Il bisogno di rifare: reboot, remake e sequel

La nostalgia mitiga l’ansia, dicono in Matrix resurrection, quarto capitolo della saga uscito da poco nelle sale cinematografiche. Sarà per questo che il cinema e le serie tv stanno vivendo di reboot, reunion, sequel e quant’altro?
Il già citato Matrix, ma anche Harry Potter e Friends, che di recente sono stati protagonisti di due reunion con il cast, per non citare anche Sex and the city, tornato dopo anni con un sequel, And just like that. La tendenza è iniziata già una decina di anni fa, all’incirca, e non accenna ad esaurirsi.

Sono prodotti che vengono divorati, forse perché siamo tutti un po’ desiderosi di ricongiungerci con un tempo passato che ci figuriamo ora come un periodo incantato, pieno di promesse e amenità. Oggi le novità è meglio schivarle, perché in esse potrebbero nascondersi pericolose trappole. Fuori il nuovo e dentro il vecchio, insomma.
Abbiamo finito le idee? Abbiamo finito la felicità – per citare una canzone de Lo stato sociale? La felicità dobbiamo ricercarla nel passato, come i neoclassicisti nel ‘700, come gli Scolastici medievali che si sentivano nani sulle spalle dei giganti del passato? Oppure quella odierna è una nuova arte, fatta di mash up, un po’ patchwork, intrisa di quella nostalgia malsana e sana al contempo?

Necessitiamo di pillole blu alle quali siano ormai assuefatti, pillole che ci rassicurano e cullano? Che ci fanno stare in casa al sicuro, booster o no, green pass o no, guarigione o no. Oppure è anche questo un modo per preparare il terreno alle novità, che da sempre si innestano su un terreno già coltivato e fertile? Difficile a dirsi. Scomodando quel tuttologo di Hegel, che conosce tutte le risposte e sa sempre cosa fare, potremmo dire che non è possibile emettere una sentenza adesso, mentre stiamo vivendo in prima persona questo tempo pieno d’ansia e apatia, mentre ci intratteniamo con questa abulica arte che stimola il “come eravamo” piuttosto che il “come saremo”.

In Matrix resurrection si fa notare come l’essere umano sia sempre in bilico tra paura e desiderio. La paura, in quest’epoca, è forse la tonalità emotiva che prevale. Ma l’uomo è anche un animale desiderante, vive e sopravvive grazie a un desiderio schopenhaueriano impossibile da sopprimere o da razionalizzare. Ecco quindi due probabili chiavi per interpretare i vari remake e reboot: tendiamo a rifare perché abbiamo paura e vogliamo rivedere e riprendere le storie da dove le avevamo lasciate, ma allo stesso tempo desideriamo dare vita a qualcosa di nuovo, che rinasca dalle ceneri delle vecchie idee che un tempo hanno funzionato. Dopotutto c’è coraggio anche in questo atto, perché qualcosa di compiuto che ha avuto successo o che è divenuto iconico, non viene lasciato a se stesso, archiviato e intrappolato nei tempi che furono, bensì viene ripreso, riaperto, riconsiderato, proseguito.
Un’azione sicuramente impavida: la compiutezza non c’è più, prevale il desiderio che non si arresta e prosegue all’infinito, dando il via ad un processo di incompiutezza che per sua stessa definizione risulterà imperfetto, manchevole. Eppure è qualcosa di vitale, qualcosa che si muove: significa che dietro c’è qualcuno che fa, che agisce, che si mobilita per un pubblico che nonostante tutto guarda, ascolta, riflette – anche se poi denigra oppure, al contrario, osanna.

Abbiamo forse paura di perdere il grande capolavoro del passato, paura che ormai oggi, per noi, non significhi più nulla o quasi. Ma temiamo anche di mancare il capolavoro di oggi, e allora tendiamo a rifare quello vecchio, lo reinventiamo, mossi dal desiderio di qualcosa di nuovo.

Non dimentichiamo però, che l’industria cinematografica e seriale è soprattutto e prima di tutto pragmatica, ossia pensa al denaro, al guadagno: rifare significa anche puntare su una mano che si è già rivelata vincente in termini economici.
Ma non tutto si può sempre ridurre a una mera prospettiva materiale. O meglio: se chi questi prodotti li confeziona e li vende sceglie di farlo, ci sarà un motivo – siamo noi il motivo, noi e il nostro bisogno insopprimibile di rivivere, rifare, ricreare ciò che ci era piaciuto, alla ricerca di quel conforto e quella felicità che paiono perduti. E francamente, da un certo punto di vista, qualsiasi rimedio contro l’ansia che siamo chiamati ogni giorno a vivere, è ben accetto.

 

Francesca Plesnizer


[Photo credit pixabay]

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“La Ripetizione” di Kierkegaard: un esperimento psicologico

Le sabbie mobili del tempo, come un vortice perenne che costringe il presente a rivolgersi al passato, continuano a divorare se stesse, nel ricordo. Questa è la dimensione di quest’ultimo: è sempre la stessa proiezione in cui l’adesso, l’ora, viene incatenato a ciò che è stato, al prima. Il rimpianto che ci lega al ricordo (luminoso o oscuro che sia) è per lui imprescindibile: è la sua anima gemella, perché entrambi vivono in questo sistema, un circolo vizioso che si nutre di passività.

C’è però un movimento, apparentemente identico, che invece può offrirci qualcosa di ben diverso: Kierkegaard l’ha chiamato Gjentagelsen, ovvero ripetizione.

«Ripetizione e ricordo sono lo stesso movimento, tranne che in senso opposto: l’oggetto del ricordo, infatti, viene ripetuto all’indietro, laddove la ripetizione propriamente detta ricorda il suo oggetto in avanti. Per questo la ripetizione, qualora sia possibile, rende felici, mentre il ricordo rende infelici»1.

