Brevi storie di comportamenti altri: un ricordo

Le storie che leggerete nelle prossime righe e nei prossimi paragrafi meritano di venir qui raccolte e ricordate affinché non si creda che in una società totalitaria, come quella che si ebbe in Germania negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta del Novecento, l’unico comportamento possibile fosse quello massificante. Un comportamento altro fu talora possibile. E si trattò di un comportamento umano.

Non credo di essermi mai soffermata sull’utilità sociale e politica che delle cartoline, o qualunque altra cosa simile, possano assumere in particolari circostanze storiche. Nella Berlino del 1940, dipinta nel film Alone in Berlin (tratto da una storia vera), delle cartoline riportanti ora il Fürher ora la città divengono lo strumento con il quale è possibile condurre una resistenza silenziosa ma incrollabile. All’indomani dell’occupazione nazista di Parigi, una lettera della Wehrmacht notifica a Otto e Anna Quangel la morte del loro unico figlio sul fronte francese. Munito di guanti per non lasciare traccia, Otto decide di scrivere dei messaggi contro il regime nazista sul retro di svariate cartoline, depositandole in luoghi strategici della città con la speranza di ridestare quella capacità di pensare criticamente che i suoi concittadini sembravano avere ormai perduto. Delle duecentoottantacinque cartoline scritte, diciotto non verranno mai consegnate all’ispettore della Gestapo Escherich; un dato tutt’altro che insignificante. Nonostante lo spettatore venga messo a conoscenza di tale dato solo nelle battute finali del film, esso è il cuore stesso dell’intera storia. Diciotto persone dimostrarono che la loro umanità non era stata schiacciata dal peso della macchina totalitaria, così impegnata a massificare e atomizzare l’essere umano.

Vorremmo leggere di più di questi “qualcuno” che si comportarono in maniera così banale, così disarmante, in un universo in cui la banalità poteva diventare ciò che propriamente è umano. La storia di Otto e Anna, per quanto rara, non è la sola ad esserci stata tramandata, seppur con tono sommesso e scarso pubblico.

Ne è un esempio la storia di Anton Schmidt, sergente della Wehrmacht, il quale comandava in Polonia una pattuglia che si occupava dei soldati tedeschi staccati dalle loro unità di appartenenza. Costui, la cui figura nel dopoguerra venne citata in molti documenti in lingua yiddish, si imbatté in partigiani ebrei cui fornì documenti falsi e camion militari senza alcuna richiesta di denaro in cambio. Ai tempi si parlò anche di un artigiano che preferì lasciar distruggere la sua attività indipendente e impiegarsi in una fabbrica come operaio piuttosto che iscriversi al partito nazista. Senza contare chi preferì rinunciare alla carriera accademica piuttosto che prestare giuramento a Hitler, o i molti operai, soprattutto berlinesi, e alcuni intellettuali socialisti, che aiutarono come poterono i loro conoscenti ebrei. Poi ci furono due ragazzi, figli di contadini, arruolati a forza nelle SS alla fine della guerra che si rifiutarono di firmare; furono condannati a morte e in un’ultima lettera ai genitori confessarono di preferire questo amaro destino piuttosto che partecipare alle azioni delle SS, ormai ben note.

Molto più conosciuta è la storia degli Scholl, Hans e Sophie, due studenti dell’Università di Monaco che, ispirati dal loro insegnante Kurt Huber, distribuirono dei manifesti in cui Hitler veniva definito un assassino di massa. Essi facevano parte di un gruppo, denominato La Rosa Bianca, che operò dal giugno 1942 al febbraio 1943, opponendosi in modo non violento alla Germania nazista. Del gruppo facevano parte anche Christoph Probst, Alexander Schmorell e Willi Graf, tutti poco più che ventenni. Scrissero sei opuscoli prima di venire arrestati, all’interno dei quali si rivolgevano all’intelligentia tedesca, sperando di farle aprire gli occhi sugli orrori perpetrati dai nazisti ed esprimendo il loro desiderio di un’Europa a regime federalista improntata a valori cristiani di giustizia e tolleranza.

Sul piano pratico le azioni e le resistenze di queste persone non ebbero alcun valore. Non poterono niente, ma dimostrarono di aver sempre saputo distinguere il bene dal male. Un pensiero inquietante invade la mente e si fa strada l’impraticabile idea del cosa sarebbe successo, dell’aspetto che la Germania avrebbe assunto, se ci fossero state più persone simili a queste e più storie da raccontare. Ma la macchina totalitaria è progettata per colmare quello che è il suo tallone d’Achille, la più vera natura umana, o almeno per escogitare raffinate strategie con cui indebolirlo e affamarlo. Di una di queste ci dà ragione un medico della Wehrmacht, Peter Bamm. Assistette senza far nulla insieme ad altri commilitoni all’omicidio di un gruppo di ebrei di Sebastopoli nei locali contigui a quelli in cui costoro vennero prelevati e collocati a forza sui furgoni a gas. Riferisce che chiunque si fosse opposto agli Einsatzgrouppen, ovvero alle unità addette allo sterminio nell’Europa dell’Est, sarebbe scomparso in poche ore senza alcuna traccia. Un regime totalitario, se ben costruito, è consapevole di dover togliere agli esseri umani la possibilità di una morte degna, eroica e tragica1. Ogni tipo di oppositore scompare nel nulla, la sua figura cade in un limbo da cui non c’è memoria o redenzione. La macchina totalitaria priva l’atto della morte della possibilità di acquisire un carattere grandioso e tragico rendendola un gesto privo di senso, impraticabile perché inutile.

