Io contro di te: Hegel e la lotta per il riconoscimento

Leggere la Fenomenologia dello spirito è un atto di scoperta e sofferenza continua: ogni volta che credi di averla capita, ecco che riesce a sorprenderti e a rivelarti qualcosa di nuovo a cui non avevi fatto caso. Sembra una di quelle calli veneziane che più le percorri e più ti risultano oscure e misteriose, conducendoti sempre in una direzione diversa. Ed è proprio per questo suo continuo ribollire di idee che oggi vorrei ritornare sulle pagine della Fenomenologia e parlare un po’ del tema del riconoscimento tra auto-coscienze. Però anziché considerare questo tema attraverso la famosa dialettica tra servo e padrone, vorrei concentrarmi sul suo stadio preparatorio. Sto parlando della lotta per la vita e la morte. Questa lotta è estremamente interessante, perché ci mostra con grande chiarezza i rischi di una concezione astratta dell’identità personale; rischi che si manifestano quotidianamente negli scontri tra fidanzati, amici, genitori e figli, etc.

Per cominciare bisogna dire che l’esperienza che Hegel ci sta descrivendo con questa lotta è un’esperienza originaria, perché rappresenta un desiderio di riconoscimento che ciascuno di noi – in quanto uomo – vive costantemente dentro di sé e fuori di sé, nel confronto con gli altri. Nel caso specifico della lotta per la vita e la morte, Hegel ritiene che questo desiderio si caratterizzi per il fatto che ciascun uomo pretende di affermare la sua assoluta libertà e indipendenza, e di essere riconosciuto come tale, senza però voler riconoscere a sua volta l’altro. Per esempio, un figlio adolescente pretende il riconoscimento unilaterale da parte dell’autorità del padre, che per lui significa dire: «Io sono grande e, se voglio uscire con gli amici, posso fare ciò che Io voglio!»
Allo stesso tempo, un padre pretende che il figlio sottostia e riconosca come assoluta la sua autorità, affermando che «Io sono il padre e decido Io cosa è meglio». In questo caso, è chiaro che le due auto-coscienze che sono coinvolte nello scontro si considerano entrambe come assolutamente libere e indipendenti, ovvero come un “puro essere per sé” che non è limitato da nulla poiché non è dipendente da nulla. Considerandosi così assolutamente libere, però, le due auto-coscienze non possono certo riconoscere l’altro come un loro stesso pari, ma soltanto come una cosa che limita momentaneamente la loro libera espressione di sé.

Siccome il riconoscimento è essenziale per l’auto-coscienza in generale, non le è mai sufficiente considerarsi libera in sé, ma sempre vuole essere riconosciuta in quanto libera dall’altra auto-coscienza. È così che nasce l’eventualità del conflitto e la vera e propria lotta per la vita e la morte: padre e figlio, per esempio, non si accontentano di dire «Io sono libero» ma bramano al contempo di ottenere la prova della propria libertà. Questa prova, ovviamente, passa attraverso l’altro, poiché mancando l’altra coscienza mancherebbe anche il mezzo del riconoscimento. Ecco che così si mostra il fraintendimento di fondo di questa lotta, in cui i due contendenti non comprendono che riconoscersi vuol dire includere e non escludere l’altro.

Ora, per Hegel, l’esito necessario di questa lotta tra auto-coscienze che si considerano astrattamente libere e indipendenti è che una delle due decida di abbandonare la scontro, al prezzo di riconoscere senza essere riconosciuta dall’altro contendente. Così si raggiunge una forma di riconoscimento, seppur assolutamente asimmetrica: un sé riconosce l’altro e così abbandona la propria assoluta indipendenza e libertà, l’altro sé rimane legato a questa indipendenza e libertà ottenendo il riconoscimento desiderato. Nel caso di padre e figlio, è solitamente il figlio che rinuncia alla sua libertà di uscire e divertirsi con gli amici e dà il riconoscimento dovuto al padre, che al contrario rimane fermo sulla sua posizione (ovviamente, è anche possibile che sia il padre a rinunciare alla sua autorità e lasciare fare al figlio tutto ciò che vuole).

In conclusione, la lotta per la vita e per la morte è estremamente interessante, poiché ci rivela qualcosa di essenziale sul modo in cui ci dobbiamo relazionarci agli altri; una relazione che passa attraverso l’evitare di affermare una concezione astratta e completamente auto-assorta della nostra identità. Infatti, ogni volta che crediamo di essere assolutamente liberi e indipendenti e di poter ottenere il riconoscimento dell’altro attraverso l’esclusione, ecco che siamo condotti alla più primitiva e ottusa violenza (sia verbale sia fisica); affermiamo, inoltre, con convinzione che la relazione con l’altro va rifiutata perché “Io” sono naturalmente auto-sufficiente e ci chiudiamo, infine, in un circolo vizioso di isolamento.

 

Gaia Ferrari

 

[Photo credit Marc Sendra Martorell via Unsplash]

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La libertà a misura d’uomo

Siamo liberi?

Questa è forse la domanda più profonda che attraversa la nostra esistenza. Quante volte ci sentiamo sopraffatti da ciò che accade, totalmente al di fuori del nostro controllo? Gli eventi che opprimono la nostra esistenza sono dei più disparati – perdite, sfortune, mancate occasioni – ma il peso che esercitano sulla nostra vita è sempre lo stesso: ci sentiamo impotenti, disarmati, a volte addirittura sbeffeggiati dal destino. A questo proposito, due sono le riflessioni che vorrei affrontare.

La prima, più “leggera”, riguarda una sottile ironia che pervade questo modo di interpretare le cose: com’è possibile che se accade qualcosa di negativo incolpiamo il destino mentre se quello che ci accade è positivo tendiamo a compiacerci in quanto fautori dell’accaduto? C’è una effettiva dissonanza. A questo proposito, utile potrebbe essere l’insegnamento pratico di Epitteto: «il sapiente deve essere in grado di distinguere con sicurezza ciò che è estraneo, e che dunque non appartiene al soggetto […], da ciò che invece è davvero sotto il suo controllo» (S. Maso, La filosofia stoica e la questione del “libero arbitrio”, 2014).
L’antico filosofo ci invita a prestare attenzione alla nostra vita e a quello che ci circonda, sforzandoci di comprendere cosa effettivamente dipenda dal nostro volere e cosa invece sia al di fuori della nostra portata. Questo potrebbe essere un utile, anche se preliminare, consiglio per rompere lo schema a cui prima accennavamo.

