“Anima Mundi” di Susanna Tamaro: una vita in fiamme alla ricerca del sé

Walter vive border line, sulla soglia di un confine, come il Nord-est da cui proviene. Il suo procedere – quello del mercurio, per natura instabile e in costante (disordinato) movimento – è animato fin dalla nascita da continue domande.

Fuoco, terra e vento sono gli elementi che Walter attraversa nel suo cammino interiore. Fuoco è la voce dell’amico Andrea, Virgilio che gli infonde l’energia necessaria a cercare risposta ai grandi “perché” che combattono nella sua mente.
Terra è il suolo di Roma dove Walter si trasferisce. Illusione di un paradiso che in verità è campo minato su cui lui diventa giullare al servizio di maschere ambulanti.
Vento è l’incontro con una suora che, prima di morire, insinua nella sua coscienza una nuova ispirazione e lo spinge a far luce nell’oscurità che si contorce dentro di lui.

Queste sono le tre fasi che, secondo la tradizione cinese, si alternano in quel percorso che si chiama vita. «Un tempo per crescere, un tempo per sperimentare la precaria seduttività del mondo e un tempo per approdare all’essenza profonda delle cose» (S. Tamaro, Anima Mundi, 1997).

Poi, l’acqua. Brodo primordiale in cui le molecole di amminoacidi hanno continuato a modificarsi finché la vita è comparsa. Quando, cioè, un batterio ha permesso a questi esseri unicellulari di respirare. Ed è proprio da questa immensa pozza che le intuizioni silenti di Walter, con un movimento progressivo di emersione, prendono voce. E lo portano a capire che «la vita non è fatta per costruire, ma per seminare» (ivi). E seminare significa porre attenzione.

Fuggito dal silenzio di una famiglia che gli aveva lasciato in eredità un insostenibile senso di vuoto, Walter è stato privato di un’infanzia di attenzioni.
Una madre sorda all’affetto e un padre rinchiuso nel silenzio violento dell’alcolismo gli hanno negato un dialogo in grado di accompagnarlo alla comprensione di sé e del mondo che lo circondava. Senza nessun filtro preposto a proteggerlo, Walter non ha potuto volare sulle ali dell’idealismo e dell’entusiasmo, validi compagni in quel viaggio complesso che è l’adolescenza.

L’incendio giovanile del protagonista di Anima Mundi, tra passi incerti, illusioni d’amore e parole mai dette tocca l’apice nella prematura scoperta della precarietà delle cose. La sua fuga dalla realtà e da sé stesso prosegue fino a quando capisce che per fuggire bisogna essere inseguiti. Ma alle spalle di Walter, diventato un orfano trentenne, ci sono solo fantasmi. «E chi sfugge ai fantasmi corre incontro alla follia» (ivi).

«C’erano quattro croci dietro di me, la croce di mia madre, quella di mio padre, la croce di Andrea e quella della mia ambizione. Stavano tutte sepolte sotto uno spesso strato di terra […]. Ormai sapevo che tutte le mie azioni erano state soltanto reazioni, tutti i movimenti che avevo compiuto li avevo compiuti in contrasto alla volontà di altri» (ivi).

Il percorso di Walter nell’Anima Mundi, cioè nel respiro del mondo che muove e fa vivere le cose, è un processo che cerca di scardinare due grandi tabù della contemporaneità: quello dell’aggressività e quello dei sentimenti.

«Nessuno vuole ammettere di covare all’interno di sé una parte violenta. E invece noi tutti siamo aggressivi, c’è in noi una zona nera che non conosciamo ancora e che è molta pericolosa» (S. Tamaro, Il respiro quieto, 1996).

Negare l’esistenza dell’aggressività, suggerisce la Tamaro, può portarci alle catastrofi.

«Questo è il grande problema, perché l’aggressività fa parte di noi, una forza vitale che ci appartiene come mammiferi, come parte del regno animale. Bisogna dunque trovare il modo di incanalare questa aggressività, di trasformarla, invece di negarla o reprimerla» (ivi).

L’aggressività celata e disconosciuta nasce da un processo a catena che trova origine nell’assenza della parola. Da questa deriva una mancanza di comunicazione, che a sua volta dipende dall’incapacità di guardarsi dentro. Ma se non ci si guarda dentro, e quindi non si può comunicare, allora la tensione naturale è quella alla sopraffazione.
Allo stesso modo, i sentimenti spaventano e vengono tenuti silenti, probabilmente per il carico di energia che richiedono (e che possono liberare). D’altra parte affrontarli, viverli, richiede forza. Impegno. Vulnerabilità. Nudità. Coraggio.
Privarsene, invece, significa vivere “in tono minore”. Significa vivere per la fuga. Una fuga di sé stessi da sé stessi.

 

Riccardo Liguori

 

[Photo credit Tegan Mierle via Unsplash]

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Tra ragione e passione. Storia culturale della differenza di genere (Parte III)

Nei miei precedenti due articoli (parte I e parte II) è stata proposta, in sintesi, una narrazione storica della differenza di genere nell’ottica di spiegare come ancora oggi siano presenti iniquità in molti aspetti della vita delle donne. Uno di questi è quello della posizione delle donne nella scienza, che, come vedremo, è nata in un contesto storico già pienamente sfavorevole a una manifestazione emancipata del femminile.
L’estrema fiducia nella ragione come strumento della conoscenza, di matrice greca, accanto alla missione di governo e disposizione di tutte le cose della natura, secondo l’idea cristiana, si amalgamano come ingredienti che confluiranno, alla fine del Medioevo, nella rivoluzione scientifica. Mentre Galileo Galilei elevava la matematica a strumento principe e determinante dell’indagine scientifica, Francesco Bacone si distingueva come quel filosofo e teorico che diede indirizzo e forma alla nascente impresa scientifica. La sua idea di scienza si esprime molto chiaramente nella metafora della mente maschile che si appropria della natura, femmina da conquistare ed esplorare a piacimento, anzi, per Bacone è la natura stessa che abbisogna di essere domata, plasmata e soggiogata dall’intelletto scientifico.

