La tenacia tra Kierkegaard ed Hesse. Un ricordo per Giulio Regeni

«Sii te stesso è la legge ideale, per un giovane almeno; non c’e altra via che conduca alla verità e allo sviluppo. Che questo cammino sia reso impervio da innumerevoli ostacoli morali e altri impedimenti, che il mondo preferisca vederci rassegnati e deboli anziché tenaci: da qui nasce la lotta per la vita per chiunque abbia una spiccata individualità. Perciò ciascuno deve decidere per sé solo, secondo le proprie forze e le proprie esigenze, fino a che punto sottomettersi alle convinzioni, o piuttosto sfidarle»1.

A Copenaghen, poco meno di due secoli fa, il filosofo da molti considerato padre dell’esistenzialismo, Søren Aabye Kierkegaard, si rivelava al mondo letterario come fiero patriarca della categoria della soggettività nella sua costante e forte opposizione ad ogni forma di massificazione, al placido e sotterraneo schiacciamento della personalità.

Egli rendeva, tramite i suoi scritti, l’uomo del tempo (passato e presente) consapevole della luce che le gemme della volontà, del salto paradossale e del consapevole ribellarsi alla morale corrotta sprigionano all’interno dell’oscura e umida grotta dell’omertà, presso cui le anime più meste e timorose trovano temporaneo rifugio.

Oggi rileggendo tra le migliaia di pagine scritte di suo pugno si può scorgere in lui la volontà di elevare a nota più alta e fondativa, nel confuso spartito della vita, il suono roboante e spiazzante di quella tenacia che vede in Hermann Hesse, nel  Novecento, il suo più fertile rappresentante.

Si tratta di una tenacia tramite cui abbattere i muri del qualunquismo e della debole volontà di giustificare anche le più profonde e consapevoli nefandezze umane, relegandole a una volontà altra, in una sorta di inconsistente necessità predestinante nella quale ognuno dei cinque sensi viene, inspiegabilmente, a ricevere l’estrema unzione.

Hesse, ‘poeta dell’anima’ (come lui stesso era solito definirsi), si accosta, idealmente, al pensiero del filosofo danese, maieuta dell’esistenza consapevole e matura, in quella ricerca del sé che nel vortice, macchiato di tinte forti, del divenire umano si sviluppa nella metamorfosi o, meglio, in quel moto rivoluzionario che la crisalide compie da quel gelido e congestionato stato embrionale allo svelamento delle sue ali da farfalla, allegoria della libertà. Così la muta larvale dell’individuo esplode nello sbocciare della personalità.

Lo scrittore tedesco sostiene a gran voce l’importanza, nell’esistenza, della personalità autonoma, responsabile di sé, consapevole del proprio tribunale interiore.
E, proprio qui, questa riscontra la propria ricercata, naturale, ambita e fertile catarsi che solo una profonda coscienza di sé riesce a concedere.

Ricordando persone che, nel loro ambito (filosofico e letterario, in questo caso) hanno segnato un punto nella storia, hanno lasciato una traccia, un campo ricco di semi di cui prendersi cura, la mia mente si àncora ad un fatto di cronaca lacerante, e senza pace, vettore di grande (in)sofferenza, assai recente.

Penso agli ultimi mesi e ultimi momenti di vita di Giulio Regeni, alla sua intraprendenza, alla sua ricerca di una verità importante, non solo una ricerca accademica, ma una ricerca di un senso, nella vita.

Una ricerca che, se pur fenomenica, non va − come spesso accade − in direzione di sé, favorendoti un certo status sociale, i plausi delle persone o qualche altra debole e temporanea forma di tributo. No, questa storia, di cui si può sapere sempre più, spendendo anche solo qualche minuto al giorno sui vari motori di ricerca (in cui siamo sempre più impegnati), mostra al mondo l’importanza di scontrarsi con un quesito, un macigno pesantissimo, che nemmeno Atlante avrebbe potuto tollerare.

È una domanda che conduce al perché la ricerca della verità possa essere a tal punto ostacolata da macchiarsi di ore interminabili di tortura, di umiliazioni, di ignorante e malefico predominio; al perché la verità e la tutela di realtà che spesso vengono taciute possano aprire un varco in quel circolo infernale che si nutre di quel male che la stessa mamma di Giulio ha tristemente dovuto riscontrare sul volto del figlio, devastato da ogni forma di violenza.

La forza del ricordo è forse l’unico strumento che, portando in alto, dipanando sempre più la forza della voce delle persone a lui più care, che invocano giustizia e, soprattutto, verità (per sé, per noi, e soprattutto per lui), possiamo e dobbiamo utilizzare, diffondere e seminare ciascuno in sé e all’altro, non solo per impedirne la dimenticanza ma per vedere fiorire proprio ciò che forse Giulio andava cercando: la forza della verità, nella tenacia della sua ricerca.

«Per la terra vanno tante strade e vie, ma tutte hanno la stessa meta. Puoi cavalcare o camminare in due o in tre… L’ultimo passo devi compierlo da solo. Perciò, non c’e sapere o facoltà che valga come fare quanto e arduo da soli»2.

 

Riccardo Liguori

 

NOTE:
1. H. Hesse, Il coraggio di ogni giorno, Oscar Mondadori, Milano, 2011, pag. 3.
2. Ivi, pag. 45.

