Rupi Kaur, le sue poesie e il femminismo della riconciliazione

«Questo è il viaggio della
 sopravvivenza attraverso la poesia […]»1.

Si tratta dei versi di apertura della raccolta Milk and honey di Rupi Kaur, e questo è un articolo sulle ragioni, per cui chiunque dovrebbe sfogliarlo almeno una volta.

Quando si pensa alla poesia, la mente richiama innumerevoli cose: fogli ingialliti, lirismi, metafore, poeti melanconici. Poesia è arte, filosofia, espressione, ma, a volte, rischia anche di allontanarsi dall’uomo, di non avere niente a che fare col suo essere di terra e fango, così concentrata com’è a raggiungere l’etereo, il metafisico.

Tuttavia, quando Rupi Kaur presenta la poesia come strumento di sopravvivenza, si ha un unico compito nei suoi confronti: bisogna compiere un atto di dimenticanza, e ripulire la mente da ogni cosa si conosca sulla poesia.

Vi si troveranno il corpo, la pelle, i peli, il sangue, gli odori, mai esaltati o rifiutati come volgari e banali, ma messi a nudo sulla carta.

Vi sono versi composti da una sola parola, senza punteggiatura, perché se ne pesi il valore, e si scelga il ritmo con cui leggerla. Quella di Rupi Kaur è una poesia della carne, fatta di sapori, erotismo; è il motivo per cui chi legge si sente compreso e accolto, poiché nulla di più autentico e immediato unisce un essere umano all’altro come la carne e i suoi nervi. È la poesia del viaggio, e bisogna ancora dimenticare le regioni geografiche, laddove l’unico luogo esplorabile è il proprio vissuto.

Rupi Kaur traccia un percorso preciso, le cui tappe sono i capitoli stessi del suo libro e definiscono un’unica via, ovvero il potere più inaspettato dell’amare. Non si tratta solo dell’abbandono, dello stupro, dell’inganno, ma della frantumazione dell’essere che ama.

Tale viaggio inizia da il ferire, e il punto di vista assunto è quello della bambina, della figlia il cui unico uomo è il padre a cui rendere conto, che soggioga la madre, che diviene il modello. Il corpo è oggetto per gli altri e per se stessa, veicolo di fantasie, misteri e, a volte, abusi. Il primordiale atto d’amore, quello dei genitori verso i figli, è la prima ferita, poiché la separazione è inevitabile, e sancisce i confini fra il bene e il male, giusto o sbagliato.

Gli occhi della bambina si fanno più grandi, diventano quelli della giovane, che distolgono lo sguardo dal padre e si gettano verso l’amore come mistero. Non vi è solo l’abbandono al romanticismo o la scoperta dell’eros, ma l’affiorare della fiducia. È fiducia nella maternità, nel futuro, nel proprio corpo. Si amano figli non ancora nati, amanti non ancora incontrati; è la fiducia verso l’incomprensibile, aspettando che si schiuda. Ed esso si aprirà alla giovane, ma in modo inatteso. Inizia la parte più lunga e difficile del viaggio della sopravvivenza, il momento in cui si deve attraversare lo spezzare. Non è solo l’amore finito, è il rifiuto, la dipendenza, ed è soprattutto, il momento in cui ci si frantuma. Si perdono pezzi di sé, perché l’amato viene vissuto come parte interiore, e ci si smarrisce. È la strada del rimpianto, delle lacrime, della rabbia, ed è la parte più oscura.

La poetessa diviene sempre più saggia, pagina dopo pagina, e giunge finalmente all’ultima tappa: il guarire. Si tratta dell’amare trasformato, e non vi è padre o amante in esso, bensì l’interezza ritrovata. Rupi Kaur scrive per ricongiungere tutti i pezzi fra loro, che descrive a volte come ciglia cadute dagli occhi, o come frammenti di pelle, e rovescia lo sguardo dall’altro al sé. La risposta all’energia disgregatrice dell’amare è essa stessa amore, come dono all’altro.

