Sono forse io il custode di mio fratello? – Intervista ad una assistente sociale

Secondo i dati della UN Refugee Agency (UNHCR), dal 1 gennaio 2016 ad oggi, sono sbarcate 230.226 persone tra Grecia ed Italia. 2.890 sono coloro che hanno perso la vita nell’attraversamento del Mar Mediterraneo1.
Uomini e donne che hanno deciso di rischiare la loro vita e quel che è peggio, quella dei loro figli, in cerca di un po’ di pace, di dignità. Famiglie che si accollano debiti inimmaginabili per permettere ai propri cari di tentare di raggiungere un luogo della terra non dilaniato da guerre o sopraffatto da terrore e violenze continue e di ogni sorta.
Chi sono questi migranti? Cosa vivono e sopportano nel cercare di raggiungere i paesi del Mediterraneo?
Nel tentativo di fare un po’ di chiarezza e di verità abbiamo incontrato Cristina, 26 anni, lavora come assistente sociale in un centro di accoglienza nella provincia di Treviso. Lei, ogni giorno, opera a diretto contatto con decine, anzi centinaia, di persone che, per i motivi più disparati, hanno deciso che rischiare la morte per sé e per i propri cari, probabilmente, non può essere peggiore di quello che subiscono nei loro paesi o delle condizioni in cui sono costretti a vivere nelle loro città, case, famiglie.

Nel Centro di accoglienza dove lavori di che sesso e nazionalità sono i profughi?

La maggior parte dei richiedenti asilo sono uomini, tra i 20 e i 30 anni. Ci sono anche donne, ma in numero minore. Alcune donne spesso sono accompagnate dai mariti, altre, giovanissime, arrivano sole. Ancora meno, ma comunque presenti, sono i bambini che spesso nascono durante il viaggio o giungono nei centri di accoglienza da piccolissimi.
Nel centro dove lavoro la maggior parte delle persone proviene dall’Africa Sub Sahariana, principalmente Nigeria, Gambia, Ghana, Senegal, Costa d’Avorio, Mali… Ci sono anche persone originarie dell’Afghanistan, Pakistan e Bangladesh.

Come sono approdati in Italia, quanto dura e quanto costa in media un viaggio per raggiungere il nostro Paese?

Non c’è una regola precisa per la durata e il costo del viaggio. In base ai paesi di provenienza è possibile individuare due tipologie di “viaggio”. Per le persone provenienti dall’Africa subsahariana il primo pezzo del tragitto è differente in base alla città di partenza, però, ad un certo punto del viaggio tutti convergono in Libia e raggiungono l’Italia via mare.
Le persone provenienti da Pakistan, Afghanistan e Bangladesh viaggiano via terra; le tappe obbligate sono Turchia e Grecia, poi il tragitto può diversificarsi, raggiungono il nostro Paese passando per Ungheria e Austria.
Per quanto riguarda i tempi vi sono molte differenze in base al progetto migratorio di ogni persona, variano da 1 mese a 4-5 anni. Relativamente alla durata del viaggio influiscono, oltre che il progetto di ognuno, variabili quali il denaro, i trafficanti, la situazione libica…
Anche per il costo non c’è un “prezzo fisso”, ad esempio si può pagare il viaggio in partenza, oppure tappa per tappa trovando dei lavori occasionali lungo la strada. Dalle storie ascoltate in questi mesi in linea di massima il viaggio è molto costoso, basti pensare che una famiglia si indebita per mandare uno solo dei figli alla ricerca di una vita migliore.

Probabilmente sono tutte persone consapevoli dell’alta possibilità di perdere la vita durante il viaggio, perché decidono comunque di rischiare? Quali storie ci sono dietro ad una tale decisione?

Ogni persona ha una storia, una motivazione e un progetto migratorio diversi. Anche persone provenienti dallo stesso Paese o dalla stessa città scappano per motivi diversi. Il fattore determinante non sono solo le guerre, le violenze che vivono e sopportano, non sono solo il frutto di lotte armate; possono esserci motivazioni familiari, capita spesso che i ragazzi non siano accettati dalla famiglia di origine o dalla comunità per aver scelto una religione diversa, per l’orientamento sessuale o per altre scelte contrastanti con la realtà in cui vivono ed essere vittime di continue ed estenuanti vessazioni. Altri magari vengono da zone di continui scontri tra fazioni politiche o parti religiose, altri ancora cercano la libertà. Spesso la loro idea iniziale non è quella di raggiungere l’Italia però durante il percorso è facile finire nelle mani dei trafficanti e il loro viaggio continua secondo rotte non frutto di proprie scelte, ma obbligate.

Quanto è difficile ascoltare questi racconti di grande sofferenza? Ad un certo punto ci si può “abituare”?

Ci si può abituare a sentire nominare i diversi Paesi attraversati, nell’ordine di percorrenza; è bello scoprire che ad un certo punto della strada qualcuno di loro trova una “persona buona” che li aiuta a proseguire senza voler nulla in cambio… però i vissuti che li portano a fuggire, ciò che sono costretti a vivere/subire durante il viaggio è purtroppo nuovo ogni volta e quando a raccontartelo sono una ragazza o un ragazzo, magari della tua stessa età che cercano di salvare la loro vita e se possibile anche un po’ di dignità, come si può parlare di abitudine…

La stampa riporta spesso lamentele dei richiedenti asilo relativamente alle strutture in cui sono accolti, al cibo, mancanza di televisione, ecc. Sembra impossibile che dopo tutto quello che hanno passato siano scontenti di quello che ricevono.

Appena sento i ragazzi lamentarsi anche a me viene da pensare e a volte glielo faccio notare che con tutto quello che hanno passato i loro problemi dovrebbero essere altri e sarebbe il caso che si lamentassero per altro. Però, se ci penso, io e noi tutti ci lamentiamo quotidianamente per molto meno, per il traffico, per il cellulare scarico e per mille altri futili motivi.
Quindi, credo che queste lamentele che comunque a volte sono anche veritiere, possano essere lette in due modi. Penso che se una persona con il loro vissuto si sta lamentando di una cosa (sia anche superflua per me in questo momento) significa che anche per soli cinque secondi ha pensato ad altro rispetto a ciò che magari ha passato in Libia o in Afghanistan… e quanti di noi riuscirebbero a farlo dopo aver subito anche solo la metà di ciò che è toccato loro?
Poi, ritengo che sia doveroso restituire un po’ della dignità perduta con una buona e attenta accoglienza (sicuramente non fatta solo di buon cibo e televisore in camera).

Cos’è il tanto discusso pocket money erogato giornalmente ai richiedenti asilo e come funziona?