Gjentagelsen è quel costante rinnovamento della vita: il suo momento più peculiare ha luogo quando il vecchio si rivela nel nuovo, quando il movimento stesso si rivela in avanti, e non permane confinato al passato.

È proprio attraverso la ripresa che la libertà dell’individuo spinge se stessa dal piano del non essere (ovvero da ciò che non c’è più) a quello dell’essere, dalla non verità alla verità: di accedere cioè alla dimensione della trascendenza, che per Kierkegaard avviene attraverso la sfera religiosa. Solo quest’ultima rende possibile la rinascita dell’uomo, giunto a confrontarsi con l’impossibilità di realizzare la ripresa sul piano del finito.

Ma andiamo con ordine: siamo nel 1843 e Kierkegaard, con lo pseudonimo di Costantin Costantius (maschera che il filosofo indosserà molte altre volte, devoto com’era alla pseudonimia) pubblica l’opera La ripetizione. Lui vuole sottolineare che se il ricordo comporta un sentimento votato irrimediabilmente al rimpianto, vivendo nella sola dimensione del passato, la ripetizione, invece, vive il presente in vista del futuro, come un’onda che riversandosi nel bacino d’acqua da cui ha ricavato forza e vita, cavalca se stessa in vista dell’orizzonte.

«Il ricordo è un vestito smesso che, per quanto bello, però non va perché non entra più. La ripetizione è un vestito indistruttibile che calza giusto e dolcemente, senza stringere né ballare addosso. […]. Il vecchio non annoia mai, e la presenza sua rende felici, e felice davvero sarà soltanto chi non inganna se stesso fantasticando che la ripetizione debba essere una novità, perché allora verrebbe a noia. C’è bisogno di giovinezza per sperare, di giovinezza per ricordare, ma c’è bisogno di coraggio per volere la ripetizione»2.

Se il ricordo ripete il suo movimento all’indietro, la ripetizione ricorda il suo oggetto in avanti. Nella ripetizione c’è l’irrompere di un nuovo che spezza il piano immanente del ricordo, per aprire al passato una dimensione altra che si traduce nella continuità della vita. Nel ricordo, il passato è privo di consistenza in quanto risulta slegato dal flusso vibrante dell’esistenza che è, invece, fulcro e seme di coraggio, scelta e dunque scommessa: a tal «riguardo l’indagine greca sul concetto di κινεσις [kinesis], il quale corrisponde alla categoria moderna di ‘passaggio’, e da tenere in gran conto»3, ricorda Kierkegaard.

Quando si dice che la vita è una Gjentagelsen si intende affermare che l’esistenza, così com’è esistita, viene a esistere ora, dà sfoggio di tutta la sua pienezza adesso.

«La dialettica della ripetizione è semplice: ciò che infatti è ripetuto è stato, altrimenti non potrebbe venire ripetuto; ma proprio il fatto che ciò è stato determina la novità della ripetizione. […] Dicendo che la vita è una ripetizione, si dice: “L’esistenza passata viene a esistere ora”. Senza la categoria di reminescenza o di ripetizione, la vita intera svanisce in un rumore vuoto e inconsistente. Reminescenza è la visione pagana della vita, ripetizione la moderna […]»4.

Molto probabilmente, non a caso, la regia di Kierkegaard ha stabilito che il co-protagonista, insieme a Costantius, de La ripetizione, sia un giovane innamorato. Colto dal desiderio d’amore verso una giovane ragazza, egli è condannato a soffrire nel vivere la morte del suo amore prima ancora di averlo vissuto. Il sentimento infelice che lo lega all’amata non ha alcuna aderenza alla realtà perché, di fatto, la fanciulla non era la sua amata, (ma) […] «l’occasione che risvegliava il suo fondo poetico e faceva di lui un poeta. […] Era penetrata in tutto il suo essere, avrebbe vissuto in eterno nella sua memoria»5. Questo giovane frusta se stesso per un difetto d’astrazione, una continua idealizzazione. Lui persevera a poetare il reale che, anziché essere vissuto, precipita nell’abisso dell’inconsistenza perché il poeta incaglia nel ricordo, dal momento che l’errore, l’equivoco di fondo proprio del poeta risiede nel porsi alla fine del proprio “salto” (tra passato e presente), nonostante lui non l’abbia ancora compiuto, intrappolato com’è nel ricordare ciò che non è più.

La prima parte dell’opera, redatta da Kierkegaard a Berlino, presenta come filo conduttore della narrazione l’intimo legame filantropico che viene ad instaurarsi tra Constantius, autore del testo, e questo giovane ragazzo.

La fanciulla apparentemente desiderata, di cui il giovane era innamorato, rappresentava semplicemente l’occasione che risvegliava la sua ars poetica, rendendolo così compositore. Il suo amarla, il suo poterla amare, risiedeva nel solo desiderio di doverla rimpiangere. Nel giovane prende piede, però, un senso di colpa, in quanto percepisce chiaramente che più il tempo scorrerà inesorabile e più la renderà infelice. Tuttavia non vede, in sé, alcun torto. Constantin lo esorta “ad osare l’estremo”, ad ingannare la ragazza con delicatezza. Il giovane dovrà, cioè, lasciare gradualmente scemare l’interesse nei suoi confronti, palesando anzi un certo fastidio per i suoi riguardi. Constantin intanto provvederà a far girare la voce che attribuirà al ragazzo la fama di fedifrago. Tuttavia, c’è un problema sul quale, a detta di Constantin, il giovane si è bloccato quasi a un passo dal risolverlo, o quanto meno dal tentativo di sperimentarlo:

«[…] Il problema su cui si e bloccato è, né più né meno, la ripetizione. Non cerca lumi nella filosofia greca, né tampoco nella moderna, e giustamente […]. Per fortuna non cerca spiegazioni da me, che io ho mollato la mia teoria, e vado alla deriva. La ripetizione è troppo trascendente anche per me»6.

