (il Neoclassicismo) e nasce, subito dopo, la corrente romantica; giunge infine, a Ottocento inoltrato, l’impressionismo, che apre le porte alla contemporaneità e a nuovi modi di fare arte; il Novecento, infine, viene studiato seguendo la nascita e lo sviluppo delle Avanguardie.

Ora, constatato che questo è ciò che nella maggior parte dei casi viene trasmesso, è da chiedersi se non sia il caso di eliminare almeno alcune delle “etichette” di comodo che si sono viste. Sì, alcune, perché nell’arte del Novecento quelle che, assimilate a tutte le altre, possono sembrare anch’esse etichette, sono in realtà vere e proprie correnti artistiche (note come “Avanguardie”) con delle proprie caratteristiche specifiche, con uno o più fondatori e diversi membri che vi hanno aderito consapevolmente. Basti pensare al Cubismo o al Futurismo: hanno dei fondatori, diversi artisti che ne hanno seguito i “precetti” e, talvolta, persino una dichiarazione d’intenti (per esempio il Manifesto Futurista). Ciò non basterà a comprendere le diverse contaminazioni tra le varie correnti, ma è il punto di partenza fondamentale per la loro conoscenza.

Quando invece parliamo per esempio di Barocco, cosa ci viene in mente? Ed ecco che ci accorgiamo che nel gran calderone che porta questo nome troviamo di tutto, e che l’“etichetta” non rende giustizia alla varietà formale e concettuale che ritroviamo nell’epoca cui si riferisce. Come si possono accostare due artisti antitetici come, per esempio, Rubens e Zurbaran? Oppure Caravaggio e Andrea Pozzo? La parola “barocco” è stata utilizzata per marcare negativamente le opere d’arte che mediante sfarzo e virtuosismo in eccesso miravano a colpire l’attenzione dello spettatore e a spettacolarizzare la gloria e la ricchezza dei loro committenti. Queste vistose qualità emergono nelle arti decorative attorno al 1630-1640, quando chiese e ambienti di palazzi privati cominciarono a essere riccamente decorati di stucchi e grandi affreschi dalle ardite prospettive, atte a creare mirabili illusioni ottiche. Ma la produzione artistica del Seicento è solo in parte riconducibile a queste caratteristiche, e lo stesso Caravaggio (che muore nel 1610, ben prima di questa evoluzione) ne è un esempio lampante.

Tuttavia, l’insegnamento liceale e la letteratura divulgativa tendono a semplificare (troppo) la questione e a considerare “barocco” tutto quello che è stato creato nel XVII secolo. Con uno studio più approfondito (e con l’osservazione) ci si accorge di quanto questo tipo di didattica sia sbagliata: nel Seicento troviamo architetti estrosi (Borromini e Guarini) e altri di formazione più classica (Longhena); accanto ai pittori più virtuosi nell’affresco (Pietro da Cortona e Luca Giordano) ne troviamo altri molto più legati a forme classiche e a composizioni più equilibrate (Guido Reni e Poussin) e altri ancora, pur appartenenti a scuole diverse, più legati al realismo e alla rappresentazione del quotidiano (Caravaggio, Rembrandt e Velázquez); nondimeno, assistiamo anche allo sviluppo di due generi nuovi, il paesaggio e la natura morta. Come si può raggruppare tutto ciò sotto un’unica categoria?

Ma altrettanto importante è notare come si possano ritrovare anche esperienze artistiche che hanno largamente anticipato le soluzioni e i risultati di altre, e che potrebbero essere etichettate con un termine che mai si penserebbe di attribuire loro ragionando in termini cronologici. Per fare un esempio, il grande affresco di Correggio sulla cupola del duomo di Parma, eseguito tra il 1520 e il 1530, non solo anticipa soluzioni prospettiche tipiche dei migliori affreschi “barocchi” (in senso stretto), ma risulta più ardito e qualitativamente migliore di moltissime opere simili eseguite nel Seicento. Allo stesso modo, le grandi tele di Tintoretto hanno un dinamismo e una resa drammatica che sfida e talvolta supera quelle di molti maestri dell’età che viene definita “barocca”.

Allontanarsi da queste approssimative etichette, nonostante possa sembrare difficile, è dunque uno sforzo necessario se si vuole giudicare oggettivamente un’opera d’arte, e permette anche di comprendere meglio le molte sfaccettature culturali di una data epoca, senza ridurla così a un indistinto contenitore di pensieri ed esperienze troppo omogenei per coesistere nella realtà.