Il “costo” giornaliero per l’accoglienza di un richiedente asilo è di 35 euro, denaro necessario per far fronte alle spese per il vitto, l’alloggio, l’affitto dello stabile e lo stipendio delle persone che ci lavorano. Il pocket money, invece, è la parte di questi 35 euro (solitamente corrisponde a 2,50 euro) che viene erogata direttamente alla persona che vive nel centro di accoglienza.

Molto spesso i nostri connazionali che versano in stato di indigenza riferiscono e lamentano di essere trattati dallo Stato peggio dei profughi…

Probabilmente hanno ragione, ma lo Stato continua a fare per loro ciò che faceva anni fa, prima di questa emergenza. Credo che il sistema dei servizi andrebbe ripensato in base alle nuove esigenze della popolazione indipendentemente da ciò che lo Stato fa o meno per i richiedenti asilo.

Se facciamo una passeggiata nelle nostre città, spesso incontriamo migranti con cellulari ultimo modello ecc…

Non sempre sono persone che scappano da povertà o miseria, ci sono tanti giovani laureati, di buona famiglia e con un lavoro che però sono costretti a fuggire dai loro paesi d’origine per motivi politici, di razza, religiosi… e quindi il cellulare per loro non è un bene di lusso. Poi, ci sono anche persone che fuggono dai loro Paesi per motivi economici, di estrema povertà: loro non arrivano con un cellulare, però è tra le prime cose che acquistano in quanto è l’unica modalità per mettersi in contatto con la famiglia o gli amici. Anche solo per dire loro dove si trovano e che sono vivi.

 

L’ultima domanda non la rivolgo a Cristina ma la cito dal libro Nel mare ci sono i coccodrilli di Fabio Geda: la storia vera del viaggio di Enaiatollah Akbari, un bambino afghano di dieci anni la cui madre, per proteggerlo dai talebani che perseguitano la famiglia e minacciano di ucciderlo, decide di farlo fuggire dal suo Paese.
Lo scrittore, intervistando il giovane, si rivolge a lui chiedendo: «Come si fa a cambiare vita così, Enaiat?
Una mattina, un saluto.
Lo si fa e basta, Fabio. Una volta ho letto che la scelta di emigrare nasce dal bisogno di respirare.
È così. La speranza di una vita migliore è più forte di qualunque sentimento. Mia madre, ad esempio, ha deciso che sapermi in pericolo lontano da lei, ma in viaggio verso un futuro differente, era meglio che sapermi in pericolo vicino a lei, ma nel fango della paura per sempre»2.

Silvia Pennisi

NOTE:
1. www.data.unhcr.org
2. Fabio Geda, Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari, Baldini e Castoldi, Milano 2013, pp. 72-73.

[Immagini tratte da Google Immagini]

La vera meraviglia del viaggio? Lo spaesamento

Caminante, no hay camino,
se hace camino al andar  

(A. Machado)

L’inquietudine del viaggio accompagna lo spirito umano da sempre, esprime un desiderio e una necessità spesso difficili da reprimere. È un pensiero che si radica in punta dei piedi dentro la nostra testa e piano piano prende forza, la bella stagione, la brezza estiva, le serate in giardino, di certo aiutano.

Viaggiare – anche la vacanza più scontata-  è sempre un atto di volontà che implica un’azione complessa, un processo nel quale le tappe sono ben definite: bisogna scegliere dove andare, quando partire, come e, sarebbe buona abitudine, anche chiedersi perché.

Lo scrittore Alain de Botton con il suo libro Arte di viaggiare[1] promuove il viaggio a vera e propria terapia: l’atto di partire ci predispone a un percorso di sviluppo interiore e di riflessione, comportandosi come cura per le nostre ferite e mancanze. Il pellegrinaggio religioso diventa quindi solo un’accezione particolare, circoscrivibile ad un canone specifico, di un significato spirituale molto più ampio che appartiene naturalmente al viaggio.

Le vacanze ci offrono così un’ottima possibilità di intraprendere la nostra ricerca personale, per cui il fine ultimo del partire sarebbe trovare delle risposte e conoscere meglio noi stessi, un pensiero d’altronde carico di aspettative, con il conseguente rischio di restare delusi, di tornare insicuri perché le risposte non arrivano o, ancora peggio, di vivere il nostro viaggio con l’ansia di perderci qualcosa.

Qualche tempo fa ho avuto modo di vedere una delle brevi lezioni video sul viaggio, della School of Life di De Botton, nel quale con mia grande sorpresa lo scrittore portava all’estremo le sue riflessioni consigliando addirittura di non partire: il rischio è infatti sempre quello di portarsi dietro un ospite piuttosto sgradito, se stessi. Ed è inutile fare la valigia se prima non si trova una certa serenità tra le mura di casa.

Questa svolta alquanto nichilista non mi ha di certo entusiasmata, eppure devo dire che ho capito l’errore: non si deve caricare il viaggio di aspettative per trovare qualcosa, ma al contrario dobbiamo cogliere in esso l’occasione di perderci, di dimenticarci in qualche modo di noi stessi.

Lo spaesamento è la vera meraviglia del viaggio.

Ma questa non è certamente una novità, l’idea di spaesamento nasce con il ben noto exotisme vagheggiato dagli intellettuali del XIX secolo, non solo una questione estetica, ma una metodologia d’indagine, una percezione del diverso, il cui potere stava nell’allenare lo sguardo alla differenza, nella capacità di rovesciare l’io nell’altro.

Se facciamo attenzione a tutto l’universo comunicativo e d’informazione che ci circonda possiamo notare come l’exotisme non ci abbia abbandonato, sebbene abbia perso una certa ingenuità delle origini per cadere spesso nello stereotipo. Se il viaggio oggi è diventata una pratica massificata, che si allontana dai processi dell’esperienza inserendosi nel circuito consumistico – come tristemente teorizzato dall’antropologo Lévi-Strauss[2] – è però ancora possibile recuperare la sua valenza strategica nel rielaborare nuove forme dell’identità personale: “il viaggio diventa così il piano ideale per un rinnovamento poetico che opera attraverso lo spaesamento[3].

Come si dice, l’importante non è il fine ma il percorso che si affronta per raggiungerlo, così nel viaggiare si deve imparare a raccogliere durante il cammino, si tratta quindi di sviluppare due abilità essenziali: percezione e traduzione, che appartengono a due livelli di esperienza differenti ma complementari.

Il viaggio va in primo luogo vissuto, cogliendo lo spaesamento che comporta e non soffocandolo. In secondo luogo deve essere rielaborato, traducendo in espressione ciò che ci ha lasciato, attraverso la narrazione, la pittura o la fotografia, ecc.