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La terza via probabilistica

Lo avvertite? Riuscite a sentire questa strana sensazione? Voglio fermarmi qui con voi, su questa pagina ancora bianca. Perché siamo qui? Che valore ha questo spazio che ci è concesso? Provo una sensazione e credo che la sentiate anche voi, potete negare e mentire ma non potete sfuggirvi. Cerco di scrivere le parole migliori, come voi, ogni volta che cercate di farvi comprendere, di far risultare sensato e comunicativo un discorso attraverso una selezione di parole, in un incredibile gioco linguistico che vorrebbe accomunarci tutti, direbbe Wittgenstein. Eppure siamo qui, sono qui e ancora devo dire qualcosa. L’insicurezza gioca un gran ruolo nelle nostre vite, nelle nostre possibilità. L’insicurezza può addirittura negare, uccidere la dimensione potenziale, basti pensare che il non agire è da considerarsi comunque un agire. Sono qui e agisco, su di me, su di voi, su questo testo, e mi pongo mille domande, mille dubbi su ciò che potrei creare ed esprimere.

Nei meandri del gioco letterario dello scrivere, ogni scrittore ha dei pensieri fissi, delle cose da donare al mondo e alle infinite pagine bianche che si presentano nella nostra vita. Un fine c’è, insieme ad un’idea che ci corrompe, che si insedia in noi, che guida i nostri discorsi e ci fa dire quel che lei vuol dire. Certe visioni del mondo possono essere davvero pessimistiche, realistiche, o peggio semplicemente passive. Io stesso sono qui a combattere certe mie idee, certi agenti di corruzione. Eppure sto scrivendo e lo faccio sì con delle immagini, ma soprattutto con delle sensazioni. La psicologia divide la nostra topografia mentale in tre grandi zone: la zona del pensiero, la zona dell’azione, ed infine la zona che rappresenta l’incredibile spazio del “sentire”. Sto sentendo tutto questo, la sensazione di cui vi parlavo all’inizio vorrei condividerla con voi: una tensione verso un qualcosa di indefinito, di irrimediabilmente sfuggevole. Mi verrebbe in mente una sorta di “élan vital”, per dirla alla Bergson, che ci fa tendere verso… verso cosa? Inconoscibile, noumenico, ignoto, dategli l’interpretazione che volete, ma datela. Date un contributo anche voi, perché so che lo state facendo durante questa lettura, come si fa con ogni cosa che leggiamo, viviamo, o appunto sentiamo. Siamo in costante ricerca, siamo animali migratori che non si danno pace finché non trovano quella che potranno definire “casa”, anche se, probabilmente, per molto meno tempo di quanto si potrebbe immaginare. Siamo nomadi mentalmente, non abbiamo una casa, non siamo mai soddisfatti del qui ed ora, di ciò che ci fa stare qui, in questo esatto punto in cui si è o si dovrebbe essere. È la costante ricerca di un’ideale, di un’immagine, o di una sensazione mai provata e che speriamo di poter scoprire; un pensiero da scartare come un regalo inaspettato. Qui mi insedio, qui il pensiero che mi corrompe si fa passivo e subisce quel che voglio dire, cioè che voglio agire nell’unicità dell’azione che ci è concessa, prendere le redini di me stesso, della mia vita. Scelgo la terza via in un bivio, vado controcorrente, o meglio mi ritaglio quella possibilità che ad ognuno di noi è concessa, ma che molto spesso non si vede o non si vuol vedere.

In una condizione tale, in un’infinita tensione verso qualcosa di indefinito possiamo riscoprire noi stessi, il nostro senso di stare nel mondo e di porci nella dimensione del rischio. Mi piace molto quest’idea di territorio inesplorato, pericolante, che dà meno certezze di quel che si potrebbe sopportare come essere umani razionali. Ed è proprio entrando nella logica probabilistica che riscopriamo valori, identità e identità dell’azione. Ci banalizziamo e consegniamo tutta la nostra dimensione ontogenetica a quella filogenetica senza rischiare, senza essere. Una scommessa pascaliana sulla vita, sulla formazione, ci apre lo spazio, la trascendentalità della dimensione incerta, del rischio umano e della probabilità che non ci darà mai la perfezione statistica. La formazione, un concetto incredibile che è insito in noi, sul quale scommetto, sul quale addosso il titolo di terza via che sopprime la logica biunivoca, il bianco e il nero attraverso i quali vogliamo vedere una vita vera o una vita falsa. Attraverso il sentiero che dobbiamo avere il coraggio di tracciare, scavando tra le mille inutilità che si presentano davanti a noi come verità, ma che verità non sono. La formazione non cerca la verità, non si pone come risoluzione ma come percorso. «Non un traguardo da raggiungere ma strade da attraversare», volendo rileggere Nietzsche in chiave pedagogica. Già nella modernità le varie dispute religiose, le riforme, e le revisioni dei concetti di fede, hanno portato l’uomo a sviluppare qualcosa. Un’originaria incapacità e la mancanza di strumenti hanno portato a realizzare che gli strumenti erano già in noi e che andavano cercati nell’interiorità, andavano sviluppati al nostro interno attraverso una via non immediata. Penso che questo possa essere il punto di partenza per capirci, per ripensare la pedagogia e la formazione proprio ora che ne abbiamo più bisogno, ora che ci siamo consegnati ad una crisi spirituale, una crisi di valori e intenzioni che svaluta noi stessi e quelli che saranno in futuro con noi. Un passo, anche se piccolo, è pur sempre un avanzamento che ti porta più avanti nella strada che si ha davanti; e lo stesso agire, se incontra la rinuncia, si perderà per sempre se non viene compiuto da noi in quel preciso momento.