Luca Sperandio

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Una mostra per i 500 anni dell’Orlando Furioso. Impressioni

Nei locali al pianterreno del Palazzo dei Diamanti di Ferrara è stata aperta il 24 settembre scorso una mostra dedicata ai cinquecento anni dalla pubblicazione del celebre poema epico di Ludovico Ariosto, l’Orlando Furioso, opera letteraria simbolo del Rinascimento italiano sia sotto l’aspetto linguistico, sia, soprattutto, sotto l’aspetto dei contenuti, inseparabilmente legati al contesto storico della corte ducale estense, nella quale sia l’opera sia il suo autore sono cresciuti. Da studioso e appassionato d’arte, sono subito stato incuriosito a visitare questa mostra per la presenza di alcuni capolavori di pittura provenienti dai più svariati musei europei, dipinti storicamente importantissimi la cui temporanea permanenza a Ferrara è già da sé una grande notizia. Tuttavia la bellezza e il valore di una mostra non si misurano esclusivamente sul valore artistico di singole opere d’arte esposte al suo interno, bensì sono il risultato di scelte accurate di oggetti che sappiano, specie se esposti mediante criteri logici ben studiati, comunicare con chiarezza allo spettatore informazioni su un artista o su un periodo storico ben definiti, oppure che permettano di raccontare per immagini un mondo ormai distante e appartenente al passato, di cui il visitatore può, per un breve periodo di tempo, riappropriarsi.

È naturale, quindi, che il successo di una mostra tematica come quella attualmente allestita a Ferrara non sia per nulla scontato. L’obiettivo dichiarato, in questo caso, è quello di restituire al visitatore le immagini e le storie che affollavano la mente di Ariosto, quelle che sarebbero poi state impresse all’interno di uno dei più grandi prodotti della letteratura italiana di tutti i tempi. Dunque una sorta di contestualizzazione per immagini, una ricostruzione dell’ambiente culturale ruotante attorno al perno rappresentato dal grande letterato, formula già utilizzata e riuscita con grande successo tre anni fa con la mostra padovana su Pietro Bembo. E qui la domanda sorge spontanea: questa mostra su Ariosto riesce altrettanto bene nel suo intento?

Devo ammettere che prima di entrare avevo un certo scetticismo. D’altronde nelle pubblicità e negli articoli online l’attenzione è puntata quasi esclusivamente sui pochi capolavori pittorici presenti, e l’aspettativa che mi ero creato era quindi quella di ritrovarmi a visitare una raccolta di capolavori legati da un filo conduttore debole o banale. Invece, tutt’altro! Appena varcata la soglia d’ingresso, mi sono trovato catapultato in un mondo di cavalieri e dame, di tornei e battaglie e di grandi uomini le cui gesta oggi ci appaiono forse ancor più eroiche di quel che sono state nella realtà. Il percorso espositivo è un viaggio all’interno di un’epoca idilliaca, una finestra aperta sul grande Rinascimento italiano, la cui lontananza temporale e concettuale viene improvvisamente ad accorciarsi. Se l’intento dei curatori è stato quello di far calare il visitatore nel mondo cavalleresco popolato da personaggi eroici presente nell’immaginazione dell’Ariosto, devo dire che essi ci sono ben riusciti.

Quella che si presenta davanti agli occhi di chiunque si avventuri nei prossimi mesi a Palazzo dei Diamanti è un’ampia rassegna di pezzi, provenienti da moltissime collezioni pubbliche e private, che appartengono a quel “favoloso” mondo cortese di inizio Cinquecento che affonda le sue radici nel Medioevo, e i cui valori rispecchiano ancora, per certi versi, quelli dispensati ed elogiati nella letteratura romanza. Il percorso della mostra si snoda tra un numero consistente di quadri, manoscritti miniati, arazzi e bellissime armi da parata. Quello che più mi ha più colpito è stato vedere, accanto ai ben noti dipinti di Tiziano, Raffaello, Mantegna e Giorgione, bellissimi disegni di questi e di altri grandi artisti del Rinascimento. Incredibile, per esempio, la presenza non pubblicizzata di un disegno di Leonardo da Vinci, anche se ho certamente apprezzato di più un rarissimo disegno di Mantegna e un altro, con la raffigurazione di un soldato, eseguito da Giuliano da Sangallo, fatto che mi ha destato sorpresa dal momento che l’autore è noto esclusivamente per essere un grande architetto. Tuttavia l’opera che, a mio parere, meglio di tutte rappresenta la tematica della mostra e l’immaginario di Ludovico Ariosto è il quadro con la Liberazione di Andromeda del pittore fiorentino Piero di Cosimo [nell’immagine, dettaglio], nel quale l’elegante figura armata di Perseo, uomo ed eroe, viene Mostra Orlando Furioso Ferrara, quadro - La chiave di Sophiaraffigurata nel momento in cui sta per sferzare il colpo fatale all’enorme mostro che occupa il centro della scena, salvando così la principessa Andromeda e ponendosi di conseguenza, nonostante le sue piccole dimensioni di essere umano, come grande protagonista della storia e come garante della virtù umana che sconfigge la bestialità del vizio e dell’irrazionalità, virtù cui viene data grande fiducia e che denota l’eroe di una cultura che, non a caso, viene definita umanista. Queste storie e queste immagini erano familiari ad Ariosto e le si rincontrano nel suo grande poema, cui questa mostra rende un grande tributo che difficilmente può non venire apprezzato.

