I “Pensieri” di Marco Aurelio e la cura dell’imperatore

Marco Aurelio, uno degli imperatori più stimati dell’antichità, nella sua solitudine, lontano dalle corti e dalle battaglie, soleva scrivere in questo modo:

«Presto dimenticherai tutto; presto ti dimenticheranno tutti»1.

È solo uno delle centinaia di aforismi che l’imperatore scrisse, senza alcun nesso fra loro, ordine, scopo o destinatario. Fuggendo il chiasso dei senatori, il rombo delle armi e lo stridio del cavalli, le pagine che Marco Aurelio ci ha lasciato sembrano impregnate dai lunghi respiri che l’imperatore doveva prendersi, prima di ritornare ai suoi doveri. L’uomo più potente dell’impero si consolava della sua esistenza con l’inchiostro e la pergamena, ogni volta che poteva. L’opera di Marco Aurelio esiste perché alcuni sconosciuti decisero di organizzare i suoi scritti, e solo in seguito nacque il titolo come lo conosciamo oggi, A se stesso.
La mancanza di un ordine chiaro dei suoi pensieri ha reso quest’opera la più libera, che possa mai capitare fra le mani di un lettore: la si può sfogliare a caso, tornare indietro, e poi volgersi verso la fine del libro. Si troveranno consigli su come vivere, comportarsi con gli altri (soprattutto con chi ci odia), sulla necessità della calma, l’inutilità della rabbia, la pazienza nel non fomentare la malvagità altrui, la consapevolezza delle cose effimere.

Nel caos delle sue massime, si trova tuttavia un elemento che spicca fra tutti, e che spesso si ripete.

«[…] in nessun luogo più tranquillo e calmo della propria anima ci si può ritirare; […] Concediti quindi questo ritiro e in esso rinnovati»2.

Nei memoranda che Marco Aurelio lasciava proprio a se stesso, per resistere alla vita stessa, si scopre che la via da seguire può essere tracciata solo a partire dalla propria interiorità.

«Scava dentro di te; dentro è la fonte del bene, e può zampillare inesauribile, se continuerai a scavare»3.

L’imperatore si aggrappa continuamente a sentenze di questo genere, perché l’interiorità è l’unico luogo in cui si ritrova la mappa delle strade da percorrere.
Marco Aurelio visse dal 121 d. C. al 180 d. C., non conobbe ritmi frenetici, rumori assordanti e continui, né il fenomeno della massa che ingurgita l’identità dell’individuo. Marco Aurelio, in sostanza, non poteva prevedere il nostro secolo e i suoi mali, eppure propone l’unica cura possibile, o almeno, quella che adottò egli stesso. Contro lo smarrimento per essere stati trascinati troppo a lungo dagli eventi, dalle passioni e dai propri sogni, bisogna riappropriarsi di se stessi. Che sia il silenzio, lo sfrigolio di una penna, o qualsiasi altra cosa, l’unica conquista da compiere è quella del proprio tempo, poiché soltanto così si ritrova il proprio equilibrio, il proprio senso.
Non si tratta di parole di solo conforto, ma si basano su un principio logico-filosofico ben preciso: fra la natura, l’anima umana e gli eventi del mondo esiste una legge, che interconnette ogni cosa, anche se gli uomini non la comprendono.
«O un universo perfettamente ordinato o un ammasso casuale, ma pur sempre un ordine. Come potrebbe esistere in te ordine e nell’universo disordine? Specialmente considerando che tutte le cose sono ben distinte le une dalle altre eppure fuse insieme e in reciproca armonia»4.

Sebbene l’imperatore sia ben consapevole di non potere capire la ragione dell’armonia, egli si rifugia continuamente dentro di sé per ritrovarvi i semi che vi ha lasciato: solo in questo modo, si può essere coscienti di ciò che è effimero, e ciò che non lo è.
Marco Aurelio scriveva a se stesso e, senza saperlo, avrebbe teso la mano a sconosciuti di epoche per lui inimmaginabili, rispondendo ai dubbi e alle domande di chi lo avrebbe letto.
Questi sono solo alcuni dei motivi per cui bisognerebbe continuare a leggere Marco Aurelio. Che le si sfogli distrattamente, o le si divori riga per riga, le pagine dell’imperatore custodiscono rimedi imperituri all’unico male dell’individuo: la perdita del sé, inghiottito dai fatti del mondo.

Vi è un ultimo elemento da sottolineare. In assenza di un obiettivo chiaro, gli aforismi sono di fatto molto simili fra loro, in alcuni momenti persino ripetitivi. Tuttavia, spiccano le prime pagine del Libro I, perché diverse da tutte le altre. Non sono altro che dediche fatte dall’imperatore a tutte le persone che lo hanno amato e ispirato, dai familiari ai propri maestri. Di ognuno, Marco Aurelio ricorda, soprattutto, il motivo per cui è debitore: da alcuni ha imparato la clemenza, la bontà, da altri la severità, i precetti morali ecc… Se volessimo dare un nuovo titolo a queste pagine, sarebbe forse Il libro della gratitudine, poiché siamo ben poco, se ci districhiamo dai legami con altre anime, se ci svincoliamo da ciò che abbiamo dovuto affrontare, anche nostro malgrado.
La gratitudine è uno sforzo di memoria, di riconoscimento di sé, un atto di volontà di pace, ed è così che si apre ciò che potremmo definire il diario di un’anima così temuta, potente, che aveva bisogno di nascondersi in se stesso, come la tartaruga nel suo carapace, per godere della saggezza di cui il mondo scarseggiava.

 

Fabiana Castellino

NOTE:
1. Marco Aurelio, Pensieri, Mondadori Editore, Milano 1994, p. 84
2. Ivi, p. 35
3. Ivi, p. 90
4. Ivi, p. 41

[Photo credits: Elisabella Foco su Unsplash]

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Sul gender e sul neutro: avvistare una contraddizione

<p>Immagine tratta da Google Immagini</p>

Iniziamo questa riflessione sul gender1 recuperando un contributo precedente: alcuni mesi fa una nostra autrice, in un articolo intitolato Una strana idea di femminismo, faceva notare come oggi siano particolarmente in voga alcuni discorsi e alcune pratiche che, nate dal nucleo forte che è la presa di parola pubblica da parte delle donne, sono scaduti in una forma di misandria. Come ogni volta in cui si mettono in questione posizioni e tendenze che s’ispirano a qualche discorso precedente, occorre fare attenzione a non appiattire la parola originaria a quella che da essa prende le mosse: dal discorso e dalla pratica femminista, preziosi per aver aperto una possibilità di liberazione politica e filosofica anzitutto per le donne, o piuttosto dalla vulgata che se ne è fatta, si sono originate una molteplicità di posizioni che da essi si allontanano a vario titolo e con differenti sfumature.

