Ecologia, arte contemporanea e filosofia del riciclo: RE.USE a Treviso

Finalmente a Treviso c’è una grande mostra di arte contemporanea che non vuole farsi bastare un grande nome per avere il suo perché, ma punta invece sui temi e sui valori.

Questa mostra, curata da Valerio Dehò, si chiama RE.USE. Scarti, oggetti, ecologia nell’arte contemporanea e ha inaugurato lo scorso 27 ottobre di quest’anno in ben tre sedi espositive: la sala ipogea del Museo di Santa Caterina, la sede espositiva di Casa Robegan e l’elegante sala di Ca’ dei Ricchi, sede dell’associazione ideatrice e organizzatrice della mostra TRA – Treviso Ricerca Arte.

I temi, dunque – il riciclo, la riflessione sullo scarto, l’attenzione per il quotidiano, uno sguardo accorto sulle cose che questo quotidiano lo riempiono – e anche i valori – la condivisione, il lavoro di squadra, la volontà di coinvolgimento – evidenti anche solo dalla scelta di realizzare una mostra dislocata che va a mettere in moto luoghi, attori, istituzioni, associazioni, ordini professionali ed esercizi commerciali di tutto il capoluogo veneto, finalmente libero da monoliti autoreferenziali. Non poteva del resto che venire da qui, dalla storica provincia più green friendly d’Italia, questa lunga immersione nel tema artistico del riutilizzo, che attraversa l’arte contemporanea a partire da inizio Novecento e che ancora fiorisce di spunti e riflessioni da parte degli artisti attualmente all’opera.

È un’arte che fa bene e che va nella direzione giusta quella che osa riflettere sull’assenza di riflessione. La riflessione, come hanno ben spiegato i filosofi della Scuola di Francoforte, è stata soppiantata dai bisogni indotti del Capitalismo e le cose – la merce, gli oggetti – ci sommergono, ci soffocano, e noi li lasciamo fare; come sostiene giustamente il curatore Valerio Dehò, sono loro che ci possiedono. Allora l’arte cerca di rovesciare questo paradigma e di riprendere il controllo sugli oggetti, esponendo allo sguardo il pericolo; spesso con grande ironia, a volte con austerità e monito, ma spesso entrambi tragicamente mai presi del tutto sul serio dalla Storia.

Le opere conservate al Museo di Santa Caterina sono come una lezione di storia dell’arte, da conservare come insegnamento prezioso per conoscere le opere di tutti gli artisti che sono venuti dopo i grandi maestri. Duchamp (il suo primo ready-made è del 1913 ed è stato il seme di un nuovo pensiero), Man Ray e Alberto Burri aprono la strada a un’arte della scelta (in luogo dell’esecuzione) e del contenuto (in luogo della cosiddetta, semplicemente, “estetica”): l’arte raggiunge una dimensione puramente intellettuale e gli oggetti, strappati dal banale e dal quotidiano ma ancora dichiaratamente oggetti, assumono significati nuovi. Seguono gli anni Sessanta, l’arte concettuale e il Nouveau Réalisme, che porta la riflessione sugli oggetti al problema dello spreco: l’arte si fa con oggetti di scarto, che nell’assemblage diventano qualcosa di nuovo e comunicano anche (più o meno velatamente) un messaggio di critica. Artisti del livello di Mimmo Rotella Tony Cragg e Christo sono fondamentali in questa fase. Da quel momento l’arte porta con sé la denuncia ecologica, il testimone passa ai nuovi giovani che cercano nuovi mezzi per esprimere questa presa di coscienza. Queste nuove riflessioni vengono accolte nelle sedi di Casa Robegan e Ca’ dei Ricchi, dove vengono esposti il neon fluo di Matteo Attruia, le intense fotografie tra natura e artificio di Giuseppe La Spada, gli scultorei plastiglomerati di The Cool Couple, l’enorme città distopica di Marco Bolognesi (solo per citarne alcuni). Vi invito a scoprire tutti gli altri e a sondare, attraverso le tre sedi espositive, la pluralità di tecniche artistiche e di visioni a confronto su questi temi. Le opere del gruppo Cracking Art, infine, che invadono la quotidianità del panorama cittadino trevigiano con i loro animali colorati, costringono a una riflessione in mezzo alla linearità delle nostre giornate a proposito della manipolazione dell’uomo sulla natura, continua e ancora troppo incapace di etica.