È possibile, in un certo senso, intravedere in questa proposta di Epitteto la più antica interpretazione della realtà di Protagora: «l’uomo è misura di tutte le cose». Cosa significa quest’ultimo contributo? Molte sono state le letture che se ne sono date, individuando almeno tre livelli di riflessione. Per quel che qui ci interessa, possiamo riconoscere un invito a prestare attenzione a ciò che ci circonda, costituendoci sì come sua “misura” (termine di paragone) ma non per questo necessariamente come suo “metro” (termine di giudizio). La differenza è sottile ma permette di riaprire la strada a quell’idea di interdipendenza e di riconoscimento a cui avevamo accennato in precedenza. Insomma, l’invito è a non adagiarci su facili interpretazioni della nostra vita e di ciò che ci circonda, che portano inevitabilmente a un’esistenza piena di delusioni e illusioni perché non tengono conto della realtà delle cose.

La seconda riflessione, riguarda ciò che, invece, realmente accade e non l’interpretazione che ne diamo. A questo proposito, molto utile potrebbe essere l’esempio proposto da Wittgenstein: «Io mi trovo in questa stanza, libero di andare dove mi aggrada. Supponete che nella stanza sotto vi sia un uomo, abbia della gente con lui e dica: “Guardate, io posso far andare Wittgenstein esattamente dove voglio”. Ha un meccanismo che regola con una manovella e voi vedete […] che io cammino esattamente come vuole quell’uomo. Allora qualcuno viene da me e dice: “Eri trascinato qua e là? Eri libero?” Io dico: “Certo che ero libero”» (L. Wittgenstein, Lezioni sulla libertà del volere, 2006).

L’idea che emerge da questo passo è molto interessante; in un certo senso permetterebbe di conciliare determinismo e libero arbitrio, ma apre un grande problema. Infatti, visto che stiamo riflettendo su come stia effettivamente la realtà, e non su come venga interpretata, quale versione la rappresenta veramente: la stanza di Wittgenstein, la stanza sotto di lui o la visione delle due stanze nel loro insieme? L’esempio immediatamente successivo che ci propone il filosofo austriaco esprime magistralmente la questione: «Un uomo che può far scegliere a qualcuno la carta che egli voleva che scegliesse. […] Ognuno direbbe che quel qualcuno ha scelto liberamente, e tuttavia ognuno direbbe anche che quell’uomo gli ha fatto scegliere ciò che egli voleva scegliesse» (Ivi).

La questione non può certo essere risolta in questo breve articolo; l’importante è capire come la comprensione di ciò che da noi dipende può essere una via utile nello svolgimento della nostra esistenza e della nostra quotidianità. Ci permette di prendere le distanze da quanto può esserci d’ostacolo per la volontà e per le nostre decisioni; se poi questo rappresenti effettivamente la libertà, per ora, non ci è dato sapere.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Photo credit Mohamed Nohassi via Unsplash]

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A tu per tu con la Schadenfreude, la gioia per le disgrazie altrui (I parte)

Il fremito di piacere per il fallo di un collega che non ci degna della sua attenzione. La soddisfazione per l’errore di un nostro superiore magari più promettente di noi. La gioia per i deragliamenti amorosi dei nostri ex.
I tedeschi, ottimizzando spazio e tempo, hanno confinato tale emozione a una singola parola: Schadenfreude. Un termine composto da Schaden, danno, e Freude, gioia. Significa provare piacere della sfortuna altrui. Un senso di appagamento che, negli ultimi anni, è stato al centro di numerosi studi di carattere socio-psicologico.
Si tratta di un’emozione che quasi mai riconduciamo a noi ma che, a ben guardare, si aggira sempre più prepotente nella nostra quotidianità.

Secondo Nietzsche era la «vendetta dell’impotente» (M. Ire, Nietzsche’s Schadenfreude, 2013). Schopenhauer, se possibile, ci andava ancora più pesante definendola «l’indizio più infallibile di un cuore profondamente cattivo»; di più, un cuore che andava interdetto dalla società (T.W. Smith, Schadenfreude, 2019).

Spesso la identifichiamo con la giustizia divina, la vendetta del karma. Con il cosmo che, finalmente consapevole di sé e del nostro infinito, puro e prorompente splendore, sembra punire chi “se lo merita”, cioè gli altri, ovviamente. Magari chi, fino a quel momento, aveva portato avanti una condotta invidiabile e che poi, come è naturale e possibile, è caduto in difetto.

La Schadenfreude è il sollievo di non essere chi incappa in qualche pesante figuraccia. La gioia di vedere che chi ci sta di fronte non è perfetto. La gratitudine di trovarsi in disparte, lontani da tanta imperfezione, giacendo in un stato di eterna passività. È quel lampo di soddisfazione negli occhi che le parole cercano di contraddire. D’altra parte, «La sfortuna degli altri è dolce come il miele», suggerisce un antico proverbio giapponese.
Pare, però, che specialmente le persone con bassa autostima siano più tendenti alla Schadenfreude rispetto a quelle con una buona auto-reputazione. Di più, mentre le prime possono sguazzare in questa gioia in modo inconsueto, le seconde potrebbero, prima o poi, vergognarsene e così, finalmente, volerla spegnere.

La parola è stata inventata dallo psicologo olandese Wilco van Dijk ma già Aristotele ne faceva uso affidandosi al termine greco epikairekakia (ἐπιχαιρεκακία) da epikàiro (ἐπιχαίρω) “rallegrarsi” e kakìa (κακία) “cattiveria” o “malevolenza”: il significato era sempre quello.
Lo psicologo, nel corso degli anni, si è impegnato a studiare questo sentimento come sensazione di disagio e di dolore provocato dalla delusione che l’altro stia meglio di noi, incapaci di condividere il suo benessere.
Molto dipende dal confronto sociale. Cioè dalla teoria per cui le persone non si auto-valutano tramite le loro abilità bensì tramite, appunto, il confronto con gli altri. E il confronto influisce profondamente su alcuni dei più importanti bisogni di una persona, come l’autostima, l’autocontrollo, la realizzazione e l’accettazione, come suggerisce la teoria della piramide dei bisogni che lo psicologo Abraham Maslow propose nel 1954.