Una di queste posizioni, quella che pare allontanarsi maggiormente dalla rivendicazione femminista, è quella che per brevità è talvolta chiamata – impropriamente – ideologia gender. Occorre essere precisi: ciò che intendiamo mettere a tema non sono i gender studies e i contributi di chi ha voluto misurare l’ingenza delle costruzioni e delle rappresentazioni sociali sulla sessualità degli individui e tentare di decostruirla. Tutte le traiettorie lungo le quali si sviluppa la persona umana possono patire, secondo un meccanismo di interpellazione e identificazione, le pressioni della società e della cultura in cui ciascun soggetto si trova a vivere ed edificarsi; e rendersi conto di tali meccanismi è un passo in più verso l’articolazione di una soggettività libera.

La posizione che ci pare problematica e che tentiamo qui di discutere2 è quella che dal pensiero di matrice femminista (da alcune delle sue determinazioni: si pensi a mo’ di esempio a Judith Butler), passando per i gender studies, giunge alla rimozione della differenza sessuale, ritenuta un che di meramente biologico, un accidente su cui si può intervenire in vario modo e, ancor di più, un’opprimente costruzione sociale. È la posizione che sta oggi portando innanzi una liquefazione del genere.

Ma il pensiero che affermi la totale insignificanza della differenza sessuale e persegua la conseguente rimozione dei due sessi in vista di un più ampio e meno costringente gender pare contradditorio almeno per un punto: si vuole liberare il soggetto da quell’ennesima costruzione sociale e culturale che è la differenza tra maschile e femminile ma si finisce per reintrodurre il dominio del neutro, ciò contro cui il pensiero della differenza sessuale si è aspramente e lungamente pronunciato. Il patriarcato opprimeva donne e uomini3 istituendo un regime di neutralità, chiaramente edificato a partire da alcuni tratti che si astraevano dall’essere umano di sesso maschile. Il pensiero della differenza sessuale ha reso possibile per il soggetto umano il progetto di un’identità libera, ha aperto la possibilità di un libero articolarsi del molteplice che evidentemente differisce. E la neutralità che viene introdotta con il gender rende impossibile qualsiasi forma di dialogo, non contempla alcuna forma di relazione poiché impoverisce l’alterità con cui ciascuna soggettività è chiamata a mediare – anche nell’esperienza di autocoscienza.

Senza differenza non può emergere alterità e, dunque, non può nascere neppure l’individuazione del soggetto. Dalla libertà in virtù della differenza si ricade ad una forma dualisticamente connotata di libertas indifferentiae: non si è liberi di vivere il proprio corpo, soprattutto quanto alla dimensione della propria sessualità, ma si è liberi di astrarne sino all’indifferenza.

L’intento di aprire al soggetto la possibilità di identificarsi con qualsiasi modello istituito sulla base dei propri e singoli desiderata prende di mira alcune condizioni che sono necessarie – ancorché non sufficienti – alla libera fioritura della persona umana. Non si è colpito davvero l’apparato di potere che esercitava costrizione sui soggetti in cerca d’identità ma si è negata la consistenza della materia che il potere tentava di informare in una certa maniera.

Se quel che si vuole è davvero la liberazione del soggetto, allora bisogna soffermarsi a problematizzare il gender e non limitarsi a giustificarlo come un discorso che rivendica diritti fondamentali per alcuni soggetti messi al margine in forza delle loro scelte sessuali: si tratta di due discorsi totalmente differenti, la sovrapposizione dei quali produce quantomeno contraddizione. L’affermazione di una differenza tra i due generi, maschile e femminile, non produce alcuna esclusione aprioristica delle identità libere, di cui conserva la possibilità di differire e, per ciò stesso, di strutturarsi. Non è riaffermando il totalitarismo del neutro che si potrà dare alle cosiddette persone LGBTqi la possibilità di non vedersi negato il riconoscimento che ogni persona merita. Soprattutto perché il riconoscimento ha bisogno dell’alterità: di ciò che il neutro, in fine, uccide.

Emanuele Lepore

NOTE:
1. Visto il tema che ci proponiamo di trattare è necessaria un’avvertenza: mettere in questione il concetto di gender non vuol dire affermare l’opportunità di quelle pratiche sociali, culturali e politiche che mettono al margine le persone che decidono liberamente della propria sessualità, anche qualora una cultura o una società dovesse classificarle come distanti dalla normalità. Quel che qui presentiamo è un pensiero in fieri, che necessita anzitutto del riscontro di chi avrà la bontà di leggere le righe in cui si articola ma che non può essere ricondotto, per i suoi intenti e per il suo contenuto, al discorso di chi promuove l’esclusione dell’alterità.
2. Assumo come guida per questo breve e minimo giro di considerazioni il volume Differenza di genere e differenza sessuale: un problema di etica di frontiera, che il Professore Carmelo Vigna ha curato per i tipi di Orthotes e contiene i contributi di differenti studiosi, tra cui Susy Zanardo, Riccardo Fanciullacci, Fabrizio Turoldo.
3. Va detto che anche gli uomini hanno patito – e patiscono ancora ora, in una maniera differente – il patriarcato quanto alla necessità di identificarsi con determinate rappresentazioni socio-culturali.

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Uomini simili, Uomini diversi: la radice dell’uguaglianza

Ogni donna e ogni uomo rappresentano un tassello fondamentale del mosaico multicolore descrivente tutta quanta l’umanità.

L’insostituibilità dovrebbe essere il tratto imprescindibile della condizione di ciascuno di noi.

Dico dovrebbe poiché, malgrado questa stessa unicità sia inscritta nel nostro essere al mondo, siamo testimoni ogni giorno di situazioni in cui il riconoscimento viene negato. Calpestato. E allora, si ritorna a parlare del bisogno di rivendicare il proprio “diritto ad avere dei diritti”, una voce che, ogni giorno, si traduce con l’accettazione e l’uguaglianza delle differenze.

La scissione contemporanea tra individui di prima classe, i privilegiati, e individui di seconda classe, gli esclusi, ci ha condotto a dimenticare il significato di quell’uguaglianza di cui la Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo e del Cittadino si faceva promotrice.

Il termine uguaglianza, infatti, è ben diverso da quello d’identità. In logica elementare attraverso la formula A=A, quello che si costituisce è un rapporto d’identità. Non esiste differenza alcuna tra il primo e il secondo termine: trattasi, pertanto, di un’unica e medesima cosa.