Quello del giovane appare sempre più come un tentativo orientato al fallimento e dunque ad un lacerante dolersi. Il ragazzo così, deciderà di troncare il rapporto epistolare con Constantius. Quest’ultimo analizza con toni perentori l’evoluzione nel comportamento del giovane innamorato:

«Già da una prima scorsa alla lettera mi risultò chiaro che la sua storia d’amore aveva lasciato un’impronta assai più profonda di quanto avessi ipotizzato […] Era un giovane straordinariamente spirituale, ricco soprattutto di fantasia […]. Dall’altro lato il giovane era di natura assai malinconica […]. A catturarlo non è affatto il fascino della ragazza, bensì il rimorso d’averle fatto torto scompaginandole la vita»7.

Riguardo la lettera ultima che il giovane scrive a Costantius, il principio non lascia dubbio alcuno: “si è sposata”, facendo presagire la più cupa delle disperazioni. Egli informa il confidente di aver lasciato cadere il giornale da cui ha letto l’annuncio del fidanzamento, fulminato dalla notizia. Eppure, proprio questo dolore, alla fine di questa storia, diede vita al dispiegarsi di una Gjentagelsen realizzata compiutamente: “sono di nuovo me stesso”, scrive il giovane poeta. Perché? Perché questo essere ritornato a sé, e dunque in sé, costituisce per il giovane, ricostruendo e attualizzando il suo dolore, la sua Gjentagelsen.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE

1. S. Kierkegaard, La ripetizione. Un esperimento psicologico, BUR, Milano 1996, pp. 11-12, tit. or. Gjentagelsen. Et Forsog i den experimenterende Psychologi, Copenaghen 1843.
2. Ivi, pp. 12-13.
3. Ivi, p. 35.
4. Ibidem.
5. Ivi, pp. 20-21.
6. Ivi, pp. 83-84.
7. Ivi, pp. 79- 81.

 

[Photo credit Daryan Shamkhali via Unsplash.com]

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Foibe: la strage dimenticata

Oggi 10 Febbraio è la giornata in cui tutti dovrebbero dire ad alta voce “Je suis Italiano”, ma come al solito il silenzio sarà assordante, per mancata conoscenza, per non averlo mai studiato a scuola, per negazionismo, per stupida suddivisione di morti di seria A e morti di serie B, per colore politico.

Oggi è la giornata del ricordo delle vittime dei massacri delle foibe e degli esuli che hanno perso tutto per colpa della loro nazionalità: italiana.

 

Trecentocinquantamila furono gli italiani che dovettero fuggire dal regime slavo e lasciare la propria terra, le proprie origini, i propri beni. Migliaia di sfortunati innocenti furono invece ammazzati e infoibati dai comunisti di Tito: torturati, legati, martoriati e poi gettati nelle cavità carsiche (foibe), così, come fossero spazzatura.

 

Voglio ricordare, per tutte le vittime di quell’eccidio, la storia di una ragazza, Norma Cossetto, studentessa  italiana, istriana, uccisa da partigiani jugoslavi nel 1943 nei pressi della foiba di Villa Surani.

 

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Questa ragazza venne arrestata dai partigiani e venne condotta, con altri prigionieri, alla scuola di Antignana, adattata a carcere; Norma venne tenuta separata dagli altri per essere sottoposta a sevizie e stupri di ogni sorta dai suoi carcerieri che abusavano di lei mentre veniva tenuta legata al tavolo.

 

«Signorina non le dico il mio nome, ma io quel pomeriggio, dalla mia casa che era vicina alla scuola, dalle imposte socchiuse, ho visto sua sorella legata ad un tavolo e delle belve abusare di lei; alla sera poi ho sentito anche i suoi lamenti: invocava la mamma e chiedeva acqua, ma non ho potuto fare niente, perché avevo paura anch’io».

[dall’intervista “Licia Cossetto: mia sorella, un germoglio che non fiorì”]

 

Tra il 4 e il 5 Ottobre 1943, tutti i prigionieri vennero gettati ancora vivi nella foiba di Villa Surani. Norma Cossetto subì ulteriori sevizie sul posto, tra cui l’amputazione di entrambi i seni e «un pezzo di legno ficcato nei genitali»1.

 

L’unica sua colpa?

 

Essere italiana e non volersi unire al movimento partigiano, per essere libera di scegliere e di vivere la sua vita da studentessa come gli altri suoi coetanei.

 

Norma non deve essere dimenticata. Così come tutte le migliaia di persone che hanno subìto l’umiliazione dell’esilio e della tortura.

 

Il massacro delle foibe deve essere ricordato, come tutte le stragi che sono avvenute nel corso della storia, affinché nulla di simile possa più accadere, affinché ognuno possa essere libero.

 

Non deve esserci colore politico intorno a nessun eccidio, il negazionismo è da considerarsi un reato perché ammazza per la seconda, terza, quarta… volta le persone coinvolte.

 

Facciamo uno sforzo e per una volta almeno, per un giorno soltanto, sentiamoci Nazione, sentiamoci Italiani.

 

IO SONO ITALIANA.

 

Valeria Genova

 

NOTE:

1. Claudia Cernigoi, Il caso Norma Cossetto, in La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo (Trieste), 6 marzo 2011.