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

Apologia del vuoto

Una sera di tante sere ero distesa sotto le coperte ad aspettare un sonno che non arrivava. C’era la testa che brulicava incessantemente di pensieri scomodi e nello stomaco una sensazione di dolorosa pienezza con relativo senso di nausea, seppur leggero, che mi dava ulteriormente da pensare. Quella sera di tante altre sere ho voluto indagare di più queste sensazioni, arresa al fatto che il sonno non osava presentarsi all’appello.

Per quanto riguarda la testa, si trattava di un groviglio di preoccupazioni che vanno attualmente a finire sullo stesso capo: la tesi. La tesi che per ora è ancora meno di una pagina vuota. Per lo stomaco, si trattava di quel classico cliché per cui sostanzialmente si mangia nel tentativo di riempire un vuoto interiore.
Pieno e vuoto, opposti ma anche continui. Una vita piena di attività ma inaspettatamente priva di emozioni realmente felici, un’apparente assenza di problemi che invece cela miriadi, costellazioni di problemi, una vita di stenti punteggiata di quotidiane magre soddisfazioni. Così vicini, il pieno e il vuoto, che sembra un attimo passare dall’uno all’altro, come con un semplice passo.

E invece no: viviamo nella convinzione costante che ‘vuoto’ non vada bene. Per esempio, un’alimentazione ‘con’ sarà sempre preferibile ad una alimentazione ‘senza’, e non importa se magari in quel ‘con’ c’è qualcosa che ci fa del male, perché l’importante è avere: traiamo la nostra soddisfazione dalla semplice, banalissima idea di non doverci privare di qualcosa. È la nostra deformazione occidentale, la nostra cultura del ‘sempre di più’, della frenesia; e poi ci sono le filosofie orientali, i cantori del poco, dell’essere felici senza volere altro, beatamente ignoranti della nostra contrapposizione secolare dell’essere e del non-essere.

Rovesciamo i luoghi comuni, proviamo a pensare che il vuoto non è solo tale, che non necessariamente il vuoto è nero e fa paura: pensiamo piuttosto al mu (in giapponese), il vuoto orientale, che non è veramente vuoto, non è propriamente non-essere ma un essere in potenza, un’assenza contingente, è energia; è la pagina bianca prima che vi si scriva una parola, l’intervallo tra due note musicali, lo spazio tra le mani che stanno per scontrarsi in un applauso. Come l’universo, che sembra vuoto e invece a quanto pare pulsa di energia invisibile.

Nella dottrina zen (declinazione giapponese di un ramo del Buddhismo nato nel VII-VIII secolo) si va ancora oltre: il vuoto costituirebbe l’essenza stessa e naturale delle cose, visibile solo con il raggiungimento dell’illuminazione. I maestri zen la rappresentano con un cerchio (ensō, in giapponese), simbolo del fluire della vita e dell’universo, un segno morbido con un vuoto (o pieno?) al centro: il vuoto e la forma sono dunque una continuità, un tutt’uno, per cui nello zen cogliere con immediatezza il vuoto significa anche cogliere la forma che vive insieme ad esso.
Anche in Occidente qualcuno, su questa straordinaria idea, ha deciso di rifletterci un po’ su. Yves Klein ha riempito tele e tele di una omogenea pittura blu, solo blu, e nel 1958 ha svuotato la galleria di Iris Clert a Parigi e ha rivestito tutto di smalto bianco, come a dire “Non è semplicemente vuota”; infatti c’è andato anche Albert Camus, che è rimasto impressionato da quel «vuoto pieno di potere». Poi c’è John Cage, che una volta nel 1952 ha dato un concerto per pianoforte in tre movimenti: si è seduto allo strumento, si è sistemato sullo sgabello, e per 4 minuti e 33 secondi non ha fatto niente; poi si è alzato e se n’è andato. Ma quel silenzio non è stato silenzio: si è riempito del rumoreggiare del pubblico in sala, delle imperfezioni sonore dell’ambiente, per cui il vuoto di musica non è stato un vero vuoto. Il vuoto è sempre pieno di qualcosa.

Queste storie dell’arte mi hanno molto suggestionata perché mi sembra di aver passato davvero troppi anni a lottare con questo vuoto che sentivo – che sento ancora –, cercando continuamente di riempirlo: con la vita quotidiana, con le canzoni, i film, i musical, l’arte, i libri, le serie tv, i romanzi e sì, persino con i biscotti; prendo in prestito brandelli di vite e di emozioni da parti e mondi esterni per sentirmi dentro qualcosa, perché sono incapace di percepire che dentro ho già qualcosa, il che significa che non so apprezzare tutto quello che ho, e nemmeno l’assenza di qualcosa che inconsciamente mi alleggerisce. Per esempio, è soprattutto il vuoto che ci dà la possibilità del nuovo: il vuoto è di per sé una ricerca del futuro. E invece continuo a soffrire della mancanza, mi struggo, urlo, non ne so uscire. Sono occidentale, niente mi basta mai. Mi sforzo ancora, cerco di vederla – di vedermi, in effetti – in modo più ‘orientale’: alla continua ricerca della pienezza nel mio vuoto.