Vi è un ultimo momento, su cui è necessario applicare la dimenticanza. Il mondo che descrive Rupi Kaur è prettamente femminile, con tutti i suoi punti di vista, per questo la poetessa è divenuta un riferimento per il femminismo moderno. Tuttavia, non si tratta del femminismo rabbioso, che risponde al sopruso con la rivendicazione. Il femminismo di Rupi Kaur è tale per cui l’uomo non è incluso solo come prepotente o violentatore. La vittima e il carnefice, l’uomo e la donna mescolano continuamente i loro ruoli. Il ferire, l’amare, lo spezzare, il guarire non sono soltanto luoghi di un viaggio, ma azioni, movimenti dell’animo, di cui la donna non è solo succube, ma anche soggetto.

Questo femminismo non è “roba per donne”, ma una prospettiva nuova, in cui amare è un dono a uno sconosciuto, in questo caso il lettore, come meta di un lungo cammino.

Si tratta di un femminismo della riconciliazione, e in quanto tale, perché sia efficace, non può escludere nessuno, ma deve dimenticare, per ritrovarsi; è un invito a far pace.

 

Fabiana Castellino

NOTE 
1. Rupi Kaur, Milk and honey, tre60, TEA Milano

 

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Una pace in attesa di giustizia. Il referendum in Colombia

«Sogniamo che la Colombia sia un paese libero dove tutti abbiano gli stessi diritti e possano esprimersi liberamente, senza repressioni.»
Jaqueline, paramedico del blocco Jorge Briceño.

«In dieci anni abbiamo lavorato con le comunità e le famiglie dei guerriglieri e dei contadini. Abbiamo spiegato la situazione alla gente, li abbiamo aiutati ad andare avanti. Ritrovare le nostre famiglie sarà molto emozionante. Pensiamo tutti a quando rincontreremo la nostra famiglia.»
Xiomana Martínez, combattente del fronte Felipe Rincón delle Farc)1.

Queste erano alcune delle parole di speranza in Colombia. Lo storico accordo di pace tra il presidente Juan Manuel Santos e le Fuerzas Armadas Revolucionarias rappresentava la possibilità di concludere un conflitto durato 52 anni.

Il 50,2% dei votanti, tuttavia, ha scelto il voto del “senza giustizia non può esserci la pace”. Il fronte del “No”, capitanato da Alvaro Uribe, sostiene che la pace è l’obiettivo di tutti i colombiani, ma l’accordo necessita di alcune modifiche. Le questioni più controverse per l’opinione pubblica nazionale riguardano la partecipazione politica degli ex guerriglieri e la giustizia per i responsabili di crimini contro l’umanità.

L’esclusione dalla vita politica di una parte della società è stata una delle cause della guerra, ciononostante, la maggior parte della popolazione colombiana considera inaccettabile vedere gli ex guerriglieri in Parlamento, anziché nelle carceri.

Il referendum, così, sembra rappresentare una scelta tra pace o giustizia.

Eppure, la pace dovrebbe essere un diritto inalienabile dell’uomo. Come recita l’articolo 28 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo: «Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati». Si tratta del superamento del concetto di pace kantiano, secondo cui la pace non è raggiunta da un equilibrio di forze, bensì da un’assenza delle stesse. Si giunge, così, all’individuazione di una pace positiva, seguendo la definizione di Norberto Bobbio, nella quale vi è un’effettiva preparazione alla pace, attraverso la costruzione di un sistema di istituzioni, relazioni e di politiche di cooperazione.

Come assicurare un progresso verso la pacificazione in Colombia?

Grazie al contributo del sociologo Galtung per la risoluzione dei conflitti, è possibile individuare tre stadi:

1. la riconciliazione, cioè il curare gli effetti della violenza passata;

2. la costruzione della pace, cioè lo studio e l’azione per prevenire la violenza futura;

3. la trasformazione del conflitto, cioè la ricerca di metodi per mitigarli.