Nel 1600 l’istruzione è ancora una prerogativa dei maschi, per quelli che se la possono permettere; le donne, se riescono a studiare, comunque non possono insegnare, come ben ci dimostra Elena Cornaro Piscopia, prima
laureata al mondo, a Padova nel 1678. Se le donne non possono studiare o insegnare, chi si occupa degli interessi e delle inclinazioni del 50% dell’umanità? Quasi nessuno. Infatti, solo per fare un esempio, tutti gli argomenti della medicina al femminile sono stati molto trascurati. L’apparato riproduttivo femminile ha sofferto a lungo della visione di mero substrato, tanto che solo verso la fine del 1600 viene ipotizzata l’esistenza degli ovuli. Addirittura, la tesi viene avversata in vari modi perché per secoli si era detto che la madre era solo una specie di forno di lievitazione, e solo a metà del 1800 si capì meglio la fisiologia del concepimento. Ancora oggi disconosciamo molti aspetti della riproduzione, soprattutto femminile.
Mentre Bacone e Galilei gettano le fondamenta della nascente scienza, l’Inquisizione si occupa di mettere in atto la più grande opera di persecuzione dell’eresia, in cui verranno messe al rogo migliaia di donne accusate di essere streghe, su istruzione del Malleus malleficarum (di Sprenger e Heinrich, 1487), che spiegava come ogni stregoneria nascesse dalla lussuria insaziabile delle donne.

Nel XVII secolo le donne erano ormai state allontanate da molti lavori e occupavano esclusivamente lo spazio della casa, concretizzando sempre più l’immagine borghese della donna dedita alla vita domestica e lontana dagli spazi pubblici. Le donne sono apparse in massa sulla scena pubblica solo recentemente, e ancora troppo parzialmente. Il contributo delle donne al mondo del sapere si sta facendo sentire in molti settori, tra i quali anche l’antropologia e l’archeologia, consentendo di svelare il contributo femminile nella storia delle società, che fino a prima era stato omesso. Infatti, fintanto che in tutte le discipline gli studiosi erano uomini, il risultato delle loro ricerche non poteva essere altrimenti che imperniato di un’ottica esclusivamente maschile. Ad esempio, il paradigma del primitivo uomo cacciatore è stato così a lungo enfatizzato da venire declinato come spiegazione di molti fenomeni squisitamente umani, come le abilità di pensiero logico-simbolico o il linguaggio, non tenendo conto del fondamentale contributo femminile all’economia di sussistenza familiare e dell’imprescindibile apporto della cura delle madri nel plasmare l’educazione e la cultura umana.

A proposito di negligenza dello sguardo maschile, nel campo della medicina è particolarmente importante la questione di quanto siano state trascurate le diversità sia anatomiche che fisiologiche del corpo femminile, e questo ha avuto ovvie implicazioni di salute. Finalmente, nel corso del ‘900, la possibilità di accesso alle aule universitarie per le donne, sia come studentesse che come docenti, ha permesso di costruire i presupposti per comprendere molte questioni che si caratterizzano diversamente in base al sesso. Ma non è ancora finita con le discriminazioni, perché ancora oggi la ricerca scientifica continua a privilegiare cavie animali maschi, sia per sperimentare farmaci sia per capire le malattie, ma farmaci e malattie non si comportano ugualmente nei maschi e nelle femmine. Su questo argomento è molto apprezzabile il contributo della rivista scientifica più prestigiosa al mondo, Nature, che più volte ha dato spazio a voci di denuncia alla gender inequality.

La scienza, così come il resto delle discipline, deve fare spazio anche alle donne, sia come oggetti di studio che come soggetti della ricerca, affinché entrino in gioco, perché è ormai evidente che possono e devono dare contributi brillanti e imprescindibili. A tale proposito ricordiamo che la prima persona a vincere due Nobel nella vita fu una donna (Marie Curie). Le donne possono contribuire enormemente alla conoscenza, mettendo in luce come spesso tutto il sapere che le riguarda, che è anche quello del 50% dell’umanità, è stato trascurato o mutilato. La subordinazione della donna è una condizione storica, dunque conoscerne la storia è la precondizione per cambiare il futuro, come già abbiamo iniziato un po’ a fare. È importante anche realizzare che il sistema patriarcale è così penetrato nelle nostre menti che, per imparare a pensare più equamente, abbiamo bisogno innanzitutto di riconoscere gli errori concettuali, distruggere gli stereotipi e costruire nuove mappe di navigazione, assieme, maschi e femmine.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
E. Fox Keller, Sul genere e la scienza, Garzanti, 1987.

 

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Alla ricerca della felicità

“Cos’è la felicità?”
Domanda esistenziale, questa, che attanaglia l’uomo da secoli, per non dire millenni. Perché la risposta condiziona ogni singola caratterizzazione dell’agire umano, tanto che la domanda può essere declinata in: “cosa significa essere felici?” e, con una torsione soggettivistica tutt’altro che arbitraria, in: “Sei felice?”

Chiediamoci, allora, se siamo felici.
La risposta può variare in base alla configurazione emozionale del momento: se ci è appena capitato un fatto che ha suscitato gioia in noi la risposta sarà positiva, contrariamente negativa; se, invece, viviamo la quotidianità delle giornate secondo un pendolo che oscilla tra noia e ancora più noia, la risposta sarà di incertezza: un triste e neutro “Non lo so” (ma se è triste, allora non è neutro).

Ma è veramente questo la felicità? Ovvero: può la felicità dipendere da un’emozione – e coincidere dunque, sinteticamente, con la gioia? E la tristezza può essere il contrario di questa identità?

A prima vista la domanda sembra molto banale, poiché è come se ci stessimo domandando, in ultima istanza, se la felicità sia un’emozione. A prima vista, dunque, e istintivamente, la risposta è positiva: ovviamente la felicità è un’emozione. D’altronde, come potrebbe essere diversamente se – scusate la tautologia – provo felicità nei momenti felici e tristezza nei momenti tristi? È proprio questa identità che voglio scardinare, quella tra gioia e felicità.

Se le cose stessero in questo modo, infatti, la nostra ricerca sarebbe immediatamente conclusa e ne risulterebbe una felicità molto frustrata. Essa apparirebbe in quegli istanti isolati nel tempo in cui la nostra routine subisce un arresto da parte di un evento che in quella particolare situazione consideriamo positivamente e – rapida com’è venuta – scomparirebbe non appena quell’evento entrasse a far parte di quella routine che prima aveva sorpreso. Come se la felicità dovesse combattere contro la vita per farsi notare dalla vita stessa e che la sua fosse una guerra persa in partenza, perché la sua unica possibilità sarebbe quella di vincere qualche singola ed isolata battaglia ed entrare, per un istante, nel nostro campo visivo emozionale.