 

[Immagini tratte da Google Immagini]

 

Contro la cementificazione della Memoria

Ogni 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria, una data istituita in Italia per ricordare:

«la Shoah (lo sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subito la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati».
Legge 211, 20 luglio 2000

Da questo momento, ogni 27 gennaio, le sale cinematografiche proiettano un film sul tema − quest’anno è la volta di Nebbia in agosto di Kai Wessel −, le biblioteche o le istituzioni culturali promuovono conferenze o spettacoli teatrali − solitamente su Hannah Arendt − e le scuole concedono il permesso a fugaci visite ai musei della Memoria, solo per obblighi istituzionali. Ed io, scrivendo un articolo sul giorno della memoria, mi cimento nel ruolo ricoperto da altri milioni di autori, che ogni anno dedicano 800 parole al 27 gennaio.
Tutto ben organizzato per trovare il tempo di ricordare. Alla fine occupa solo un giorno, o al massimo una settimana. Da domani ci si può finalmente sentire meno in colpa perché il nostro dovere di buon cittadino è stato eseguito. Anche da casa con Facebook. Da domani finalmente potremo condividere e postare a piacimento notizie riguardanti le terribili malattie portate dagli immigrati o quelle sui cani bisognosi di cura. I sommersi (nel vero senso della parola) e i salvati dei nostri tempi.

Il Giorno della Memoria è una memoria abitudinaria, ferma e passiva che sbiadisce con il tempo. Per quale motivo, allora, ci si ostina a fissarla − la memoria − in un preciso istante, quando è essa stessa un meccanismo in movimento che conserva e riformula le tracce di ciò che vediamo, sentiamo, guardiamo e tocchiamo?
Perché tendiamo a istituzionalizzarla e a monumentalizzarla in modo tale da isolarla e allontanarla dalle persone, rischiando che quest’ultime nel corso degli anni perdano la sensibilità nei confronti di ciò che è stato? Insomma, perché vogliamo mummificare la memoria delle stragi naziste?

Credo fermamente che occorra pensare a un qualcosa di permanente, al quale si possa aderire volontariamente senza l’incombenza di “dover” ricordare. Serve, dunque, un progetto che si riappropri del tempo e dello spazio, individuale e sociale, in maniera riservata e silenziosa, ma costante.
Un esempio, a mio parere, estremamente positivo è rappresentato dall’iniziativa Pietre d’inciampo1 partita da Colonia, una cittadina tedesca, grazie al genio dell’artista Gunter Demnig. Di cosa si tratta? Di un’idea semplice ed efficace: un sampietrino ricoperto da una piastra di ottone posto davanti alle abitazioni di chi venne deportato nei campi nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. Una piccola targa quadrata sopra la quale è riportato il nome della vittima, l’anno di nascita, la data e il luogo di deportazione. Se conosciuta, anche la data di morte.
Ad oggi di questi sampietrini ne son stati depositati circa 60 mila in quasi tutta Europa. Anche a Venezia se ne possono trovare alcuni2. Occorre fare attenzione però, perché le pietre d’inciampo non son semplici targhe dall’importanza irrilevante, bensì vere e proprie tracce in grado di relazionarsi con la quotidianità delle persone. In breve, le pietre d’inciampo sono vulnerabili: è possibile calpestarle inavvertitamente, o magari levarle volontariamente per negare ciò che è stato e ancora sono inermi di fronte alle intemperie e all’inquinamento urbano. Senza alcun tipo di timore reverenziale, come spesso accade davanti ai grandi monumenti ottocenteschi, si avrà qualche incontro con queste presenze permanenti e integrate nella città. Magari casualmente, ma in ogni caso si dovrà fare i conti  con questi quadratini dorati che pazientemente ricorderanno le storie delle “possibilità negate” dal nazismo.
La memoria, d’altronde, non deve essere astratta dalla vita, ma deve avere il coraggio di confrontarsi e scontrarsi con essa per tornare ad essere viva.

Marco Donadon

NOTE:
1. Per approfondire, si veda il sito dell’iniziativa.
2. Qui trovate una mappa aggiornata delle Pietre d’inciampo poste a Venezia.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Ti dono le cose che non ho mai detto

Quei momenti in cui avresti voluto dire tante cose ma non l’hai fatto, pensando fosse meglio un silenzio: quegli istanti li hai ancora in mente. Solo alla fine della giornata ritornano a occupare i pensieri e a tenerti compagnia nella notte. Ma ormai il passato è passato.

«Cos’è il ricordo se non uno spettro nascosto in un angolo della mente, pronto a irrompere durante il giorno, o a disturbare il nostro sonno, con un atroce dolore, una gioia, qualcosa che non abbiamo detto o che abbiamo ignorato?»1.

Azar Nafisi, scrittrice iraniana, così descrive il ricordo delle cose non dette e a partire da questa riflessione vorrei far iniziare questo promemoria filosofico.

Vorrei darti la possibilità di dire le cose che, quando avresti potuto e magari dovuto hai taciuto, per sentirti libero di poterlo fare almeno una volta. Per tutte quelle occasioni in cui hai scelto di non dire quello che sentivi, quello che provavi, quello che ti meritavi perché l’occasione non era giusta, non era il caso o non pensavi di poter essere preso troppo sul serio.

Per quella volta che ti sentivi il mondo crollarti addosso e volevi urlare la tua disperazione ma non potevi. Dopo aver aspettato a lungo una notizia, sperando che ti potesse giovare, spesso è arrivata la delusione che si avvinghia alle tue aspettative. Avresti voluto allora non tremare ancora e finalmente dire: “No, io non lo accetto” e poterti ribellare.