Una mostra da guardare per pensare. Guardare e non vedere. Non per nulla RE.USE non si limita alle opere esposte ma continua, spalanca i suoi confini spaziali, coinvolge anche le orecchie, perché tante sono le iniziative e gli incontri organizzati in questi quattro mesi di mostra (chiuderà i battenti i 10 febbraio) di cui anche noi de La chiave di Sophia faremo parte. Non limitatevi dunque a venirla a vedere: seguitela, ascoltatela, fatevi coinvolgere, portate la riflessione con voi al di là del museo e tenetela con voi, dentro la vostra testa, vicino al vostro animo.

 

Giorgia Favero

 

Abbiamo ospitato questa grande e lodevole iniziativa anche all’interno della nostra rivista cartacea La chiave di Sophia #7 – L’esperienza del bello con un articolo firmato da Marcello Libralato. Scopritelo a questo link!

[Photo credits Karen Barbieri]

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The floating piers: the floating experience

È l’evento culturale più chiacchierato del momento, la prova artistica più attesa e probabilmente tra le più importanti di quest’anno a livello mondiale; presentata fin da subito con uno slogan tanto arrogante quanto accattivante:
«Vi farò camminare sulle acque».
Trattandosi di un artista il cui nome è Christo, non può che apparire come un segno del destino.

The floating piers, i moli galleggianti. Dei ponti galleggianti. In una attualità segnata dalla Brexit, da sfide ai ballottaggi fino all’ultimo voto e da nuclei religiosi che si schierano contro il resto del mondo, trovo sia quasi romantica la scelta di costruire dei ponti, di unire due realtà lontane o differenti – o anche solo così, semplicemente creare un contatto. Al ritmo di 50.000 visitatori al giorno, italiani e stranieri, donne e uomini, adulti e bambini e anche animali camminano sui 3/4 km di tessuto giallo dalia che, come un filo che cuce i margini del lago, accende l’acqua blu di una nuova possibilità. Un rito collettivo, un’esperienza nuova e gratuita che, nonostante le controversie, è riuscita ad avvicinare centinaia di migliaia di persone all’arte contemporanea.

Sì, perché è di arte che parliamo. Ridurre il concetto di arte al solo oggetto è impensabile, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, ma difficilmente lo si può fare anche per tutto quello che c’è stato prima. L’architettura ne è un valido esempio, perché molto più che l’edificio in se stesso essa è lo spazio che l’edificio disegna, e il modo di viverlo; ma nemmeno il David di Michelangelo è solo un blocco di marmo straordinariamente scolpito: è anche l’esperienza sensoriale che ricevi quando ci giri attorno, sono i pensieri che ti fa nascere nella mente e i sentimenti nell’anima.
Christo ci offre un’esperienza, nuova e squisitamente estetica. Non si attraversa il lago per andare da A a B, si fa un viaggio attraverso il lago, diverso da quello che fai in barca e diverso soprattutto da quello che fai quando hai una meta da raggiungere.

Io ci sono stata, e posso dirvi che non si tratta affatto un mero camminare su di una passerella: è una passeggiata di circa tre ore in cui diventi un tutt’uno col paesaggio.
Comincia che nemmeno te ne accorgi: svolti una curva, pensi che la fila continui, e invece – sbam! Sei sul ponte! Ed è… stranissimo! Tutti ridono meravigliati, cominciano a camminare adattandosi pian piano alla nuova situazione, tastano con i piedi un territorio inesplorato. Passeggi sul pontile ondeggiando al ritmo delle onde, perché le senti le onde, una per una sotto i piedi – i cubi sottostanti si adattano talmente al movimento del lago che ti sembra davvero di camminare sull’acqua –, quindi ti muovi su questa superficie elastica, morbida, e tutti i sensi sono stimolati, compreso quello dell’equilibrio. Fai tutto il primo ponte esplorando le tue sensazioni, la cornice di lago e profili collinari è incredibilmente suggestiva e pian piano ti ci immergi dentro. Quando poi arrivi all’altra sponda (Montisola) e cammini sulla strada lungo il lago, ombreggiato dagli ulivi che si sporgono verso l’acqua e sommerso dal chiacchiericcio di uomini e cicale, ti sembra ancora di ondeggiare. E poi ritorni sul molo, improvvisamente c’è più spazio, puoi anche sederti, distenderti, senti il movimento delle onde che ti scorre sul corpo. Anche gli altri sensi sono stimolati: l’odore dell’acqua, solo lievemente salmastra, e pulita, lo scricchiolio della passerella al passaggio di ogni onda (sembra di sentire come delle onde di sassi), poi il vento, e i colori! Il verde scuro del paesaggio, punteggiato di bianco, di marroni, di fortezze; l’azzurro del cielo, il blu un po’ verdastro dell’acqua, e poi quei fili appena appena adagiati sulle onde, un tratto di pastello sul paesaggio, arancione – no, oro! Anzi, quasi rosso! Cambia con te, cambia col sole, il tessuto è cangiante e ondoso come il lago, è chiaramente artificiale ma così delicato che quasi sembra fatto apposta per quel contesto, per quel sinuoso profilo montuoso dell’Iseo. Naturale ed artificiale in sintonia. Land Art: l’uomo che agisce sul paesaggio non come una sfida, ma con un senso di gratitudine, vuole contribuire ad un grande spettacolo. Bellezza aggiunta alla bellezza.