 

Giorgia Favero

 

[Immagine tratta da Google Immagini, opera di Hakuin Ekaku (1686-1769)]

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Alla scoperta di me

Avevo 14 anni quando, varcando le porte il primo giorno di liceo, mi prefissai degli obiettivi promettendo a me stessa di non mancarli, mai, qualsiasi sarebbe stato il costo dei sacrifici necessari per giungervi.

Non mi sono mai fermata, nemmeno un secondo, neanche un attimo, un Natale o un Capodanno… neanche il giorno della laurea il cervello ha fatto pit stop; non era necessario.
Non ho goduto nessun momento degli ultimi dieci anni, troppo proiettata verso il domani, troppo concentrata sulla corsa che, estenuantemente, mi stava conducendo a tagliare il mio traguardo.

E le stagioni mi sono scivolate tra le mani, tempo non vissuto che, come sabbia, passa tra le dita lasciando solo alcuni granelli a ricordare ciò che è stato perso nell’impossibilità di riaverlo.

Così, persa nei meandri di un piano strutturato verticalmente e rigidamente costruito anno dopo anno, mi sono fermata, bloccata dalle mie pretese verso me stessa per il raggiungimento di uno stato di perfezione totale, e mi sono
scoperta spaesata; realizzata certo, ma spaesata.
Abitante di una città da me fondata della quale non mi sento cittadina.

Ho camminato per giorni, viaggiatrice di me stessa, bramosa di entrarne a far parte fino a quando, satura, stanca, mi sedetti sulla cima della torre dell’orologio… e mentre le lancette scandivano incessanti minuti di un’alba
nuova, inclinando la testa per scorgere l’orizzonte, ho visto arrivare verso di me tutti quei macigni e fardelli che, durante la mia corsa, avevo scansato, evitato, saltato e ignorato. Mi hanno raggiunta, e io sono totalmente impreparata ad affrontare i resti di una montagna che credevo crollata alle mie spalle…

Mi sono chiesta più e più volte i perché intrinseci di tutto ciò: del mio non fermarmi mai, della mia determinazione che non prevede limiti.
Determinata fino al limite della sconsideratezza.
Determinata a raggiungere la perfezione.
Determinata ad essere, non ad apparire.

La determinazione mi ha spinta verso un desiderio profondo, quasi subdolo e ingannevole, di voler primeggiare, con il solo scopo di non sentirmi sbagliata.

Solo oggi ne prendo coscienza, mentre, con le mani tremanti e gli occhi carichi di lacrime, sollevo macigno dopo macigno, leggendo attentamente tutte le domande incise sopra, domande a cui credevo di poter non dare risposta, a cui ora DEVO dare risposta.

E la piccola me non crede di essere pronta ad ascoltare se stessa, spaventata dall’incessante ricerca di scrivere finalmente la conclusione a quel lungo libro che è stata la mia vita PRIMA, in attesa trepidante di vedere cosa ci sarà dopo.

Nicole Della Pietà

[Immagine tratta da Google Immagini]

Io sono abbastanza

“Io sono abbastanza.”

Me lo devo ripetere infinite volte, quasi a svestire le parole stesse del loro più intimo significato, per convincermi, per capire, per regalarmi possibilità che ho negato a me stessa, nella distorta visione di non valere, di essere insignificante.

“Io sono abbastanza.”

Devo sussurrarlo piano nella mente, una cantilena che accompagna le notti estive, irrigate dalle lacrime che la paura di aver coraggio di buttarsi porta con sé.

Io sono abbastanza per poter sorridere, per poter consapevolmente scegliere di percorrere la strada che più mi rende felice… perché ognuno di noi, in fondo, sa esattamente quale sia il percorso da compiere per giungere al sorriso che culla i sonni. Tuttavia, il lavoro interiore da compiere per “autorizzare” il proprio io a travalicare il confine è estenuante, logorante, distrugge ciò che era, quasi a sottoporre l’individuo ad una prova pratica: se dalla distruzione riuscirà a ricavare nuova vita, la linea di mezzo si dissolverà, lasciando spazio alla serenità.

Perché quando tutto va male, quando la montagna inizia a crollare macigno dopo macigno e il tuo corpo cade nel vuoto, la mente corre a ritroso, cercando di individuare il passo falso che ha smosso il primo, minuscolo, insignificante sassolino… e gli errori non potrebbero apparire più nitidi, come pugnalate sferrate con foga dal rimorso che per anni ha divorato l’animo, sussurrando incessantemente che non sono abbastanza, che ho meritato ogni taglio, ogni graffio, ogni lacrima…

Rincorro la perfezione, perché il minimo segno e gesto di approvazione mi danno l’attimo di orgoglio e tranquillità per poter credere di valere; ma il velo si scosta, la realtà è come il vento del nord, forte e fermo, in grado di spazzare via le difese e le maschere che celano e, molte volte, proteggono fragilità.

E l’ultimo millimetro, mi separa dal terreno, dall’inevitabile distruzione di ciò che è stato.

Dentro di me urlo, urlo che ne vale la pena, che trasformare i resti di me in qualcosa di nuovo è giusto, perché io “sono abbastanza”… Lo urlo, ma non sento.

Me lo chiedo, se ciò che credo possa essere, se l’aver preso la mia vita, averla distrutta e ricomposta sotto nuova forma, è stata la scelta giusta per me, se il sorriso di oggi sarà anche domani presente… se tutto ciò è realtà, verità… o se è solo inganno della mente… se è solo nebbia tra gli alberi di montagna dopo il temporale: destinato a svanire, quasi a non esserci mai stato.