Eppure, come potrebbe essere insignificante un gesto ispirato e profondamente mosso dalla propria capacità di distinguere ciò che è bene da ciò che è male e dal rifiuto di venir schiacciati e resi pallide ombre di se stessi. Dalla confessione di Bamm emerge un senso di facile resa, che nasconde la vuotezza di quella maggioranza di tedeschi che si sottomise. Ma alcuni no, non lo fecero. A loro vanno queste parole colme di gratitudine:

«È vero che il regime hitleriano cercava di creare vuoti di oblio ove scomparisse ogni differenza tra il bene e il male, ma come i febbrili tentativi compiuti dai nazisti dal giugno 1942 in poi per cancellare ogni traccia dei massacri […] furono condannati al fallimento, così anche tutti i loro sforzi di far scomparire gli oppositori “di nascosto, nell’anonimo”, furono vani. I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c’è troppa gente perché certi fatti non si risappiano; qualcuno resterà sempre in vita per raccontare». 

E perciò nulla può mai essere “praticamente inutile”, almeno non a lunga scadenza2.

Sonia Cominassi

 

NOTE:
1. H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 2013, p. 239.
2. Ibidem.

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Le parole chiave dell’Adunata degli Alpini

Città di Treviso, un caldo fine settimana di maggio, strade chiuse al traffico, più di 500 mila persone disseminate nelle vie del centro storico, tricolori ovunque. È il week end dell’Adunata Nazionale degli Alpini.

Un appuntamento giunto alla sua novantesima edizione, che per tre giorni ha cristallizzato la città facendo vivere la sua gente in un’atmosfera sospesa dalla solitaria e frenetica routine che caratterizza i nostri tempi. Un evento particolarmente sentito dalla popolazione, che ha risposto all’iniziativa con una partecipazione decisamente numerosa. Una manifestazione che mi ha sorpresa e affascinata, e che vorrei raccontare attraverso tre parole chiave; quelle tre caratteristiche che più mi hanno colpita e che mi hanno aiutata a capire il senso profondo di questa adunata.

Convivialità. Il clima di profonda festa e di profonda convivialità che faceva da tela alla manifestazione lo si poteva esperire appieno già a partire dal viaggio in autobus, indubbiamente il mezzo più agevole per raggiungere la città. Durante i tre giorni dell’adunata, gli autobus sono stati sovraccarichi di persone che molto probabilmente ne facevano uso per la prima volta; persone che non esitavano a scambiarsi informazioni sulla manifestazione; persone che, a differenza dei consueti passeggeri settimanali, condividevano i minuti del tragitto chiacchierando tra loro. E persone che si riunivano ad ascoltare i racconti di qualche passeggero dall’inconfondibile cappello con la piuma nera. Ebbene sì, onnipresenti nel territorio trevigiano, gli alpini non mancavano mai all’appello di narrare le loro esperienze più importanti. Impossibile relegarli al silenzio con timidezza: gli alpini volevano e dovevano parlare al loro pubblico. Hanno partecipato all’Adunata così numerosi per noi, e noi, se volevamo assistervi con autenticità, dovevamo saperci disporre all’ascolto, accettando con disponibilità e simpatia il pacchetto all-inclusive.

Ordine. Il senso dell’ordine e della disciplina caratteristico dei valori degli alpini, come si può ben immaginare, ha trovato la sua massima espressione nella sfilata domenicale. Sono stati 80mila gli alpini che vi hanno preso parte, provenienti da ogni parte d’Italia, e in alcuni casi anche dall’estero. Impossibile non sentirsi coinvolti dai sorrisi e dall’entusiasmo di quell’ordinato scorrere di uomini (e di donne: presenti, sebbene in minoranza) che procedevano a passo di marcia, trainati dalle musiche di bande e fanfare. La maestosa compostezza del corteo rispecchiava la geometria delle camicie a quadri, che tanto hanno riempito gli occhi degli spettatori. Un fiume che ha sfilato per tutta la giornata in città, sembrando una cosa sola, tanto era forte l’unione che lo disciplinava. Valori, quelli dell’ordine e della coesione, che al giorno d’oggi risultano in molti casi superati, complice la nostra volontà di essere padroni di noi stessi senza freni inibitori e senza la disponibilità ad accettare consigli o puntualizzazioni da quanti ci stanno attorno.

Forza d’animo. Considerato il sole cocente di questo fortunato fine settimana di primavera inoltrata, la presenza di alpini di una certa età non era affatto scontata. Eppure c’erano, ritti e fieri, malgrado le rughe sul volto, i capelli bianchi, la schiena ricurva e le gambe stanche. D’altra parte, la forza d’animo e la forza di sopportazione del sacrificio che hanno temprato le scorse generazioni non trovano di certo ostacolo in qualche chilometro da percorrere a piedi. Le maniche di camicia rimboccate per loro non sono un semplice modo di dire; sono piuttosto il naturale atteggiamento nei confronti della vita e delle sue avversità. Anche in questo caso, dovremmo essere capaci di prendere esempio da quanto è stato in passato: dovremmo farci forza, imparare a sopportare, imparare a ricucire e ricostruire. Dovremmo limitare la predisposizione all’usa-e-getta che ci è stata imposta dalla contemporaneità, la quale finisce inevitabilmente per influenzare anche le nostre relazioni e il nostro rapporto con gli oggetti di cui usufruiamo.