Se da un lato, quindi, con il concetto d’identità, possiamo esprimere frasi di tipo descrittivo, dall’altro lato, quando parliamo di uguaglianza, realizziamo una dichiarazione di tipo valoriale. Due o più individui sono uguali poiché hanno lo stesso valore intrinseco, ovvero, quello della dignità.

Ciò implica che tutti, anche soltanto in ragione del fatto di essere Uomini, beneficiano degli stessi diritti. E, soprattutto, che ogni genere di diversità deve essere preservata, garantendo a ciascun essere umano di esprimere liberamente la propria voce diversa.

Non solo uomini simili nell’essere uguali in seno a diritto, dunque. Ma, soprattutto, uguali nel rispetto della differenza.

D’altro canto, ciò che ci distingue gli uni agli altri, e perciò ciò che ci rende diversi, definisce al tempo stesso la nostra unicità e insostituibilità.

Come scrisse il filosofo e sociologo tedesco Axel Honneth, il regresso contemporaneo è determinato e confermato da un onnipresente “ oblio del riconoscimento”, dove con “oblio” egli riesce bene a ricreare l’immagine della caduta nel vuoto. Una caduta irrefrenabile nel silenzio. Che poi, non è altro che quello che molte minoranze ancora provano. Donne e uomini abbandonati. Non riconosciuti. Rifiutati. Rigettati. Donne e uomini ancora oggi costretti a lottare per un riconoscimento sociale, personale e lavorativo.

Fino a quando non sarà compresa l’importanza e il valore di ciascun essere umano e il riconoscimento dei diritti continuerà a definirsi nei termini di una lotta faticosa, il vivere insieme rimarrà rinchiuso nei confini classificatori di una subordinazione sociale priva di criterio e di senso.

Un paese privo di rispetto verso le diverse declinazioni della dignità, si traduce in un contesto incapace di permettere il dialogo tra i simili.

La vicinanza al prossimo è la sola educazione volta alla ricostruzione dell’edificio universale del vivere con l’altro. Un altro simile. Un altro sconosciuto. Un altro diverso, eppure, in fondo, così vicino a noi.

Fare in modo che l’uguaglianza sia rispettata significa dare respiro alle differenze, lasciando che il seme di libertà di ciascuno possa crescere.

Sara Roggi

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Articolo scritto in vista del quinto incontro Simile/Opposto della rassegna tra Realtà e Illusione promosso dall’associazione Zona Franca.

Riflessioni sul rapporto fra abisso e luce

Quante volte nel corso della nostra vita siamo colpiti da sofferenze inevitabili? Amori che finiscono, famiglie disgregate, amicizie lacerate, difficoltà economiche, malattie inguaribili, lutti. Contingenze che si abbattono sulle nostre esistenze, indipendentemente dalla nostra volontà e che ci fanno precipitare in un abisso. E, solo chi ha attraversato la sofferenza, può cogliere quanto tale abisso possa essere profondo.

Dinanzi ai dolori, in particolare a quelli legati alle ferite dell’anima, l’uomo si sente chiamato a cercare e a dare un senso alla travagliata esperienza che sta vivendo. È proprio questa chiamata che rende tale l’umano: la possibilità di inondare di senso le pagine tristi e dolorose della propria esistenza. Gli uomini, infatti, non potrebbero vivere la sofferenza se in qualche modo non le attribuissero un senso. Scrive Natoli: «Il dolore […] si fa experimentum crucis, sottopone a prova l’individuo che lo vive e si erge a controprova del senso dell’esistenza»1. La sofferenza, solo qualora sia inevitabile, diviene prova e per questo occasione di maturazione etica, psicologica e spirituale. La domanda di senso circa il male invita l’uomo ad assumere su di sé la sofferenza. In questo viaggio egli matura, apprende a vivere con una maggiore profondità e una piena consapevolezza la propria esistenza. Nel cammino solcato dalla sofferenza, l’uomo può trovare un senso positivo, caricandola di importanti valenze a livello umano e spirituale. Lo psichiatra Frankl ha individuato tre binomi che caratterizzano l’umano: colpa-pena, sventura-sofferenza, malattia-morte. Tutti noi infatti sbagliamo, soffriamo e moriamo. Alla luce del realismo di questa visione, Frankl sostiene però che ogni uomo può trovare un significato alla propria sofferenza e quindi alla propria vita, proprio nella misura in cui sottrae creativamente spazi di dominio alla colpa, alla sfortuna e alla sofferenza. La luce è dunque sempre a disposizione dell’uomo e questo dipende esclusivamente da come l’uomo sceglie di vivere una sofferenza ineludibile, dunque da quale atteggiamento interiore adotta verso il destino. È fondamentale riconoscere, quotidianamente, all’uomo questa possibilità affinché egli possa cogliere sempre il significato della propria esistenza.

La sofferenza inesorabile è dunque opportunità di crescita e cambiamento. Essa aumenta la sensibilità, la prudenza e al contempo allarga gli orizzonti della comprensione profonda dell’altro e del suo riconoscimento. Inoltre, qualora vissuta con pienezza di senso, permette di attivare quella che Frankl definì “forza di reazione dello spirito” e che oggi possiamo chiamare resilienza. La peculiare capacità umana di riemergere dall’abisso in cui una sofferenza senza senso può trascinare. L’uomo ha dunque in sé tutte le possibilità e le risorse interiori di riemergere dalle tenebre dell’abisso e rivedere la luce. Questo dipende da lui, dal modo in cui affronta la sofferenza e la vive. È dell’uomo infatti l’opportunità di trascendere il dolore. E questo accade quando egli soffre per amore di qualcosa o di qualcuno. Frankl ricorda che nei lager nazisti riuscivano a sopravvivere e a dare un senso alla tragica condizione esistenziale solo coloro che riconoscevano di avere un valido motivo per soffrire: un ideale politico, un valore religioso, una persona da amare, una causa da servire. A questo proposito va ricordata l’esortazione che il medico viennese fece ai propri compagni di baracca nel campo di sterminio affinché riuscissero a strappare un senso alla vita, nonostante la tragedia nella quale erano immersi:

«Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall’alto, con sguardo d’incoraggiamento, ciascuno di noi e specialmente coloro che vivevano le ultime ore: un amico o una donna, un vivo o un morto – oppure Dio. E questo qualcuno s’attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci, ma con orgoglio!»2.

È allora che l’uomo può inondare di senso la propria condizione e può cogliere eterni spiragli di luce oltre l’abisso, poiché soffre per qualcosa o qualcuno che sta oltre la sofferenza, qualcosa o qualcuno che la trascende.