Nicole Della Pietà

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Io, quaestio io – La libertà dell’Io

Io, quaestio io, che non sono ciò che appaio e che non faccio mio ciò che gli altri dicono che io sia.

Io, uomo, carnefice delle mie apparenze e delle mie Arie; quaestio Io che lotta perennemente contro le sue molteplici e discordanti voglie e che non può far a meno di dichiararsi guerra se non quando dal mondo arrivi un’aria – quella pesante e omologante – dalla quale non si riesce a percepire, compiutamente, la quantità di potenza e sapienza che rendono conto – e giovino – appieno dell’irrimediabile posa e portata soggettiva che si ripone nei termini di ‘Essere’ e ‘Essenza’.

Io, in quanto uomo, non sono che un Io, originalissimo, sempre imbellettato di questo come di quell’argomento: Io come concetto irrisolvibile, sempre in pena, sempre alla ricerca di un nuovo superamento o di un nuovo annullamento. Eccomi, come una sorta di ‘Impossibile a divenire’, o tuttalpiù come un Faust che gioca a dadi col Tempo e le sue tentazioni; l’ignoto, il dubbio, l’inquieto vivere di un’anima che non trova un mare, un ideale massificante, nel quale annegare. Io, quaestio io, un cumulo di segni, gesti ed espressioni su tela in tecnica mista che non vuole risolversi in un unicum artistico: un Io senza dubbio illuminato da una luce inspiegabile, una sorta di follia beneaugurante.

Di nuovo, eccomi, spoglio dalle censure del mondo e dai cosiddetti, psicologicamente, Altri: libero, presuntuosamente presente, su un palcoscenico intellettualmente sempre sconosciuto: eccomi, libero, danzare come un potente dio sulle note di mille vite, attraverso colori, forme, dizioni, metafore e congiunzioni. Un dio mi attraversa, mi rende potente ed al tempo stesso solitario: colmo di lacrime, di pena e ancora di follia, di presunzione, di forza e di coraggio.

Io, quaestio io, che morde il tempo; che ritaglia spazi e costruisce congetture per darsi la massima libertà in un mondo e in una società che, ahimè, inscatola la Libertà in un concetto fin troppo semplice. Cos’è la Libertà? Alcuni dicono che la libertà di un individuo abbia come limiti la libertà del suo interlocutore, eppure la Libertà è un concetto fin troppo aleatorio, cangiante e soggettivamente opinabile: quindi, cos’è la Libertà se non l’arrogarsi il diritto, con la conseguente potenza, di dir la propria in barba al giudizio degli altri e del mondo intero?! È o non è, la Libertà, questa mia perenne ricerca di un ‘Me stesso’ tra i meandri di un Io costruito attraverso giudizi, opinioni, sindacalizzazioni, pregiudizi di Altri e del Mondo?!

Io, quaestio io, in perenne viaggio tra le beghe di una moltitudine di Essenze, di Esseri, di Nulla, di Mondo, alla ricerca di Me stesso, della mia potenza, di una mia probabile influenza e di una sorta di Fine di Me stesso.

Attraverso gli altri e il mondo, in perenne viaggio tra mille vite e mille valori e ideali, alla continua ricerca di un Vero Essere, oltre le apparenze e le appartenenze, ivi alla ricerca della mia Morte: sì! Alla ricerca della mia morte, della morte dell’essere costruito dagli Altri e dal mondo. In viaggio alla strenua ricerca della morte del prodotto di questa libertà qual sono diventato: di tutta quella mia ‘Arte al condizionale’. Praticamente, sono alla ricerca di una dissoluzione in terza persona.

Salvatore Musumarra

Chiamare le cose con il proprio nome

Qual è il problema? Quale può essere secondo voi? Giusto, già presuppongo che ce ne sia davvero uno, un problema di fondo, una questione irrisolta, un cerchio mai chiuso. Incomincio questo articolo senza basi, senza strutture solide, non ho prove e fondamenti di questa mia scoperta che sto proponendo. Dunque un problema come da me indicato non sussiste? Non ha nome, non ha forma, non fa parte del nostro immaginario quotidiano, non c’è spazio per lui. Una casa, un lavoro, una famiglia, un lavoro ben pagato, un’automobile lucida, un conto in banca, vestiti stirati e letti rifatti. Non c’è spazio per un qualsivoglia problema aggiuntivo con tutto quel che già è presente ed occupa la vita di una persona. Anche il tempo vuol disfarsi di certe questioni inconsistenti archiviandole, inserendole nella lista delle cose che verranno trattate più avanti, in un “quando” indeterminato. È bello comporre un mosaico del genere ove un tassello improponibile non deve trovar collocazione perché i posti sono già presi e tutto funziona a meraviglia. Va assolutamente tutto bene perché un risultato del genere non può mentirci, è così conforme all’idea comune, alla forma a cui tutti ambiscono che non ci si può fermare a dubitare dei modelli, degli archetipi che idolatriamo. Quindi va tutto bene, siamo tutti sulla stessa linea di pensiero e non c’è menzogna perché siamo tutti d’accordo, vogliamo tutti la stessa cosa e stiamo camminando tutti insieme. Stiamo camminando no? Sono ben pochi i momenti in cui camminiamo, in cui possiamo perdere del tempo, quando riusciamo ad essere fuori da una struttura.