Ora, un passo avanti. Superata questa configurazione, la felicità potrebbe coincidere con la sua ricerca. Come la famosissima ed altrettanto noiosa sentenza che “ciò che conta è il percorso e non il punto d’approdo”. Certo, abbiamo salito un gradino, lasciandoci alle spalle l’idea che l’oggetto della nostra ricerca sia un’emozione solitaria, rara nel tempo, e dipendente da eventi esterni, ma è realmente questo la felicità? Si può esaurire nella sua ricerca, qualsiasi risultato la segua?

La risposta non può che essere negativa. In prima istanza perché, da un punto di vista logico, in questo modo ciò che prima non ci soddisfaceva rientrerebbe dalla porta di servizio, scoprendosi ora come accettabile. Potrebbe esserci qualcuno, infatti, che accetti come risultato una felicità caratterizzata come la prima che abbiamo indagato. In secondo luogo, ritengo che non dare importanza al risultato depotenzi la felicità, perché risulterebbe coincidente ad un movimento eterno, reiterato da ogni uomo e, alla fin fine, senza obiettivo se non quello di coincidere con se stesso.

Di questa seconda posizione, però, non è tutto da buttare, perché ciò che ne emerge ci permette di compiere il passo successivo. La coincidenza con sé è una caratteristica che, dal punto di vista ontologico, potenzia enormemente il soggetto a cui appartiene. Stiamo parlando del principio di identità, quello che – molto banalmente ma non per questo non significativamente – asserisce che A coincida con A.

Ora, qual è la cosa di cui non conosciamo l’obiettivo ma che siamo costretti a compiere, che esaurisce il significato stesso di “essere umano”, che costituisce una domanda che attanaglia l’uomo da secoli, anzi millenni, costituendo una domanda esistenziale e che, alla fin fine, coincide supremamente con se stessa?

La risposta è molto semplicemente la vita, e la vita è il punto d’approdo della nostra ricerca. Felicità, infatti, significa essere vivi. Non nel senso di essere grati per la nostra esistenza, di ergersi a termine di paragone rispetto ad altre vite come se potessimo elevarci a giudici di ciò che nemmeno conosciamo. Questa è la declinazione cristiana della questione. Felicità significa essere vivi nel senso che essa coincide con la vita, in tutto e per tutto. Ciò significa che la tristezza entra nel campo di configurazione della felicità, ma senza contraddirla. Perché la felicità non è un’emozione il cui contrario è la tristezza. Felicità è la vita e la vita contiene anche episodi tristi, e questi non la inficiano perché non possono scalfirla; possono scalfire la gioia, questa sì un’emozione che dipende dagli avvenimenti, ma la felicità è superiore a tutto ciò perché è la condizione di senso ed esistenza di tutto il resto. Se felicità significa vita, infatti, allora è proprio grazie alla felicità che si può essere tristi. È grazie alla felicità che si subiscono delle perdite. È grazie alla felicità che si muore.

Se pensate alla vita, onestamente intesa, accetterete che vive di contraddizioni ed è essa stessa la più grande contraddizione. Domandarsi perché si vive significa domandarsi cosa significhi essere felici. E la risposta, in fondo, è la stessa: si vive perché si è vivi, senza sapere il perché; si è felici perché si è vivi, senza sapere il perché.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Credit Javier Allegue Barros]

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Una modalità per acquisire competenze filosofiche in classe

La scuola pubblica italiana prevede l’insegnamento della storia della filosofia unicamente al triennio dei licei e di alcuni istituti tecnici1. Ma fare filosofia non è soltanto studiarne la storia, né si può dire che i bambini non siano in grado di filosofare2.

Per integrare l’impronta storicistica e gentiliana di cui risente l’insegnamento della filosofia in ambito scolastico con altri approcci filosofici e per estendere le competenze filosofiche ad altri livelli di istruzione scolastica, sono state, nel tempo, proposte diverse attività extracurricolari. In quest’ottica la Philosophy for Children & Community, programma educativo ideato negli anni Settanta dal filosofo americano Matthew Lipman, risulta ancora oggi una delle proposte più interessanti, tanto che il 30 agosto 2017 il Centro di Ricerca sull’Indagine Filosofica, l’associazione di promozione sociale e culturale impegnata nella diffusione della P4C, ha siglato con il MIUR un Protocollo d’Intesa triennale riguardante l’educazione al pensiero critico e la didattica dell’inclusione3.

Il programma educativo della P4C si ispira alla «comunità di ricerca» deweyana4. In contrapposizione al paradigma standard della pratica educativa, che prevede una teoria dell’apprendimento lineare dove l’insegnante trasmette al discente il sapere attraverso una serie di passaggi obbligati, il modello proposto da Lipman prevede che l’educazione sia il risultato di una democratica partecipazione attiva dei membri della comunità.
Per favorire l’indagine filosofica nella comunità di ricerca, l’insegnante deve avere un ruolo direzionale, ma non direttivo: dev’essere un «facilitatore» abile nel promuovere il dialogo, stimolare l’approfondimento del lavoro di gruppo garantendone l’autonomia nel suo processo di ricerca e monitorare la validità della discussione e della ricerca5.
Il focus dell’educazione non sta, quindi, nel risultato, ma nel processo di co-costruzione della conoscenza. Ciò che è auspicabile è che la comunità di ricerca arrivi a pensare con gli stessi movimenti che rappresentano le procedure del processo stesso: il dubbio, la produzione di idee suscettibili di valutazione e la creazione di una credenza condivisa.
Va evidenziato che la conclusione dell’indagine filosofica non prescinde dal contesto, che ne garantisce validità: ogni passaggio del processo di ragionamento, infatti, non ha valutazione assoluta e la metodologia è fallibile. Una comunità di ricerca, muovendosi in un dato contesto sociale, imparerà, oltre ad apprezzare le potenzialità garantite dall’accordo intersoggettivo tra i membri, anche ad abitarne le problematicità.

