“Bianco” Natal? Qualche dubbio sul presepe “tradizionale”

La Basilica dell’Annunciazione, a Nazareth, offre uno spettacolo insolito, almeno ad un visitatore italiano: la piccola cinta muraria attorno alla chiesa, infatti, è decorata con mosaici, affreschi, murales e bassorilievi provenienti da ogni parte del mondo, ognuno raffigurante una Madonna con Bambino “assimilata” alla cultura di provenienza. C’è la Madonna coreana, con un coloratissimo hanbok; c’è quella tailandese, coronata dal tipico copricapo a forma di stupa; ce n’è una etiope, nera, ed una cinese, asiatica, e così via, in una galleria ricchissima di costumi, razze e colori che circonda come un abbraccio l’intera basilica.

Il pensiero corre facilmente al Natale appena passato e alle usuali polemiche sollevate dai soliti noti in merito ad alcune scelte di rappresentazione del presepio. In particolare, sono state lanciate accuse di blasfemia verso alcune installazioni, come quella di Viareggio, che ha posto quest’anno un bambinello nero nella mangiatoia, quella di San Miniato Basso, in cui nel presepe vivente la Sacra Famiglia era interpretata da una famiglia senegalese, o quella di Rieti, in cui la Comunità Giovanni XXIII di don Oreste Bensi ha affidato a una coppia di immigrati ed alla loro bambina risiedenti nella comunità i ruoli principali. Lega e Forza Nuova, tra gli altri, si sono scagliati contro quella che ritengono essere una mancanza di rispetto verso la “religiosità italiana”.

Niente di nuovo né nelle polemiche né nella provenienza delle stesse, ma oggi come ieri non cessa di stupire l’insensatezza di certe posizioni. Vale la pena notare come, all’interno dei Vangeli, non si trovi una singola descrizione fisica dell’aspetto di Gesù, neanche un benché minimo dettaglio, non un cenno all’altezza, al colore di occhi o capelli, alla forma del viso. Agostino da Ippona, che da vescovo considerava le scritture come divinamente ispirate, interpreta questa mancanza affermando che Dio ha voluto che in Cristo si riconoscessero tutte le genti, e pur avendo quindi Gesù avuto un determinato aspetto in vita, di quale esso fosse si è persa ogni traccia per permettere a ciascuno di sentirsi parte della storia della salvezza.

Espressioni artistiche come quelle ammirabili a Nazareth riflettono precisamente questo principio: non avendo una iconografia “canonica” del Cristo, almeno in senso stretto, questi cambia volto, etnia, costumi e perfino postura a seconda della sensibilità dell’artista, e diventa caucasico, semita, nero, asiatico, alto, basso, grasso, magro, rispondendo non solo all’origine geografica e culturale, ma anche alla contingenza storica dell’opera in questione. Non è certo un caso, ad esempio, che la maggior parte dei “nostri” Gesù siano raffigurati in abiti rinascimentali o in tuniche romane, piuttosto che con un ben più probabile tallit.

Fin dalla sua istituzione ad opera di Francesco d’Assisi a Greccio, il presepe ha funzione principalmente simbolica, intende ricalare la nascita di Cristo nella storia presente, esattamente l’opposto quindi di congelare un momento nel tempo e lasciarlo ad una contemplazione distaccata e distante. Includere i migranti all’interno del presepe non è una mancanza di rispetto, ma al contrario un atto di riflessione storica profondamente calato nel presente, consapevole di un processo che non si fermerà per le paure o le nostalgie di gruppi più o meno ampi di persone, e che riconosce da ultimo una presenza culturalmente ed etnicamente variegata nei nostri territori che non andrà certo a diminuire.

Aggrapparsi a tradizioni religiose spacciandole per nazionali è un’operazione che snatura il senso più vero e profondo di dette tradizioni, costringendo in una veste locale un messaggio nato per essere invece universale. Senza contare il fatto, ovviamente, che se si volesse davvero essere storicamente accurati, ci sono ben poche possibilità che una famiglia ebrea del I secolo a.C. somigliasse a quella, rigorosamente europea e caucasica, rappresentata nel presepe “tradizionale”.