Se quest’ultimo è terreno dell’arte, e lascia ad ognuno la libertà di trovare il linguaggio più consono alla propria sensibilità, nella prima parte del percorso, per allenarsi ad uno sguardo estetico e ad una ricezione attiva, ci viene in aiuto la filosofia.

E il buon viaggiare ci stimola a diffondere uno spirito critico etico e sostenibile: “…questa estetica dello sguardo – che mira ad aprire l’occhio esterno per riattivare l’occhio interno […] indica al viaggiatore non soltanto di guardare i luoghi, ma di accorgersi che essi ci riguardano, perché dal loro destino, dalla sopravvivenza di ciò che in essi c’è di unico e singolare, dipende anche il nostro futuro”[4].

Claudia Carbonari

NOTE

[1] Alain De Botton, L’arte di viaggiare, Guanda 2002.
[2] Claude Lévi-Strauss 1960, Tristi Tropici, Il Saggiatore.
[3] Luigi Marfè 2012, Il racconto di viaggio e le estetiche del modernismo, p.10.
[4] Ivi, p. 16.

Un feto di maiale con il pancreas umano. Una chimera per risolvere il problema della mancanza di organi per trapianti

Permettere lo sviluppo di organi umani nei maiali per poi utilizzarli nei trapianti. Non è pura immaginazione fantascientifica, ma è ciò che sta cercando di realizzare un team di ricercatori dell’Università della California. Gli scienziati avrebbero iniettato cellule staminali umane in un embrione di maiale per creare una chimera. L’embrione, in parte umano e in parte suino, verrà fatto sviluppare nel grembo di una scrofa per 28 giorni, successivamente la gravidanza verrà interrotta e si procederà all’analisi dei tessuti candidati a diventare un organo trapiantabile.
Un traguardo che ad oggi sembra meno remoto anche grazie allo sviluppo di nuove tecnologie di ingegneria genetica cariche di grandi potenziali, ma forse anche di enormi rischi.

La tecnica utilizzata si chiama Crispr ed è l’ultima frontiera dell’ingegneria genetica.
Fondamentalmente si tratta di un sistema di modificazione del genoma, o “editing genetico”, vere e proprie microforbici molecolari che permettono di tagliare l’elica del Dna nel punto desiderato e sostituirne un tratto, eliminando geni o alterandone la capacità di espressione.  In questo caso, per produrre l’embrione chimera gli scienziati sono intervenuti direttamente sul Dna degli embrioni di suino, immediatamente dopo la fecondazione, creando una sorta di “vuoto genetico” per impedire la crescita naturale del pancreas nel feto di maiale. Il passaggio successivo è iniettare nell’embrione cellule staminali umane pluripotenti indotte (iPS), in grado di dare origine a tutti i tessuti del corpo. L’aspettativa è che queste cellule, sfruttando il vuoto genetico creato nel feto di suino, permettano lo sviluppo di un organo, in questo caso il pancreas, composto esclusivamente di cellule umane, che possa essere successivamente utilizzato per un trapianto.
I maiali sono considerarti “l’incubatore biologico” ideale per far crescere organi umani.

Se l’esperimento avesse successo, dicono, si potrebbero creare tutti gli organi necessari, e così supplire alla loro scarsa disponibilità a fronte dell’ingente richiesta. Inoltre, si potrebbero prelevare cellule staminali di un paziente che ha bisogna di un trapianto, iniettarle in un embrione di maiale per creare l’organo di cui si necessita, che non solo sarebbe una perfetta copia genetica ma sarebbe anche più giovane e più in salute e così il paziente non avrebbe neanche più bisogno di assumere farmaci immunosoppressivi, non privi di effetti collaterali.

Ci sono diversi problemi etici intorno a questo progetto. Lo scorso anno la principale agenzia di ricerca medica degli Stati Uniti, il National Institutes of Health, aveva imposto una moratoria sulla raccolta di fondi per simili sperimentazioni imponendo quindi un’interruzione a tempo indeterminato relativamente il finanziamento di questo tipo di studi.
Da un lato ci si interroga sui rischi legati all’uso delle tecniche di “editing genetico” come la Crispr, dall’altro c’è la questione strettamente etico-morale.
Ad allarmare è soprattutto il rischio che le cellule umane una volta iniettate nell’embrione chimera possano comportarsi in maniera differente da quella presagita dai ricercatori e sfuggire al loro controllo.
Alcuni temono che il trapianto di organi umani creati nei suini comporti il rischio di infezione con virus animali, altri paventano la possibilità che le cellule staminali, migrando fino al cervello dell’animale, possano in qualche modo rendere i maiali più umani e altri, ancora, si preoccupano per gli animali, per la loro sofferenza. Un azzardo troppo grande e pericoloso in nome di un beneficio solo ipotizzabile?

L’unica certezza che abbiamo è che ad oggi le liste d’attesa per un trapianto d’organo sono lunghissime e che riusciamo a trapiantare solo un paziente su sei di quelli che ne avrebbero bisogno, anche questo è molto poco etico.

Silvia Pennisi

[Immagine tratta da Google Immagini]

La bella Italy

Domenica ero a Firenze, dopo giorni di tempo incompatibile con giugno era finalmente uscito il sole che già da metà mattina aveva cominciato ad abbattersi infuocato sulla frotta di turisti ai piedi della cattedrale di Santa Maria del Fiore.
Una fila di sessanta metri si era formata lungo il lato sud, dove si accede al banco per fare il biglietto.
L’attesa permette di osservare la piazza e la tipologia di persone che la affolla.

Da studioso di antropologia è facile per me cadere nella curiosità di osservare i comportamenti altrui.
I sempreverdi giapponesi con la fotocamera tra le mani che si stupiscono per qualsiasi cosa, anche la più banale; gli americani instancabilmente innamorati del Rinascimento; i francesi e gli spagnoli che al gruppo – prerogativa germanica – preferiscono girovagare più in incognita.

Immancabili i venditori di immagini, da Ponte Vecchio si diramano in tutta la città esponendo i loro prodotti su bancarelle talmente improvvisate che spesso si riducono al selciato della strada.
Se qualcuno dovesse descrivere un qualsiasi luogo di interesse culturale italiano non potrebbe esimersi dall’inserire almeno un paio di questi elementi, altrimenti risulterebbe un resoconto fantascientifico.

Per aggiungere dettagli a questo quadro generale si dovrebbero citare le guide turistiche, veri e propri profeti del XXI secolo che divulgano il loro sapere attraverso un microfono e che al posto del bastone nodoso, necessario a chiunque volesse intraprendere la carriera del profeta, brandiscono una bandierina o un ombrello.
Agli angoli delle piazze si trova sempre qualcuno che suona qualcosa, motivetti famosi per le orecchie di chi apprezza i classici, improvvisazioni per gli amanti dell’originalità.