Luca Sperandio

Luca Cambiaso: un anticipatore del Cubismo nel Cinquecento

Credo che chiunque abbia una discreta conoscenza della storia dell’arte, alla lettura del titolo di questo articolo provi inizialmente la vaga impressione di essere vittima di una bufala, o quanto meno di una lettura critica volta ad esagerare alcuni aspetti artistici di un pittore antico volendoli forzatamente ricondurre ad altri appartenenti alla contemporaneità. Come è possibile che nel lontano Cinquecento, secolo del Rinascimento e della figuratività classica, un artista potesse avventurarsi a soluzioni così anticipatorie di forme artistiche fiorite nel XX secolo?

Luca Cambiaso - La chiave di Sophia

Eppure, il disegno raffigurato nell’immagine che vedete qui sopra ed in copertina è opera di un pittore genovese vissuto in pieno Cinquecento, Luca Cambiaso (1527-1585), nome non molto noto al di fuori della cerchia di studiosi e appassionati d’arte, ma importantissimo nella cultura figurativa del capoluogo ligure in età manierista. Autore caratterizzato da una ben consolidata formazione classica, i suoi grandi affreschi che decorano interni di chiese e palazzi genovesi non suggeriscono nemmeno lontanamente uno stile così essenziale e razionale nella pratica del disegno. D’altronde c’è da premettere che la storia del disegno percorre una strada che risulta in parte indipendente da quella della pittura, con la conseguenza che un suo studio approfondito può mettere in evidenza peculiarità stilistiche che rimangono ovviamente nascoste nelle grandi opere ad affresco o su tela. Infatti i disegni venivano usati, nella maggior parte dei casi, come studi di composizione, in cui l’artista sperimentava soluzioni che si adattassero a essere poi riportate, con dimensioni ampiamente maggiori, in una o più opere pittoriche finite.

Alla luce di ciò, è chiaro che ciascun autore disegnava seguendo le proprie esigenze, senza sentirsi vincolato al volere di altri e scegliendo tecniche e stile il più possibile adatti ai propri obiettivi e alle proprie abilità. Il caso di Cambiaso è senza dubbio uno dei più singolari e affascinanti: in moltissimi dei suoi disegni preparatori sceglie di rappresentare le figure mediante un susseguirsi di linee spezzate che ne definiscono in modo essenziale i volumi, evitando l’inserimento di dettagli fisici e mantenendosi su un livello raffigurativo atto solamente a costruire la futura composizione e a metterne in luce le volumetrie. Ma se, da un lato, tutta la produzione grafica di Luca Cambiaso risulta caratterizzata da una resa tendenzialmente geometrica delle figure, il disegno della foto (conservato nel Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi) supera qualsiasi confronto e si impone come un unicum nella storia dell’arte, rendendo evidentissima un’anticipazione della corrente novecentesca del Cubismo.

Qualcuno potrebbe obiettare che tale anticipazione, oltre a essere un caso palesemente isolato, sia soltanto una mera questione stilistica basata su una vaga somiglianza tra il disegno stesso e i risultati pittorici di artisti quali Cézanne, Picasso e Braque. In realtà anche i presupposti teorici combaciano: non c’è dubbio che l’intento di Cézanne, nei suoi esperimenti che avrebbero influenzato la nascita del Cubismo, fosse quello di scomporre l’oggetto rappresentato presentandone l’essenza, e ciò mediante la sua riduzione a un insieme di masse volumetriche di forma geometrica. Ciò ovviamente rappresenta la base concettuale su cui si fonda anche l’opera di Picasso e degli altri pittori cubisti, ma pure il punto di partenza per l’arte grafica di Cambiaso: cos’è questa se non scomposizione della figura per ottenerne la forma pura, per studiarne le proporzioni e per ricavarne i volumi al fine di sottolinearne la massa e il suo imporsi nello spazio della composizione?