Le sessioni di Philosophy for Children, che tra i loro fini hanno quello rendere la classe una comunità di ricerca, seguono questi obiettivi. La loro struttura, dunque, riflette quella dell’indagine. Come nell’indagine si parte da una situazione indeterminata di dubbio, anche la sessione di P4C incomincia da una situazione che suggerisce dubbi e domande, e che è data dalla lettura di un testo-pretesto, una pagina di un apposito testo narrativo6. Alle fasi successive della ricerca filosofica, durante le quali si circoscrive un ambito di discussione, si discute il tema e se ne valutano le conseguenze, corrispondono altrettante fasi della sessione di P4C. Sebbene il punto di arrivo non abbia la pretesa di approdare ad una credenza assoluta, la situazione, rispetto all’inizio, risulta rischiarata.

Una classe che si proporrà come obiettivo quello di diventare una comunità di ricerca, imparerà a discutere in modo rigoroso, democratico e riflessivo, coltivando le dimensioni critica, creativa e valoriale del pensiero che, per Lipman, rappresentano l’aspetto primario del processo educativo.

 

La valigia del filosofo

NOTE
1. Qui per un approfondimento delle indicazioni nazionali.
2  Cfr. J. Piaget, Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 1964.
3. Qui per la consultazione del protocollo.
4 Cfr. J. Dewey, Esperienza e educazione, La Nuova Italia, Perugia, 1993.
5 Cfr. M. Lipman, Educare al pensiero, Vita e Pensiero, Milano, 1991.

[Photo Credit: Samuel Zeller on Unsplash.com]

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Il trapianto di testa tra realtà umana e ricerca del postumano

L’impegno costante dell’uomo moderno-contemporaneo è sempre stato rivolto al miglioramento delle condizioni della propria vita. Questo obiettivo ha indotto l’uomo stesso ad avviare ricerche per la progettazione di strumentazioni che gli permettessero di superare eventuali ostacoli legati alla sua naturale fisicità.

La scienza attuale aspira ad oltrepassare il tradizionale modello antropologico per forzare le barriere poste in essere dalla natura cercando di superarle attraverso il progresso scientifico e la tecnologia.

Le differenti correnti di pensiero etico e filosofico hanno sempre inciso, ovviamente in modo contrapposto, sui mezzi realizzati dalla capacità produttiva dell’uomo e sui fini verso i quali rivolgere tali strumenti.

Tra i tanti propositi emerge quello del neurochirurgo italiano Sergio Canavero che, nel febbraio del 2015, aveva presentato l’ambizioso e dibattuto progetto HEAVEN/AHBR, nell’ambito del quale si proponeva di eseguire il primo trapianto di testa.

Nonostante le perplessità sollevate dalla comunità scientifica, nel novembre scorso Canavero e il suo collega Ren Xiaoting dell’Università di Harbin, hanno annunciato il successo del trapianto di testa su un cadavere attraverso la congiunzione di colonna vertebrale, nervi e vasi sanguigni, durante un intervento chirurgico di circa 20 ore. A detta dei due neurochirurghi, il prossimo passo sarà eseguire la procedura su un paziente vivente tetraplegico.

La prima questione che pongo, riguardo il possibile successo di tale pratica, è di ordine prettamente scientifico ed è relativa alla natura del cervello stesso che, senza la necessaria ossigenazione, inizia a deteriorarsi e a morire in pochissimi minuti: sarebbe quindi possibile mantenerlo in vita abbastanza a lungo da avere il tempo di ricollegare le innumerevoli connessioni neurali?

In secondo luogo, volendo essere precisi, un intervento su due cadaveri non può essere definito trapianto e pertanto risulta inadeguato parlare di trapianto di testa; ma anche a voler tralasciare questo aspetto, si può intendere come riuscito un intervento su pazienti già morti sui quali non è quindi possibile riscontrare gli esiti dell’operazione effettuata? Relativamente agli esiti dell’intervento, cosa succede alla testa trapiantata nel nuovo corpo e, viceversa, cosa succede al corpo nel quale è stata trapiantata una nuova testa?

È scientificamente noto che le altre parti del corpo condizionano la nostra neurologia, ovvero la modalità con cui generiamo pensieri e azioni, quindi, la nostra attività mentale può essere condizionata da fattori esterni al cervello; ciò significa che trapiantare una testa in un nuovo corpo potrebbe dar vita ad una nuova persona, oppure la testa manterrà inalterata la sua antecedente coscienza? Se, come è stato dimostrato da numerosi ricercatori, lo stesso ecosistema batterico del nostro corpo influisce sul modo in cui le persone pensano e sentono, con un trapianto la testa verrebbe inserita in un microbioma estraneo originato dall’essere stata innestata in un nuovo corpo. Detto ciò risulta improbabile che tutti i nostri tratti psicologici dipendano esclusivamente dalle cellule presenti nella nostra testa, è invece credibile che la maggior parte dei nostri tratti psicologici derivino dal passaggio di informazioni tra corpo e cervello.

Nonostante non sia chiaro in quale percentuale un cambiamento nel corpo potrebbe alterarne le caratteristiche psicologiche, il cervello verrebbe comunque sommerso da sostanze chimiche e segnali estranei del nuovo corpo che non è possibile ritenere ininfluenti o secondari.

Le perplessità etiche relative a queste tipologie d’intervento richiamano alla necessità di adottare una condotta cautelativa e non sono fonte della paura legata al progresso scientifico o del prospettarsi di scenari futuri aberranti, ma riguardano la concreta possibilità di ledere la vita umana nel tentativo di liberare l’uomo stesso da vincoli naturali che egli stesso ritiene restrittivi e che tenta di superare attraverso il progresso scientifico-tecnologico che, a sua volta, agisce spesso dimentico di reale concretezza e scevro di ogni riflessione etico-antropologica.

 

Silvia Pennisi

 

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Parresìa digitale. Rispondere alle domande del web con la filosofia

I nuovi scenari di comunicazione digitali stanno ponendo alla società odierna delle sfide che hanno delle conseguenze decisive sul piano culturale e politico. Tuttavia, non si tratta di problematiche affatto nuove, ma del riproporsi di dinamiche comunicative che la filosofia ha analizzato già da millenni.

Andiamo per un momento all’ultimo corso tenuto da Foucault nel 1984, in cui analizza la storia del concetto greco di parresìa, termine con il quale nell’antica Grecia si indicava il dire-il-vero, il discorso che, mettendo da parte tutti i personalismi e gli interessi particolari, ha come unico obiettivo la verità; e che si sostanziava nel dovere-privilegio di parlare a nome della polis nelle discussioni politiche. Tuttavia, questa pratica diventa pericolosa con l’avvento della democrazia, perché, argomenta Platone, essendo concessa a chiunque facoltà di parlare, discorsi veri e discorsi falsi si confondono e diventano indiscernibili. Anche Demostene nella terza filippica sottolinea come il popolo preferisca chi lo lusinga a chi dice la verità e come ciò renda impossibile la parresìa: nella assoluta libertà di pronunciarsi è impossibile esercitare la parola come strumento di ricerca e comunicazione della verità.