Uomini-statua che passano ore ad imitare l’immobilismo del marmo di Carrara; ambulanti che vendono accessori per smartphone… quindici anni fa vendevano solo pupazzetti di farina e braccialetti portafortuna, del resto i tempi cambiano un po’ per tutti.
Se dovesse piovere è certa l’apparizione degli ombrellai, fatto che suscita forti sospetti sulla loro responsabilità riguardo i temporali.

Tutto questo era in movimento attorno a me e alla fila a cui ormai appartenevo fisicamente, quando notai un gruppetto di uomini in carrozzina.
Saranno stati cinque o sei, tutti accompagnati dalla moglie o da un amico, si erano disposti a semicerchio attorno all’ennesima guida che parlava in inglese.

Qualcuno di loro ascoltava attento, qualche altro guardava semplicemente all’insù, uno in particolare aveva gli occhiali da sole, ma pareva non guardare nulla di preciso, era lì immobile sotto al suo cappello col frontino.

Di persone in carrozzina se ne incontrano spesso, specialmente nei luoghi ad alta frequentazione turistica, quindi non so spiegarmi come mai, proprio in quel momento, mi sono soffermato su di lui.
Non potevo sapere nulla sulla sua vita, su cosa potesse essergli capitato o se in quel momento stesse davvero ascoltando il racconto sulla costruzione della cupola del Brunelleschi, comprendere la mente umana imbrigliata nel gioco crudele di una malattia penso sia qualcosa di arduo, però il messaggio che nel giro di un paio di minuti si era materializzato davanti ai miei occhi portava con sé una conclusione semplicissima: quell’uomo era lì.

Era lì perché doveva vedere dal vivo qualcosa che normalmente si trova in fotografia, perché doveva toccare con mano il modello originale che ha ispirato tanti artisti e tanti scrittori.
Doveva respirare quell’aria, vedere o sentire quella stessa atmosfera confusionaria che sentivo anch’io, doveva bruciarsi sotto quel sole tanto atteso per poter dire di esserci stato.
Non potevo sapere nemmeno quante persone, in quello stesso momento, potessero esserci anche a Roma, a Napoli, a Venezia, accomunate dalle stesse difficoltà e dalla stessa determinazione.

Quando esiste la possibilità di ottenere un arricchimento interiore, culturale o conoscitivo, l’Uomo cerca di raggiungere quel fine tanto desiderato.
E’ in quel momento che si annullano confini, distanze, grandi o piccoli impedimenti personali.
Ce lo raccontano gli esploratori, da Marco Polo a Cristoforo Colombo a David Livingstone, ma anche scrittori del calibro di Jules Verne e Goethe.

Allo stesso tempo è da notare ciò che forse noi, abitanti del pianeta Italia, non percepiamo: la ricchezza che ci circonda.
Sembra una frase ripetitiva, una di quelle che si estrae durante le pirotecniche discussioni relative alle manchevolezze amministrative sul patrimonio artistico-culturale.
Eppure ci comportiamo come se dessimo per scontate certe cose che via via vengono dimenticate, tanto da arrivare al punto di considerare una vacanza come tale solo se fatta in un altro continente.

Non è una morale, ma uno sprone che potrebbe servire a renderci più consapevoli di ciò che custodiamo volontariamente o meno, ovvero una serie di meraviglie artificiali e naturali che costellano il nostro territorio, che riempiono le nostre piazze, che smuovono persone come quell’uomo a Firenze, che sotto al cappello col frontino seduto sulla sua carrozzina ascoltava, o forse no, il racconto sulla costruzione della cupola del Brunelleschi.

Alessandro Basso

[immagine tratta da Google Immagini]

Sviluppo sostenibile per i paesi del Terzo Mondo

Le cronache di ogni giorno, le migrazioni bibliche che ci investono attraverso il Mediterraneo, non solo di persone che fuggono dalla guerra, ma anche, in larga misura, per ragioni economiche, ci pongono in modo pressante il problema di definire un processo di “sviluppo sostenibile” per il Terzo Mondo e soprattutto quali siano i modi migliori per interpretare tale espressione e quali i più diretti per raggiungere gli scopi che esso si prefigge.

Il primo obiettivo da raggiungere è quello di migliorare le condizioni di coloro che sono emarginati economicamente, risultato che si può conseguire attraverso un approccio diretto ai mezzi di sussistenza e alla soddisfazione dei bisogni primari, che deve consistere nella basilare idea che si debbano creare possibilità di occupazione.

Ma quali sono le reali possibilità di intervenire nei Paesi del Terzo Mondo per aiutarli “a casa loro”?

Non è pensabile di programmare interventi di industrializzazione su larga scala, al massimo si può pensare di favorire la nascita di piccole aziende per esempio alimentari e di lavoratori autonomi nel settore meccanico e dell’artigianato. Questi settori potrebbero svilupparsi con un minimo di sostegno ufficiale e assistenza economica dato che queste attività impiegano più abitanti nelle città del Terzo Mondo del “moderno” settore “industriale” e pertanto vale la pena di considerarli attentamente come fonti di mezzi di sussistenza.

Tuttavia le cooperative e le piccole aziende potranno prosperare con difficoltà se mancheranno opportunità di formazione professionale adeguata e di sostegno istituzionale.

Ciò di cui c’è bisogno è la ristrutturazione dei processi di produzione di reddito e una gestione che consenta di diversificare i mezzi di sostentamento per coloro che generalmente dipendono in modo precario dall’agricoltura.

Però perché tali iniziative abbiano possibilità di successo è necessario creare collaborazione e coordinamento con le istituzioni dei Paesi in cui intervenire su piccola scala.

E’ comunque necessario uno studio attento dei sistemi di soddisfazione dei bisogni primari senza base di mercato e/o monetaria, quali sono diffusi nelle società orientate alla sussistenza, il che potrebbe darci la chiave per intervenire nel modo migliore in termini concreti e meno impattanti per quelle comunità.

Ad esempio varie popolazioni agro-pastorali, benché abbiano un accesso limitato a moderni strumenti di miglioramento economico, riescono bene a soddisfare i loro bisogni. Esse ci riescono attraverso un attento adattamento all’ambiente in cui vivono combinando opportunità limitate di coltivazione e allevamento, queste popolazioni sono in grado di mantenere se stesse e i loro animali all’interno di un fragile ecosistema.

Infatti il secondo obiettivo da perseguire è quello di prevenire il degrado ambientale.