Come conseguenza di queste considerazioni, si può pertanto giungere ad affermare che il Cubismo ha avuto un precedente storico e che Cézanne e Picasso, di fatto, non hanno inventato nulla, in quanto il primo artista a utilizzare questa forma artistica fu il genovese Luca Cambiaso. Con questo, tuttavia, non si devono perdere di vista la portata dell’avanguardia di inizio Novecento, da una parte, e i limiti dell’esperimento dell’artista ligure dall’altra: i pittori cubisti hanno fatto della scomposizione geometrica dell’oggetto il manifesto della loro arte, con la quale rispondere coerentemente al bisogno di rinnovamento da parte del mondo artistico a loro contemporaneo, mentre Cambiaso ne fece uno strumento utile ai propri studi, limitato nell’uso alla pratica del disegno e perciò non destinato a essere visto dagli occhi del pubblico, che certo non avrebbe mai potuto concepire un disegno come questo come opera fine a se stessa. Ed è qui che emerge la distanza incolmabile tra le due simili esperienze artistiche: da una parte la consapevolezza e il supporto filosofico-culturale, dall’altra un atto geniale non destinato ad avere un seguito immediato, parentesi visionaria che, pur inconsapevolmente, supera la fantasia dell’arte contemporanea e ne anticipa largamente i risultati, sottraendole il primato sull’originalità e togliendole la convinzione di aver esplorato un territorio ancora vergine.

Luca Sperandio

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Il rinascimento: un’epoca nuova

I presupposti per la nascita dell’umanista rinascimentale ebbero origine nella civiltà urbana e borghese formatasi nel processo di ripopolamento delle città nel Due e Trecento. Questa borghesia cittadina si dimostrò particolarmente vivace in Italia, dove si stava affermando la forma di governo del Comune cittadino a differenza degli altri Paesi europei, in cui l’affermazione delle monarchie poneva le basi degli Stati nazionali moderni.

L’intellettuale urbano dell’epoca comunale era tuttavia una figura ancora molto diversa dall’uomo rinascimentale. Se la vita quotidiana rispecchiava già una mentalità pratica e borghese (è il periodo in cui commercio e l’iniziativa privata conobbero uno sviluppo vertiginoso), la vita interiore era invece ancora intimamente legata ai precetti della Chiesa che avevano regolato il pieno Medioevo. Non è un caso se nella grande letteratura dell’epoca, si pensi a Petrarca, Boccaccio o Jacopone da Todi, troviamo così spesso racconti di conversioni o descrizioni delle lotte interiori, delle pulsioni contrastanti, delle contraddizioni morali dell’autore.

Il Rinascimento fu invece un’età di rottura rispetto al Medioevo, e i suoi protagonisti apparvero come delle figure nuove. Lo studioso medievale aveva una visione decentrata del mondo, con Dio al centro dell’universo, Gerusalemme al centro del mondo e la Roma imperiale cristiana al centro della storia. L’umanista rinascimentale si pose in esplicita e consapevole rottura con la tradizione medievale, e chiamò la propria epoca Rinascimento per rimarcare la differenza verso i secoli precedenti, che divennero appunto un’età di mezzo tra l’antichità classica e la rinascita della cultura. S’inaugurò così un forte pregiudizio verso la cultura medievale, vista come oscura e arretrata e caratterizzata generalmente da un senso estetico grezzo e barbarico (o, come si diceva allora, “gotico”), destinato a durare per tutta l’età moderna. Se lo studioso medievale aveva avuto una concezione contemplativa del mondo, una visione statica dell’uomo ed una percezione pessimista della storia, l’uomo medievale poneva invece sé stesso al centro dell’attenzione (e infatti si parla di umanesimo) e rivendicava la legittimità dell’interesse colto verso gli aspetti pratici della vita. Gli umanisti però ereditarono dal pensiero medievale l’idea di superiorità indiscussa dell’antichità classica, il cui primato non sarà mai messo in discussione: non a caso si parla di Rinascimento dei fasti della classicità, non di fondazione di una cultura nuova.

Umberto Mistruzzi

Giotto di Bondone (Colle di Vespignano 1267 circa – Firenze 1337)

Nei suoi settant’anni di vita Giotto fu uno dei maggiori protagonisti della scena pittorica italiana, divenendo di fatto il punto di riferimento per la grande evoluzione artistica partita dalla Toscana e che portò alla nascita del Rinascimento, sebbene i suoi inizi e la cronologia delle prime opere sono ancora frutto di discussione e di revisione.

Dopo un periodo ad Assisi, dove dipinse insieme a Pietro Cavallini il grande ciclo di ventotto affreschi dedicati alla vita di San Francesco nella Basilica Superiore, Giotto si trasferì a Roma per partecipare ai lavori di rinnovamento artistico promossi da papa Bonifacio VIII per il Giubileo del 1300. Subito dopo si dedicò alla sua opera maggiore, a noi giunta nelle migliori condizioni: gli affreschi per la cappella degli Scrovegni di Padova, realizzati tra il 1303 e il 1305. Read more