Al termine di queste brevi considerazioni sull’abisso della sofferenza ineludibile e sulla possibilità di scorgere la luce oltre l’oscurità, come non riportare le parole che Rilke rivolse al giovane poeta Kappus dopo averlo confortato in modo edificante circa l’importanza di coltivare la speranza oltre le tenebre. Concluse Rilke: «E se vi debbo aggiungere ancora una cosa, è questa: non crediate che colui, che tenta di confortarvi, viva senza fatica in mezzo alle parole semplici e calme, che qualche volta vi fanno bene. La sua vita reca molta fatica e tristezza e resta lontana dietro a loro. Ma, fosse altrimenti, egli non avrebbe potuto trovare quelle parole»3.

Alessandro Tonon

Articolo scritto in vista del quarto incontro Luce/abisso della rassegna Tra realtà e illusione promosso dall’Associazione Zona Franca.

NOTE:
1. S. NATOLI, L’esperienza del dolore, Milano, Feltrinelli, 20105, p. 8.
2. V. E. FRANKL, Uno psicologo nei lager, tr. it di N. Schmitz Sipos, Milano, Edizioni Ares, 200113, p. 138.
3. R. M. RILKE, Lettere a un giovane poeta, Adelphi, Milano 201321, pp. 62-63.

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Sotto il mantello dell’invisibilità

La vita spesso mi sembra incredibilmente densa di problemi e complicazioni – anzi, sicuramente lo è. Nel mio presente ci sono la ricerca affannosa di tema e relatore per la tesi, la prospettiva dei numerosi esami spalmati nelle ultime due sessioni, il continuo paterno reminder che suona in mille varianti del “Quando ti trovi un lavoro?”, ma anche il lavorio logorante della mia coscienza, che mi ricorda tutte le altre cose che vorrei fare ma che non faccio per pigrizia. Insieme a tutto questo misuro quotidianamente la frustrazione derivante dalla mia incessante percezione di totale inadeguatezza. Per intenderci, quella che di fronte a questi problemi ti spingerebbe piuttosto ad avvolgerti nel piumone ignorando la sveglia e a chiuderti in un bozzo isolato dal mondo.

Naturalmente da quel bozzo tocca sempre uscire, allora ecco che il piumone diventa pret-à-porter: un mantello dell’invisibilità. Nel meraviglioso mondo di Harry Potter questo viene usato in “missioni segrete” a servizio del bene, io invece ho cominciato a servirmene per scopi probabilmente meno nobili e sensati, ormai addirittura dalla fine delle medie, quando ero già troppo alta e troppo tonda per non essere notata e per questo cercavo in ogni modo di non esserlo. Non volevo che vedessero quello che vedevo io.

Da quel momento il mantello mi è rimasto incollato addosso per tutta l’adolescenza, cosa che comunque non mi ha impedito di farmi degli amici – insomma, non sono né sono stata un caso disperato, però è vero che ci sono persone i cui occhi sembrano vedere attraverso un velo di apparenze e di solitudine, persone che inspiegabilmente riescono a trovarti in quell’angolino in cui ti sei asserragliato. Lasciandomi il liceo alle spalle ho cercato di liberarmi anche del mantello, eppure spesso me lo ritrovo ancora inconsapevolmente adagiato sulla testa – che è anche il motivo per cui spesso esco di casa con i capelli davvero mal raccolti e tute da ginnastica sbrindellate, convinta che facendo una così rapida apparizione nella società nessuno possa realmente vedermi.

Invece un giorno, come diversi altri giorni, sono andata a fare il pieno alla macchina nella solita stazione di servizio vicino casa. Ci trovo quasi sempre un ragazzo (tra l’altro piuttosto carino), probabilmente di qualche anno più grande di me, che lavora lì insieme ad altri due signori. Nonostante ovviamente ci abbia sempre parlato, per lo meno a livello di saluti, ovvie richieste e ringraziamenti, non credevo mi vedessero davvero. Invece quel giorno il ragazzo mi guarda e dice “Ti sei tagliata i capelli!”.
SBAM.
Così, “Ti sei tagliata i capelli”. Nemmeno una domanda, era una sicura affermazione. E’ stato come se mi avesse strappato il mantello di dosso e mi fossi ritrovata nuda di fronte a lui.

Ci sono così tante, così tante persone che pascolano in questo mondo che uno davvero comincia a perdere coscienza del proprio significato di individuo; così tante persone che nascono e muoiono ogni giorno nell’anonimato che alle volte devi proprio sforzarti per credere di fare la differenza, d’essere seriamente speciale. Perciò uno non si aspetta di essere riconosciuto come individuo in mezzo ad una moltitudine del tutto indistinta (per esempio i clienti di una stazione di servizio). Eppure, a quanto pare, alcune volte può succedere – infatti quel giorno è successo: il mantello è volato via con un gesto talmente improvviso e violento da lasciarmi stordita per almeno un paio di secondi e solo poi è arrivata quella sensazione di… direi di calore, come qualcosa che lentamente si scioglie al sole. E’ come quando per una volta la compagna di corso non ti dice “Non ti ho vista ieri a lezione”, invece con aria quasi di rimprovero commenta “Ieri ti ho vista a lezione ma sei scappata via subito”. Oppure come quando qualcuno che ti è stato appena presentato, dopo svariati minuti riesce ancora a ricordarsi il tuo nome. Piccole cose, ma che ti ricordano che nonostante tutto (il timore, il senso d’inadeguatezza, la moltitudine di anime) sei ancora collegato a questo mondo, sei una tessera del puzzle incastrata al suo posto, concavo con convesso e dritto con dritto, ed anche se il puzzle ha più di sette miliardi di pezzi e a guardarlo non si riesce ad avere la percezione della mancanza di qualcosa, comunque quel buco ci sarebbe, esisterebbe.

Perché esistere, nonostante tutto, non può essere una cosa da poco. Sono sempre stata convinta che in un certo senso dobbiamo meritarci il nostro stare in vita su questa terra: essere gentili e disponibili con il prossimo, comportarsi secondo i dettami della società civile, magari fare qualcosa di concreto per arginare le ferite di questo mondo malato; ma la verità è che non facciamo cose buone 24 ore su 24, giorno dopo giorno: ecco perché è piacevole a volte essere riconosciuti e notati solo per il fatto che esistiamo, indipendentemente da quello che facciamo in quel momento, io e proprio io, io così come sono, io e basta. Ci sono delle volte in cui essere visti fa la differenza, semplicemente riscalda il cuore. Quel mantello infatti, nonostante spesso nasca come forma di protezione, silenziosamente può diventare una gabbia. Quei piccoli sciocchi momenti sono come l’apertura dello sportello: mi rendo conto che posso uscire, se lo voglio. Eppure, la consolazione di quel minimo riconoscimento vale più di mille parole, più di mille sogni: “So che esisti. Non per uno scopo, non per una qualche necessità, semplicemente: so che esisti. Dunque, cerca di ricordarti sempre che tu esisti”.