Nella trasformazione del conflitto è opportuno introdurre l’aiuto ai contendenti a trovare soluzioni di mutuo beneficio. Le contraddizioni tra le parti possono essere superate attraverso la ricerca di obiettivi “sovraordinati”2.

La domanda cruciale da porsi in questo momento è: cosa accadrà ora? La Colombia riuscirà a sottrarsi ai cent’anni di solitudine e ad avere una seconda opportunità?

Jessica Genova

NOTE:
1. www. internazionale.it
2. J. Galtung, Theories of conflict. Definitions, dimensions, negations, formations, Columbia University, 1958; J. Galtung, Theories of Peace. A synthetic approach to peace thinking, 1967

[Immagine tratta da Google Immagini]

Mein Bavarese

Oggi vi mostreremo come il Bavarese (non il biondone in bretelle che state immaginando) sia il dolce della riconciliazione. In esso trova finalmente pace il conflitto tra Kultur e Zivilisation che tanto ha scosso i pensatori agli albori della prima guerra mondiale.
Non è difficile riconoscere alla cucina il suo valore di custode della cultura: dalla cucchiaiata di un dolce non riceviamo solo il mero nutrimento, bensì anche il testimone di una tradizione che per generazioni si è mantenuta attraverso gli stomaci dei nostri avi. Mangiando introiettiamo – nella maniera più naturale possibile – un sapere radicato nel territorio che è frutto di un rapporto ancestrale tra l’uomo e la terra che abita. E questa è la Kultur. Lo spirito ineffabile di una comunità, il legame viscerale tra noi e l’ambiente in cui siamo stati gettati.
Da qui al nazismo culinario il passo è breve. La Kultur, infatti, accende in noi la vena battagliera, il bisogno di purezza e, soprattutto, il senso di appartenenza; fa forza sulle centinaia di cucchiaiate inconsce che hanno formato la nostra identità, sui profumi della cucina natale, sul rigore filologico delle ricette della nonna, e produce la xenofobia: “nel mio sangue e in quello di chi mi ha preceduto è scorso quel cibo, fatto di quegli ingredienti, di quelle precise dosi imponderabili alla mente straniera, e tu vuoi viziare quel sangue con i tuoi miscugli, con quei prodotti di terre lontane, quegli incroci improvvisati?”.
La Kultur si oppone alla riflessione logica, al pensiero retorico, al calcolo astratto, alla politica, alla società, all’universalità… In breve, a tutto ciò che pone l’uomo al di fuori della sua comunità e lo innalza oltre il legame con la propria terra (oltre il Blut und Boden). E tutto questo è, appunto, la Zivilisation.

«Tedesco vuol dire abisso», scriveva Thomas Mann, per il quale la Germania, aristocratica e musicale, era la patria della Kultur in contrapposizione alla Francia, simbolo democratico della Zivilisation, dei «moralisti da boulevard», degli «urlatori dei diritti dell’uomo». Anima contro società, libertà contro diritto di voto, arte contro letteratura: è in questo scontro che risiede l’origine spirituale della prima guerra mondiale. Abbiamo già accennato a cosa significa Kultur in cucina, vediamo cosa può significare il suo opposto. Zivilisation è approcciarsi al dolce da preparare in maniera scientifico-democratica, ossia ponendo tutti gli ingredienti – a prescindere dalla loro provenienza e dall’essere o meno di stagione – sullo stesso piano, tendendo a una continua sperimentazione, sfruttando le nuove tecnologie e privilegiando gli ibridi in nome di una cucina universale e senza confini.