Come questa struttura dialogica perversa si stia riproponendo oggi sul web è sotto gli occhi di tutti. Il circolo vizioso della comunicazione digitale nasce dalla capacità di penetrazione e dalla pervasività degli strumenti digitali, che permette l’identificazione quasi scientifica degli interessi e desideri della propria audience. Da questa grande potenzialità comunicativa discende un uso che mira a accondiscendere a tutte le opinioni per acquisire sempre più pubblico: in questo coacervo di informazioni scritte con il fine di attrarre lettori, la parresìa, la facoltà di esprimere il vero, è inibita in partenza.

Da redattore di una rivista web di musica classica come Quinte Parallele, posso dire che il riscatto da tale scenario deve passare necessariamente da un cambiamento di rotta degli attori che si occupano di informazione e/o cultura. È necessaria una redenzione nell’utilizzo di queste tecniche di comunicazione: la conoscenza delle inclinazioni e del comportamento delle persone deve essere usata per indurre al pensiero critico e all’informazione, piuttosto che per assecondare le opinioni, spesso superficiali, dei lettori, al fine di acquisire pubblico. Nel nostro progetto editoriale cerchiamo di andare in questa direzione, sfruttando le potenzialità della comunicazione digitale per invitare le persone all’ascolto e all’approfondimento della musica d’arte. E possiamo dire che è una strada che funziona, perché i lettori rispondono quando sollecitati. Infatti, la cultura e il pensiero sono elementi costitutivi di ogni essere umano, così come anche le bassezze e le oscenità.

Decidere su quali aspetti puntare significa decidere quale idea di futuro si vuole costruire.

 

Francesco Bianchi

Francesco Bianchi, studia filosofia tra Macerata, Padova e Jena e marketing a Roma. Le infinite vie del Geist lo portano a dirigere nel dopolavoro Quinte Parallele, la rivista di musica classica che fra qualche anno renderà più diffuso Wagner di Beyonce.

Quel “particolare immenso e ineffabile”, raccontato da Claudia Scattolini

Tra le cose più belle ed interessanti che ci capitano ci sono quelle che si trovano per caso. Io ho scoperto il mestiere del fragrance designer e nello specifico la bella realtà creata da Claudia Scattolini a Cassola (VI) mentre facevo alcune ricerche per la mia tesi di laurea, che si lega al mondo del profumo. Ho scoperto così questo mondo curioso e affascinante di “sartoria profumata” in cui il profumo non viene trattato come un accessorio di serie B. Anzi, tutt’altro: è un “particolare immenso e ineffabile”, per riprendere una bella definizione di Gaston Bachelard.

È stato molto bello per me conoscere Claudia e la sua storia. Speziale per tradizione familiare – generazioni di farmacisti sul lago di Garda –, ha scelto di profumare vite e mondi frequentando, prima italiana, l’EFCM presso l’ISIPCA, la prestigiosa scuola parigina fondata da Jean-Jacques Guerlain. Oggi vive tutti i giorni in contatto diretto e denso con le più avanzate tendenze dell’architettura, del design, del fashion system e ha potuto creare fragranze su misura per privati, loghi olfattivi per aziende come Geox ma anche città come Jesolo (VE), arredamento e scenografie olfattive per brand, designer, hotel, eventi, spazi. Ogni persona e ogni spazio sono descritti da un profumo: il lavoro di Claudia è quello di creare quel profumo che rispecchi l’essenza, una sorta di “distillato di anima”. In questo modo ad essere riscoperto (o piuttosto finalmente esaltato) è il valore del profumo come mezzo di comunicazione e l’importanza dell’olfatto (per molti secoli maltrattato dai filosofi) come mezzo di conoscenza della realtà e delle cose.

Colgo anche l’occasione per ringraziare ancora una volta Claudia per essersi lasciata un po’ conquistare da noi come noi siamo rimasti conquistati da lei e dal suo lavoro. Potete leggere l’articolo che Claudia ha scritto per noi sul valore del profumo nella nostra rivista #4: lasciatevi conquistare!

 

Secoli ed anni di filosofia occidentale (da Platone a Cartesio, da Kant a Simmel e Freud) hanno relegato l’olfatto al ruolo di senso meno nobile e più animalesco. Quali argomentazioni utilizzerebbe per difenderlo da tali accuse? Sotto quali aspetti dovrebbe essere (e in effetti è stato) rivalutato?

Considerato per secoli il senso più legato alle voglie terrene e ai bisogni più bassi, l’olfatto è oggi grandemente rivalutato. La sensazione che percepiamo con il naso, anche inconsciamente, quando entriamo in un luogo, incontriamo una persona o utilizziamo un oggetto, ci fa tagliare il primo giudizio, che lo vogliamo o no.

Avendo scoperta quanto importante può essere il profumo in ogni occasione, il mondo moderno e soprattutto l’industria di oggi lo stanno portando alla ribalta e prendendo in altissima considerazione, come leva di marketing e motivo di acquisto.

Risulta un gioco facile innalzare il senso dell’olfatto in questo momento di esplosione di tutto ciò che è esperienziale: il mondo di oggi è talmente sfuggevole e ci propone così tante insicurezze da rendere maggiormente sicure e desiderabili le esperienze, la conoscenza, tutto ciò che possiamo imparare e vivere con i sensi, momenti che nessuno potrà mai toglierci, nemmeno nella crisi più profonda.

 

Tutti noi abbiamo degli odori che amiamo e tutti sappiamo trarre del piacere da un buon profumo; tuttavia li consideriamo più spesso come semplici sottofondi e parentesi delle nostre vite. Quale aspetto del profumo l’ha convinta a dedicare alle fragranze la sua carriera?

La nostra vita è avvolta saldamente dai profumi del mondo circostante, degli attimi di vita, delle persone che claudia-scattolini-fragrance-designer-intervista-1_la-chiave-di-sophiariempiono o solamente sfiorano la nostra esistenza: se penso intensamente a qualcuno che conosco e che mi è lontano, chiudo gli occhi e sento il suo profumo, le note olfattive che lo caratterizzano, e mi sembra di averlo vicino.