La Schadenfreude può imporsi in ognuno di noi, con diverse intensità, dando ancor più forza alla competizione che domina la società di oggi. Questa teoria è rafforzata dagli studi del professor John Tooby, psicologo evoluzionista dell’Università della California a Santa Barbara. A suo dire, da sempre la mente dell’uomo ha manifestato il bisogno di competere e di affermarsi.

Secondo la psicoterapeuta Grazia Aloi1 sarebbe assolutamente imprescindibile una correlazione tra la Schadenfreude e l’aticofilia – dal greco atuchès (ἄτυχής) “sfortunato” e philía (φιλία) “amore, passione” – che accentua la possibilità di provare piacere per le disgrazie altrui a causa della scarsissima autostima dello spettatore compiaciuto.

«Si tratta di una considerazione di scarsissimo valore di Sé che si riflette nella consolazione (molto spesso errata) che anche il Sé degli altri sia scarso e non degno. Chi gode della sofferenza altrui è innanzitutto una persona insoddisfatta di sé e incapace di guardarsi dentro».

In supporto alla dottoressa Aloi sono arrivate le considerazioni del dottor Hidehiko Takahashi. Proprio lui, grazie ad esperimenti condotti sfruttando la risonanza magnetica funzionale, è riuscito a scoprire che quando si gioisce delle disgrazie altrui viene rilasciata dopamina, che attiva lo strato del «circuito della ricompensa» (H. Takahashi, When your gain is my pain and your pain is my gain).

Il dibattito rimane acceso ma è innegabile che – se è vero che tutti noi, almeno una volta nella vita, abbiamo riservato un posto comodo in prima fila per assistere ad un evento tragicomico capitato a un nostro “rivale” – è altrettanto vero che c’è chi in questa emozione si crogiola con grande impegno, spesso. Tra l’altro, raggiungendo risultati olimpici.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE
1. La citazione e le informazioni riferite alla psicologa G. Aloi sono ricavate dal suo blog.

[Photo credit Ashley Juris via Unsplash]

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Intrudere ed estrudere: l’inaccettabile opposizione di Jean-Luc Nancy

Nel 1992 il filosofo francese contemporaneo Jean-Luc Nancy ha subito un trapianto di cuore.

Ha raccontato questa estenuante esperienza nel libro L’intruso, edito da Cronopio e uscito nel 2000. Nancy basa la sua riflessione, breve ma densa, sulla coppia di sostantivi intrusione/estrusione, due termini che si oppongono ma che al contempo si richiamano cercandosi, abbinandosi, dandosi reciprocamente un senso. Non potrebbe esserci estrusione senza intrusione: quando, infatti, scegliamo di estrudere qualcosa – ossia di eliminarla, allontanarla – è perché essa viene percepita da noi come un intruso da scacciare, come un estraneo che ci crea problemi, ci invade o richiede troppo da noi; magari un impossibile che non possiamo o non vogliamo dare.

Il cuore di Nancy, quello con il quale è venuto al mondo, diventa l’organo da estrudere: appare come un intruso all’interno del suo stesso sistema corporeo, un intruso che non è più in grado di svolgere il suo compito e che mette a rischio la salute del filosofo. Si rende quindi necessario un trapianto: un altro cuore, un cuore che si attende come un libro fuori catalogo ordinato in libreria. Il cuore di un altro, capace di salvare la vita di Nancy, ma solo dopo un’intrusione violenta, fantascientifica, quasi impossibile da immaginare.

Scrive Nancy: «Dal momento in cui mi fu detto che era necessario un trapianto, tutti i segni parvero vacillare, tutti i riferimenti capovolgersi» (J.L. Nancy, L’intruso, 2000). Il suo cuore, che gli «saliva alla gola come un cibo indigerito», lo stava abbandonando. Per sopravvivere, avrebbe dovuto ospitare in sé qualcosa di estraneo.

Ma come si fa ad accogliere un intruso, che per sua stessa definizione giunge imperioso e si introduce in un ambiente familiare con aggressività e potenza, con scaltrezza e imprevedibilità? L’intruso arriva «senza permesso e senza essere invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la sua estraneità» (ivi). Bisogna accettare un’inaccettabile.

I medici devono estrudere per poi includere.

Di fronte a questa scomoda e temibile realtà, Nancy si sdoppia, così come doppio si fa il senso della sua stessa esistenza. La sua vita sarà la morte di un altro essere umano. Ciò che sente è «di essere caduto in mare pur restando ancora sul ponte» (ivi). Egli è in due luoghi contemporaneamente: in balia della morte che incombe, della quale il suo cuore malandato si fa messaggero; in balìa della vita che ancora lo trattiene a sé con la promessa di una speranza, di una soluzione. Nancy è al di qua e al di là, così come sarà e resterà se stesso con in petto l’organo di un altro.

Il filosofo capisce anche che se si vuole sopravvivere bisogna prima diventare estranei a se stessi. Prima dell’arrivo dell’intruso il suo sistema immunitario viene preventivamente preparato a essere neutro, ossia inutile, per facilitare la sua venuta. Esso viene quasi cancellato, per minimizzare il rischio di un rigetto. «L’intruso è in me e io divento estraneo a me stesso» (ivi), spiega Nancy. L’estraneità si moltiplica e i farmaci anti-rigetto gli causano un abbassamento delle difese immunitarie che sfocia in cancro. Questa nuova malattia lo costringe a ulteriori sofferenze che paiono infinite e che sbalzano ancora e ancora la bussola della sua identità.

Ma egli sopravvive. E lo fa perché l’uomo ha imparato a superare se stesso divenendo «colui che snatura e rifà la natura, colui che ricrea la creazione» (ivi).