Linee guida vanno a comporre la geometria del nostro tempo, quel prezioso tempo che viene cronometrato continuamente, che pone su diversi livelli e piani tutte le nostre faccende, tutto quel che deve essere svolto da noi. Non possiamo mancare queste azioni in questi spazi e in questi tempi, archiviando sempre più e completando ogni giornata con le colonne insostituibili che le compongono. Un’azione vale l’altra, l’importante è che vi sia l’armonia, che si ottenga quel risultato richiesto dal contesto in quelle determinate condizioni. Non importa come, dobbiamo rimanere sulla linea che si palesa davanti a noi, fin da quando ci alziamo la mattina andando a comporre tutti gli automatismi che ci catapultano all’ora di pranzo. Non ne parliamo, il pranzo non ha poi questa sua dignità, serve ad intervallare, a dividere la giornata e a collegare gli altri automatismi. Un meccanismo perfetto, ben oliato, inutile insistere a voler trovare il pelo nell’uovo, no?

Non sono un esperto, non ho titoli di studio nel settore, scrivo di questi argomenti con un permesso speciale, un titolo che mi rilascio io stesso. Studio il mondo, l’uomo e tutto quello che lo coinvolge, dal singolo fino alla massa, ma lungi dal porre una qualche ragione, una parte profondamente decisionale. Sono immerso in questo contesto, in questo ambiente lavorativo fin dalla mia nascita, dal mio originario osservare. Ritrovandomi a far parte di questo sistema mi sono chiesto cosa mancasse, quale fosse quell’elemento aggiuntivo che riusciva a rendermi così incompleto, così insoddisfatto. Non lo troverò mai, molto probabilmente, ma se mi fermo ad osservare il mondo con gli occhi di un bambino, che non imbroglia e che è guidato dall’istinto, dalle sensazioni più pure, mi rendo conto che non vi è corrispondenza con ciò che si costruisce attorno a me. Sembra quasi che la discordanza sia data dall’uso di due linguaggi differenti, con la particolarità che uno non intende dire nulla di più rispetto a ciò che già ho scritto qualche riga più in alto. Non tenta di uscire da quell’immensa e fredda struttura preimpostata, invariabile, immutata nel tempo, un conformismo radicato in grado di persuadere con promesse anche piuttosto sicure.

In tutto questo vedo una forma indefinita, visibile e affermata ma che non riesce a trovare un nome, l’ha perduto tempo fa, come l’individuo che vi è dentro ha perduto se stesso poiché sommerso da se stesso, dalla sua creazione. Il punto di non ritorno è determinato da questa situazione che in psicologia è definita “workaholism”, una totale dedizione al lavoro come comportamento patologico, arrivando a mettere in secondo piano la vita sociale. In questo comportamento emerge la problematica della perfezione, quell’errore che è caratteristico di ciò che non comporta rischi, imprevisti o variazioni rispetto al programma. In questo verso si ha la suddivisione totale, prendendo ogni elemento non per ciò che è ma per la sua utilità e funzionalità, arrivando ad avere tante sagome senza un valore preciso, senza una soggettività a renderle uniche. Si abbatte la dimensione valoriale, ci si omologa e si perde il proprio nome perché non ha più senso la chiamata e il chiamare. Si perde totalmente l’essenza che si alberga in ogni singola cosa o persona. «Chiamare le cose con il proprio nome» recita un passo de Il Dottor Živago di Borìs Pasternàk.

Se smettiamo di credere così tanto nell’essenza delle cose allora smettiamo di chiamarle, di nominarle e perderemo di senso anche noi. Forse nemmeno io ho ancora compreso la grandezza di questa frase e mi ci potrebbe volere tutta la vita. Tutta la vita a vivere davvero qualcosa, a chiamare davvero qualcosa con il nome che le spetta, senza falsare, senza imitare o illudersi. Sembra già alla nostra portata ma la ritengo l’azione più difficile della nostra frenetica esistenza perché in quel momento ci fermeremo e vivremo davvero sessanta secondi in un minuto, vivremo davvero una risata come un momento incontenibile e felice, vivremo davvero un bacio come il riconoscimento di qualcuno. Quando, la prossima volta, penserete a ciò che non va, magari sarete nella vostra camera alla sera, dopo aver trascorso una normale serata, proprio lì avvertirete quella sensazione. Vi sarà una sensazione ad attaccarvi ferocemente, un senso di vuoto nella vita che è stata costruita sul principio della pienezza, del riempimento e la contraddizione non potrà non farvi domandare: qual è il problema?

Alvise Gasparini

“E quindi uscimmo a riveder le stelle”

Oh rete d’astri, quanta meraviglia,
contro cui il guardo uccellino s’impiglia,
mi sono fatto ardito matematico
(e astrologo e filosofo astigmatico)
pur di cader nel fosso tenebroso

Pier Franco Uliana
Siderea arx mundi, De Bastiani, 2009.