Questa mia attenzione verso gli odori del mondo, dopo la laurea in farmacia, mi hanno portato ad approfondire al massimo fino a sprofondare nella culla della profumeria mondiale: la scuola di Guerlain a Parigi.

 

Considerando la peculiarità del lavoro che svolge, la curiosità è tanta. Ci può descrivere brevemente il processo creativo che conduce alla realizzazione di una fragranza su misura?

Creare la propria eau de parfum personale significa creare quell’aura che voi desiderate che il mondo senta o, meglio, rappresenta come voi volete farvi annusare/sentire dal mondo esterno: potrebbe rivelare come siete oppure raccontare come vorreste essere, rimane comunque ciò che desiderate far sentire di voi.

Io mi pongo come traduttrice del vostro animo in un profumo, vi prendo per mano e sarete voi stessi a creare.

È un’esperienza unica, per questo è un regalo dedicato a sé o a chi davvero amiamo molto.

Attraverso un percorso introspettivo, capiremo insieme quali materie prime scegliere, dando un senso ad ognuna, scopriremo quale tipo di profumo rappresenta la vostra anima e costruiremo la sua piramide olfattiva.

Alla fine avrete in mano la tua vostra eau de parfum e la formula sarà custodita per sempre esclusivamente per te.

Quando vorrete potrete farvelo fare di nuovo uguale o con qualche variazione, per esempio secondo la stagione o l’umore del momento.

 

Qual è per lei (se esiste) la domanda chiave che pone ai suoi clienti e che risulta determinante nel delineare la figura da tradurre in profumo?

La domanda chiave è “come vuoi che il mondo ti percepisca in una sola parola?”: qui si apre davvero un universo e la persona si deve guardare dentro e poi fuori e prendersi il tempo di capire. Non è facile e spesso non ci abbiamo mai pensato, non ci siamo fermati a riflettere su come vorremmo che il mondo ci “sentisse”.

 

Quando scegliamo un abito, un accessorio o un profumo esercitiamo una scelta su un’ampia gamma di proposte con lo scopo di esprimere anche attraverso tali oggetti la nostra identità. Lei che valore dà all’identità della persona in un mondo influenzato da ogni lato da scelte indotte dalla globalizzazione e dalle leggi di mercato?

Oggi vedo persone che per sentirsi “diverse” scelgono look che alla fine si incanalano in filoni che li rendono tutti uguali, banalizzano la cosa. purtroppo è una verità che siamo bombardati da stimoli di ogni genere, una specie di violenza sulle nostre scelte di vita, chi ne è più influenzato e chi meno. l’identità di una persona chiaramente non è il suo aspetto e nel percorso di creazione della propria fragranza ho l’onore di vedere le persone “nude”, nel loro profondo.

È una esperienza molto profonda anche per me, alla fine si trasmette talmente tanta energia tra me e il soggetto che sono stanchissima.

 

Un abito viene definito “bello” mentre un profumo “buono”, dunque sembrerebbe che la bellezza abbia a che fare con la vista più che con le altre sfere sensoriali. Lei si trova d’accordo con questo? Qual è la sua concezione di bellezza?

claudia-scattolini-fragrance-designer-intervista-2_la-chiave-di-sophiaUltimamente i critici di profumi hanno iniziato a definirli “belli” anziché “buoni”: forse i sensi si stanno sovrapponendo? la multisensorialità sta prendendo il sopravvento?

Personalmente credo che un profumo sia un’opera d’arte, in quanto creato da un artista con funzione estetica e come tale possa essere considerata, nella sua armonia di note olfattive, “bella” oltre che “buona”.

Bellezza in senso assoluto è per me tutto ciò che, stimolando i miei sensi, mi dà piacere: può essere un concetto, un oggetto, una persona, un animale, un suono, non importa di quale materia sia costituita, la bellezza dà piacere e se non lo dà non è bellezza.

Quindi è molto soggettiva.

 

Gli ambienti all’interno dei quali viviamo, lavoriamo, studiamo, dormiamo e così via hanno influenze profonde sulla nostra psiche e sulla nostra salute, ma anche sul nostro umore. Tali ambienti si costruiscono di spazi ed oggetti, luci e temperature, colori ma anche profumi. In che modo dunque il profumo influisce sull’esperienza che abbiamo di un determinato ambiente? Come si sposa all’arredamento e alla moda?

Mi piace definire il profumo come “la IV° dimensione” dell’architettura.
Il mio ufficio e la mia casa sono stati concepiti per il benessere della persona: colori, luci, spazi e profumi sono accostati sapientemente per far trascorrere ore in armonia. e il tempo passa veloce senza accorgersi, nell’equilibrio.

Ogni ambiente ha bisogno del suo profumo, come ogni persona.

E che dire della moda? il gesto incantato, l’ultimo tocco fatato, dopo essersi lavati e ben vestiti, è lo spruzzo del giusto profumo: ogni occasione può avere il giusto abito e il giusto profumo.

 

Noi de La chiave di Sophia promuoviamo una visione della filosofia che ne riscopre l’origine, ovvero quella di un semplice interrogarsi sulla vita e sul mondo che ci circonda. Qual è la sua concezione di questa disciplina?

Ho sempre amato la filosofia da quando ero al liceo: la vedo come qualcosa che aiuta ad aprire le menti e metterci ordine, ad aiutarci a dare un significato alla vita e all’esistenza intera.
Alla fine tutti ci chiediamo da dove veniamo e dove andremo, tutti filosofeggiamo anche senza volerlo: la vita e il mondo che ci circonda hanno un significato troppo profondo ed enorme per non considerarli e dargli il giusto spazio che si meritano. e questa la trovo già filosofia.

Se tutti si rendessero conto di questo e si fermassero un attimo a rifletter sulla realtà, penso che il mondo sarebbe migliore. E in questo la filosofia aiuta.

 

Vorrei concludere con una piccola curiosità: considerando che lei ha ed è un naso fine e ben allenato, quali sono secondo lei la nota profumata e il profumo migliore che esistano?

La rosa. Anche se è soggettivo perché è come chiedere ad un cuoco quale è il cibo migliore, mi sento di primo acchito di rispondere : la rosa.