Ciò che è accaduto in passato non legittima quanto avviene nel presente; la quotidianità deve essere in grado di autolegittimarsi, di trovare in se stessa le sue ragion d’essere. Storia e memoria non vanno confuse; ma è altrettanto vero che la storia ha bisogno di essere tramandata e di far conoscere ai posteri i valori che l’hanno plasmata. «Se dal presente non viene alcuna sollecitazione a mantenere vivo il rapporto con il passato subentra negli individui e nei gruppi quella forma particolare della memoria che è l’oblio»1. E dimenticare, in storia, è tutto fuorché un atteggiamento morale.

Federica Bonisiol

NOTE:

1. Bruno Cartosio, Parole scritte e parlate. Intrecci di storia e memoria nelle identità del Novecento, Società di mutuo soccorso Ernesto de Martino, Venezia 2016, pag. 57

 

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Charlotte Delbo: l’ostinata volontà di rinvenire bellezza ad Auschwitz

La sua è la storia che narra di una pluralità di storie. Chi si aspetta di trovare nelle riluttanti pagine di Nessuno di noi ritornerà una testimonianza strictu sensu dell’orrore di Auschwitz rimarrà deluso. Quella di Charlotte non è una testimonianza, ma un riconsegnare in chiave veridica, letteraria e teatrale alcuni frammenti, fotogrammi, alcuni istanti di quella che fu la sua malaugurata prigionia nel campo di sterminio polacco.

«Tutte le parole sono da lungo tempo appassite.
Tutte le parole sono da lungo tempo scolorite”.
[…] La mia memoria è più esangue di una foglia
d’autunno
La mia memoria ha dimenticato la rugiada
La mia memoria ha perduto la sua linfa. La mia
memoria ha perduto tutto il suo sangue».

Nel leggere questo piccolo e tremendamente intenso libro si ha la sensazione di trovarsi a guardare, proprio malgrado − come se si fosse trascinati al cinema e non si volesse vedere la pellicola in programmazione − una sequenza di immagini tra di loro prive di linearità narrativa e storica. Sono le immagini che si impossessano, forse prepotentemente, della mente della Delbo, ormai ritornata in Francia. Ritornata. Parola che nello scorrere delle pagine ha un sapore strano e ambiguo. L’angoscia che traspare dal titolo e che rende i cuori dei lettori tremanti e irrequieti si perde, alla fine, nell’amarezza di quel «nessuno di noi avrebbe dovuto ritornare», il quale occupa da solo l’ultima pagina. Si possono leggere i nomi di molte donne, nomi che passano di bocca in bocca: si tenta di sapere il perché una compagna non è rientrata, chi l’ha vista, come può essere finita. Non si conosce nulla più dei loro nomi. Esse non esistono nel campo. Nessuna esiste. Con quanta riottosità Charlotte offre a ognuno di noi il grigio scorcio di una donna disarticolata, che si muove nella neve per poter rinfrescare le labbra. È come se fosse priva di membra, disumana nell’aspetto e nella camminata. Anche se una camminata non è. Il suo è un rendere la vita. È difficile dare contorni e forme precise a questa donna. Si ha l’impressione di osservare un quadro, dipinto da un impressionista, dove i colori e i contorni si fondono e tutto appare indistinto. Un insieme di pennellate grigie, intervallato da qualcuna più lieve e delicata del colore della pelle. Delle macchie che vanno ben presto a confondersi con il bianco sporco della neve.

C’è un continuo contare. Si contano le sopravvissute di ogni giorno. Ogni gruppetto di donne si conta e, dinanzi alla perdita di una compagna, si chiede sottovoce cosa le sia successo o, per meglio dire, come e quando sia morta. Anche le SS in mantellina contano e ricontano, ricercano la simmetria nelle file degli appelli mattutini. Un perverso gioco matematico.

Delbo non vuole appagare il lettore con dettagli, sordidi e miserabili, di istanti o di scene, così da ottenere solo la sua commozione ed il suo frettoloso dimenticare per ritornare nel presente. Ad ogni istante narrato concede il carattere ieratico proprio dell’espressione artistica, l’unica che rimane inattuale e, dunque, duratura. Istanti e non situazioni, perché Auschwitz fu un “nessun-luogo” e, come tale, nessuno avrebbe dovuto o potuto fare ritorno. Gli istanti che Delbo narra sono vissuti inattuali e inattuabili, i quali, come tali, necessitano di un linguaggio del tutto particolare in grado di eternarli nella loro estemporaneità. Levata ogni retorica, il passato interroga il presente portando a consapevolezza le fratture e le lacune che fanno ogni storia:

«E quando arrivano
credono di essere arrivati
all’inferno
possibile. Però non ci credevano.
Ignoravano che si prendesse il treno per l’inferno
ma visto che ci sono si armano e si sentono pronti
ad affrontarli
con bambini le donne i vecchi genitori con i
ricordi di famiglia e le carte di famiglia.
Non sanno che a quella stazione non si arriva».