Per sopravvivere dobbiamo continuamente estrudere qualcosa e includere qualcos’altro di nuovo. Lo facciamo con il nostro organismo – le unghie troppo lunghe o i capelli, che vanno tagliati ma che poi ricrescono. Lo facciamo con persone e situazioni che, come il vecchio cuore di Nancy, ci divengono indigeste. Il ciclo della vita esclude per accogliere, e accoglie sapendo a priori che quella venuta resterà, come dice Nancy, scomoda e dal sapore straniero fino a che seguiterà a venire, fino a che non sarà divenuta qualcosa di familiare – ma quella familiarità durerà sempre e soltanto per un tempo determinato, sfociando poi in una nuova estrusione che sa di auto-defezione.

«L’intruso non è nessun altro se non me stesso e l’uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette di alterarsi […] intruso nel mondo come in se stesso» (ivi).

Un paradosso che va accettato, compreso, abbracciato.

 

Francesca Plesnizer 

[Photo credit Ali Hajiluyi via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

“Io sono nulla”: il discorso emozionale del corpo

Negli ultimi mesi sono stata impegnata da tante cose che mi hanno visto coinvolta in primo piano e queste mi hanno portato a trascurarne delle altre, senza rendermene conto. Da poco mi sono accorta che una persona a me cara è dimagrita velocemente, senza un’apparente ragione. Sul momento ho fatto finta di niente, non gli ho dato importanza, ma, dopo aver passato del tempo con lei, mi sono accorta di un particolare dettaglio: la maggior parte del tempo il suo sguardo era rivolto nel vuoto. Allora ho compreso che c’era di più in quel suo silenzio. Nei suoi occhi non ho più visto il de-siderio di partecipare veramente alla vita, di un suo interesse in prima persona ad agire e neanche (cambiare con: o) l’impulso di esprimere il suo disagio interiore.

«La tristezza, che è lo stato d’animo (la Stimmung) a cui si collega ogni depressione (neurotica o psicotica), trascina con sé livelli diversi di sofferenza e angoscia che, nella misura in cui dilagano e si accentuano, si accompagnano a una crescente compromissione del desiderio e della possibilità di una comunicazione con gli altri-da-sé e con il mond1.

In questo estratto Eugenio Borgna2 spiega come si annulli anche la comunicazione con il mondo esterno, che viene pertanto frammentata e dunque compromessa. Il rapporto dell’Io con il mondo è in crisi: la realtà è distorta, ci sono delle ombre davanti agli occhi, visibili solo dall’interno, che appiattiscono il reale, vissuto come ripetizione e monotonia. È facile da qui cadere in una sorta di oblio e “scomparire” dal mondo, in questo caso dimagrendo drasticamente. Borgna parla di un “silenzio della parola”, capace di comunicare attraverso il corpo un disperato aiuto con il volto, con lo sguardo, con il mezzo sorriso, che chiede di essere ascoltato. Se non il linguaggio delle parole, è allora quello del corpo ad esprimersi e continua a mantenere un incessante dialogo con il mondo. Il corpo diventa quindi portatore di significati a cui è necessario porre attenzione. Entra così in gioco il discorso ermeneutico nella quotidianità: l’essere in continuo contatto con l’altro e l’interpretazione derivata dal confronto con esso. Ritengo che il problema si ponga proprio qui infatti, perché il singolo, in questo suo cieco vagare in silenzio, crede che non ci siano più sguardi che lo facciano essere nel mondo e tra gli altri. Inconsciamente diventa prigioniero di sé stesso, avendo creato un muro di silenzio che non gli permette più di relazionarsi con tutto ciò che lo circonda. Ma quest’anima (dal greco psyché – ψυχή: soffio, respiro) che vivifica nel pensiero aristotelico questo corpo che sta scomparendo e che è imprigionata nello stesso per Platone, si vuole esprimere.

«Il linguaggio dell’anima tende a nascondersi, a sottrarsi agli sguardi avidi e agli sguardi rapaci dell’indifferenza e dell’apatia, dell’ebbrezza e della gelidità del cuore, della geometria delle lacerazioni e della crudeltà»3.

Ecco quindi i segnali che bisogna cogliere, anche se intermittenti. Chiedono attenzione e che gli sia data importanza. Ma per accogliere questa richiesta di aiuto bisogna avere occhi per vedere, non solo osservare, e, forse, un cuore caldo per comprendere oltre l’evidenza. Empatia, sensibilità e presenza possono aiutare con il tempo a riportare nel mondo un’anima smarrita.

In questo promemoria filosofico, mi appello ora a te che leggi: fai più attenzione alle persone che hai accanto, cerca di averne cura. Il tempo passa, non torna più indietro, non puoi più recuperarlo, soprattutto quello che non hai passato con i tuoi cari. Ritagliatene dei frammenti da dedicare alle persone alle quali vuoi bene e non rinviare a domani anche questo impegno. Se puoi migliorare la vita di una persona solo standole più vicino, perché non farlo? È un gesto che fa bene ad entrambi. Un gesto d’affetto di reciproca risonanza. Mi ricordo spesso a riguardo questa piccola verità: ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.
Esserci può fare la differenza.

Al prossimo promemoria filosofico.

 

Azzurra Gianotto

 

NOTE
1. E. Borgna, L’arcipelago delle emozioni, Feltrinelli Editore, Milano 2012, pp. 103-104.

2. Eugenio Borgna è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano.
3. E. Borgna, op.cit., p. 94.

[Photo credit lamenteesmaravillosa.com]

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“Perché il papà ha ucciso la mamma?”

“Perché il papà ha ucciso la mamma?”
Può essere solo questa domanda a scandire ogni singola giornata dei figli sopravvissuti alla morte delle loro mamme, uccise dai loro padri.

Questa società sarà anche stata protagonista della liberazione sessuale, del riconoscimento (almeno formale) di pari diritti, dell’avanzata del femminismo, ma i femminicidi, frutto di ideologie non troppo remote, non ancora sradicate, quelle antiche idee di onore legato alla proprietà del corpo femminile e all’affermazione della potestà maschile, sono ancora presenti. Nel femminicidio riaffiora ancora l’archetipo dell’ordine patriarcale violato.

Dei figli che restano si parla e si scrive poco. Se da un lato c’è l’intento di tutelarli, essendo nella maggior parte dei casi ancora minorenni al momento dell’assassinio della madre, dall’altro, nei confronti di questi orfani sussiste una negligenza colpevole, palesemente dimostrata dal fatto che i primi studi sul dramma vissuto da questi bambini e sulle conseguenti ripercussioni emotive risalgono a meno di una decina di anni fa.