Lo sviluppo economico non deve comportare il peggioramento relativo alla qualità dell’ambiente e delle funzioni ecologiche. In base ai meccanismi istituzionali del sistema economico il “mercato” coglie solo indirettamente e parzialmente il degrado ambientale attraverso l’impatto sulla produttività, sulla salute umana, sui costi di sfruttamento delle risorse, ecc., e le risposte che ne conseguono non sempre sono adeguate.

E’ quindi necessario intervenire con mezzi innovativi per scongiurare che un ulteriore sviluppo economico su larga scala non faccia altro che accelerare il degrado ambientale, purtroppo già in atto in quei Paesi, con conseguenze disastrose anche a livello planetario.

In generale esistono quattro principali approcci diretti alla prevenzione e al controllo dei danni ambientali:

  • analisi costi-benefici
  • valutazione delle risorse
  • politica macro-economica
  • ricerca applicata alla sostenibilità.

Un approccio di questo tipo alla soluzione sia dei problemi del Terzo Mondo che dell’ambiente può essere incentivato dalla partecipazione ampia e ponderata dell’opinione pubblica.

Una attenzione diretta a creare mezzi di sussistenza, attraverso la promozione e la costituzione di attività integrate su piccola scala, richiede l’attiva collaborazione dei potenziali beneficiari, mentre per lo sfruttamento dell’ambiente l’opinione pubblica occidentale può agire sui propri rappresentanti politici e ristrutturare gli interventi economici per tali finalità.

L’interpretazione di sviluppo sostenibile richiede quindi di orientarsi non verso un massiccio sviluppo, ma ad alternative meno dannose nei loro effetti secondari per tutte le popolazioni interessate e più efficaci nel migliorare le condizioni di vita dei più emarginati.

Poiché un approccio utilitaristico del tipo appena indicato esige che, se c’è possibilità di scelta, venga seguito il corso di azione che considera maggiormente gli interessi di tutte le persone coinvolte, si dovrebbero, “eticamente” parlando, intraprendere queste alternative.

Quindi possiamo concludere che lo “sviluppo sostenibile” non è una panacea, ma che neppure, necessariamente, è una aporia. Pertanto lo sviluppo sostenibile, considerato come ricerca di opportunità di sussistenza entro i mezzi offerti dall’ambiente naturale, è un concetto veramente fondamentale nella ricerca di un approccio coordinato e integrato ai problemi sia del Terzo Mondo che dell’Ambiente.

Matteo Montagner

(Il filosofo sul) viale del tramonto: appunti di Norma Desmond e simili visionari

<p>Sunset Blvd. (1950)   aka Sunset Boulevard<br />
Directed by Billy Wilder<br />
Shown center: Gloria Swanson</p>

Vi sono momenti in cui, guardando la mia libreria – infarcita, grondante, obesa di testi – mi sembra di veder le storie, e i momenti di vita, di ciascuno degli autori. Sì, sono lì, uno accanto all’altro – come se fossero tutti convenuti a un party, tutti gioviali e arguti: qualcuno beve un Martini, qualcun altro fuma una Marlboro, altri giacciono mollemente sui divanetti in porpora sparsi qui e lì nella sala. Tre tizi vestiti da pinguino suonano il Trio Élégiaque n° 2 di Rachmaninov.
Da buon anfitrione passo da un ospite all’altro salutando con aria compiaciuta e affabile: “Oh buona sera Dumas, tutto a posto? Ci vediamo dopo Tolkien! Giacomino, come stai?” – e che la festa cominci! Un attimo però, qualcosa non mi torna… due, quattro, venti, trenta… “Señor Marquez scusate, ma qui non manca forse qualcuno? Avete visto per caso la pattuglia dei filosofi? Dove sono Georg, Immanuel e Søren?” “Estàn en la otra habitaciòn, querido”.
Perché? Perché si sono riuniti tutti lì? Quella stanza l’avevo tenuta chiusa, come hanno fatto a entrare? Immagino – immagino non vogliano mescolarsi… i signori mi scusino, devo andare a recuperarli.

Quel che non sapevo è che il salotto, dove credevo si fossero rifugiati tutti i signori filosofi, era sparito. Al suo posto era comparso un lungo corridoio, freddo e fiocamente illuminato da alcuni civettuoli lampadari in vetro di Murano, inverosimilmente polverosi e ipnoticamente dondolanti… iniziai a percorrerlo, leggermente a disagio; giunsi a una porta di mogano, di quelle vecchie, intarsiate, con le maniglie alte… apro.

Mi ritrovai in un giardino che dava s’un luogo strano, una di quelle costruzioni solenni che, un tempo, inorgoglivano i grandi nobili… una casa abbandonata (soprattutto quando te la ritrovi dentro casa tua, al posto di un salotto di tappezzeria blu!) fa sempre un effetto sinistro. Questa poi!, era un rudere… aveva l’aria di uno di quei vecchi pensatori decadenti carichi di vesti damascate sdrucite e di medaglie di concorsi ormai aboliti da anni, che vivono isolati dal mondo tra gli spettri di un passato lucente. Attraversai il vialetto d’ingresso ed entrai.