Il passato si può dire e si deve dire trovando una forma espressiva dell’immaginario che sia adatta. E Delbo riesce a scovare un tipo di linguaggio capace di restituire le vite degli anni di prigionia, di sentire la verità dell’esperienza di coloro che l’hanno vissuta, mettendo al bando ogni emozione, compreso quel senso di vergogna per essere riuscita a fare ritorno. In fondo, quella parola in grado di eternare l’estemporaneo altro non è se non il prolungamento della parola che legava ogni prigioniera, dunque anche Charlotte, del convoglio del 24 gennaio 1943 alle sue compagne. Duecentotrenta le donne del convoglio, un gruppo compatto – già si conoscevano tra loro – suddiviso a sua volta in piccoli gruppi: «[…] ci aiutavamo in tutte le maniere: darsi il braccio per camminare, sorreggersi, curarsi, anche il solo parlarsi. La parola era difesa, riconforto, speranza. Parlando di ciò che eravamo prima, conservavamo la nostra realtà. Ciascuna delle sopravvissute sa che senza le altre non sarebbe mai ritornata».

Nonostante la brutalità e la crudeltà che traspaiono dalle pagine di Nessuno di noi ritornerà, c’è una bellezza celata che non si lascia cogliere facilmente. La si può scorgere in ogni narrazione, sia quando si ha innanzi una donna che, stremata, rende la propria vita, sia quando ve n’è un’altra aggrappata disperatamente all’esistenza. La bellezza della parola. La bellezza del donare il proprio braccio come sostegno. La bellezza del dare uno schiaffo per impedire che una compagna cada nel limbo. La bellezza della morte. La bellezza di una morte che sopraggiunge quando si è convinti di non essere più nulla. La bellezza impensabile dell’ovunque e del “nessun-luogo”.

Sonia Cominassi

BIBLIOGRAFIA:
Charlotte Delbo, Nessuno di noi ritornerà. Auschwitz e dopo I, Il filo di Arianna, 2015

[Immagine tratta da Google Immagini]

Terrorismocrazia

7 gennaio 2015, Parigi, sede del giornale satirico Charlie Hebdo – 1 luglio 2016, Dacca.

In mezzo a queste due date c’è la spiaggia di Susa presso l’hotel Riu, c’è il Bataclan, l’albergo Radisson Blu di Bamako nel Mali, c’è San Bernardino in California, Istanbul, Bruxelles, Orlando in Florida, c’è ancora Istanbul ma questa volta il suo aeroporto.

Sconfortante mettere assieme le date dei recenti avvenimenti per dar forma all’essenza internazionale che questo biennio sta respirando.
Il potere del Terrorismo, o Terrorismocrazia, ha ritrovato la sua spinta iniziale di dieci, quindici anni fa; non occorre paventare la fine del mondo, ma prendere atto del fatto che siamo davanti al metodo più consolidato e rodato, per destabilizzare, confondere, per far prevalere i contrasti, per dividere le persone di una o più comunità.

Per comprendere il male e quindi per iniziare ad affrontarlo, occorre sprofondarvici dentro.
Immergersi nell’oscurità delle risoluzioni estreme, nella filosofia dei pianificatori di morte: aut omnia aut nihil, o tutto o nulla.
Il terrorismo non ha una storia troppo recente, non è cosa di oggi, ha avuto altre forze che lo hanno sostenuto, altri protagonisti e ha sconvolto altre epoche, lasciando dietro di se altre vittime su cui piangere.

Mi sono spesso soffermato sulle sfumature di questo male: prendono i colori della religione, della politica, del sentimento di appartenenza ad un determinato sistema, della convinzione di essere gli autoproclamati portatori sani di una società nuova.
E tutti gli altri?
Gli altri diventano vittime sacrificali, diventano agglomerati di “sbagliati”.

In un altro frammento storico, quello 1894-98, le vittime del terrorismo propriamente detto erano i politici, i rappresentanti del potere.
Antonio Cánovas del Castillo, Presidente del Consiglio spagnolo.
Marie François Sadi Carnot, Presidente della Repubblica di Francia.
Elisabetta “Sissi” di Baviera, Imperatrice d’Austria.
Gli esecutori? Tutti italiani: Caseri, Angiolillo, Luccheni.
Quarant’anni prima Felice Orsini, tentava di uccidere Napoleone III di Francia, e mentre l’imperatore si salvava, così non poteva dirsi per dodici persone.

Ancora, 20 marzo 1995, metropolitana di Tokyo, cinque persone salgono sul treno, in una città grande e caotica come quella è normale, è routine.
Ma queste cinque persone fanno parte della neo-religione Aum Shinrikyo, che si propone di raccogliere insegnamenti e dettami sia dal buddhismo che dall’induismo, travisandone e reinterpretandone il messaggio.
Il gas nervino uccide dodici persone; il sistema di reinterpretazione di un messaggio religioso creando estremismi simili, comincerà a farne decine di migliaia di lì a sei anni.