Non so se sia stata la somma di una serie di casualità o una prolifica congiunzione degli astri che mi ha portata ultimamente a riflettere sul cosmo. C’è da dire anche che i fisici di questi tempi vanno di moda ed emerge un rinnovato interesse verso la ricerca e la scienza, la quale a sua volta si dimostra sempre più generosa nell’offrirci risposte o almeno nell’indirizzare le domande giuste.
Dopo la stimolante lettura delle Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi, 2014) di Carlo Rovelli – un prezioso libricino in grado di affascinare astrofili e non – e con la scusa di mettere alla prova tecnicamente la mia nuova macchina fotografica, mi ero decisa a fotografare le stelle, integrando il mio consueto peregrinaggio estivo con mete segnalate, dagli enti promotori del cosiddetto “turismo astronomico”, come buoni punti di osservazione.

Guardare il cielo stellato per distrarsi dalle brutture del mondo o per perdersi nella meraviglia dell’infinito è una possibile chiave di lettura, ma la sete di sapere è la più grande virtù dell’uomo e le stelle rappresentano le muse – in apparenza immobili e silenziose – che accompagnano colui che è desideroso di conoscere.
Esplorando gli astri l’umanità ha iniziato a smarrirsi rendendosi consapevole della sua piccolezza. Il dominio della tecnologia è solo l’illusione di avere ancora una posizione centrale nell’universo, ma d’altra parte i progressi della scienza non fanno che rimarcare la nostra imperfezione e impotenza.
Cercando di superare questa sua condizione fragile e mortale, l’uomo ha dato origine alla filosofia, alla religione e all’arte.
Ma forse è proprio questa imperfezione che ci fa sentire più vicini al cosmo e tutt’uno con l’universo, concetto che il fisico Guido Tonelli – protagonista insieme a Fabiola Gianotti della scoperta del bosone di Higgs – spiega nel suo illuminante libro La nascita imperfetta delle cose (Rizzoli, 2016): ­«la forma delle cose nasce dall’imperfezione che ha rotto la simmetria delle origini». Da questo minuscolo difetto abbiamo avuto inizio anche noi.

Se però analizziamo da un punto di vista etimologico la parola cosmo, vediamo come non ci sia nessun riferimento all’imperfezione, anzi, essa deriva dal greco κόσμος (kósmos) che significa “ordine”; la filosofia stessa è nata con la cosmologia (kósmos e lógos, quindi discorso sull’ordine) nel tentativo di decifrare l’armonia del reale.
C’è voluto parecchio tempo perché il pensiero umano imparasse ad apprezzare anche la disarmonia e l’errore e l’arte ben esemplifica questo percorso. Pensiamo alla bellissima volta celeste di Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, il cielo stellato che il pittore rappresenta agli inizi del XIV secolo è una metafora dell’ordine dell’universo, un universo meraviglioso e perfetto perché si identifica con Dio. Ma di certo i cieli più emotivamente impattanti della storia dell’arte sono i notturni stellati di Van Gogh, c’è qualcosa di stridente in queste rappresentazioni che paradossalmente le rendono più comprensibili, più umane, o meglio ancora più reali, nonostante non vi sia nulla di naturalistico in esse.

Van Gogh, Notte stellata - La chiave di Sophia

Vincent Van Gogh, “Notte stellata”, 1889

Tra Giotto e il pittore olandese passano ben sei secoli, molti cieli sono stati dipinti, sognati e immaginati in questo lungo periodo: gli astri celesti hanno ispirato artisti, poeti, viaggiatori, scienziati.
Penso per esempio all’Ariosto e alla sua dote visionaria che lo renderà capace di immaginare il primo viaggio dell’uomo sulla Luna. Nell’Orlando Furioso questa viene descritta come una sfera di immacolato acciaio, in conformità con l’incorruttibilità aristotelica dei cieli, ed è anche il luogo dove ritrovare la ragione perduta sulla Terra. Ariosto rende quindi omaggio all’ordine che regola la sua epoca, ma il suo potere immaginifico è lo sguardo anticipatore dell’arte.
Restando in tema, segnalo la mostra che qualche anno fa è stata allestita a Ferrara (Palazzo dei Diamanti) per celebrare i 500 anni dalla prima edizione dell’Orlando Furioso stampato proprio in questa città. Per comprendere un visionario bisogna sempre chiedersi cosa egli veda chiudendo gli occhi, ed è questo l’interessante punto di vista proposto dai due curatori che invitano ad entrare nell’universo dell’immaginario ariostesco.

Contemporaneo dell’Ariosto, Copernico scrive il suo De revolutionibus orbium coelestium nel 1512, mentre Galileo inventerà il telescopio nel 1609, quasi un secolo dopo il poema cavalleresco.
È evidente come ogni rivoluzione necessiti sempre del suo bardo: la poesia è utile alla scienza perché ha la sensibilità e l’intuizione di mescolare la materia senza limiti fisici e creare corrispondenze sensoriali in grado di ispirare le menti più acute.
Qualche settimana fa sono venuta a conoscenza (sempre per casualità o per disposizione astrale) del progetto Sentire le stelle, realizzato dal compositore Francesco Rampichini. Questo è costituito da un’interfaccia digitale in cui spostando il mouse è possibile ascoltare la mappa di una costellazione o di una sua singola stella, individuandone posizione e magnitudine attraverso il rapporto delle intensità luce/suono.
Ecco le corrispondenze a cui accennavo prima, interessante notare che questa ricerca ha anche una base linguistica: in sanscrito, antica lingua indoeuropea da cui provengono molti nostri vocaboli, suono si dice svara e luce si dice svar, i due termini hanno la stessa radice fonetica (che accomuna anche la parola sole).
La luce diventa quindi suono, le stelle ci parlano, il cosmo è vivo e comunica, non è solo un velo dipinto.