Giorgia Favero

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Quel desiderio di riconoscimento o quella riconoscenza che ci imprigiona?

In filosofia, non si sente parlare spesso di quella che negli ultimi decenni molte filosofe si sono impegnate a definire con il termine di “theory of care”.

Una tale corrente di pensiero, sebbene costituisca una sorta di “teoria” nell’ambito della filosofia morale, si dispiega in una vera e propria etica il cui approccio pratico permette a tutte e a tutti di dare accesso ad una filosofia incarnata, vissuta nel reale, modellata da quelle stesse pratiche quotidiane che, senza accorgercene, costituiscono il terreno nel quale nutriamo le nostre vite.

A che cosa pensiamo quando leggiamo il termine “cura”? Chi solitamente ha bisogno di una certa cura?

Ci viene in mente l’anziano signore solo, con i segni della stanchezza sul volto, un bambino che barcolla alla ricerca dell’equilibrio durante i suoi primi passi, le centinaia di persone ricoverate in un ospedale.

Ogni immagine a cui pensiamo disegna degli esseri umani che, in un modo o nell’altro, hanno estrema necessità di un sostegno esterno.

Ma siamo davvero sicuri che la cura dell’altro possa essere limitata soltanto a questi individui che, fisicamente, manifestano i segni della propria vulnerabilità?

A tale proposito, la tesi sostenuta dalle specialiste della cura concerne una sorta di ricostruzione della dimensione della dipendenza e della vulnerabilità in tutte le sue forme possibili.

In particolare, Joan Tronto definisce con il termine specifico di care tutte quelle pratiche ed attività in grado di “riparare” il mondo.

Come dunque il nostro mondo potrebbe essere riparabile? Che cosa e chi inglobiamo in questa dimensione universale lacerata dalle fratture della crisi, della guerra e della violenza? Che cosa dovrebbe essere riparato e come?

Per studiare in profondità la dimensione della cura, Tronto e molte altre studiose hanno iniziato le proprie ricerche a partire dalla decostruzione di alcuni stereotipi di genere, tra i quali quello che identifica da un lato il femminile con una serie di caratteristiche quali la debolezza, la dipendenza, la capacità a stabilire delle relazioni e una più spiccata sensibilità, mentre dall’altro lato, con il genere maschile quelle proprietà strettamente legate all’autonomia, all’indipendenza e alla razionalità, insomma con tutte quelle qualità che, nella maggior parte dei casi, fanno sì che gli uomini si dedichino ad attività lavorative aventi un certo grado di responsabilità e indipendenza, mentre la donna, in quanto docile e “sensibile”, avrebbe il compito di dedicarsi alla casa e ai bambini, così come alla cura di chi è più fragile, adattandosi a realizzare quelle attività lavorative, spesso peraltro mal retribuite, che rientrano nella sfera dei servizi assistenziali.

Non solo quindi c’è una netta distinzione, peraltro basata su una forte discriminazione, tra le attività professionali destinate agli uomini e quelle destinate alle donne; ma, come se non bastasse, ciò che fonda la discriminazione di genere è una considerazione della vulnerabilità che, nella realtà quotidiana, non può essere riferita ad una sola categoria. Come spiega bene la filosofa Joan Tronto, siamo tutti vulnerabili e dipendiamo tutti, nessuno escluso, dall’alterità. Non ci sono solamente i n”on-autosufficienti” ad esprimere una domanda di aiuto. Talvolta, è proprio chi si trova in maggiore difficoltà e chi soffre di un certo delirio d’autonomia a voler nascondere il proprio bisogno dell’altro. Ci si crede ancora capaci di poter fare tutto, ma in realtà dietro quella rassicurante falsa certezza, c’è un bisogno disperato dell’alterità, di essere guardati, capiti.

Perché quindi nascondere le proprie fragilità, se è proprio lo sguardo dell’Altro quello che cerchiamo? Perché pretendere da se stessi l’impossibile se alla fine andremo a sbattere contro il muro dei nostri limiti?

Non c’è scampo, non possiamo scappare da noi stessi.

Il riconoscimento delle proprie debolezze, in quanto costitutive della nostra stessa identità, è qualcosa che scatta in noi solamente nel momento in cui l’altro ci guarda per quello che siamo e ci accetta. Riconoscimento di sé, dunque. Tuttavia, tale riconoscimento non è possibile se a sua volta c’è stato un precedente “vuoto” di riconoscimento da parte di chi ci sta accanto e ci ama. Un riconoscimento che, però non deve tradursi in riconoscenza.

Come lo afferma bene Paul Ricoeur in Parcour de reconnaissance, la parola “riconoscimento” in francese, reconnaissance, ha due significati tra loro escludenti: da un lato con questo termine si indica il processo attraverso il quale l’essere umano può costituirsi come persona autonoma, a partire pertanto dallo sguardo di quell’alterità che, senza pretese, lo accoglie a braccia aperte così com’è; dall’altro lato, invece, la reconnaissance può tradursi in italiano con “riconoscenza”, ovvero con quel bisogno di ripagare l’altro di un favore fatto oppure di un bene ricevuto, che poi non si traduce in nient’altro che in un senso di colpa costante nei confronti di chi ha dimostrato rispetto a noi una certa benevolenza.

Le due sfumature della parola reconnaissance, lo vediamo bene, sono molto diverse l’una dall’altra; tuttavia, proprio in quanto sfumature, possono mescolarsi, producendo dei risultati tanto inattesi quanto pericolosi, presenti quotidianamente sotto i nostri occhi.

È il caso infatti di quando il riconoscimento viene richiesto secondo una qualche condizione, oppure quando l’alterità ci riconosce, ma soltanto a patto di rispettare quello che è il dipinto delle sue aspettative.

Veniamo riconosciuti sì, ma solo e soltanto se non siamo davvero noi ad essere riconosciuti.

Viene risconosciuto il nostro non riconoscimento.

Un riconoscimento ottenuto a patto di essere e diventare come dovremmo essere, invece d’inseguire la scia dell’essere e lasciarci andare al desiderio.

A quel punto è il desiderio stesso a sparire, e noi con lui.