The floating piers1 - La chiave di Sophia   The floating piers2 - La chiave di Sophia   The floating piers4 - La chiave di Sophia

Pensi a questo e a mille cose, chiacchieri, sogni, mentre papere, anatre e qualche cigno ti nuotano accanto, indisturbati. Un po’ li invidi perché fa caldo, e l’acqua è così blu che muori dalla tentazione di immergerci una mano. Lo fai, ma poi ti viene voglia di fare un tuffo e allora la sicurezza, prontamente, fischia: la sicurezza è imponente, l’organizzazione estremamente precisa – giusto perché siamo sempre convinti che le cose all’italiana siano fatte male per definizione. Arrivi all’isolotto di san Paolo, gli spazi sono ancora più grandi e di conseguenza ancora più vitali: c’è gente che passeggia, cani che corrono, bambini che saltano, gruppi che giocano a carte, ragazzi e non-ragazzi distesi, si fanno cullare dal ponte galleggiante come dal vento su un’amaca. Le persone ridono, sono entusiaste, sentono quella sorta di magia dei sensi. Anche il corpo è vivo: spesso quando ci si tocca vicendevolmente ci si dà la scossa. E il tempo scorre senza lasciar traccia di sé, pensi che vuoi stare lì a goderti il sole fino all’ultimo raggio. Poi invece ti decidi, ti rialzi, riprendi il cammino: di nuovo l’intreccio di fili di dalia infuocati sul morbido velluto blu dell’acqua, ormai ti sembra normale passeggiare su di un lago – questa idea ti colpisce all’improvviso e pensi di essere impazzito, perché in realtà non è normale! –, ti guardi attorno con la naturalezza di quando sei a passeggio nel centro della tua città, solo che attorno a te è tutto diverso. Torni sull’altra isola, quella grande, ti fermi di nuovo per una birra, un gelato; per un po’ cammini e dal tuo argine guardi i moli in lontananza, ma sei sempre sul tessuto giallo. Infine l’ultima passerella, cioè la prima, di nuovo ondeggi, sei di nuovo al centro del paesaggio. Non è come andare in barca perché non vieni portato, sei tu che ti muovi: sei attivo, autonomo, del tutto vitale in ogni momento del viaggio – sei tu che ti fai paesaggio. All’andata abbiamo trovato degli anatroccoli, acciambellati pacifici sul ciglio arancione, stavolta passa una specie di chiatta e sopra un signore con una zazzera bianca che indica e parla con delle persone. Non è rarissimo vedere Christo che dà un’occhiata al suo progetto. Matematicamente scatta l’applauso, la gente lo saluta, lo ringrazia con l’entusiasmo. Poi trovi ragazze che distribuiscono quadratini di stoffa dalia cangiante, lo prendi te lo porti a casa sapendo di aver vissuto un’esperienza irripetibile.

Ancora me lo rigiro tra le dita, questo quadrato di stoffa, e lo osservo.
Sono convinta che l’arte non sia delle nicchie. Poiché è specchio del nostro tempo e della nostra società, l’arte ci racconta e ci descrive – guardandola, noi dovremmo vedere noi stessi. Perciò tutti dovremmo guardarla, anche per conoscerci un po’ di più. Sarà anche per questo che non mi dispiace quest’arte che grida, agita la mano in aria, richiama l’attenzione, dice “Io sono qui! Venite a dare un’occhiata!”. Ormai siamo talmente cinici che appena una cosa è famosa ne prendiamo le distanze, invece di osservarla da vicino con occhio critico. Peccato che così rischiamo di perderci, senza ogni logica, una grande esperienza; che può essere piacevole oppure terribile, ma sicuramente ha un valore intrinseco positivo, perché ci avrà lasciato dentro qualcosa di nuovo.

 

Giorgia Favero

 

Nelle immagini:
Christo & Jeanne-Claude
The floating piers, 2014-2016
Lago d’Iseo, Italia
Tessuto giallo dalia, feltro, cubi di polietilene ad alta densità.

Per approfondire il loro lavoro, dai monumenti impacchettati ai grandi ombrelli del Giappone, qui il link per il sito ufficiale.