È infatti nell’anno 2011 che, la psicologa e criminologa Anna Costanza Baldry avvia il progetto europeo Switch Off del Dipartimento di Psicologia della Seconda Università degli Studi di Napoli con il supporto dell’associazione nazionale D.i.RE (Donne in rete contro la violenza) e in collaborazione con le Università di Cipro e della Lituania, ponendo al centro dei suoi studi concernenti il femminicidio le vittime collaterali, ovvero i bambini sopravvissuti che hanno perso entrambi i genitori: la mamma vittima di femminicidio e il padre, autore dell’omicidio, rinchiuso in carcere o spesso morto suicida.

Nel 2016, le prime Linee guida di intervento per quelli che vengono definiti “orfani speciali”1: un sussidio a disposizione dei servizi sociali, dei magistrati, degli insegnanti, delle forze dell’ordine il cui obiettivo è utilizzare un protocollo di azione omogeneo e tempestivo perché queste vittime secondarie necessitano di sostegno concreto e cura. Diritti imprescindibili che le istituzioni non possono continuare ad eludere.

Questi bambini, che sono costretti a vagare da un’istituzione all’altra, nella maggior parte dei casi e nel tentativo di preservarne la continuità affettiva, vengono affidati ai parenti più stretti che faticano a far fronte alle innumerevoli esigenze psicologiche e materiali.

Gli “orfani speciali” si trovano a dover avanzare nella strada della vita nonostante il carico sconvolgente di un legame familiare che ha dato loro vita e morte, protagonisti di un’atrocità indescrivibile a parole, privati di quella base vitale e certa su cui fondare la propria forza psichica ed il proprio equilibrio. È innegabile l’obbligo dello Stato e di quella stessa società che si definisce civile provvedere a questi orfani, vittime non solo di un padre violento ma anche di Istituzioni che, in molti casi, non hanno saputo proteggere le loro madri che avevano già subito violenza e avevano più volte denunciato i loro partner o ex partner.

In Italia, da poco più di un anno, è in vigore la legge n. 4 dell’11 gennaio 2018 che, modificando il codice civile, il codice penale e di procedura penale e prevedendo altre singole disposizioni, introduce strumenti di tutela legale ed economica dei figli (di qualunque genere di unione, coniugale o equiparata), minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti, rimasti orfani di un genitore a causa di un crimine commesso dall’altro genitore. Ma, come spesso accade nel nostro paese, la normativa approvata manca di adeguati fondi economici.

Questi “orfani speciali”, figli del ventunesimo secolo, sono nati in una società che si definisce inclusiva, liberale, emancipata e civile ma che sopporta che i bambini siano spettatori involontari di crimini efferati, violenza inaudita. Questi bambini in realtà non sono altro che figli di una società liquida in cui, per dirla con le parole del sociologo polacco Zygmunt Bauman, è protagonista «la convinzione che il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza».

A nulla serve introdurre nelle scuole un’educazione finalizzata al riequilibrio di genere se il legislatore non interviene in maniera urgente e decisa con leggi severe che sanciscano la gravità assoluta e la certezza della pena di un crimine che offende la nostra coscienza civile, riportandoci ad una barbarie già vissuta nel passato e ridestando un problema che credevamo di aver superato ma che in realtà l’umanità non ha ancora elaborato.

La donna, ancora e troppo spesso è considerata di “seconda classe”… poi, si arriva ai femminicidi e a non essere in grado di tutelare chi per tutta la vita, inevitabilmente, porterà le conseguenze del terrore, del sangue e del silenzio di quando quel maledetto giorno, in quell’istante tutto è finito.

 

Silvia Pennisi

 

NOTE:
1. Il documento relativo alle “Linee guida di intervento per gli special orphans” è consultabile nel sito dedicato: www.switch-off.eu.

[Photo credits Tam Wai su unsplash.com]

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Imprigionati in un like alla ricerca di riconoscimento

Il tempo ipermoderno è connotato dalla presenza e dall’utilizzo massificato dei social network che, per molti abitatori di quest’epoca, si configurano come una sorta di palcoscenico nel quale esporsi, postare contenuti e immagini, che spesso testimoniano il desiderio di mostrare che si esiste e che non si è da meno di quanto gli altri esibiscono e condividono. La cifra inconscia e pertanto inconsapevole di questi gesti quotidiani è il bisogno, precipuamente umano, di essere riconosciuti.

Il bisogno di riconoscimento – come sostengono gli studiosi di psicologia dello sviluppo – è una necessità per la formazione integrata ed equilibrata della propria identità e conseguentemente della propria personalità. Laddove questo bisogno primario, fortemente presente sin dalla nascita, non venga soddisfatto, la vita si ammala, prendendo deviazioni disfunzionali che ostacolano l’espressione della propria autenticità, spontaneità e intimità, fino a minare l’autorealizzazione del singolo.

Il bisogno di riconoscimento è fondamentale per l’uomo e si declina secondo sfumature di rara profondità. Lungi dall’essere collegato solamente con la soddisfazione delle esigenze primarie (alimentazione, pulizia, accudimento), esso si configura per l’uomo come una necessità psicologica ed esistenziale, altrettanto determinante rispetto alle soddisfazioni primarie. È questa la fame di stimoli, così come l’aveva definita lo psichiatra canadese Eric Berne1, che rinvia al desiderio profondamente umano di essere riconosciuti come viventi degni d’amore, di rispetto, per ciò che si è, per come si è, ontologicamente dotati di valore incondizionato come esseri umani.