Seduto sopra un tappeto sgualcito (di quelli da fachiri) troneggiava un vecchio barbuto, puzzolente all’inverosimile; attorno a lui, un pubblico eterogeneo di soggetti adoranti pendeva dalle sue labbra. Era Socrate. Guardai il tutto un po’ spaesato.
“Siete arrivato, Casagrande” disse una voce soave, alla mia destra: mi voltai e riconobbi Søren.
“Maestro” risposi “che ci fa lei qui? E perché non siete tutti alla mia festa, insieme agli altri?”
“Te lo spiegherò. Intanto seguimi, saliamo le scale.”
Giungemmo in cima alla grande scalinata, e ci affacciammo al corrimano; da quella prospettiva, la scena del piano di sotto pareva ancora più ridicola.
“Qualcosa non ti torna?”
“Maestro, sono confuso… perché voi filosofi siete qui soli?”
“I matti, di solito, non sono separati dagli altri?”
“Che domanda strana.”
“Siamo filosofi, caro mio, siamo matti per eredità propria. Cos’è la filosofia, te lo sei chiesto? Certo, e credo tu ti sia anche risposto. È una ricerca continua, una sete che non si placa mai, una vera e propria ossessione. È come vestire un abito che scopri essere cosparso di colla, e che più porti più ti si appiccica alle carni. Siamo persone inascoltate, che amano non esserlo: trasformisti per vocazione, capaci delle più impensate malinconie e delle più superbe gioie, diciamo agli altri com’essere felici e, per farlo, dimentichiamo che anche noi dovremmo cercare d’esserlo. Sciogliamo nodi che altri hanno stretto, chiedendoci: “Perché lo facciamo?”, ma che c’interessa saperlo, l’importante è chiedercelo! Disprezziamo i soldi di questa vita, perché non sappiamo che farcene, aneliamo attenzione anche se non viviamo per essa. Siamo musicisti, scriviamo sinfonie con le lettere, e detestiamo le banalità. Non siamo noi che ci siamo riuniti qui, in una stanza a parte, sono stati gli altri a cacciarci dalla festa: non siamo noi che “non vogliamo mescolarci”, sono gli altri che non vogliono essere contaminati dalle nostre chiacchiere. Perché “gli altri” scrivono senza pensare, noi pensiamo senza scrivere. Lo vedi? Siamo troppo diversi per poter stare assieme, anche se a volte, parte della nostra vita, la trascorriamo con loro.”
“Ma… perché io sono qui?”
Søren rise e iniziò a scendere la grande scalinata, e quando arrivò sull’ultimo gradino, mi accorsi che attorno a lui si era creata una folla di curiosi. Socrate stava in prima fila; poco più in là Sartre mi adocchiava, fumando. A destra c’era un gruppetto di tedeschi, al centro era Hegel, a sinistra stavano i medievali. Kierkegaard parlò ancora: “Perchè? Ma perché anche tu, come noi, sei pazzo! Non è forse la filosofia una follia? Non occorre che tu mi risponda. Sì, mio caro, hai fatto una scelta, e non si può sfuggire. Troverai mille ostacoli che ti faranno pensare di aver fatto la cosa sbagliata, quando ti desti al libero pensare, e mille volte tenterai di fuggire. Ma, amico mio! Non ce la farai! Ormai sei qui, in questo manicomio!, e questa è la tua vita, e non ne potrai mai avere una diversa. Capisci?”

Ormai non vedevo più nulla, solo gli occhi dei filosofi puntati su di me. Iniziai a discendere verso il conclave filosofico: “Sì, hai ragione… non riesco neanche a parlare, sono troppo felice! Voglio soltanto dirvi quanto sia fiero di trovarmi qui con voi! Mi siete mancati, prima ancora che vi conoscessi – e ora, ora no non vi lascerò mai più. Perché dopo questo pensiero, ce ne sarà un altro, e altri ancora! Vedete questa è la mia vita, e lo sarà per sempre, non esiste altro. Solo noi e il mondo… e nell’oscurità, gli altri a riderci addosso! Eccomi, signor Kierkegaard, sono pronto per il mio primo pensiero.”

David Casagrande

Sotto il mantello dell’invisibilità

La vita spesso mi sembra incredibilmente densa di problemi e complicazioni – anzi, sicuramente lo è. Nel mio presente ci sono la ricerca affannosa di tema e relatore per la tesi, la prospettiva dei numerosi esami spalmati nelle ultime due sessioni, il continuo paterno reminder che suona in mille varianti del “Quando ti trovi un lavoro?”, ma anche il lavorio logorante della mia coscienza, che mi ricorda tutte le altre cose che vorrei fare ma che non faccio per pigrizia. Insieme a tutto questo misuro quotidianamente la frustrazione derivante dalla mia incessante percezione di totale inadeguatezza. Per intenderci, quella che di fronte a questi problemi ti spingerebbe piuttosto ad avvolgerti nel piumone ignorando la sveglia e a chiuderti in un bozzo isolato dal mondo.

Naturalmente da quel bozzo tocca sempre uscire, allora ecco che il piumone diventa pret-à-porter: un mantello dell’invisibilità. Nel meraviglioso mondo di Harry Potter questo viene usato in “missioni segrete” a servizio del bene, io invece ho cominciato a servirmene per scopi probabilmente meno nobili e sensati, ormai addirittura dalla fine delle medie, quando ero già troppo alta e troppo tonda per non essere notata e per questo cercavo in ogni modo di non esserlo. Non volevo che vedessero quello che vedevo io.

Da quel momento il mantello mi è rimasto incollato addosso per tutta l’adolescenza, cosa che comunque non mi ha impedito di farmi degli amici – insomma, non sono né sono stata un caso disperato, però è vero che ci sono persone i cui occhi sembrano vedere attraverso un velo di apparenze e di solitudine, persone che inspiegabilmente riescono a trovarti in quell’angolino in cui ti sei asserragliato. Lasciandomi il liceo alle spalle ho cercato di liberarmi anche del mantello, eppure spesso me lo ritrovo ancora inconsapevolmente adagiato sulla testa – che è anche il motivo per cui spesso esco di casa con i capelli davvero mal raccolti e tute da ginnastica sbrindellate, convinta che facendo una così rapida apparizione nella società nessuno possa realmente vedermi.

Invece un giorno, come diversi altri giorni, sono andata a fare il pieno alla macchina nella solita stazione di servizio vicino casa. Ci trovo quasi sempre un ragazzo (tra l’altro piuttosto carino), probabilmente di qualche anno più grande di me, che lavora lì insieme ad altri due signori. Nonostante ovviamente ci abbia sempre parlato, per lo meno a livello di saluti, ovvie richieste e ringraziamenti, non credevo mi vedessero davvero. Invece quel giorno il ragazzo mi guarda e dice “Ti sei tagliata i capelli!”.
SBAM.
Così, “Ti sei tagliata i capelli”. Nemmeno una domanda, era una sicura affermazione. E’ stato come se mi avesse strappato il mantello di dosso e mi fossi ritrovata nuda di fronte a lui.

Ci sono così tante, così tante persone che pascolano in questo mondo che uno davvero comincia a perdere coscienza del proprio significato di individuo; così tante persone che nascono e muoiono ogni giorno nell’anonimato che alle volte devi proprio sforzarti per credere di fare la differenza, d’essere seriamente speciale. Perciò uno non si aspetta di essere riconosciuto come individuo in mezzo ad una moltitudine del tutto indistinta (per esempio i clienti di una stazione di servizio). Eppure, a quanto pare, alcune volte può succedere – infatti quel giorno è successo: il mantello è volato via con un gesto talmente improvviso e violento da lasciarmi stordita per almeno un paio di secondi e solo poi è arrivata quella sensazione di… direi di calore, come qualcosa che lentamente si scioglie al sole. E’ come quando per una volta la compagna di corso non ti dice “Non ti ho vista ieri a lezione”, invece con aria quasi di rimprovero commenta “Ieri ti ho vista a lezione ma sei scappata via subito”. Oppure come quando qualcuno che ti è stato appena presentato, dopo svariati minuti riesce ancora a ricordarsi il tuo nome. Piccole cose, ma che ti ricordano che nonostante tutto (il timore, il senso d’inadeguatezza, la moltitudine di anime) sei ancora collegato a questo mondo, sei una tessera del puzzle incastrata al suo posto, concavo con convesso e dritto con dritto, ed anche se il puzzle ha più di sette miliardi di pezzi e a guardarlo non si riesce ad avere la percezione della mancanza di qualcosa, comunque quel buco ci sarebbe, esisterebbe.