Ed è a quel punto che il bisogno di cura non si coglie, poiché in un certo qual modo non vogliamo essere accarezzati e cullati da quelle stesse persone che non ci hanno mai dato la libertà di essere noi stessi. Uno scudo fatto di pretese, di non-desideri, di non-bisogni. In nome di un’onnipotenza che piano piano uccide e non lascia respirare l’essere.

Sara Roggi

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Piangere come funzione sociale

Non vi dico di non piangere perché non tutte le lacrime sono un male”, una citazione tratta dal Signore Degli Anelli ed è Gandalf che sta parlando a conclusione del libro nel momento degli addii. E’ proprio così!

Apparentemente incomprensibile il piangere è però una delle azioni di cui socialmente ci vergogniamo di più. Eppure nelle nostre case piange chiunque e soprattutto chi assiste al pianto degli altri. Con la fatidica domanda che, guarda un po’, parla di vicinanza e condivisione, se non proprio di capacità di risolvere il problema che angoscia l’altro: “Perché piangi?”. Varrebbe forse la pena trovare davvero il momento di “celebrare” socialmente i nostri pianti, quasi come in un rituale liberatorio: dare loro spazio, per raccontarci a vicenda tutta l’intensità dell’emozione positiva o negativa che sia, che l’altro sta sperimentando. Recuperare in qualche modo la funzione “comunicativa”, così empatica e intensa come solo le lacrime sono capaci di esprimere.

Lacrime che sanno di sale sembrano riportarci al ricordo di lontani Oceani ancestrali che meritano la semplicità dei nostri gesti quotidiani: come l’essere asciugate con delicatezza dal fazzoletto di una madre o dal movimento intenso delle dita della persona amata, perché nessuna lacrima dovrebbe andare persa. Perché ogni pianto merita l’ascolto e la nostra attenzione: da quello del neonato, a quello della figlia adolescente innamorata delusa, a quello dello sfogo degli amanti, nessuno escluso, che si sentono esclusi dalle attenzioni del partner.

Vedere piangere, è molto più che piangere.
Antonio Porchia, Voces

Il pianto ci dice soprattutto che nella nostra vita, personale e famigliare, c’è anche il dolore, l’insuccesso, la delusione. E ciò non è né bene né male: è la nostra vita. E far finta di niente o nascondercelo non aiuta. Eventualmente siamo chiamati, anche in questo caso, a compiere un’operazione tipicamente umana. E cioè aprirci alla speranza, alla condivisione della sofferenza nella consapevolezza che solo insieme si superano le difficoltà che incontriamo nella vita. Il pianto è un richiamo perché nessuno venga lasciato da solo in balia della propria sofferenza.

In quante situazioni della vita passa la morte portandosi via i nostri cari? Ce ne sarebbe da piangere per tutti di fronte a tutta la sofferenza del mondo, per il dolore, la delusione e il senso di impotenza che sperimentiamo. Ma anche perché di fronte alla morte anche la persona più di fede vacilla, quante volte abbiamo sentito “Siamo arrabbiati con Dio, che prima ci ha dato quella persona e poi se l’è ripresa senza pensare a noi!”. La società non dovrebbe rifuggire il piangere come funzione sociale, ma si dovrebbe comprendere che è bene che tutto il dolore del caso meriti di essere espresso e vissuto, senza sconti, nemmeno quello che esperiamo partecipando a un funerale in cui la funzione sociale emerge nel socializzare tra chi resta in vita la sofferenza. Dovrebbe essere chiaro che è bene per tutti “stare” in quei dolori che ci attanagliano piuttosto che evitarli o banalizzarli. Accettare i nostri pianti non ci può che rendere più abili a cogliere quelli degli altri. Che sia questa la “consolazione” dell’umanità? La consapevolezza che ogni nostra lacrima non andrà sprecata. Fare i conti con la propria sofferenza ci rende più capaci di entrare in risonanza con quella degli altri.

C’è pianto e pianto. E tutti vanno accolti. Le uniche lacrime che non vanno bene sono quelle di chi si piange addosso. Anche se abbiamo speranza che pure queste, tra le mani di un’altra persona che le sappia comprendere possano diventare altrettanta consolazione.

Improvvisamente iniziò a piangere, in quel modo che è un modo bellissimo, un segreto di pochi, piangono solo con gli occhi, come bicchieri pieni fino all’orlo di tristezza, e impassibili mentre quella goccia di troppo alla fine li vince e scivola giù dai bordi, seguita poi da mille altre, e immobili se ne stanno lì mentre gli cola addosso la loro minuta disfatta.
Alessandro Baricco, Castelli di Rabbia

 

Matteo Montagner

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Che fine ha fatto la giustizia?

Ogni giorno sentiamo parlare del bisogno di ricomporre i tasselli per una giustizia sociale, senza che alcun cambiamento prenda concretamente forma, lasciandoci in mano la speranza di un domani che sembra non arrivare mai.

Con ciò non voglio sostenere che la speranza sia sbagliata, tutt’altro.

Talvolta è proprio questa a tenerci psichicamente in vita quando le sabbie mobili sembrano risucchiarci.

A differenza dell’illusione, basata su una costruzione della mente che non potrà mai trovare realizzazione, la speranza ci spinge ad agire e ad attivarci in modo tale che tutti i progetti che ci siamo prefissati e le rispettive aspettative non vengano delusi.

L’attesa che sta alla base della speranza quindi, è volta alla costruzione, mattone dopo mattone, della nostra vita, tanto da darci quello slancio vitale che, dalle sabbie mobili, ci può far risalire, senza più cadere.

Se in fondo, ancora oggi, sentiamo parlare di speranza è perché ognuno ha preso consapevolezza delle fratture sociali esistenti e del bisogno di ripararle. Ma anche delle contraddizioni e delle ingiustizie che lo scorrere del tempo non ha fatto altro che intensificare, per non parlare poi delle disuguaglianze che stanno spaccando il mondo in due sfere che si oppongono: da un lato abbiamo il Nord, tecnologicamente avanzato e più ricco, dall’altro il Sud, sempre più terreno di sfruttamento e perciò, d’impoverimento.

Ma di quale sfruttamento stiamo parlando?

Non più unicamente materie prime, risorse materiali. O meglio, non solo.

Quello che si sta verificando ed intensificando è un vero e proprio sfruttamento umano, le cui risorse fisiche ed intellettuali non sono solo diventate oggetto di dominio da parte di quei paesi che, in quanto avanzati, riescono ad esercitare in loco la loro influenza facendo leva sulla debolezza dei paesi sotto-sviluppati. Ciò cui siamo diventati ormai spettatori impassibili è la nascita di un vero e proprio commercio umano che, attraverso l’intensificazione del fenomeno migratorio, sta contribuendo ad aumentare la distanza tra questi due mondi contrapposti.