In questo senso è possibile comprendere i risultati degli studi condotti, alla metà del secolo scorso, dallo psicoanalista austriaco Rene Spitz2 sui bambini di alcuni brefotrofi che, ricevendo solamente cure materiali sviluppavano svariati problemi fisici e psicologici, che li conducevano a un marasma psicotico e persino alla morte. La conclusione di Spitz fu che, a questi bambini, mancava proprio di essere soddisfatti nel bisogno più profondo del loro essere: il bisogno esistenziale di essere riconosciuti. Comprendendo così che la loro vita non era legata solamente a un tubo digerente ma era degna di cura, d’amore, di valore e che pertanto meritava di essere riconosciuta nella sua singolarità, unicità e irripetibilità. Ecco che la “fame” di riconoscimento, lungi dall’essere solamente una fame di cibo, si configura piuttosto come una fame di stimoli esistenziali. Per un neonato, questi stimoli sono la presenza affettiva della madre e i riconoscimenti, non solamente materiali ma soprattutto psicologici, forniti dai diversi care givers. Riconoscimenti dall’alto valore simbolico che comunicano implicitamente il valore intrinseco della vita di quel singolo, di quel nome proprio, che sentendosi amato si sente riconosciuto il permesso d’esistere, crescere e realizzarsi. Questi stimoli esistenziali occupano una quota centrale in tutto l’arco della vita e senza di essi la vita, ogni vita, appassisce.

Anche nella vita adulta questo tipo di soddisfazione è fondamentale, proprio perché connaturato alla nostra essenza. In questa direzione, la quotidiana azione di interfacciarsi con altri utenti3 è per molti frequentatori della rete, ricerca di riconoscimento esistenziale e apprezzamento. Il tentativo, per lo più inconscio, è quello di colmare vuoti di riconoscimento che hanno origini antiche e rimandano a bisogni non soddisfatti nella propria infanzia. I social network s’inseriscono nel solco di questa carenza esistenziale. Ne sono testimonianza la condivisione di stati emotivi, fotografie che ritraggono la propria immagine o momenti salienti della propria quotidianità e talvolta persino della propria intimità. Ecco dunque che molti utenti vanno alla ricerca di riconoscimenti esistenziali presso altri utenti. Ma si può parlare di riconoscimento solamente se vi è reciprocità. In proposito lo psicoterapeuta Alessi scrive: «sin dall’infanzia, l’essere umano afferra il significato di sé solo con l’implicarsi affettivamente con l’altro»4. Dunque, per essere riconosciuti dobbiamo a nostra volta riconoscere. Diversamente, i social network possono offrire tutt’al più un effimero “apprezzamento” non appartenente al reale, unica dimensione nella quale può realizzarsi il vero riconoscimento umano. Inoltre, se il bisogno reale è quello di riconoscimento esistenziale, esso rimanda a una profonda insoddisfazione affettiva e relazionale, che non può certo essere placata da un like o da un cuoricino che, oltre ad essere costruiti secondo una logica binaria, hanno una struttura autoreferenziale e monodirezionale, per definizione contraddittoria rispetto alla reciprocità che connota il riconoscimento intersoggettivo.

Per questo l’“approvazione” virtuale è destinata allo scacco, poiché la sua natura non è sostanziale e non vi è reciprocità. Diversamente, il riconoscimento reale è fatto di incontro autentico fra esseri umani e questa dialettica, fragile ma fondamentale, di riconoscere ed essere riconosciuti, ha un valore maggiore proprio in quanto incarnata. Di fatto, il riconoscimento intersoggettivo, si deposita e si sedimenta nella nostra memoria psicologica e spirituale: sorgente reale e non virtuale, concreta e non transitoria, alla quale sempre possiamo e potremo attingere per la percezione veritiera di noi stessi e dell’altro. E dopo aver preso consapevolezza della fame di riconoscimento che in origine non ha ricevuto soddisfazione, è alla relazione reale che dobbiamo fare ritorno, nel qui e ora dell’età adulta, per soddisfare e placare la sete di “carezze” esistenziali. Invero, non sarà certamente l’illusione virtuale e quantitativa fornita da un pollice verso o da un cuoricino, destinati a dissolversi entro il vortice travolgente ed effimero dei social network, a compensare il profondo bisogno qualitativo di riconoscimento che necessita di soggettività umane, di anime incarnate e non di una manciata di like fornita da utenti virtuali.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE
1. Cfr. I. Stewart e V. Joines,
L’analisi transazionale. Guida alla psicologia dei rapporti umani, tr. it. di S. Maddaloni,  Garzanti, Milano, 2014, pp. 101-118.

2. Cfr. R. Spitz, Hospitalism: genesis of psychiatric conditions in early childhood, in Psychoanalitic studies of the child 1, 1945, pp. 53-74.
3. Mi si perdoni, ma mi riesce difficile chiamarli amici o seguaci, termini dal significato storico e culturale molto più nobile e complesso di quello che intendono veicolare i social network.
4. A. Alessi, Noi due. Istruzioni per una sana vita di coppia, Roma, Città Nuova, 2018, p. 5

[Photo credits Prateek Katyal su unsplash.com]

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“Idda” di Michela Marzano: un viaggio sull’amore, l’identità e la memoria

A fine febbraio, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo Idda, abbiamo avuto il piacere di incontrare per la seconda volta nella nostra Treviso, presso la libreria Lovat di Villorba, la filosofa e scrittrice Michela Marzano. E non c’è dubbio, la sua straordinaria capacità di trattare l’umano da vicino, cogliendone la vulnerabilità estrema e le fragilità, riuscendo a nominarla con una delicatezza e una sensibilità rara, ha nuovamente travolto e attraversato i cuori del pubblico. La sala era gremita e gli applausi si alternavano a istanti di commozione durante i quali il racconto dell’autrice lasciava spazio alle storie di vita delle persone sedute in sala.

Michela Marzano è docente ordinario di filosofia morale all’Université Paris Descartes e si occupa principalmente delle questioni legate alle tematiche di etica medica, al corpo, all’identità, alla violenza di genere e ai diritti civili. Oltre ai numerosi saggi, ricordiamo il best-seller Volevo essere una farfalla, L’Amore è tutto, è tutto ciò che so dell’amore, vincitore del 62^ premio Bancarella nel 2014 e i due primi romanzi L’amore che mi resta (Einaudi, 2017) e Idda (Einaudi, 2019).

 

Idda è il secondo romanzo che hai scritto. In precedenza ti sei dedicata ai saggi. Da che cosa ha avuto origine questo spostamento dalla precisione della struttura argomentativa propria del saggio alla libertà narrativa della fiction di un romanzo?