Per quella circostanza in cui, per strada o di fronte alla stazione, hai visto l’amica di anni che per un bisticcio dopo molto tempo non ti ha più parlato: quella sera invece ti ha guardato, si è voltata e non ti ha neanche salutato. L’hai salutata tu, può darsi, ma avresti voluto chiederle se davvero così ci si comporta.

Alla persona che ti ha ferito a parole, a gesti, a fatti, vorresti chiedere perché farti tutto questo male.

A quella stravagante signora che vedi ogni giorno alla fermata dell’autobus, magari vorresti chiederle come si chiama e cosa ci fa anche lei alla stessa ora lì o solo dove sta andando.

Credo che vorresti dire grazie ai tuoi genitori che vicini o lontani ci sono sempre accanto a te.

Ammetto che non confesserai mai alla persona che ami, tutto e quanto amore provi per lei, ma è un segreto che terrai per te, lo so, tranquillo.

Il tentativo che ti chiedo di fare pero’ è questo: rivela una cosa che non hai mai detto ad un altro, un nodo che hai in gola da tempo o un pensiero felice, ti sentirai più leggero.

Vorrei invece che avessi l’onestà di parlare a te stesso. Per chiarire le cose in sospeso con il tuo Io, con quel Se che alla fine è te stesso, ma mai lo stesso. Per ricordarti quanto vali, quanto veramente puoi essere contento di te quest’anno. Questo è il mio dono di Natale, per riportare alla luce chi sei e cosa hai fatto per arrivare dove ti trovi.

Non lasciare che le porte chiuse ti abbattano e non dimenticare le tue passioni per la convenienza. Non dimenticarti di te stesso dopo tante ore di lavoro, dopo tanta fatica e lascia che le cose vadano come devono andare. Devi volerti bene, rispettarti e apprezza i limiti che hai scoperto di avere, non sei sempre invincibile. Non è mai semplice ricordarti, ma ne vale sempre la pena.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:

1. Azar Nafisi, Le cose che non ho detto, Aldelphi, Milano, p. 14

Un illogico teorema di incompletezza

In quel corridoio ho lasciato una parte di me. È rimasta lì, come anche sui banchi, su ogni foglio utilizzato, ogni riga scritta, ogni parola proferita. Sono tante piccole parti che in un qualche modo mi mancano, sento la loro mancanza, come se fossero tasselli del puzzle che sono e che lentamente sto smontando. Sento di avere delle parti mancanti, sento questo desiderio nostalgico, il pensiero di qualcosa che avevo, che ho vissuto e altro non è che un ricordo, una cosa passata che non può tornare. Nel ricordare un’esperienza come il mio esame di maturità quando è ormai già passato un anno, mi sento quasi come un Ulisse consapevole di non poter tornare alla sua Itaca, consapevole di aver intrapreso un viaggio più grande di lui. Ricordo con piacere o con un’invariata emozione ogni singolo dettaglio, ogni singola scena di quel che è stato, di quel che ho fatto in quel periodo per me così importante, mentre per altri era un semplice ed indifferente mese di giugno, proprio come dovrebbe esserlo per me ora.

Il tempo passa e non lo possiamo fermare, non possiamo relegare noi stessi in una forma congeniale, in un corpo e in una mente che non siano soggetti al divenire, non me ne voglia Parmenide. Siamo costretti ad andare avanti anche se alla nostra testa piace voltarsi per guardare ciò che ormai è stato, ritrovandoci spesso in un’impossibilità, in un paradosso da noi creato per andare contro al mondo, alla vita stessa piena di regole preimpostate. Siamo noi questo paradosso, ci rinchiudiamo da soli in una gabbia di ricordi, pensando di poterci trattenere nel passato, nelle emozioni che già abbiamo vissuto e che sempre vorremo aver presenti. È un desiderio capace di distruggerci, di lacerarci nel nostro io più profondo, un io che non si sente a suo agio e vaga nella temporalità, che tende al passato apparentemente paradisiaco. Ciò che già abbiamo superato, che ormai ci è lontano e si presenta come ricordo è una figura subdola, non poi così veritiera come può apparirci. Nel nostro criticare la realtà, cercando di fuggire dalla scomodità del presente, dimentichiamo così velocemente la medesima condizione che caratterizzava tutte le altre esperienze che non sono più attuali per noi. Non ci toccano più nelle loro particolari difficoltà, nella loro pesantezza nel viverle, perché ormai distanti dalla nostra percezione. La falsificazione del ricordo qui rischia di essere effettiva, causata soprattutto da una mentalità attualizzante che nell’andare a ritroso elegge sempre il passato e ogni sua immagine come i momenti più belli da noi vissuti, la condizione migliore in cui sentiamo di non esserci crogiolati abbastanza.

Sarà sempre così, nella nostra impossibilità o non accettazione di vivere il presente appieno, questo istante irripetibile in ciò che può darci nel qui ed ora, finiremo sempre a rimpiangere il passato. La nostra condizione risulterà essere sempre quella di una figura incompleta per sua volontà, un puzzle che, come ho detto ad inizio articolo, si sta smontando lentamente lasciandosi deficitario dei propri tasselli. Ed è pur vero che non possiamo fermare quest’inesorabile scorrere, questo tempo fluido che tutto si porta appresso, ma non ne possiamo neanche rimanere in balia. Possiamo accettare tutto ciò, accettare il tragico nella nostra vita e diventare ciò che siamo, parafrasando Nietzsche, rendendoci conto che ciò che veniva visto come il lento declino, la costante perdita di qualcosa, di una parte di noi è sempre compensata da qualcosa che deve ancora arrivare. Come costruttori di questo puzzle che noi stessi siamo, dobbiamo poter accettare di inserire nuovi pezzi ad una sagoma che altrimenti rischierebbe di rimanere vuota, andando addirittura a cancellare la sagoma stessa.