Come poter fare in modo che quella speranza di cambiamento possa davvero raggiungere l’attualizzazione?

Come attivare un progetto volto a costruire una società giusta, basata su dei criteri di giustizia e di uguaglianza sociale e un mondo la cui ricchezza possa essere equamente distribuita, ponendo fine alla frattura tra Nord e Sud?

John Rawls, nella sua opera Una teoria della giustizia[1] sostenne che due avrebbero dovuto essere i principi alla base di una teoria della giustizia che fosse in grado di garantire libertà ed uguaglianza.

Il primo principio è quello, per l’appunto, di uguaglianza con il quale egli esprime l’importanza di dare a tutti la medesima possibilità di accedere ai beni sociali primali, applicando quello che anche Rawls definì con il termine di “velo dell’ignoranza”, che consiste nel fare astrazione di ogni tipo di criterio di discriminazione sociale, quale la razza, il sesso, la ricchezza, allo scopo di porre fine a tutte le disuguaglianze immeritate.

Il secondo, invece, è un principio di differenza rispetto il quale è possibile ammettere la presenza di alcune forme di disuguaglianza, a patto che i più avvantaggiati contribuiscano, con la loro ricchezza, a migliorare la situazione di chi si trova in maggiore difficoltà.

Tra i vari criteri secondo i quali una politica di questo tipo potrebbe contribuire a risanare le fratture sociali esistenti, vi è infatti il principio di mutuo soccorso, secondo il quale pertanto, a partire dal riconoscimento delle debolezze dei paesi meno sviluppati, l’aiuto reciproco ed un intervento solidale tra gli stati può fare in modo che questa voragine che separa paesi “ricchi” e paesi “poveri”, possa dissolversi.

Ma di quale riconoscimento stiamo parlando?

Secondo Axel Hotteth[2], si verifica un oblio del riconoscimento nel momento in cui il processo di mercificazione invade ogni aspetto e dimensione della vita. Ci si dimentica dell’altro quando la reificazione prende il sopravvento.

Tuttavia, quanto più l’essere umano è stato in grado di applicare la sua capacità raziocinante in funzione del profitto che da essa poteva trarre, tanto più, così facendo, ha perduto l’importanza del valore e del rispetto dell’altrui dignità, così anche della propria, dimenticandosi che cosa effettivamente vorrebbe dire quella “tonalità affettiva”[3] di cui Martin Heidegger parlava riferendosi al rapporto partecipativo, inglobante et qualitativo che l’esser umano stabilisce con le cose, le alterità e il mondo in cui è immerso.

 Sara Roggi

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[1] J.RAWLS, Una teoria della giustizia; cura e revisione di Sebastiano Maffettone ; traduzione di Ugo Santini; I ed. riv., Milano : Feltrinelli, 2008,

[2] A. HONNETH, Reificazione. Uno studio in chiave di teoria del riconoscimento (2005), trad. it. di C. Sandrelli, Roma, Meltemi 2007

[3] Ibidem

I danni del razzismo

 

“Coloro che a noi sembrano semplicemente una massa informe di immigrati sono persone con diverse storie, con bagagli culturali ed esperienze molto varie, sono comunque individui che- prima di essere immigrati in un paese come ad esempio l’Italia- sono “emigrati” da un altrove a noi ignoto.”
Renate Siebert

Gli immigrati sono divenuti oggi, era della globalizzazione, del principio d’uguaglianza, della fine del dominio coloniale e della frantumazione del sentimento d’appartenenza nazionale il bersaglio prediletto del razzismo.
Volgendosi contro un gruppo di persone accomunate soltanto dal fatto di possedere una tradizione e una cultura differente da quella occidentale, il razzismo trova giustificazione tra la popolazione, perché non ricorre più alla categoria della razza, della differenza biologica tra individui di pelle bianca e individui di pelle nera ormai smentita dalla scienza.
Tuttavia pare lecito chiedersi se possa mai esistere una giustificazione valida per il razzismo, posto che tutti gli atteggiamenti derivanti da esso vanno a costituire un filtro tra le persone, che ne impedisce il reciproco riconoscimento.
La sfida della nostra epoca, secondo la sociologa Renate Siebert, consiste quindi nel disimparare il razzismo che si annida nelle relazioni quotidiane, che serpeggia nei sottotitoli dei quotidiani locali, che viene nascosto tra un emendamento e l’altro tentando così di passare inosservato.
Il dovere di ciascun uomo oggi consiste nell’autocritica, nella riflessione quotidiana sui gesti che compie in modo da scovare dove si annida il razzismo e sconfiggerlo, perché questo è una passione, come diceva Sartre, che l’uomo deve vincere per poter instaurare delle relazioni interpersonali, basilari per la la realizzazione della vita propria e altrui.
Il punto di partenza dell’analisi condotta dalla sociologa Siebert in merito al razzismo è l’uomo, e tale scelta contrasta palesemente con le leggi che ogni stato Europeo ha prodotto per dotarsi di una politica migratoria completa, le quali mettono al centro l’interesse economico.
Siebert comincia dal “L’uomo invisibile” richiamando il titolo dell’opera scritta da Ralph Ellison nel 1947, infatti colui che vive sulla propria pelle il razzismo sente di non contare nulla per la società in cui vive, la quale si disinteressa totalmente delle sue azioni, dei suoi bisogni e dei suoi pensieri e si accontenta dell’immagine stereotipata che le viene fornita dai mezzi di comunicazione.
Accade così che, rifiutando di vedere l’altro e negandogli l’esperienza della relazione interpersonale, gli uomini si macchiano le mani di una grave colpa, infatti diventano responsabili del mancato processo di identificazione.
L’ altro, che solitamente è colui che si differenzia per il colore della pelle, ottiene di rimando un’immagine corporea e un’identità disturbate, infatti non vede riconosciuta la sua specificità ma si sente inglobato all’interno di una categoria, come ad esempio “il marocchino”, e per questo prova dapprima vergogna, fino ad arrivare ad una vera e propria sofferenza fisica e mentale. L’atteggiamento razzista fa provare sulla pelle di coloro che ne sono vittima il rifiuto fisico del loro corpo da parte di altri, il disprezzo, la nausea e di conseguenza porta all’isolamento e alla solitudine.
I danni del mancato riconoscimento non si limitano però a ledere irreparabilmente l’umanità di un singolo individuo, ma vanno ad intaccare le identità di tutti gli individui che gli gravitano attorno, infatti sopprimendo una differenza, perdiamo per sempre la possibilità di relazionarci con essa e di costruire il nostro Io tenendone conto.