Giacomo Mininni

 

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Amatrice, il peccato e la grazia

Che i disastri naturali siano stati interpretati come punizioni da parte della divinità di turno, offesa per questo o quell’affronto, è una storia che va avanti fin dai tempi del diluvio. Non suscita sorpresa, quindi, vedere come in seguito al catastrofico terremoto che colpì Lisbona nel 1755, molti filosofi e teologi, specie gesuiti, attribuissero la tragedia alla collera di Dio suscitata dai malcostumi portoghesi e dallo sterminio degli indios nelle Americhe; stupisce piuttosto, visto il contesto storico, leggere dei tentativi del giovane Kant di spiegare scientificamente il fenomeno, lontano da qualsiasi pietismo o superstizione.

A distanza di quasi trecento anni, si potrebbe pensare che non solo le conquiste scientifiche in campo di sismologia, ma anche i progressi umanistici e teologici nel cristianesimo, abbiano ormai spazzato via la perversa logica che vede nella natura che “si ribella” all’uomo il segno della collera di Dio. A quanto pare non è così, e per quanto le autorità ecclesiastiche, in primis quella papale, insistano su ben altre note, si trova sempre chi rispolveri dottrine dannose quanto profondamente anti-evangeliche (e, a ben considerare, anti-religiose in senso ampio).

Ha fatto comprensibilmente scalpore i giorni scorsi il post su Facebook di “Medjugorje: Casa della Tenerezza di Dio”, pagina ufficiale della Fondazione Cenacoli di Maria, realtà di assistenza familiare legata alla controversa cittadina bosniaca. Nel post incriminato si legge: “Nessuno stupore da parte nostra, prima o poi le profezie si avverano. Utero in affitto, matrimonio omosessuale, attacco alla famiglia, ateismo diffuso ecc. ecc. Le scosse servono per farci capire che bisogna tornare ai veri valori. CONVERTITI ITALIA”. Purtroppo non sono gli unici, seguiti a ruota da gruppi sedicenti cristiani come Militia Christi (“La tragedia del terremoto ci interroghi sui nostri peccati e sull’abominio delle unioni civili!”), La Bibbia Ogni Giorno (“La terra trema, Gesù è alle porte”) e troppi altri.

Senza stare a scomodare Papa Francesco, che nella Laudato si’ attribuisce sì responsabilità all’uomo per certi disastri naturali, ma solo come conseguenza dei danni ambientali provocati, o il poeta Rabindranath Tagore, che commentando alcune infelici parole di Gandhi sottolineava come i terremoti avessero cause esclusivamente fisiche, basterebbe rispolverare il Vangelo per mettere a tacere i militanti “cristiani”: in occasione del crollo della torre di Siloam a Gerusalemme, che aveva ucciso una ventina di persone, Gesù mette a tacere chi pensava che le vittime fossero state punite per i loro peccati in modo da non lasciare spazio a interpretazioni: “O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? In verità vi dico, non lo erano.” (Lc. 13,4-5). La natura ha leggi proprie, non ha intenzione, non ha malizia, e come Leopardi ricorda, non ha certo cura dell’uomo; Dio, da qualunque posizione si parta, è un’altra cosa, e nessuno dotato di minima logica potrebbe accostare formule giudaico-cristiane come “Padre buono” all’idea di un disastro come quello che ha colpito il Centro Italia la notte tra il 23 e il 24 agosto, anche e soprattutto se a fini “pedagogici”.

Se perfino in una situazione come quella in cui versano le zone colpite dal sisma Dio c’è (e c’è), è nei cuori e nelle mani di quanti, cristiani o musulmani, cittadini o profughi, prestano soccorso, dei volontari che rischiano in prima persona pur di portare aiuto e sollievo, di chi anche da casa manda donazioni, cibo e vestiti per non abbandonare chi ha perso tutto. Se si è cristiani, poi, Dio è anche, e soprattutto, nei corpi martoriati ancora sotto le macerie, non certo tra le nuvole a puntare il dito.