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

Il genocidio della memoria

Gennaio è, generalmente, il mese in cui si costruisce l’anno nuovo, si disegnano promesse che forse manterremo a metà, si scrive un copione che verrà disatteso perché ci si lascerà coinvolgere dall’imprevisto affrontando battaglie sconosciute.
Ma Gennaio è anche il mese in cui si celebra la memoria.
Esiste un giorno particolare, il 27, in cui i Paesi Occidentali si uniscono simbolicamente in un raccoglimento che attraversa la Storia e abbatte i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, ascoltando in silenzio le parole degli ultimi sopravvissuti alla Shoah ebraica, perpetrata dalla follia nazista durante la II^ guerra mondiale.

Nelle scuole le tracce dei temi convergono in questa tematica, puntuali giungono le dichiarazioni dei più importanti esponenti politici, l’Organizzazione delle Nazioni Unite si prodiga, nel 2005, con la risoluzione 60/7 proclama il 27 Gennaio: data ufficiale per le commemorazioni, l’Italia la anticipa di cinque anni ( articolo 1 e 2 della legge n°211 del 20 Luglio 2000 ).
Vengono proiettati film, si leggono libri sull’argomento… celebrazioni di rito e poi arriva Febbraio.

Durante i successivi undici mesi, si provvede tranquillamente a demolire lo spirito di concordia che si era venuto a creare con frasi che invocano ad un ritorno dello sterminio, mentre altre lo negano.
In certi casi le stesse persone che lo negano, chiedono allo spirito del suo principale fautore, di tornare per completare l’opera, generando una contraddizione in essere troppo complicata da analizzare.

Tralasciando la mera polemica sul negazionismo, volevo porre l’accento sul significato di questo Giorno della Memoria.
Abbiamo detto che si ricorda il genocidio ebraico, lo si approfondisce, lo si discute… ma quanti genocidi si sono compiuti durante gli ultimi secoli?
Chi li ha compiuti, e perché?

In passato abbiamo posto le basi del nostro europeismo, inteso come cultura occidentale apparentemente elevata, in tre continenti su cinque ( escludendo l’Antartide… non me ne vogliano i pinguini imperatore ).

Nelle Americhe scomparvero circa 100 milioni di individui, sia a causa delle malattie portate dall’uomo bianco, sia dalle sue guerre di conquista e sottomissione.
I campi di concentramento erano le riserve, territori delimitati e sorvegliati dai nuovi padroni, esperti in recinzioni e confini.
In Oceania ( Australia e isole circostanti ) la popolazione nativa crollò del 90%.
In Africa invece contiamo circa 20 milioni di vittime.

Non fraintendetemi, non è mia intenzione screditare la Shoah per porre tutti gli altri genocidi su una scala dell’orrore che ha come unità di misura, l’intensità, l’efferatezza e il numero dei morti.
Il mio obiettivo è – come al solito – quello di far conoscere a chi ne è all’oscuro, avvenimenti che riguardano da vicino anche chi lega ad un solo colore ideologico, determinati atti.

Quelli elencati precedentemente sono tutti genocidi avvenuti in ambito coloniale, ma ce ne sono altri legati alla politica, alle personalità singole ed eccentriche in tutta la loro brutalità.
Tanti stermini condotti tra l’indifferenza di molti.

Genocidio degli Armeni, un milione e mezzo di morti; Genocidio dei contadini ucraini, sette milioni di morti; Genocidio dei Tutsi in Ruanda, un milione di morti; Genocidio degli oppositori politici in Cambogia, Unione Sovietica, Cina, decine di milioni di morti.

Davanti a tutto questo, si può ancora parlare di colori politici? Si può ancora attribuire ad un unico uomo tutti i mali del mondo?
Certo, si può – e si fa continuamente – ma, prendendo coscienza appunto, si può andare oltre le classiche barriere fatte di convinzioni comuni, e ci si può interrogare sulla necessità di ricordare anche le tristi pagine scritte da noi, non solo dagli altri.
E per citare una di queste tristi pagine vi lascio una testimonianza letteraria tratta dal romanzo ‘Cuore di Tenebra’ di Joseph Conrad.

Siamo nel Congo belga di fine ‘800, gli europei hanno investito numerosi fondi nelle imprese della gomma, del legname e dell’avorio.

Marlow, il protagonista della storia, sta navigando il fiume con un battello per raggiungere un emporio commerciale situato nella foresta equatoriale, quando vengono attaccati dai nativi.

“Con una mano cercai a tastoni sopra la testa il cordone della sirena, e lanciai un fischio dopo l’altro, precipitosamente.
Il tumulto di grida rabbiose e bellicose, cessò all’istante; e poi dalle profondità della foresta si levò un lamento tremulo e prolungato di paura lugubre e di disperazione estrema, quale si potrebbe immaginare che seguisse la fuga dell’ultima speranza della terra.”

A voi ogni libera interpretazione.

Non sarà certamente uno sforzo sovrumano tirare le somme del nostro passato, aprire le porte al Gennaio di una nuova consapevolezza sociale e stabilire sani obiettivi futuri.
Ricominciare fa parte della nostra natura, e per farlo occorre sapere cosa siamo stati, in modo da non compiere l’ennesimo genocidio, quello della memoria, che spesso copre con uno strato di indifferenza il lume della ragione.

Buon 2016.