Nel libro di Rovelli che citavo inizialmente, l’autore ci spiega come il saper vedere e il saper ascoltare siano fondamentali non solo per il progredire della scienza, ma anche per comprendere meglio il nostro ruolo come essere umani: «noi siamo fatti della stessa polvere di stelle di cui sono fatte le cose e sia quando siamo immersi nel dolore sia quando ridiamo e risplende la gioia, non facciamo che essere quello che non possiamo che essere: una parte del nostro mondo». Capire questo, significa anche adottare un comportamento di rispetto e di cura nei confronti del pianeta che ci ospita.

Per concludere: quest’estate mi sono fermata a osservar le stelle ma no, non sono riuscita a fare le foto che mi ero proposta. In compenso ho pensato al genio rivoluzionario di Copernico, all’ “oscuro labirinto” dell’universo che Galileo s’impose cocciutamente di decifrare e ad Astolfo che andò a cercare il senno di Orlando sulla Luna. Ma anche alle menti avide di sapere che si sono susseguite nei secoli fino ad oggi donandosi completamente alla scienza e all’emozione dell’animo sensibile dell’artista che guarda il cielo stellato.
Con un brivido ho sentito quanto l’umanità possa essere splendente anche nella sua naturale limitatezza, un potenziale che passa in secondo piano se si pensa alla stupidità e all’insensatezza diffuse nel mondo attuale.

Spero quindi che Dante avesse ragione in quell’ultimo verso del suo Inferno, spero che questo (ri)veder le stelle ci indichi adesso un nuovo cammino di luce e di conoscenza, dandoci il giusto grado di speranza per renderci migliori.

Dorè, Incisione per Divina Commedia - La chiave di Sophia

Gustave Doré, incisione per la “Divina Commedia”, 1857

 

Claudia Carbonari

 

[Immagini tratte da Google Immagini]

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Bukowski e il blocco dello scrittore

«Scrivere del blocco dello scrittore è sempre meglio che non scrivere affatto»1.

Charles Bukowski in questo caso ha ragione. Dedico questo promemoria filosofico proprio alla pagina bianca, sofferenza dello scrivere e quell’appagante gioia che ti dà nel momento hai finalmente scelto l’ultimo punto.

Il blocco dello scrittore è l’evento più devastante che può accadere ad uno scrittore. Avere idee e non saperle esprimere, continuare a cancellare la stessa frase almeno duecento volte e rimanere sempre di fronte a quella pagina bianca in cui ti rifletti. Si prova una sorta di vertigine, pur non stando in piedi, pur non stando in alto fisicamente. Non è neanche possibile accartocciare la carta in cui abbiamo scarabocchiato i tentativi di appunti, ormai si scrive quasi sempre su un foglio virtuale, non c’è neanche questa via libera per la frustrazione. Ma pensandoci non succede solo agli scrittori: a chi non è successo quando era alle scuole e ha avuto un blocco durante un tema? Chi non sapeva quella volta come scusarsi di fronte al torto fatto? Chi non sapeva cosa scrivere in quel messaggio per quell’amico lontano? A chi non è successo di non sapere esprimere chiaramente i propri sentimenti ad una persona cara?

Spesso quel vuoto ci assilla e ci assale e ci fa perdere nell’insensatezza dei nostri pensieri. L’ignoto dell’indefinito, di quello che ancora non abbiamo chiarito con delle semplici frasi si propaga davanti a noi. Il non riuscire a scrivere ci terrorizza. Il non riuscire ci blocca. Lo si può chiamare anche terrore e paralizza. Dunque la scelta più facile sembrerebbe lasciare stare, magari riprovare più tardi, un’altra volta.

Non solo nella scrittura ma soprattutto durante la vita avviene. Se non abbiamo una strada tracciata e bisogna partire da zero, è impossibile non essere impauriti da quello che può succedere. Il nuovo può provocare angoscia, propriamente la paura dell’indefinito, dell’infinito possibile. Uno scrittore non sa mai dove lo porterà quel nuovo paragrafo, quella frase in cui un racconto inizia e una storia prende forma, come in un viaggio on the road in posti sconosciuti. Non si conosce la strada da percorrere.

Ed è forse qui che l’unica cosa che ci salva davvero è per il suo senso opposto quell’indefinito, come per il bicchiere mezzo vuoto, che di fatto è anche mezzo pieno. Quel mezzo pieno ci permette di essere in qualche modo positivo e dire a noi di stessi che ce la possiamo fare, perché c’è qualcosa di nuovo da intraprendere. Nuove prospettive da analizzare, scelte azzardate e fidate a seconda di quello che l’istinto ci guida. Se l’angoscia ci spinge da una parte, è emozionante dall’altra, l’ignoto ci fa provare diversi effetti.

Così anche scrivere di questo blocco aiuta lo scrittore a esprimere il suo malessere, ma pur sempre gli consente di scrivere. Lo sforzo aiuta ad andare avanti a pensare, a vivere nel modo migliore che ci è permesso; alla fine è tutta questione di volontà fin dove ci è dato. Esercizi quotidiani di scrittura, come sempre anche un po’ di vita per andare avanti, passo dopo passo verso un futuro. Oppure come in questo caso al prossimo punto e ad un nuovo articolo.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:
1. Charles Bukowski.

[Immagine tratta da Google Immagini]