Giacomo Minnini

Le maddalene, i fish and chips e la principessa Sissi

“Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio…”

La sensazione che Marcel Proust ci descrive (Dalla parte di Swann) ciascuno di noi la ha più volte provata. La cioccolata da spalmare venduta in enormi barattoli di latta, la pasta sfusa, acquistata a peso, estratta da cassetti di legno con il frontale di vetro, disposti in fila in una sorta di libreria alimentare. Si uniscono aspetti diversi: il ricordo, la genuinità, la specificità; tutti elementi che spingono a rimpiangere e difendere il piccolo mondo antico.

Una sensazione analoga deve avere provato il pensionato britannico che ha votato per la Brexit. A Lazzaro Pietrangoli, che cercava di convincerlo del contrario, ha risposto che avrebbe votato LEAVE per difendere i “pub” e i “fish and chips”.

Specificità e tradizioni sono spazzate via dalla globalizzazione. E’ un processo inarrestabile e, in molti casi, è anche un bene. Ben venga il piccolo supermercato aperto anche la domenica, a spazzare via il negozio che vende merce scadente a caro prezzo; come pure ben vengano principi universalmente riconosciuti, che bandiscono e perseguono pratiche degradanti come l’infibulazione.

Le specificità utili e le tradizioni buone si possono difendere stabilendo delle regole, e impedendo che il mercato decida ogni cosa, senza alcun limite, rispondendo unicamente ai propri “spiriti animali”. E questo nel mondo attuale, lo possono fare solo grandi entità federali, come l’Unione Europea. Per questo è necessaria un’Unione più grande e più forte.

Come ci ha spiegato Jurgen Habermas, uno dei maggiori filosofi viventi, è necessario salvaguardare una “solidarietà tra estranei tra i popoli e garantire la giustizia tra gli individui”. “In questo modo si potrà realizzare una democrazia pluralistica che includa l’altro senza assimilarlo, preservando, anzi, il suo essere diverso”.

Tornare agli stati nazionali è illusorio. I dati parlano chiaro: nel 2050 l’Europa rappresenterà solo il 7 per cento della popolazione mondiale (era il 20 per cento fino al 2050); il PIL europeo sarà il 10 per cento di quello mondiale (rispetto al 30 per cento del 1950); nessun paese di quelli attuali, neppure la Germania, farà parte del G8. “Nel concerto di potenze indiscutibilmente mondiali come USA, Cina, Russia, Brasile e India, la crisi demografica sta spingendo l’Europa delle micro-nazioni ai margini della storia mondiale, privandola di ogni residua facoltà d’intervento”.

Senza l’Europa non c’è futuro, siamo destinati a finire nella scenografia arcadica e bucolica della Principessa Sissi, con lo svantaggio di avere, oltre all’irrilevanza politica, fiumi inquinati e vegetazione devastata dalle piogge acide.

Marcello Degni

Professore a contratto presso le Università di Roma 1 (master in economia pubblica) e di Pisa (Accademia navale di Livorno), dove insegna  contabilità pubblica. Si è laureato con lode in Scienza delle finanze  all’Università La Sapienza. Collabora come esperto con il ministero della  Funzione pubblica e con la società in house del ministero dell’economia e finanze Studiaresviluppo. È assessore al bilancio del comune di Rieti. Come consigliere parlamentare del Senato ha lavorato per molti anni al servizio del bilancio. Ha partecipato all’attività della commissione tecnica della Spesa pubblica presso il ministero del Tesoro negli anni dell’ingresso nell’euro e  all’unità di valutazione finanziaria della Presidenza della Repubblica (presidenza  Ciampi). Ha diretto il centro studi di Sviluppo Lazio e collaborato con l’assessorato al bilancio della regione Lazio. Dal 1995 ha svolto una costante  attività accademica nelle Università di Napoli (Federico II), Roma e Pisa. È autore di numerose pubblicazioni di finanza pubblica.

[Immagine di Rieti Life]