Un piccolo passo indietro: mattina del 18 luglio 1994, questa volta siamo a Buenos Aires, nel seminterrato del palazzo in cui fa sede l’Associazione Mutualità Israelita Argentina, salta in aria un furgoncino imbottito di tritolo, ottantacinque morti.
Solo sospetti, ma nessuna conferma e cade tutto nel buio.

In altri articoli ho spesso ricordato gli “anni di piombo in Italia, manovrati da matrici politiche di estrema destra, estrema sinistra.
Ma sono esistiti anche terrorismi di matrice nazionalista: IRA (Irish Republican Army) in Irlanda del nord, e l’ETA (Euskadi Ta Askatasuna) nei Paesi Baschi, al confine tra Spagna e Francia.

Colpire per uccidere un obiettivo designato.
Seminare paura sotto l’insegna del terrore, e cos’è il terrore?
E’ qualcosa che si insinua nel subconscio delle persone, e che modifica radicalmente le loro vite, le condiziona, crea nuovi punti di riferimento, altera la scala dei valori.

Ecco perché ho voluto definire tutto questo: Terrorismocrazia.
Considerarla esclusivamente in base all’aggettivo che ne indica la provenienza, significa declassare tutte le altre forme di terrorismo che ho elencato, rendendole di fatto superate, quindi dimenticabili.
L’errore è tutto lì.

Alessandro Basso

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La bella Italy

Domenica ero a Firenze, dopo giorni di tempo incompatibile con giugno era finalmente uscito il sole che già da metà mattina aveva cominciato ad abbattersi infuocato sulla frotta di turisti ai piedi della cattedrale di Santa Maria del Fiore.
Una fila di sessanta metri si era formata lungo il lato sud, dove si accede al banco per fare il biglietto.
L’attesa permette di osservare la piazza e la tipologia di persone che la affolla.

Da studioso di antropologia è facile per me cadere nella curiosità di osservare i comportamenti altrui.
I sempreverdi giapponesi con la fotocamera tra le mani che si stupiscono per qualsiasi cosa, anche la più banale; gli americani instancabilmente innamorati del Rinascimento; i francesi e gli spagnoli che al gruppo – prerogativa germanica – preferiscono girovagare più in incognita.

Immancabili i venditori di immagini, da Ponte Vecchio si diramano in tutta la città esponendo i loro prodotti su bancarelle talmente improvvisate che spesso si riducono al selciato della strada.
Se qualcuno dovesse descrivere un qualsiasi luogo di interesse culturale italiano non potrebbe esimersi dall’inserire almeno un paio di questi elementi, altrimenti risulterebbe un resoconto fantascientifico.

Per aggiungere dettagli a questo quadro generale si dovrebbero citare le guide turistiche, veri e propri profeti del XXI secolo che divulgano il loro sapere attraverso un microfono e che al posto del bastone nodoso, necessario a chiunque volesse intraprendere la carriera del profeta, brandiscono una bandierina o un ombrello.
Agli angoli delle piazze si trova sempre qualcuno che suona qualcosa, motivetti famosi per le orecchie di chi apprezza i classici, improvvisazioni per gli amanti dell’originalità.

Uomini-statua che passano ore ad imitare l’immobilismo del marmo di Carrara; ambulanti che vendono accessori per smartphone… quindici anni fa vendevano solo pupazzetti di farina e braccialetti portafortuna, del resto i tempi cambiano un po’ per tutti.
Se dovesse piovere è certa l’apparizione degli ombrellai, fatto che suscita forti sospetti sulla loro responsabilità riguardo i temporali.

Tutto questo era in movimento attorno a me e alla fila a cui ormai appartenevo fisicamente, quando notai un gruppetto di uomini in carrozzina.
Saranno stati cinque o sei, tutti accompagnati dalla moglie o da un amico, si erano disposti a semicerchio attorno all’ennesima guida che parlava in inglese.

Qualcuno di loro ascoltava attento, qualche altro guardava semplicemente all’insù, uno in particolare aveva gli occhiali da sole, ma pareva non guardare nulla di preciso, era lì immobile sotto al suo cappello col frontino.

Di persone in carrozzina se ne incontrano spesso, specialmente nei luoghi ad alta frequentazione turistica, quindi non so spiegarmi come mai, proprio in quel momento, mi sono soffermato su di lui.
Non potevo sapere nulla sulla sua vita, su cosa potesse essergli capitato o se in quel momento stesse davvero ascoltando il racconto sulla costruzione della cupola del Brunelleschi, comprendere la mente umana imbrigliata nel gioco crudele di una malattia penso sia qualcosa di arduo, però il messaggio che nel giro di un paio di minuti si era materializzato davanti ai miei occhi portava con sé una conclusione semplicissima: quell’uomo era lì.

Era lì perché doveva vedere dal vivo qualcosa che normalmente si trova in fotografia, perché doveva toccare con mano il modello originale che ha ispirato tanti artisti e tanti scrittori.
Doveva respirare quell’aria, vedere o sentire quella stessa atmosfera confusionaria che sentivo anch’io, doveva bruciarsi sotto quel sole tanto atteso per poter dire di esserci stato.
Non potevo sapere nemmeno quante persone, in quello stesso momento, potessero esserci anche a Roma, a Napoli, a Venezia, accomunate dalle stesse difficoltà e dalla stessa determinazione.