Alessandro Basso

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Il profumo di un ricordo

 

Quando più niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più fragili, ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, solo l’odore e il sapore restano ancora a lungo come anime che ricordano, aspettano, sperano, sulla rovina di tutto il resto, che portano senza piegarsi, sulla loro gocciolina quasi impalpabile,l’edificio immenso del ricordo. Marcel Proust, À la recherche du temps perdu

Sveva camminava spedita verso l’università. Frettolosa, avvolta nei suoi indumenti di lana da cui spuntavano unicamente gli occhi e il naso. In ritardo, come al solito, pensava unicamente al fatto che avrebbe dovuto sedersi per terra, anche questa volta, perché tutti i posti sarebbero già stati occupati e le aule delle università italiane sono sempre troppo piccole per il numero di studenti che ospitano.

Sveva camminava senza guardarsi attorno, meccanicamente, un piede dopo l’altro, il più velocemente possibile. Camminava senza accorgersi della neve che timida e silenziosa iniziava a scendere. Senza accorgersi dei negozi che alzavano le saracinesche. Senza accorgersi di chi la salutava. Camminava energica e risoluta, come in una giornata qualunque. Camminava immersa nei rumori. Di motore, di clacson, di una sirena. Dello sferragliare del tram. Di una frenata improvvisa. Dell’abbaiare dei cani portati a spasso dai loro padroni. Di bambini che vanno a scuola e di anziani che urlano loro di stare attenti. Camminava immersa nei rumori di una città che si è svegliata già da un pezzo.

Camminava senza sentire niente, senza vedere niente. Camminava senza aspettarsi niente, Sveva.

Ma all’improvviso un odore. Un profumo. Una scia appena percettibile, nascosta tra l’odore di smog. E non è più tra i rumori, la folla e le cose da fare. Quell’odore, quel profumo l’ha colpita dritta al cuore e l’ha portata lontana verso un qualcosa che cercava di sopire. È successo questo a Sveva: ha sentito un odore, ha visto un ricordo. Le sue mani, il suo sorriso, la sua risata, la sua voce, il suo abbraccio. Il suo profumo, così caldo, così pulito, così suo. Ed è riemerso tutto per quella scia appena percettibile che le fa salire in gola quella tenera nostalgia per qualcosa che è stato e che non può più essere. Una scintilla che ha lasciato riaffiorare con tutta la dovizia di particolari possibile e con una forza prorompente quello che si era costretta a ricacciare nel fondo della sua memoria.

La memoria olfattiva, niente di più trascurato nella letteratura psicologica. Eppure l’olfatto è il più grande alleato della nostra memoria. Nessun altro input sensoriale è altrettanto memorabile quanto un odore. Nient’altro è così resistente all’oblio della memoria. Niente è altrettanto capace di rievocare il passato risvegliando al tempo stesso tutti gli altri sensi. I ricordi olfattivi sono tenaci, profondi e potenti, accompagnati sempre da una forte carica emotiva. I ricordi olfattivi sono invadenti, vanno al di là di ogni nostra volontà. I ricordi olfattivi sono imprevedibili e inevitabili. Bizzarri. Non è un caso che Kant definisse l’olfatto il senso “contrario alla libertà”. È per tutti questi motivi che l’olfatto è il senso che preferisco. È per questo che io volutamente respiro a fondo e creo ricordi. Perché un odore è quel “particolare immenso” – per dirlo con le parole di Bachelard – che riattiva i nostri ricordi autobiografici che danno i fondamenti alla nostra identità. Un odore è quel “particolare immenso” che ci permette di rivivere tutto quello a cui è associato suscitando in noi malinconia, nostalgia, gioia, a seconda del ricordo che riattiva. Un odore è quel “particolare immenso” capace di farci sentire vicino qualcosa o qualcuno che vicino non può più essere e di farcelo percepire reale, ancora per una volta.

E allora io vi consiglio di chiudere gli occhi, tapparvi le orecchie e respirare a fondo. Lasciatevi portare ovunque quell’odore vi voglia portare.

Lasciatevi andare all’edificio immenso del ricordo.

Giordana De Anna

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Papà, che cos’è la Shoah?

“Papà, che cos’è la Shoah?”

Interrompe così Giulia la cena tranquilla con suo padre. Proprio stasera non doveva essere a casa sua moglie? pensa, mentre intanto maledice di aver tenuto la televisione accesa durante la cena. Lo dice sempre Giovanna che bisogna mangiare con la televisione spenta.

“Papàààà, mi hai sentito?”

La voce della bambina lo richiama alla realtà, respira a fondo e inizia a rispondere, prendendola un po’ larga.. perché non ha idea di come spiegare a una bambina di sette anni una delle pagine più buie della nostra storia. E si sente quasi in colpa a dover spalancare gli occhi ancora così innocenti di sua figlia sulla più grande tragedia dei nostri tempi. Una tragedia che ha portato il mondo a dire MAI PIU”. Ma gli tornano in mente le parole di Primo Levi

se comprendere è impossibile, conoscere è necessario perché ciò che è accaduto può ritornare

e capisce quanto sia importante spiegare a sua figlia quel che è successo, anche se terribile, per crearle il ricordo di qualcosa che non le è accaduto. Così, respira a fondo e comincia:

“Beh, Giulia, Shoah intanto è una parola ebraica che vuol dire “catastrofe”. Ed è una parola utilizzata per riferirsi all’Olocausto.”

“Cos’è l’olocausto papà?”

“L’olocausto è una parola utilizzata per descrivere la persecuzione e lo sterminio del popolo ebraico.”

“ E perché il popolo ebraico è stato sterminato?”

“Questa è una bella domanda Giulia.. se la pongono ancora in molti senza riuscire a darsi una vera risposta.. accade che a volte si abbia paura della diversità di un uomo rispetto a te stesso. Accade che a volte l’uomo abbia paura di se stesso e delle sue stesse diversità. E succede che allora inizi una guerra. E in ogni guerra Giulia ci sono sempre uomini contro uomini. E ci sono bambini separati dai loro genitori, uomini e donne che non hanno più forza, hanno solo occhi vuoti, senza vita né espressione, occhi pieni di paura e privi di speranza..”