Credo che lavorando su questioni che riguardano la vulnerabilità dell’esistenza, la finitezza, le fratture, le contraddizioni dell’umano,  il saggio rappresenti, almeno per me, uno strumento troppo stretto, nel senso che non era più sufficientemente capace di parlare di tutti questi temi.

Quando si scrive un saggio si hanno delle ipotesi, ci si poggia su una determinata bibliografia, si argomenta e si spiega. Il problema, però, è che quando si affrontano le questioni legate alla fragilità al plurale, più che spiegare e argomentare, abbiamo bisogno di mostrare e di raccontare. Già Umberto Eco diceva che quando viene meno l’argomentazione si deve narrativizzare, cioè “narrare per mostrare”, al fine di permettere alle persone di identificarsi in determinate situazioni, che sono poi quelle che a me piacciono, di cui mi piace parlare.  Ho quindi avuto la sensazione, pian piano, che la scrittura narrativa mi permettesse di andare molto più lontano rispetto alla scrittura saggistica.

 

Puoi raccontarci da che cosa è emerso il bisogno di scrivere Idda?

Io direi che ci sono due punti di partenza dietro al bisogno di scrivere questo libro. Da un lato, ciò che mi ha spinto è stata  la domanda esistenziale-filosofica riguardante l’identità personale, cioè: chi siamo quando pezzi della nostra esistenza scivolano via? E quindi, siamo sempre le stesse persone di prima quando cominciamo a non riconoscere più le persone care oppure, quando cominciamo a non riconoscerci guardandoci allo specchio? Questi quesiti hanno costituito la guida direzionale per affrontare e dare un tassello supplementare alla questione dell’identità personale.

Dopodiché, c’è stato l’Evento, che per me è sempre importante, e che, nel caso specifico, riguarda la mamma di mio marito, Renée. Renée si è ammalata di Alzheimer e se n’è andata in punta di piedi ad ottobre dell’anno scorso. Idda nasce dall’urgenza e dall’esigenza di raccontare com’è e che cos’è la vita di una persona che comincia effettivamente a mescolare tutto, dimenticando pezzi della propria storia dove tutto dventa confuso.

Ho voluto raccontare quindi anche quello che ho scoperto confrontandomi con la mamma di mio marito, cioè il fatto che in realtà non è vero che, con una malattia come quella dell’Alzheimer, una persona cambia drasticamente. In realtà, ciò che resta è l’essenziale, l’essenziale di una vita, quegli episodi che ci hanno talmente tanto marcato da costituire la nostra identità, quegli istanti che non scivolano via, quell’affettività che noi teniamo sempre accanto, all’interno di noi anche quando razionalmente ci allontaniamo dagli altri. Quell’affettività e quell’amore che nemmeno l’oblio più profondo riesce a cancellare.

 

Nel libro si parla di quello che ciò che gli specialisti definiscono residui di sé. Come secondo te possono essere definiti questi residui del sé?

Io direi che questi residui di sé possono essere rappresentati dall’affettività, dalla familiarità con le cose care. Annie, la protagonista del libro, talvolta, non riesce più a riconosce Pierre, il figlio, come tale; tuttavia, nemmeno per un istante pensa che Pierre sia un estraneo perché egli resta sempre all’interno della sua sfera affettiva. Anche se a volte Pierre diventa il marito, altre volte il padre, dentro di lei resta quel “qualcosa” che fa sì che, di fatto, quello che c’è stato non scomparirà mai,  quell’amore resterà per sempre.

 

La filosofia in Italia solo in tempi recenti sta tentando di ridurre quella distanza esistente tra la ricerca e lo specialismo filosofico, proprio dei contesti accademici, e le esigenze culturali di un pubblico popolare. Se e in che modo secondo te la ricerca filosofica e la sua divulgazione possono dialogare in modo sinergico?

Ritengo che la ricerca filosofica e la divulgazione dovrebbero dialogare in modo sinergico. Basti pensare al pensiero di Socrate, il quale camminava per le strade della città e dialogava con i cittadini, cercando maieuticamente di far maturare la riflessione, lo spirito critico. Se dunque partiamo dal presupposto che la natura della filosofia è di essere dialogica, il pensiero stesso non può essere rinchiuso all’interno della torre d’avorio. Forse, infatti, dovrebbe dimenticare un po’ di quei tecnicismi che lo stanno facendo soffocare.

Dobbiamo tornare a dialogare e a permettere alla filosofia di essere filosofia, un pensiero alla fine incarnato. Credo che però, in questo, ci sia una grande responsabilità da parte di molti accademici che hanno immaginato di poter fare della filosofia una disciplina da laboratorio. Al contrario, fare filosofia significa trattare le questioni sull’umano, ed è per questo che un tale oggetto di ricerca non lo si può trattare se non con e attraverso gli umani.

 

Obiettivo de La Chiave di Sophia è quello di aprire la filosofia ad un pubblico eterogeneo e neofita, proponendo questioni centrali per l’individuo e connesse fortemente con la vita quotidiana. In che modo secondo te la filosofia può sempre più avvicinarsi a chi non ha mai avuto modo di approcciarsi ad essa?

Ritengo che alla base della filosofia ci sia, nonostante tutto, una grande domanda di senso, una richiesta di strumenti per trovare una propria direzione verso cui andare. Per questo, penso che possa essere anche “facile” avvicinarsi alle persone. Queste, infatti, non aspettano necessariamente delle risposte, anche perché non è proprio lo scopo della filosofia sempre e solo dare delle risposte; al contrario, trovare il modo di porre delle buone domande e poter elaborare degli strumenti critici per poi costruire il proprio futuro: questa è la ragione dell’esistenza del pensiero che poi non è altro che ciò che accomuna ciascuno di noi. Proprio per questo, può diventare “semplice” avvicinarsi al pubblico: in questo momento storico, le persone dispongono di domande di senso e esprimono il bisogno di strumenti capaci di permettere loro di dare un senso alla propria esistenza.