Quando esiste la possibilità di ottenere un arricchimento interiore, culturale o conoscitivo, l’Uomo cerca di raggiungere quel fine tanto desiderato.
E’ in quel momento che si annullano confini, distanze, grandi o piccoli impedimenti personali.
Ce lo raccontano gli esploratori, da Marco Polo a Cristoforo Colombo a David Livingstone, ma anche scrittori del calibro di Jules Verne e Goethe.

Allo stesso tempo è da notare ciò che forse noi, abitanti del pianeta Italia, non percepiamo: la ricchezza che ci circonda.
Sembra una frase ripetitiva, una di quelle che si estrae durante le pirotecniche discussioni relative alle manchevolezze amministrative sul patrimonio artistico-culturale.
Eppure ci comportiamo come se dessimo per scontate certe cose che via via vengono dimenticate, tanto da arrivare al punto di considerare una vacanza come tale solo se fatta in un altro continente.

Non è una morale, ma uno sprone che potrebbe servire a renderci più consapevoli di ciò che custodiamo volontariamente o meno, ovvero una serie di meraviglie artificiali e naturali che costellano il nostro territorio, che riempiono le nostre piazze, che smuovono persone come quell’uomo a Firenze, che sotto al cappello col frontino seduto sulla sua carrozzina ascoltava, o forse no, il racconto sulla costruzione della cupola del Brunelleschi.

Alessandro Basso

[immagine tratta da Google Immagini]

I ritagli del tempo che passa

E’ passato solo un anno e qualche giorno da che è morta la mia gatta, Eva. Eva perché era nera, sinuosa e furba come la compagna di Diabolik; in effetti a modo suo anche lei ne ha combinate di belle, però poi abbiamo scoperto che era anche capace di immensa dolcezza: per esempio, ti bastava dire “Eva!” e guardarla negli occhioni verdi che lei cominciava a fusare.

Sono circa 370 giorni dalla sua morte così inaspettata e già certi ricordi di lei cominciano a sfumare. Ha vissuto con noi per nove cortissimi mesi e ormai ho il terrore costante che, col passare degli anni e delle decadi, finirò col dimenticarmi di aver vissuto del tempo con lei. Per lei sono stata un’amica per tutta la vita, mentre lei rischia di diventare, un giorno, solo una minuscola sbiadita parentesi della mia. Ne ho il terrore perché mi sembra, in un certo senso, un insulto alla sua memoria: abbiamo passato lunghissime giornate a casa da sole, io lei e l’altra gatta, ho vissuto tanti piccoli momenti, esasperanti, dolci e divertenti, che non avrei mai voluto dimenticare – quei momenti che mentre li vivi dici “Non potrei mai dimenticarmi di questo istante” – e invece, alla fine, se ne vanno quasi tutti.

«La vita fugge e non s’arresta un’ora»¹. Da quando ho analizzato questo componimento di Petrarca al liceo non sono più stata capace di cancellare quell’idea, l’idea che la vita stia fuggendo e che ciascuno di noi la stia faticosamente inseguendo, minuto dopo minuto, anno dopo anno. I ricordi sono solo la moneta di scambio dell’implacabile tempo che passa. Non si può nemmeno dire che sia uno scambio equo, dato che questi ricordi (molti di essi, la maggior parte) hanno una scadenza: si depositano silenziosi in anfratti dove non li puoi raggiungere, finché non accade qualcosa, inaspettatamente, casualmente, che diventa come l’odore dei limoni per Montale, apre un’altra dimensione, spalanca certe conche negli abissi della memoria e il ricordo affiora, torna alla mente, «qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza»², un momento di ricchezza che è svanito. Una malinconia (non tristezza, malinconia) che resta. Sono tuttavia occasioni troppo rare perché io possa darmi pace, troppe sono le cose che voglio ricordare.

Per fortuna, un po’ come per i limoni, i ricordi sembrano depositarsi dentro a degli oggetti: quasi fossero frammenti della nostra anima che richiudiamo nelle cose più svariate, concrete o astratte che siano, affinché li custodiscano per noi. Per esempio, per me c’è anche il caffè al ginseng: l’ho sperimentato il primo giorno in cui ho vissuto a Milano perché la mia coinquilina ne aveva sviluppato una sorta di dipendenza, e da allora un po’ anche io; adesso che non viviamo più assieme lo bevo molto meno, ma quando lo faccio penso a lei e al “ging” del dopopranzo o del “ok è tardi abbiamo sonno e dobbiamo ancora finire di lavorare al progetto ma ce la faremo”. Allo stesso modo, L’ombelico del mondo di Jovanotti adesso mi fa ridere mentre penso ai balletti scemi che facevo (con imbarazzo e divertimento) insieme agli altri volontari all’Expo, oppure c’è quel profumo di Lancome che credo assocerò sempre a mia madre, e la “furia buia” del film Dragon trainer alla mia piccola Eva pelosa. Ciascuno di noi ne ha un buon numero, se ci pensiamo bene. Certo, sarà sempre il nostro cervello che metterà in moto il processo di rimembranza, ma a pensarci è un po’ come avere dei nostri ricordi che camminano nel mondo: a volte li incontriamo e tac!, un pensiero risorge, ci fa stare bene e ci fa stare male. Purtroppo resta sempre da decidere se anche quelli abbiano una scadenza, se, cioè, l’oggetto in cui depositiamo il ricordo ad un certo punto non decida di espellerlo, disperdendolo definitivamente.

