Quando il volto non riesce a raccontarsi: identità e corpo nell’esperienza del trapianto facciale

Alle ore cinque del mattino di sabato 22 settembre si è concluso il primo trapianto di faccia in Italia. Un intervento iniziato circa alle otto del mattino di venerdì e durato ventiquattr’ore, secondo quanto affermato dai medici dell’ospedale Sant’Andrea di Roma.

Il ricevente è una donna di quarantanove anni affetta da una grave forma di neurofibromatosi di tipo I, una malattia genetica che andrebbe a colpire la cute e il sistema nervoso, manifestandosi attraverso la comparsa di macchie color caffelatte su tutta la superficie corporea ed escrescenze anche sull’iride dell’occhio. L’intervento è stato reso possibile da una giovane donatrice, una ventunenne morta a causa di un incidente stradale.

Certo, l’intervento è “tecnicamente riuscito”. La paziente è stata indotta ad un coma farmacologico ed è stata sottoposta, come di prassi, alla terapia antirigetto. Quello della paziente è stato un intervento che ha previsto quattro anni di preparazione, incontri e terapia psicologica, esami e accertamenti; fino a quando, il giusto donatore compatibile è arrivato. E con il donatore, la prima chance di rinascita.

Quello al volto è definito come un trapianto “multitessuto”, comprendente pelle, fasce muscolari e cartilagine. Sebbene non si tratti di un trapianto di un organo salvavita, come cuore o fegato, sottoporsi a un tale intervento significa affrontare le difficoltà di una preparazione non solo fisica, quanto più psicologica, che avrebbe condotto la donna a decidere per il trapianto. Secondo ciò che è stato riportato dai medici dell’Azienda universitaria-ospedaliera Sant’Andrea di Roma, la donna avrebbe sempre dimostrato un atteggiamento positivo nei confronti della vita, a tal punto che, poco prima di essere sedata, avrebbe comunicato ai medici di non avere paura rispetto a ciò cui stava andando incontro.

D’altronde, chi potrebbe permettersi di mettere in discussione la scelta di chi si è sentito abitato da un corpo non proprio, alieno, un corpo deformato dall’aggravarsi della malattia? Come potersi mettersi nei panni di chi ha combattuto fin dall’adolescenza con la paura del giudizio e dello sguardo altrui?

Quando parliamo del nostro corpo e delle difficoltà che si possono incontrare nel vivere con esso, non si può non rivolgersi al contempo a quell’identità che si scrive attraverso il corpo. Un’identità che, come nel caso di questa donna, era in pezzi. Nessuno potrà mai comprendere il disagio e la sofferenza che si portava dentro, questo bisogno di cambiare vita, di cambiare volto, di rinascere.

Ma rinascere da cosa? Rinascere da una lotta contro se stessi, forse?

Rinascere da un sé in frantumi? E verso quale direzione?

La scelta di questa donna è stata dettata dal bisogno di ritrovare il senso della propria vita, che poi non significa altro che ritrovare il senso della propria storia e della propria identità, attraverso le ferite di un corpo da troppo tempo lacerato da un dolore insopportabile. Un corpo strappato dalla propria ricerca di senso. Un corpo piegato dal dolore di un’inadeguatezza profonda, un’inadeguatezza che ha fatto i conti con l’opportunità di una svolta, resa possibile dal trapianto facciale.

Il prezzo di tale rinascita, tuttavia, è stato quello di accogliere parte del corpo di un altro. E, a differenza del trapianto di altri organi, quello al volto implica un cambiamento visibile, evidente e percepibile dall’esterno. Non si tratta unicamente di accogliere dentro di sé parte del corpo di un altro – pensiamo ad esempio alle implicazioni esistenziali successive al trapianto di cuore e riportate nelle bellissime pagine di Jean Luc Nancy, il quale descrive la complessità di accettare anche solo il battito del cuore di un altro – ma di mostrare all’esterno, agli altri, una parte di sé che apparteneva a quel donatore, ad un’altra vita, un’altra storia, ad un altro senso. Non contando inoltre i rischi cui il paziente si sottopone, una volta accettato il trapianto. La terapia immunosoppressiva e le possibili e conseguenti infezioni. Il successivo potenziale rigetto.

Non si tratta di un mero intervento “tecnico ben riuscito”, quindi.

Dopo poche ore, i medici del Sant’Andrea hanno dichiarato che la donna, malgrado non rischi la vita, è andata incontro a un rigetto che avrebbe comportato la ricostruzione temporanea dei tessuti autologhi. Come nel caso di qualsiasi organo trapiantato, andare incontro a un rigetto costituisce l’improvviso rifiuto del proprio organismo nell’accettare l’organo ricevuto. Ciò in attesa di un secondo donatore compatibile. Di un altro strappo. Di un altro cambiamento per la vita. Un cambiamento che, però, non può non lasciare una traccia in quel corpo che ci definisce e ci muove, che è a sua volta definito da un sentiero, che è il nostro, e che non è altro se non il racconto di ciò che siamo stati, che siamo e saremo.