L’olio essenziale di rosa, preziosissimo nettare che distilliamo da tonnellate di piccoli petali raccolti a mano, ci regala un profumo rasserenante, riequilibrante, afrodisiaco, intensissimo, dalle mille sfaccettature: fiorito di donna, verde più maschile, mieloso, fresco, speziato…

Quando annuso la rosa, chiudo gli occhi, e sono felice.

 

Giorgia Favero

 

 

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Combinare etica della cura e poesia: intervista al chirurgo Vincenzo Caronia

A volte abbiamo l’impressione che i medici, in particolare i chirurghi, siano come dei meccanici: senza farsi travolgere dalla tragedia umana della malattia e del dolore, loro valutano, aprono, chiudono. Dichiarano decessi. Hanno studiato e lavorato per anni, acquisendo livelli di conoscenza per noi altri apparentemente inarrivabili, e quindi ci affidiamo. Ci affidiamo e a volte non accettiamo che esista un loro lato umano, sensibile e fallace.

Leggere i componimenti poetici scritti da Vincenzo Caronia, classe 1959, chirurgo operante presso l’ospedale di Oderzo, ti scalda il cuore. Ti fa rivalutare tutta questa questione dell’infallibilità e del freddo temperamento scientifico dei medici, e di questo probabilmente abbiamo un gran bisogno. Abbiamo bisogno di sapere che i medici possono essere, come Caronia, appassionati di letteratura e di cinema, di viaggi e di poesia: un fatto da non trascurare, perché è proprio da questi interessi che si può sviluppare quel pensiero etico che è ormai imprescindibile dalla medicina. Ecco perché in questa intervista parliamo anche di corpo, di dispositivi medici e del valore fondante della fiducia. Ed in parallelo però parliamo anche di poesia, perché la sua raccolta di haiku (Haiku per un anno, 2012), in particolare, è un piacere da leggere. L’haiku è un componimento giapponese di tre versi capace di suscitare, con poche parole, delle forti suggestioni; è particolarmente piacevole lasciarsi abbandonare alle delicate note ed immagini da esso evocate, anche nella lingua italiana.

A tutto questo è possibile, evidentemente, combinare  la medicina. Perché anche la medicina, dal lato del medico e dal lato del paziente, è fatta di uomini. Scopriamo allora insieme che cosa ci racconta Vincenzo Caronia di questo mondo.

 

La filosofia ha piano piano segnato la strada per l’affermazione della disciplina bioetica e dell’etica applicata. In che modo, secondo il suo parere di chirurgo, la pratica filosofica può essere attualizzata in ospedale?

Credo che l’etica possa variare da persona a persona. Da un punto di vista medico, se una persona sceglie di fare il medico, lo fa perché unisce la passione per le materie scientifiche con il rapporto umano che si crea con le altre persone. Il discorso etico è fondamentale, ovvero il fatto di avere presente che si lavora con, su e per altre persone. Persone con una storia, dei sentimenti. Ricordo la prima volta che assistetti ad un’autopsia. In particolare, si stava analizzando il cervello di un defunto. Ricordo chiaramente di aver pensato che qualche giorno prima quello che stavamo analizzando era un cervello vivo di ricordi, di passioni, di vizi. Anche questo mi faceva pensare. Anche se con il tempo la pratica medica mi ha insegnato a curare e sistemare ciò che sta biologicamente dentro quel cervello, non dimentico mai la storia di cui può essere intrisa. Si tratta sempre di una persona.

Quale ritiene sia il rapporto tra mente e corpo? Una tende forse a prevalere sull’altra?

Ritengo che non esista una separazione netta in termini cartesiani tra mente e corpo. La psicopatologia ha una sua componente fisica, ma ha anche una sua componente psichica, legata alla mente. Nelle patologie psichiatriche la componente della mente è molto più importante rispetto a quella fisica; in un cancro al colon, è l’esatto contrario. Tuttavia, non c’è una completa lontananza tra le due. Basti pensare anche agli anziani, al loro lasciarsi andare nel decorso di una malattia. Il volere andare avanti malgrado una malattia non è un imperativo, c’è chi ce la fa e trova al forza, e chi invece si tira indietro. Il contatto mente e corpo quindi c’è ed esiste: l’una influenza l’altra.

Oramai in medicina si è affermato un sistema basato sul valore della centralità del paziente. In che modo, secondo lei questo sistema, fondato e finalizzato sul  patient-centered care, può entrare in dialogo con la complessità e l’artificialità della evidence-based medicine, ovvero con il progresso tecnico scientifico dell’ingegneria medica? In altre parole, come la sfera oggettiva e quantificabile dell’approccio clinico coopera con la sfera più prettamente “umana” della pratica di cura? 

Sono cose che non si allontanano mai l’una dall’altra. Oggi si lavora con internet e il pc per tante ragioni. È su questo che ci si deve basare: su realtà comprovate dai fatti.

Il paziente però è al centro dell’attività sanitaria. Io devo cercare di dargli la cura al meglio delle mie possibilità e in questo mi baso sulla evidence based-medicine. Le due sono correlate. L’una interseca l’altra.

Possiamo affermare che nel corso degli ultimi decenni la medicina abbia fatto dei passi da gigante nel campo degli interventi a cuore aperto, in particolare anche parlando di impianti di dispositivi ventricolari, in grado di permettere la sopravvivenza dei pazienti. Un paese come l’Italia ha la fortuna di beneficiare di alcuni centri VAD molto forti. Cosa pensa di questa nuova svolta del progresso scientifico in ambito ospedaliero? E, a tale proposito, ha qualche osservazione da proporre circa il rapporto tra durata biologica della vita, quantificabile in anni di sopravvivenza in seguito ad un impianto, e qualità della vita, talvolta segnata da sacrifici, sofferenza ed effetti collaterali?

Oggettivamente abbiamo visto negli ultimi quarant’anni un veloce incremento dell’aspettativa di vita delle persone. Questo grazie all’ evoluzione delle conoscenze scientifiche acquisite a livello mondiale, che comprende anche lo sviluppo della bioingegneria, quindi di dispositivi tecnologici biomedici.