Del resto, con quale criterio il cervello dovrebbe scegliere i ricordi da eliminare e quelli da mantenere? Non è affatto detto che scelga in base alla loro importanza, altrimenti non dovrei cantare ancora a memoria Barbie girl degli Aqua. Pensiamo anche soltanto a tutto quello che abbiamo imparato del mondo quando eravamo piccoli! Ho da poco conosciuto la figlia di mia cugina, che ha solo cinque mesi ma sta seduta e ha due occhioni azzurri spalancati sul mondo; perché ad osservarla mi rendevo conto con profonda sorpresa che non si tratta solo di imparare a camminare e a parlare, si tratta di tutto quanto, di imparare a mettere in sintonia il nostro corpo con il mondo, cioè con i suoi suoni odori gusti volti superfici rumori colori… Tutte cose che oggi diamo per scontate (spesso niente ci sembra essere abbastanza interessante), e questo proprio perché non ci ricordiamo la magia dello scoprire il mondo pazzesco in cui siamo. Non ricordare il passato a volte ci tradisce nel modo in cui viviamo il nostro presente.

Dicono che in genere usiamo solo una piccola parte del nostro cervello. Questo potrebbe voler dire che i ricordi in realtà dentro ci sono tutti senza che noi ce ne accorgiamo. Magari sono come nodi nel lanoso gomitolo del tempo di Bergson: sono lì tutti in fila, ma è difficile per noi sgranare il rosario ed arrivare al punto giusto, lì dove si trova il ricordo che stiamo inseguendo. E’ dura anche perché il gomitolo, anche se non sembra a vederlo così appallottolato, è molto lungo – di fatto hai una vita che ti passa davanti al contrario – e all’improvviso pensi che ti sembra l’anno scorso che hai fatto la tal cosa e invece sono passati anni. E pure troppi. Allora te ne rendi proprio conto: la vita scappa a gambe levate, e non sta lì ad aspettarti. A volte addirittura ti punisce per la tua pigrizia e non ti lascia dietro nessuna traccia del suo passaggio – o, almeno, non in superficie.

«Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità».³

Giorgia Favero

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NOTE:
1. Francesco Petrarca, Componimento CCLXXII, in “Canzoniere”;
2. Eugenio Montale, I limoni, in “Ossi di seppia”;
3. Ibidem.

Giornata della Memoria: per una memoria non fine a se stessa

Se una volta il calendario cartaceo era solito riportare con massima attenzione i nomi dei Santi religiosi e le ricorrenze della cultura popolare, ad oggi il nostro calendario social-mediatico ci informa quotidianamente su tutt’altro genere di notizie. Alcune ricorrenze attirano con forza la nostra attenzione e la nostra sensibilità, altre sembrano invece essere decise a tavolino per fini strettamente pubblicitari e/o commerciali finendo per apparirci come totalmente irrilevanti.

Una delle ricorrenze più importanti, non soltanto dal punto di vista storico, ma anche e soprattutto dal punto di vista civico è la Giornata della Memoria. Ogni anno possiamo assistere a numerose e svariate iniziative ad essa dedicate, in tutti gli ambiti culturali. Essa è stata stabilita al 27 Gennaio, data che nel 1945 ha visto l’apertura dei cancelli di Auschwitz; la sua portata commemorativa però va e deve poter andare ben oltre questa semplice data.

Ciò che deve stimolare in noi la curiosità e la riflessione è l’intitolazione ufficiale della ricorrenza: “Giornata della Memoria“. Qualsiasi tipo di anniversario, per definizione, si propone di ricordarci un particolare avvenimento. La Giornata della Memoria, invece, in quanto tale, sembra volerci ricordare di ricordare. Sembra che essa non voglia semplicemente ricordarci quanto è stato, ma che voglia imporci il ricordo stesso! Da questo punto di vista il 27 Gennaio sarebbe allora la giornata della memoria per antonomasia, la quale da sola si fa carico, e quale altra ricorrenza potrebbe riuscirci meglio, di farci volgere per un attimo lo sguardo verso tutte quelle pagine che la storia vorrebbe strappare dal suo libro infinito.

Da un punto di vista più filosofico, però, l’imposizione del ricordo fa si che l’esercizio della memoria e l’appello ad essa siano un dovere! Si può davvero imporre la memoria? E’ auspicabile che il ricordo assuma la forma di un imperativo?

Per rispondere a queste domande ci viene in aiuto il testo “Se Auschwitz è nulla – Contro il negazionismo”, scritto da Donatella Di Cesare. In queste pagine è affrontata la delicata questione del negazionismo, quel filone di pensiero storicamente revisionista che mira a negare dei particolari avvenimenti storici. Nel caso della Shoah l’atteggiamento negazionista si fa impressionantemente radicale in quanto la negazione di ciò che è stato è funzionale al proseguimento dello sterminio. Per dirla con parole forti, che la stessa autrice non manca di sferrare: gli Ebrei saranno sconfitti definitivamente soltanto se si riuscirà a cancellare dai resoconti storici la stessa attestazione del loro annientamento. Il negare, dunque, per queste organizzazioni, è un atteggiamento intenzionale, volto all’annientamento complessivo dell’intera vicenda che ha coinvolto il popolo ebraico.