 

Greta Esposito e Sara Roggi

 

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Apprendere a raccontarsi: scritti di vita condivisi nella pratica clinica

Da quando, con il progressivo affermarsi della bioetica, l’obiettivo della pratica clinica è scivolato dal semplice e diagnostico to cure alla complessità etica del to care, numerosi sono stati i dibattiti circa il come questa cura rivolta alla totale attenzione della complessità della soggettività umana potesse essere efficacemente realizzata non unicamente da parte del medico, ma anche di ciascun operatore e professionista sanitario che, nelle sue mansioni specifiche, ha un ruolo cardine nel percorso di cura del paziente.

Chiaro è che, come la letteratura l’ha ribadito a  più riprese, il curare, inteso nei termini di una guarigione progressiva fino al ripristino dell’equilibrio omeostatico del paziente, minimizza la complessità di quelle attività e di quei gesti di cura che, giorno per giorno, vengono rivolti al malato. Non si tratta, tuttavia, di minimizzare l’importanza del fenomeno del curare “tecnico” del medico, le cui competenze sono pertanto imprescindibili per lo svolgimento di una buona pratica clinica, quanto più di ammettere l’integrazione di questa sfera con quella di una presa in carico che, all’interno della logica della diagnosi e della prognosi, presenta un valore aggiunto nella direzione del miglior interesse del paziente.

Con la nozione di cura si spiana il sentiero descritto dalla vulnerabilità umana, dalla disabilità, da quella fragilità che, in un momento o nell’altro, ci segneranno, rendendoci un po’ più consapevoli della nostra dipendenza all’altro e agli altri. Lo strumento che più permette alla cura di dispiegarsi è, senza dubbio, la narrazione.

Da principio, il modello narrativo è nato e cresciuto in seno al diffondersi, negli Stati Uniti e poi in Europa, dell’etica della cura. Un’etica volta alla valorizzazione di ogni dipendenza e vulnerabilità umana, non unicamente un’etica femminile, bensì una pratica che trova le proprie radici nella struttura ontologica dell’essere umano: nella sua finitudine e inevitabile mortalità.

Siamo tutte e tutti, fin da subito, ovvero fin dalla nascita, spezzati. Nel corso di alcuni momenti della vita, sono questi pezzi di sé a dover essere raccolti e dispiegati, narrati e ascoltati.

La medicina narrativa, di cui Rita Charon è uno dei principali rappresentanti, nasce da questo bisogno: il bisogno di dar voce a quelle parti di sé da ricostruire e che, durante il decorso della malattia, appaiono indecifrabili. Quello che Charon propone è un metodo fondato sulle medical humanities avente l’obiettivo di stimolare la narrazione e la ricostruzione autobiografica del paziente attraverso l’intervento di una diversità di discipline quali la letteratura, la psicoanalisi, la filosofia, e l’arte. L’inserimento di un approccio multidisciplinare nella classica pratica clinica evidence based, aiuterebbe il paziente a narrarsi, attraverso stimoli di diversa natura, e a raccontare la propria sofferenza integrandola nel percorso di rielaborazione del Sé.

È tuttavia sufficiente una pratica multidisciplinare per aiutare l’Io a ricostruirsi a partire dalle ferite della malattia? Oppure esiste, all’interno della pratica clinica, un aspetto più profondo che la narrazione potrebbe indagare?

Lo abbiamo già anticipato, ma ripetiamolo: il racconto assume, all’interno della dinamica medico-paziente, un ruolo chiave. È importante, tuttavia, soffermarsi sulla natura e sulla direzione del racconto che, nato all’interno della dialettica curante-malato, porterebbe le due soggettività sullo stesso piano ontologico, quello della loro stessa condizione di partenza definente l’essere umano nella sua natura: dipendenza e vulnerabilità.

Paul Ricoeur è il filosofo che più ha approfondito l’importanza del “racconto di vita”, nonché l’orizzonte etico di senso che la dinamica narrativa, attivandosi, porta con sé. L’identità narrativa è la dimensione profonda in cui l’Io si dispiega attraverso lo scorrere del tempo, pur lasciando una permanente traccia di sé. Dispiegandosi, l’Io apre le porte dei propri confini identitari e si impegna responsabilmente nei confronti dell’Altro da sé.

Con l’altro, ci si racconta. Ci si espone al mondo e si lascia la propria traccia. E così, vice versa. L’altro si racconta a noi. Si espone al mondo. Ci lascia una propria traccia. Si costruisce così un piano dialettico in cui le storie di vita non possono che intrecciarsi l’una con l’altra, in cui le ipseité, riprendendo una al nozione del filosofo francese, si costruiscono le une attraverso le altre.

La dimensione dialogica, così come la intende Ricoeur, nasce quindi in ragione di un percorso che, come il filosofo lo definisce in una delle sue ultime opere, è un percorso di riconoscimento. Un riconoscimento che avviene tra pari, pari componenti dell’enorme puzzle che è l’umanità.

È sul piano della mutualità e della “sollecitudine” caratterizzante la condizione di ciascuno a partire dal proprio stare al mondo, che il riconoscimento si traduce nell’accettazione dell’alterità attraverso quella storia raccontata che è la sua, sciogliendo conflitti e superando le contraddizioni.

Nella pratica clinica è noto come spesso i dilemmi morali emergano da conflitti valoriali tra soggettività che, nella loro diversità, diventano testimoni della propria storia di vita. Pertanto, in tali circostanze, ciò che richiede di essere ascoltato è uno spazio di mutevole comprensione che permette a ciascun Altro di dispiegarsi. Non esistono ricette, o regole d’oro. “Solo” lo sforzo di apprendere dall’altro, mettersi in discussione e ricostruire. E, inevitabilmente questo lavoro di decostruzione e ricostruzione non può che avvenire nel momento in cui si dà la libertà all’altro di accedere nella propria vita, contribuendo per la scrittura di un suo nuovo capitolo.

La comprensione e infine lo scioglimento di conflitti etico-clinici non può dunque avere inizio laddove manca un terreno fertile per la crescita di un apprendimento condiviso, rivolto alla continua scrittura della propria storia in relazione a quelle alterità che, necessariamente, incidono sul nostro io.

Talvolta, l’assenza della temporalità necessaria per riscoprire tale narratività relazionale fa sì che quella alleanza terapeutica venga meno, insieme alla perdita di fiducia.

 

Sara Roggi

 

[Photo credits Debby Hudson su Unsplash.com]

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