 

Sara Roggi

 

[Credits Noah Buscher su Unsplash.com]

banner-pubblicitario7

Organi umani stampati in 3D: come supplire alla carenza di donatori

L’intervento della scienza medica e delle tecniche chirurgiche nel campo dei trapianti d’organo rappresenta uno degli ambiti in cui la medicina necessita di continui studi e ricerche; ad oggi, per alcune patologie, non esiste una terapia alternativa al trapianto e la carenza di organi rende impossibile curare tutti i pazienti.

In pochi decenni, l’evolversi della chirurgia, la sperimentazione sugli animali e lo sviluppo di tecniche valide per l’uomo, nonché le conoscenze relative all’immunologia, hanno permesso il trasferimento di tessuti da una sede all’altra di uno stesso organismo, ovvero da individuo donatore ad individuo ospite della stessa specie, fino alla ricerca relativa alla possibilità di effettuare innesti di tipo eterologo (da una specie all’altra).

Poco meno di un anno fa, in un mio articolo analizzavo la complemetazione blastocistica, ovvero il trasferimento di una cellula staminale totipotente umana, nell’embrione di un maiale privo dei geni atti alla formazione dell’organo che si vuole produrre. La cellula staminale umana si sostituirà alle cellule dell’embrione di maiale, producendo un organo umanoide.

Ad oggi, la sfida dei ricercatori si concentra sulla nuova frontiera della medicina rigenerativa, accompagnata dalla biostampa che punta a ripristinare la funzionalità di parti del corpo umano danneggiate con tessuti e organi ottenuti in laboratorio con tecniche di bioingegneria.

Il primo step del processo di ingegnerizzazione di un organo prevede il prelievo e l’analisi dell’organo che necessita di essere sostituito, l’isolamento delle cellule staminali e la loro coltivazione in vitro in un liquido che fornisce ossigeno e nutrienti in modo tale che si moltiplichino. Si ottiene, così, una sorta di inchiostro biologico (idrogel): una soluzione acquosa che contiene, appunto, cellule umane.

I tessuti e gli organi che si intende generare vengono prodotti a partire da una struttura sintetica e biodegradabile che funge da stampo e sono formati da un reticolo di sottili canali attraverso i quali acqua, ossigeno e sostanze nutritive possono giungere alle cellule trattenute nel gel. Le cellule colonizzeranno gradualmente la struttura biodegradabile e questa si dissolverà fino a scomparire completamente.

Il procedimento bioingegneristico, finora, è stato utilizzato per la creazione di orecchie, mandibole e muscoli successivamente impiantati con successo su topi di laboratorio. La stampante consente addirittura di predisporre, negli oggetti prodotti, gli alloggiamenti per i vasi sanguigni che nutrono organi, tessuti e muscoli, una volta impiantati nell’organismo.

Si è però ancora lontani da applicazioni diverse di organi da trapianto come rene, fegato, e cuore. Infatti, si tratta di organi che possiedono una complessità anatomica e fisiologica non ancora compatibile con le tecnologie correnti; tuttavia, con le necessarie evoluzioni, forse, un giorno non troppo lontano si potranno produrre organi modellati perfettamente a partire dall’anatomia del paziente, limitando così al massimo il rischio di rigetto.

Dal punto di vista etico, le problematiche che insorgono sono molteplici. In primis, il possibile utilizzo di cellule staminali embrionali, data l’evidenza scientifica che l’embrione é già individuo dal punto di vista biologico. Pertanto, se condividiamo questa visione, utilizzare cellule embrionali equivale a manipolare un individuo; soluzione questa, che risulterebbe eticamente inaccettabile.

Inoltre, solleva numerose preoccupazioni la garanzia della qualità degli organi artificialmente prodotti e la serie di criteri cui si dovrà sottostare nella fabbricazione delle bio-strutture.

Un ulteriore aspetto sono i costi elevati di tali pratiche, accessibili solo a pazienti con notevoli possibilità economiche; anche nei Paesi dove la sanità è gratuita dovrà essere accuratamente analizzato e discusso l’utilizzo di procedure mediche così costose.

Infine, un ulteriore interrogativo etico si apre con il timore di chi ritiene che stampare materiale umano in 3D diminuisca notevolmente la linea di demarcazione tra l’uomo e l’artificialità della tecnica.

Silvia Pennisi

[Immagine tratta da corriere.it]

 

banner-pubblicita-rivista2_la-chiave-di-sophia