Ma una simile mentalità non può portare che a un prodotto senz’anima, a un impasto anodino, a una crema astratta, a una gelatina apatica, insomma, a un dolce figlio di nessuno, insulso quanto un trattato sull’amore cosmico! D’altro canto un dolce all’insegna della Kultur fomenta l’odio, la chiusura, la ricerca infinita della purezza e, peggio di tutto, l’immobilità: la perfezione è già qui nella nostra comunità e ha radici in una lontana e passata Età dell’oro, a noi non resta che venerarla e riprodurla, senza accettare alcuna contaminazione.
Allora – per far sì che questo conflitto non sfoci in un’altra guerra mondiale – vi proponiamo il nostro Mein Bavarese, che riconcilia in sé l’inconciliabile. Il bavarese originario – maschile, anche se molti erroneamente lo vogliono femminile – nasce infatti da cuochi francesi alla corte del re di Baviera e, cosa ancora più emblematica, poggia su una base di crema inglese (chissà se lo sapeva Hitler quando si ingozzava dei bavaresi che gli preparava Eva Braun…).
Il Mein Bavarese va preparato col fervore e l’animo della propria Kultur, ma anche col piglio innovativo e multiculturale della Zivilisation. In essa l’ariano e puro cioccolato bianco s’incontra con quello straniero degenerato del kiwi.
Quando assaggerete il Mein Bavarese, non fatelo da soli. Vi accorgerete di come sappia riconciliare i conflitti spirituali – ben più violenti e dolorosi di quelli fisici – ed evitare che in cucina si arrivi a sparare all’arciduca Francesco Ferdinando.

Mein Bavarese, Aristortele - La chiave di SophiaMEIN BAVARESE AL KIWI DEGENERATO E CIOCCOLATO ARIANO

Persone: 10 monoporzioni
Tempo di preparazione: 30 min. + 6 ore in frigorifero

Ingredienti

250 ml di latte
90 g di tuorlo d’uovo
90 g di zucchero semolato
1 bacca di vaniglia
10 g di gelatina alimentare in fogli (per la versione vegetariana 3 g di Agar agar)
375 g di panna fresca
200 g di cioccolato bianco
4 kiwi maturi
zucchero a velo
granella di mandorle

Preparazione

Inizia preparando la crema inglese: appoggia la pipa e metti sul fuoco un pentolino con il latte; incidi longitudinalmente la bacca di vaniglia e immergila nel latte. In una boule frusta i tuorli con lo zucchero. Quando il latte sobbolle, stempera nel pentolino il composto di uova e zucchero. Mescolando continuamente (non frustare, sennò schiuma!) porta la crema inglese a 83° C – se non hai il termometro, prendi un po’ di crema con un cucchiaio, rovesciala e verifica se ne rimane un leggero velo sul cucchiaio. Speriamo tu non abbia macchiato la bombetta.

Ora è il turno della Kultur: taglia grezzamente, come un vero teutone, il cioccolato ariano. Ammorbidisci la gelatina in acqua fredda; quando è abbastanza molle, strizzala e inseriscila nella crema inglese ancora calda mescolando fino al suo completo scioglimento. Filtra la crema direttamente sul cioccolato caucasico e amalgama delicatamente finché il cioccolato non si sarà completamente sciolto. Metti a raffreddare. Nel frattempo semi-monta la panna (sii padrone della tua volontà di potenza: fermati quando la panna inizia a montarsi!). Quando il composto si è raffreddato e inizia a raddensarsi, aggiungici la panna mescolando dal basso verso l’alto per non far smontare il composto. Dividi il bavarese nelle monodosi e metti a raffreddare per almeno 6 ore.

Infine la Zivilisation: distogli gli occhi dalla Dichiarazione internazionale dei diritti della frutta, sbuccia e taglia i kiwi (“un solo mondo, una sola patria”) a cubetti. Crea la salsa frullandoli insieme a due cucchiai di banausico zucchero a velo.

Sforma le monoporzioni e decorale con la salsa ai kiwi e la granella di mandorle.

«La pasticceria non è mai un atto isolato», C. von Clausewitz.

Aristortele

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