Date queste premesse, l’esercizio della memoria e del ricordo dovrebbe allora essere considerato come una sfaccettatura della formazione da incoraggiare e una consuetudine civica da promuovere. Con ciò però si intende un sano dovere della memoria: “sano” poiché è necessario badare bene a non storpiarlo o snaturarlo. In molti, infatti, hanno posto l’attenzione su questo aspetto: il rischio a cui storici e intellettuali si riferiscono si identifica con la conversione della memoria in culto, della commemorazione in celebrazione.

L’esercizio della memoria non può essere fine a se stesso, non deve semplicemente fare luce sul passato per ricordarci di non ripetere gli sbagli di quanti sono vissuti prima di noi. L’eterno ritorno alla Nietzsche è soltanto un’affascinante fantasia, perché il passato, lo sappiamo tutti, non ritorna tale e quale! L’esercizio della memoria, a mio parere, deve essere un terreno fertile sul quale seminare e coltivare sguardi onesti ed accorti, che possano essere in grado di scovare, nelle vicende attuali, non le somiglianze fattuali con quelle del passato, ma piuttosto le loro somiglianze motivazionali, al fine di smascherarne le tendenze corrotte e distorte.

Federica Bonisiol

Un passato che ritorna

A volte il passato torna a bussarti alle spalle. Ti volti, lo riconosci, può scapparti un sorriso come può farti sentire una fitta al cuore.

In alcuni casi ci lasciamo piacevolmente trasportare dai momenti importanti e felici della nostra vita, con un velo di nostalgia amiamo ricordarne i dettagli e il loro corso e talvolta riusciamo anche rievocare le medesime emozioni e sensazioni come se non si fossero spente mai.

In altri casi guardiamo al passato con angoscia, come se questa ne avesse fatto il suo territorio di appartenenza, temiamo certi ricordi dolorosi, certe scelte infelici, certi eventi negativi, temiamo che questi possano ripetersi in futuro con la stessa carica devastante.

Molto spesso quando viviamo in un perenne stato di tensione e ansia, rimaniamo paralizzati; con la paura di intraprendere progetti futuri, di scegliere e perfino di desiderare, passiamo la nostra esistenza in un costante stato di inerzia: non rischiamo, non ci esponiamo, aspettiamo che qualcuno magicamente possa mettere fine a questa nostra continua agonia.

Kierkegaard definisce l’angoscia come quel sentimento del possibile che non si riferisce ad alcunché di preciso, a differenza del timore il quale si riferisce invece a qualcosa di determinato.

«Nell’intimo cuore, nel segreto più segreto della felicità, abita l’angoscia, che è disperazione: questo è il luogo più caro alla disperazione, quello che preferisce fra tutti: profondamente dentro la felicità».

Se l’angoscia è il sentimento del possibile, e se il possibile è connesso con l’avvenire, allora l’angoscia è strettamente connessa al futuro. Perché quindi proviamo angoscia nei confronti di ciò che è passato? Il passato può angosciare solo quando può ripresentarsi come una possibilità di ripetizione nel futuro.

Secondo Kierkegaard, la categoria della possibilità sembra essere costitutiva della condizione umana e con essa anche quella dell’angoscia perché legata alla possibilità.angoscia

Ciò che è possibile è ciò che non è ma può essere; può essere che il passato ritorni, come può essere che questo non ritorni mai più. Angoscia dinanzi alla libertà del corso degli eventi di potersi ripetere come no.

Se l’esistenza del singolo è il regno della possibilità, del divenire, del contingente e quindi della libertà: l’uomo è ciò che sceglie di essere, ed è ciò che diventa.

Possiamo scegliere se rimanere ancorati al passato e ingabbiati negli eventi dolorosi della nostra vita, precludendoci la possibilità di vivere il presente e il futuro con entusiasmo; oppure possiamo scegliere se affrontare il passato in modo costruttivo, perdonando i nostri errori, accettando una volta per tutte ciò che è successo, smettendo di voler cancellare l’incancellabile e di voler cambiare l’incambiabile.

Possiamo scegliere di vivere la vita con tutte le sue infinite possibilità, affrontando di volta in volta il corso degli eventi e non ripiegandoci nella paura di poter soffrire ancora

«Sia il passato come realtà, sia il futuro come potenzialità, guidano il nostro comportamento presente».
Carl Gustav Jung

Essere consapevoli di ciò che abbiamo vissuto e di ciò che vorremmo diventare è fondamentale per dare un senso e una direzione al nostro presente.

Il passato non è un nemico da dover sconfiggere, ma un vecchio amico ferito e umiliato da comprendere. Più lo respingeremo più questo tornerà a tormentarci, se invece lo accetteremo, non gli daremo lo spazio per ripetersi nel futuro, né attraverso di noi né attraverso gli altri.

«Più si riesce a guardare indietro, più avanti si riuscirà a vedere».
Winston Churchill 

Elena Casagrande

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