“Riconoscere il rapporto con l’altro come costitutivo della mia stessa identità vuol dire che la mia autorealizzazione non può andare disgiunta dall’autorealizzazione dell’altro, che la mia autonomia non può essere promossa senza promuovere l’autonomia dell’altro. Come ha mostrato Hegel, l’identità non può essere costruita senza rapporto con la differenza: quando l’identità viene costruita semplicemente contro l’altro, in via di principio sto lavorando contro la mia stessa identità, in quanto tendo a distruggere uno dei suoi elementi essenziali, ovvero la possibilità di vederla riconosciuta dall’altro.”

Utilizzando le parole di Franco Crespi, Siebert sposta l’asse della sua analisi dal singolo soggetto vittima di razzismo all’insieme degli esseri umani che costituiscono la società e afferma che il bisogno primario di qualsiasi uomo sta nel vedersi riflesso nello sguardo altrui.
L’esistenza dell’alterità diviene allora un presupposto fondamentale per poter vivere, se non esistessero altri soggetti che riescono a vederci per intero, non riusciremmo a ovviare alla nostra costitutiva incompletezza, e soprattutto senza lo sguardo altrui non appagheremo il bisogno di riconoscimento.
Per avvalorare la sua tesi la sociologa di origine tedesca fa ricorso alla dialettica servo-padrone di Hegel, il quale pone un padrone e un servo, apparentemente opposti, inconciliabili ma che si scoprono essere l’uno legato all’altro, in quanto il padrone non sarebbe tale se non avesse un servo che così lo riconosce e lo stesso vale per il servo, che non esisterebbe senza lo sguardo umanizzante del padrone. Sia il servo che il padrone partecipano attivamente a questa lotta per il riconoscimento, sono in una condizione di reciprocità assoluta, mentre nel rapporto minato dalrazzismo l’individuo che viene considerato diverso viene escluso totalmente dalla dialettica perché ritenuto estraneo al genere umano.
Tra le ragioni che portano l’uomo “bianco” ad estromettere dalla dialettica servo-padrone l’uomo “nero” spicca la paura, il terrore di ritrovarsi di fronte ad un individuo portatore di caratteristiche totalmente diverse dalle nostre, con il quale non sappiamo come rapportarci e della cui reazione abbiamo timore.
Accade così che invece di intraprendere la strada della conoscenza dell’altro utilizziamo definizioni e immagini già in uso nella società, che hanno come vantaggio la limitazione dell’impatto con l’alterità che ci troviamo innanzi, ma come svantaggio la perpetrazione di pregiudizi infondati che impediscono di fare esperienza della diversità. Si tratta delle rappresentazioni sociali, costrutti che trapassano dalla società ai singoli individui, i quali grazie ad esse hanno sempre la sensazione di vivere in un mondo sicuro e sotto controllo, perché ogni qual volta fa ingresso un elemento di rottura, subito lo travestono per ricondurlo alle categorie già note. Oltre alle rappresentazioni sociali, le opinioni, che non sono altro che verità forti e schiette travestite con l’abito del giudizio soggettivo, e il senso comune, che è il bagaglio che ciascuno di noi si porta appresso di tutte le convinzioni, le abitudini, le regole che considera ovvie, costituiscono una barriera che ci impedisce di esperire l’altro, perché lo cristallizzano in un’immagine stereotipata che non trova riscontro nella realtà.
La figura che oggi meglio incarna l’alterità è l’immigrato, che differisce da noi per cultura, per religione, per colore della pelle, per posizione sociale e la sfida della nostra epoca consiste, secondo Siebert, nel mutare lo sguardo, infatti sostiene:

“Per affrontare la problematica del riconoscimento, indubbiamente, occorre innanzitutto partire da una ristrutturazione, da un ri-posizionamento dello sguardo. Anziché limitarci a scambiare la figura dell’immigrato – che rappresenta una parte – per il tutto, dobbiamo fare lo sforzo di conoscere l’emigrato, la parte nascosta e vitale.”

Solamente quando abbandoniamo le categorie cui siamo soliti ricorrere nella classificazione dell’alterità e andiamo fisicamente incontro all’altro riusciamo a rompere la barriera che si frappone tra il “noi” e il “loro”, e finalmente guardiamo colui che ci stava di fronte, lo riconosciamo ed egli fa altrettanto con noi.

Valentina Colzera

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Un insegnante ha le ali se…

 

Abbiamo bisogno di almeno mille persone in Italia innamorate della scuola che ci affianchino con il loro entusiasmo e il loro amore per la scuola per portare fino in fondo questa riforma.

Questa è un’affermazione fatta dal Premier Matteo Renzi a Dicembre dello scorso anno.

Non voglio soffermarmi sul contesto che circondava tale frase ma sul senso delle parole.

Vorrei parlare dell’insegnante, di colui che ogni giorno si siede alla cattedra e cerca di trasmettere conoscenze ma soprattutto passione.

Vorrei parlare dell’insegnate, di colui che non lavora solo a scuola ma continua a casa, senza fermarsi per essere pronto per la lezione del giorno dopo.

Vorrei parlare dell’insegnante, di colui che ogni anno insegna sempre le stesse cose ma non si stanca di ripeterle.

Vorrei parlare dell’insegnante, di colui innamorato della scuola, nonostante tutto.

In Italia il lavoro dell’insegnante è spesso bistrattato, sottovalutato e reso difficile da un sistema burocratico infernale, da una società che non riconosce la giusta importanza della scuola e dalle famiglie che troppe volte difendono i figli a spada tratta ripetendo senza fine “Perché ce l’ha con mio figlio?”

Il lavoro dell’insegnante è da considerarsi una missione da svolgere con passione, dedizione e sacrificio; l’insegnante deve riuscire a trasmettere informazioni e conoscenze contornate da parole quali rispetto, educazione, sogno, fiducia, talento, perseveranza.

L”insegnante non deve solo sedersi alla cattedra e parlare, deve, prima di tutto, osservare e ascoltare chi ha di fronte, comprendere ed incoraggiare, rispettare e dare fiducia ai suoi allievi.

L’instaurarsi di un rapporto di fiducia solido può avvenire solo attraverso il “riconoscimento” dell’Altro come Altro ma soprattutto come Persona.

Cosa significa?
Significa che l’insegnante deve considerare la classe come composta da elementi diversi ed eterogenei, riconoscendo le diverse indoli e la continua influenza della società che porta spesso al conformismo, senza puntare all’omologazione: solo in questo modo l’allievo riuscirà a non smarrirsi, liberandosi dalle imposizioni della società esprimendo al meglio il suo talento.
Valeria Genova
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