Questi dispositivi, per chi ha una patologia cardiaca, hanno aiutato la sopravvivenza ma anche il miglioramento della clinica; inoltre, hanno permesso di portare il paziente ad un eventuale trapianto di cuore oppure ad un impianto di protesi sempre più tecnologicamente avanzate, per migliorare all’outcome del paziente. La tecnologia è diventata necessaria per sostituire la parte malata con qualcosa di meccanico che però possa rendere le stesse funzioni dell’organo ora malato. Tutto però è gestito e controllato dal cervello, quindi dall’uomo. Di conseguenza, ciò conferma quello che abbiamo detto precedentemente circa il rapporto tra mente e corpo, in cui l’una influenza l’altra. Ormai la tecnologia ci ha permesso di sostituire parti del nostro corpo in modo tale da poter continuare a vivere allo stesso modo. Certo, ciò non significa che possiamo giustificare una società in cui si possano cambiare i “pezzi” del corpo umano come nulla fosse, per quanto necessario: una visione “etica” del problema rimane fondamentale.

Sicuramente, durante la pratica medica, è sempre opportuno porre attenzione sulla relazione medico-paziente, la quale non può non essere fondata nella fiducia. Che significato darebbe a questo concetto? Si è mai trovato di fronte a casi in cui la fiducia trovava degli ostacoli difficili da superare?

Certo, la fiducia è un valore fondamentale. Se un paziente viene da me è perché ha fiducia del mio operato. È importante però considerare il fatto che siamo tutti uomini, perciò siamo tutti fallaci. Possiamo sbagliare. Così come ci sono situazioni che possono creare dei problemi indipendentemente dalla bravura del medico e dalla disponibilità del paziente, le così dette complicanze. Queste non sono errori del medico, ma avvenimenti che possono presentarsi ed essere comuni in tutta l’attività medica. È necessario quindi non confondere la complicanza con un errore: cosa questa che potrebbe essere intesa come un “tradimento” alla fiducia.

Vorrei infine ricordare e rimarcare la differenza tra “cura” e “guarigione”. Un medico può curare una patologia senza riuscire a guarire il paziente. Confondere le due cose talvolta può minare il rapporto di fiducia instauratosi tra medico e paziente. Un esempio possono essere le patologie infiammatorie dell’intestino, malattie croniche a lenta evoluzione che solitamente interessano il paziente per molti anni. Ci sono dei farmaci recenti che migliorano moltissimo la qualità di vita. Però la malattia c’è, non è guarita. Può migliorare, presentare periodi di remissione, ma non risolversi. Cento anni fa erano pochissime le malattie che si riuscivano guarire. Oggi la scienza permette di guarire da più patologie.

Spesso si sente lo stereotipo del medico votato alla scienza ed alla medicina e che spesso trascura le materie umanistiche. Lei invece ha pubblicato alcuni libri di poesie, dimostrando quindi di saper fuoriuscire una sensibilità che è tipica umana. Come si è avvicinato alla poesia? E come, in particolare, ha scelto di cimentarsi con gli haiku

Il primo approccio con gli haiku fu quando ero bambino. Mio padre aveva dei libri sulle grande religioni e sfogliandoli, nei capitoli dedicati alle dottrine orientali, c’erano degli haiku. Li lessi e ricordo che ne rimasi colpito. Poi iniziai a scrivere delle poesie, e ne lessi anche molte. Piano piano crebbe anche la passione per l’Oriente. Ora, la poesia è qualcosa che viene e va, un po’ come l’amore: ci fu quindi questo periodo in cui scrissi molto e altri in cui molto poco, o nulla. Nel 2000 iniziai a scrivere haiku un tipo di poesia che non avevo scritto prima, e pare con buoni risultati, almeno stando a quanto mi viene detto.

haiku-per-un-anno_caronia_intervista_la-chiave-di-sophia-01Crede che gli haiku, anche nella sua forma e temi tradizionali, possa rappresentare un messaggio dell’uomo all’uomo circa il rapporto che esiste o dovrebbe esistere tra esso e la natura?

Sono convinto che l’haiku tenti di ristabilire un contatto con la natura, un contatto che ciascuno di noi può sentire, può vivere. E ci spingono così a riflettere.

Anche per le altre tipologie di poesia che ho scritto, credo che si tratti sempre di un riflesso di ciò che sentiamo, che proviamo, e che cerchiamo di rendere in forma poetica. L’haiku è la stessa cosa ma presenta delle caratteristiche precise. Intanto è estremamente semplice, quasi scarno; la cosa bella è che questa loro semplicità crea un ponte diretto con la natura, o con qualsiasi sia l’ oggetto della poesia stessa, oltre che per il poeta anche per gli altri, c’è spazio per trovare qualcosa anche per il lettore, è diretto. Cosa che, forse, nella poesia tradizionale, si trova in forma minore.

Ciò che mi piace è questo: il significato, il senso dell’ haiku è un ponte verso la persona che lo legge. E anche il fatto che non ci sia un titolo è indicativo dell’ apertura che l’ haiku propone.

Ha mai combinato la scrittura o la lettura della poesia con la sua attività in ospedale? Ritiene che possa portare qualche tipo di beneficio? 

Secondo me c’è un modo di coniugare questi due mondi. Parliamo sempre di uomini. Lavorando in ospedale, è necessario estraniarsi dalla situazione, dal dolore delle persone che devono essere curate. Ciò al fine di rendere la pratica di cura più efficace. È necessario comunque creare dei momenti di distacco in cui si parla anche di altro. Ed è lì che al rapporto interpersonale, tra medico e paziente, ma anche tra operatori sanitari stessi così come tra paziente e paziente si lega tante volte il concetto di fiducia. Si può avere un approccio molto umano nel corso di questi momenti.

La scarnificazione del superfluo, la riduzione dell’immagine all’essenza, la semplificazione del pensiero e raziocinio umano per adattarsi al flusso morbido e delicato della natura: l’haiku in particolare ma spesso anche la poesia più in generale sembra porsi agli antitesi della profonda ricerca di significato che sottende alla filosofia. Lei ritiene che esse possano avere comunque qualcosa che le accomuni?

Credo che la filosofia cerchi di dare spiegazione a quella che è la realtà. Alla fine si va sempre a definire un concetto finale. La filosofia si pone il problema del “Che cos’è?”. Nell’haiku non c’è questa ricerca, è immediato. Nella forma è sintetico, non è un trattato.

C’è chi concentra al massimo per dire il tutto. L’haiku, nella sua forma breve, così come altre forme di scrittura, non è altro che il rappresentare un attimo che si ha vissuto; si esprime un’impressione immediata. Probabilmente è questo il concetto filosofico dell’haiku: esprimere e dare senso a quella sensazione, in quel determinato momento.

 

La Redazione

 

 

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