Perché esistere, nonostante tutto, non può essere una cosa da poco. Sono sempre stata convinta che in un certo senso dobbiamo meritarci il nostro stare in vita su questa terra: essere gentili e disponibili con il prossimo, comportarsi secondo i dettami della società civile, magari fare qualcosa di concreto per arginare le ferite di questo mondo malato; ma la verità è che non facciamo cose buone 24 ore su 24, giorno dopo giorno: ecco perché è piacevole a volte essere riconosciuti e notati solo per il fatto che esistiamo, indipendentemente da quello che facciamo in quel momento, io e proprio io, io così come sono, io e basta. Ci sono delle volte in cui essere visti fa la differenza, semplicemente riscalda il cuore. Quel mantello infatti, nonostante spesso nasca come forma di protezione, silenziosamente può diventare una gabbia. Quei piccoli sciocchi momenti sono come l’apertura dello sportello: mi rendo conto che posso uscire, se lo voglio. Eppure, la consolazione di quel minimo riconoscimento vale più di mille parole, più di mille sogni: “So che esisti. Non per uno scopo, non per una qualche necessità, semplicemente: so che esisti. Dunque, cerca di ricordarti sempre che tu esisti”.

Giorgia Favero

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Se questa è filosofia (seconda parte)

Per riprendere e avviare verso una possibile conclusione un discorso che forse è inconcludibile (e che ho aperto qui), credo che ci si debba ora chiedere come si sia arrivati alla sostituzione della filosofia con la sua filologia e storiografia. Le linee di riflessione attorno alle quali propongo di andare alla ricerca di una possibile risposta, sono essenzialmente due.

Primo. Un costante accrescimento del fenomeno della reificazione, introdotta forse, e forse involontariamente, nel pensiero occidentale dalla logocentrizzazione operata da Platone. Dialettica che è diffusamente descritta da diversi autori, ciascuno nei suoi propri termini ma tutti accomunati dal fil rouge della riduzione dei margini del pensare: dall’heideggeriano oblio dell’Essere all’unidimensionalità marcusiana, dalla francofortese dialettica dell’illuminismo alla benjaminiana riproducibilità tecnica dell’arte, dalla andersiana antiquatezza dell’uomo alla pasoliniana omologazione e mutazione antropologica – sia chiaro, en passant, che nessuno di questi autori è un passatista antimodernista critico di ogni cambiamento e della modernizzazione in sé, la critica è invece verso una certa, questa, modernizzazione.

Secondo. Eppure, il filone di riflessione qui sopra accennato non assume quel certo sviluppo come una necessità, ma come una possibilità – almeno fino ad un eventuale punto di non ritorno. Resta quindi da dar conto del fatto per cui tra quella possibilità ed altre, abbiamo imboccato proprio quella – che stiamo vivendo. E qui si devono fare i conti con un tema troppo trascurato: la brama di potere. Infatti, chi vuole detenere un potere può farlo solo se e quando lo stesso può esercitarsi su cose. Il potere è infatti potere di disporre delle cose, ma per disporne bisogna poterle afferrare e per poterle afferrare devono essere oggetti. Un sovrano come può disporre della popolazione se non riducendola prima ad oggetto, pertanto impersonale, del potere – si noti che la legge designa sempre individualità impersonali? Un medico come può disporre di corpi se non riducendoli prima ad una somma di leggi che lui sa gestire? Un accademico che sia interessato ad amministrare le decisioni dell’accademia come può legittimarsi se non riducendo il sapere ad una somma di nozioni che lui sa amministrare? E possono costoro accettare che una possibile diversa ermeneutica metta in discussione quella certa epistemologia che serve loro per essere legittimati nel possesso del potere? Evidentemente no. Ecco che una certa forma della conoscenza, reificata, nozionistica, si impone come l’unica forma possibile, rappresentando il necessario fondamento epistemologico per il possesso del potere.

Fino a quando non faremo i conti anche con le miserie dei singoli individui, oltre che con la descrizione delle marco-dialettiche in cui viviamo, continueremo a stare nell’equivoco di scambiare per dato di fatto oggettivo quella che invece è una certa modalità di interrogare il mondo – e sia chiaro che il mondo risponde in base a come è interrogato.

E tuttavia questo sembra essere il classico cane che si morde la coda: più si accrescono quelle macro-dialettiche, più diminuisce la capacità di leggere il singolo al di fuori delle stesse, ovvero, la sensibilità di percepire l’epistemologia in cui ci si trova e altre possibili.

Per concludere sgombrando il campo da possibili equivoci, in questi due brevi articoli andati sotto il titolo di Se questa è filosofia, ho cercato di mettere in evidenza la differenza tra il pensare e lo studio del pensato. Differenza particolarmente trascurata in ambito umanistico, arrivando fino alla grottesca indistinzione tra filosofia e sua filologia e storiografia. Con questo però non intendo dire che allora la filosofia sarebbe quella che socraticamente si fa per strada, che necessariamente è al di fuori dell’accademia, oggi prevalentemente nello spettacolo dei mass-media. La differenza che ho cercato di mostrare non ha a che fare primariamente col luogo in cui si fa filosofia, pensiero – da qui poi tutta la retorica della critica alla torre d’avorio, retorica che però si dimentica che anche la strada è una torre d’avorio quando ci si rifugia in essa senza considerare cosa sta avvenendo in essa e tagliando aprioristicamente con tutto ciò che è fuori di essa. Limitandosi alla solo critica della sede, infatti, può benissimo rimanere il peccato originale: il rivolgersi a un’audience, a un pubblico, anziché a un altro se stesso.

La differenza essenziale tra lo studio e/o la divulgazione del già pensato e il pensare, sta nel fatto che la prima cosa ha a che fare con la fruibilità, la spendibilità, mentre il pensare è un discorso per, a se stesso – a cui solo secondariamente accede un altro, potendovi accedere solo perché il modo in cui chi pensa per se stesso si rivolge a se stesso è storicamente simile al modo in cui si rivolge ai propri simili. Nel primo caso quindi il pensato altrui ed il proprio è ridotto a moduli spendibili, presentabili alla comunità scientifica, per la verifica e l’incremento delle citazioni, o al grande pubblico, per l’applauso e la commercializzazione. Nel caso del pensare invece, il pensiero altrui, lungi dall’essere qualcosa di cui bisogna essere in grado di dar conto, è un suono in cui quel che conta sono alcuni frammenti che risuonano in noi, fertilizzandoci, unendosi al nostro suono interiore, e portandoci così a comporre un altro suono, il cui valore e significato risiedono solo in colui in cui quel suono risuona, non essendo quindi sottoponibile ad alcun tipo di misurazione e valutazione. Questa è la via dell’alta cultura e dell’arte.