“Papà basta.. mi viene da piangere.. mi è anche passata la fame.. non voglio più sapere.. e se succede che divento anche io così?”

“No bambina mia.. non diventerai così. Basterà che tu abbia il rispetto per le idee degli altri, anche quando non ti piaceranno. Basterà che non cercherai di cambiarle con la forza. Basterà che tu veda sempre che dietro a quell’idea c’è un altro uomo che è proprio come te. E il fatto che stasera ne parliamo, io e te, è già un passo avanti sai.. è molto importante Giulia la domanda che mi hai fatto, perché, in una civiltà come la nostra che tende a vivere solo l’immediatezza del presente, ricordare serve proprio a evitare che queste mostruosità si possano ripetere. Ricordare vuol dire essere attivi, vuol dire porsi delle domande. Ricordare sollecita il cuore e la mente. Ogni 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria perché si ricordi sempre quello che è successo. Ogni 27 gennaio si ricordano le sofferenze che hanno subito uomini, donne e bambini come noi. E ogni 27 gennaio ci si sentirà sempre un po’ colpevoli, Giulia, per non aver potuto impedire, per aver ignorato, per essere uomini. Ma tutto questo dolore lo dobbiamo proprio ricordare per imparare a scegliere oggi di evitare nuovamente quell’errore in qualsiasi parte del mondo. Ora finisci la cena amore, un primo piccolo passo per oggi l’abbiamo fatto.”

Oggi, 27 gennaio, giorno dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, lo Stato italiano celebra il “Giorno della Memoria“. Si spezza il silenzio che tesse una ragnatela così sottile e insidiosa che rischia di cancellare la memoria dell’orrore. Un silenzio pericoloso che è importante infrangere, anche solo con un pensiero.

Giordana De Anna

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Un passato che ritorna

A volte il passato torna a bussarti alle spalle. Ti volti, lo riconosci, può scapparti un sorriso come può farti sentire una fitta al cuore.

In alcuni casi ci lasciamo piacevolmente trasportare dai momenti importanti e felici della nostra vita, con un velo di nostalgia amiamo ricordarne i dettagli e il loro corso e talvolta riusciamo anche rievocare le medesime emozioni e sensazioni come se non si fossero spente mai.

In altri casi guardiamo al passato con angoscia, come se questa ne avesse fatto il suo territorio di appartenenza, temiamo certi ricordi dolorosi, certe scelte infelici, certi eventi negativi, temiamo che questi possano ripetersi in futuro con la stessa carica devastante.

Molto spesso quando viviamo in un perenne stato di tensione e ansia, rimaniamo paralizzati; con la paura di intraprendere progetti futuri, di scegliere e perfino di desiderare, passiamo la nostra esistenza in un costante stato di inerzia: non rischiamo, non ci esponiamo, aspettiamo che qualcuno magicamente possa mettere fine a questa nostra continua agonia.

Kierkegaard definisce l’angoscia come quel sentimento del possibile che non si riferisce ad alcunché di preciso, a differenza del timore il quale si riferisce invece a qualcosa di determinato.

«Nell’intimo cuore, nel segreto più segreto della felicità, abita l’angoscia, che è disperazione: questo è il luogo più caro alla disperazione, quello che preferisce fra tutti: profondamente dentro la felicità».

Se l’angoscia è il sentimento del possibile, e se il possibile è connesso con l’avvenire, allora l’angoscia è strettamente connessa al futuro. Perché quindi proviamo angoscia nei confronti di ciò che è passato? Il passato può angosciare solo quando può ripresentarsi come una possibilità di ripetizione nel futuro.

Secondo Kierkegaard, la categoria della possibilità sembra essere costitutiva della condizione umana e con essa anche quella dell’angoscia perché legata alla possibilità.angoscia

Ciò che è possibile è ciò che non è ma può essere; può essere che il passato ritorni, come può essere che questo non ritorni mai più. Angoscia dinanzi alla libertà del corso degli eventi di potersi ripetere come no.

Se l’esistenza del singolo è il regno della possibilità, del divenire, del contingente e quindi della libertà: l’uomo è ciò che sceglie di essere, ed è ciò che diventa.

Possiamo scegliere se rimanere ancorati al passato e ingabbiati negli eventi dolorosi della nostra vita, precludendoci la possibilità di vivere il presente e il futuro con entusiasmo; oppure possiamo scegliere se affrontare il passato in modo costruttivo, perdonando i nostri errori, accettando una volta per tutte ciò che è successo, smettendo di voler cancellare l’incancellabile e di voler cambiare l’incambiabile.

Possiamo scegliere di vivere la vita con tutte le sue infinite possibilità, affrontando di volta in volta il corso degli eventi e non ripiegandoci nella paura di poter soffrire ancora

«Sia il passato come realtà, sia il futuro come potenzialità, guidano il nostro comportamento presente».
Carl Gustav Jung

Essere consapevoli di ciò che abbiamo vissuto e di ciò che vorremmo diventare è fondamentale per dare un senso e una direzione al nostro presente.

Il passato non è un nemico da dover sconfiggere, ma un vecchio amico ferito e umiliato da comprendere. Più lo respingeremo più questo tornerà a tormentarci, se invece lo accetteremo, non gli daremo lo spazio per ripetersi nel futuro, né attraverso di noi né attraverso gli altri.

«Più si riesce a guardare indietro, più avanti si riuscirà a vedere».
Winston Churchill 

Elena Casagrande

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