Quel che regge questo mio discorso quindi è l’intendere la filosofia non come scienza, ma come arte. Va da sé poi che una cosa è fare arte, e un’altra è studiarla o commentarla o divulgarla. Differenza che si potrebbe con semplicità rendere nella distinzione tra cultura e sapere.

Ora, è certamente ingenuo, infantile, assurdo chiedere che la civilizzazione occidentale si riorienti in direzione di quella che ho qui definito come cultura (quindi arte, di cui la filosofia potrebbe essere una manifestazione), anziché, come è ed è sempre più, in direzione di quello che qui ho definito come sapere (quindi scienza, compresa quella umana, di cui filologia e storiografia della filosofia sono esempi).

Tuttavia, chi si occupa di questi temi, dovrebbe perlomeno aver chiara la distinzione tra cultura e sapere. E chiedersi se nei luoghi deputati alla cultura (siano essi le università, i libri, i giornali, i siti, le associazioni culturali…) non si faccia invece nient’altro che sapere.

E se così è, che fine fa la cultura?

Federico Sollazzo

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Filosofia: alla ricerca di un perché

«Perché?»

Questa è la domanda più frequente che mi viene rivolta quando rendo qualcuno partecipe della scelta in merito al mio percorso di studi universitario. E devo ammettere che mi trovo sempre in difficoltà su che risposta dare. Non è una questione banale come può sembrare, perché ha a che fare con l’intimo del proprio Io. Forse la domanda è proprio la risposta.

Cerco di spiegarmi meglio.

Fin dalle sue origini la filosofia occidentale si è dedicata al definire, circoscrivere e determinare – con le possibili eccezioni di Epicuro e successivamente Spinoza. Volenti o nolenti, questa è la nostra storia, e ci abbiamo a che fare ogni giorno della nostra esistenza. Così recitava la Dea nel poema di Parmenide Sulla Natura in relazione alle uniche due vie di ricerca che si possono pensare: «[…] l’una che “è”, e che non è possibile che non sia […] l’altra che “non è” e che è necessario che non sia»1. Su queste poche e a prima vista semplici parole si è scritto, discusso e dibattuto per secoli fino ai giorni nostri (basti vedere l’analisi filosofica contemporanea di Emanuele Severino), senza che mai si sia trovata un’interpretazione che accordasse tutti i pareri. Il problema – che ha appunto a che fare con tutti noi ogni giorno – è quello di definire qualsiasi cosa in modo univoco, perdendo quindi inevitabilmente il suo collegamento con il Tutto. È sufficiente pensare a Socrate e al suo metodo interrogativo: egli rivolgeva la domanda: «Che cos’è?» in relazione a qualsiasi cosa, con una sua conseguente determinazione. Proviamo ad applicare questo metodo alla nostra indagine: «Che cos’è la Filosofia?» Ecco un’altra questione dibattuta all’inverosimile senza risultato. E dal mio punto di vista è proprio la mancanza di una risposta uniforme a “salvarci”. Abbiamo trovato qualcosa che non può appartenere a categorie determinate, che non può essere definito in modo univoco e che riesce a sfuggire a quel meccanismo di circoscrizione che scuole di pensiero orientali come il Taoismo criticherebbero in modo ferreo. Qui entra in gioco la nostra personalità, il nostro essere diversi dagli altri. Ma la differenza sta proprio in questo diverso: è un diverso che non delimita – se vissuto in una certa maniera – bensì amplifica il risultato dato da ogni particolare che contribuisce all’essere della Filosofia.

La Filosofia ha a che vedere con il pensiero, inteso sia come pensiero personale di ogni individuo sia come pensiero in quanto tale. Sempre Parmenide nel sopracitato poema affermava: «Lo stesso è pensare ed essere»2. Il pensiero condivide con l’Essere la caratteristica di rinviare all’orizzonte ontologico della presenza: non ha confini o restrizioni, è libero e proprio questa è la sua grande forza. Proprio in relazione al pensiero, forse il contributo essenziale che ha apportato la filosofia occidentale è quello della ragione. A mio modo di vedere il problema sta nel fatto che ormai – forse da sempre – la razionalità determini la nostra filosofia, perdendo quindi quel collegamento iniziale con sé e la totalità che dovrebbe animarla. Perché, anche solo chiedendoci cosa essa sia, abbiamo determinato – se non la risposta – almeno il “modo” di rispondere. Ecco cosa intendevo affermando che forse la risposta viene a concordare con la domanda. “Perché?” è una porta che si apre al trascendentale, un viaggio nella vita alla ricerca di un qualcosa che poi riconosciamo combinarsi ed appartenere alla ricerca stessa.

La filosofia ha anche – soprattutto oserei dire – a che vedere con la vita quotidiana. È triste osservare come essa sia stata rinchiusa nelle facoltà universitarie, vanificando il suo scopo fondamentale: sorreggere la vita dell’Uomo, come messo semplicemente ma efficacemente in luce dallo scrittore svizzero Alain De Botton, ripreso anche dal periodico Internazionale3.  La sua utilità è imprescindibile nel quotidiano, ma ci si accorge di ciò solamente interiorizzandola ed applicandola. Non è difficile, la maggior parte delle volte è sufficiente solamente porsi degli interrogativi, che possono evitarci i pericoli del senso comune e dei luoghi comuni. E molto spesso la domanda è proprio quel particolare “Perché?” di cui abbiamo parlato finora. “Perché?” è un uccello che spicca il volo nel cielo della possibilità, che non si lascia imprigionare nella gabbia dell’opinione di massa anche se sembra accogliente e sicura. “Perché?” è il coraggio di Ragionare con la R maiuscola: di riflettere su ciò che accade criticamente, senza farsi mettere le parole in bocca da qualcun altro. “Perché?” è la nostra vita, fatta di impervi valichi da scalare, misteriosi passi da scovare ed incontaminate valli da scoprire.

«Perché Filosofia?», quindi.

Ora posso rispondere: «Perché no?»

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE:
1. Parmenide, Sulla natura, B2
2. Ivi, B3
3. A. De Botton, Perché la filosofia ci aiuta a vivere meglio, “Internazionale”, 20 febbraio 2015.

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