Leggere “Walden” di Henry Thoreau: il lago, il filosofo e l’eterno

Come nel misterioso lago in cima alle montagne peruviane, in cui una volta l’anno il re s’immergeva ricoperto di una polvere d’oro, esattamente al centro dello specchio, perché quella polvere calasse sul fondo a onorare la sorgente divina al di là del tempo1, nel lago di Walden, attorno al 1845, si immergeva ogni mattino uno spirito romantico, ripetendo l’incantesimo e rinsaldando lo stesso antico legame dell’animale umano col vasto mondo dell’acqua. Guardando sotto la sua superficie si ricorda che la vita viene dagli abissi e vedendo poi le nuvole riflettersi su di essa alza lo sguardo verso un altro ricordo, per scoprire l’occhio acerbo del sole, trovandosi galleggiante tra due profondità della stessa memoria. L’immersione è un riconsegnarsi al mistero che si riconosce infine come fato dell’universo e un riprodurre la danza immemore che i corpi e l’infinito tracciano battendo i piedi. L’animale è il tramite di una manifestazione e attraverso la carne il tutto rivive i luoghi del suo passato millenario fino ad incontrare lo spirito del pianeta. Il corpo immerso nell’acqua-infinito risveglia ad ogni bracciata e ad ogni apnea la sua natura anfibia, risale all’antichità cellulare e vede tutta l’esperienza del bios (βίος), che rivive i luoghi del suo passato remoto fino a incontrare lo spirito del pianeta.

Thoreau, che si isolò per oltre due anni nel bosco sulle sponde del lago Walden, forse finì con lo scoprire questa vita. Il suo libro racconta di come trascorse un giorno dopo l’altro in questo angolo di mondo, contando sulle sue sole abilità e conoscenze, lavorandosi il campo e perfezionando la sua casa, seguendo nel frattempo lo sviluppo di una nuova coscienza come un viaggiatore infila un passo dopo l’altro per raggiungere la sua meta. Thoreau è cosciente di aver iniziato un viaggio e lo affronta col desiderio del vero filosofo: lo dice quando motiva la scelta di vivere nel bosco, dicendo di voler scoprire la verità della vita e di goderne, non importa quanto misera, per «mostrarla al mondo […] [e] farne esperienza»2. Egli vuole aiutare a scrivere la storia dello spirito, a far sì che esso comprenda i suoi mondi fino a sapersi riconoscere anche lungo i millenni. Vuole descrivere la profondità, la stessa che il lago-infinito presso cui vive gli ispira.

Privandosi del superfluo e improvvisando qualsiasi azione, Thoreau s’immerge nella natura e comincia ad impararne la lingua. Gli occhi animali iniziano a brillare dell’intelligenza dimenticata, degli uomini stessi si descrivono le abitudini e i caratteri col piglio del naturalista, e ogni creatura rivela l’età del suo spirito. Le civette ululano come le «sagge streghe della mezzanotte» e i rospi gracidano forte come «antichi bevitori di vino e birra […] che vorrebbero tornare alle loro tavolate»3. Durante la primavera, stupito di fronte al risveglio della natura, Thoreau non tralascia alcun dettaglio mentre riporta sulla carta tutto quanto è in grado di vedere, di sentire, di esperire. La memoria della natura non tace mai e chiama l’animale umano alla partecipazione. La sua esistenza è armonica quando è raccolta nel contesto.

La trascendenza come immedesimazione nell’eternità della natura, ci insegna infine Thoreau, si compie nel momento in cui l’essere è del tutto coinvolto nel corpo e nella fatica del proprio cammino. È uno stato dello spirito cui la coscienza può ambire solo quando è padrona di sé, cioè si sente sua, si sa sua – sua e nient’altro – e sa invece che la storia dello spirito e della vita non dipendono solo dall’umanità. La vita che riscopre Thoreau ha già il sapore della perdita; come se dal Lago di Luce avesse finalmente pescato un persico leggendario e gli fosse apparso in un solo olimpico balzo fuori dall’acqua, per poi sfuggirgli nell’immersione. Ma questa è la Via che dagli spiriti antichi riecheggia finanche alla nostra volta celeste – l’incomprensibilità dell’eterno – eppure la sua splendente verità, che riveste l’universo di mistero e di pace, è sempre a un passo dall’essere rivelata eppure sempre vera anche nell’enigma.

Thoreau vede il lago; lo ammira, lo ama, lo ringrazia, impara da esso. Capisce la sua saggezza, tutto gli parla di infallibile eternità. La vita è viva perché c’è e cambia, si muove, si trasforma, è nella trasformazione, perché il cambiamento è ciò che non lascia dilagare il nulla. ‟L’Essere è” significa che l’Essere sarà sempre. I rettili e i pesci dei mondi perduti guardavano panorami molto simili ai nostri. Questa è il dono che l’universo fa a chi cerca il suo io. La creatura ricorda di essere «signora del suo reame»e la cura per esso la gratifica, e torna alla vita con purezza; e facendo come quell’artista che decise di realizzare il bastone pastorale perfetto, il tempo si tiene lontano da lei «per la semplicità della sua meta […] [e] la sua pietà elevata»5, così potrà vedere, dopo molti sonni di Brahma, alla fine della sua opera, che la proporzione del suo mondo si è rivelata nell’attimo.

La storia di Thoreau è un mito e lo era già presso i contemporanei. Bisogna comunque ricordare che il lago in cui viveva era a due-tre miglia dal suo villaggio natale, al quale faceva anche visita, ma sono dettagli che pur ridimensionando il mito non cambiano il senso che ha assunto, ossia quello di una ricerca appassionata per la verità ultima del mondo e di tutte le cose. E così come la storia di quel lago in cima alle montagne peruviane nutrì la leggenda di El Dorado, quella di Walden ha trasformato il lago omonimo in un monumento immortale alla vita che cerca.

 

Leonardo Albano

 

NOTE
1. Si tratta della laguna di Guatavita. L’oro che veniva lasciato affondare era parte della ricchezza del re.
2. H.D. Thoreau, Walden, Torino, Einaudi, 2015, p. 83.
3. Ivi, pp. 114-115.
4. Ivi, p. 293.
5. Ivi, p. 298.

[Photo credit Atte Grönlund via Unsplash]

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L’importanza di essere malinconici

È da tempo che provo a dare un senso alla mia malinconia. Eppure, negli anni, ogni tentativo di spiegarmi l’origine di questo filtro nero che si frappone tra me e la realtà non ha fatto che aumentare il mio bisogno di sapere. E se la malinconia, quest’indole che da un momento all’altro può sfociare nella patologia (depressione), non fosse altro che l’effetto di questo pensiero ingrovigliato sul mio essere? Un luogo comune che come tutti i luoghi comuni conserva in sé qualcosa di vero e indimostrabile. Per questo, nonostante tutto, Flaubert – uno che di luoghi comuni si intendeva – si domandava se pensare e soffrire fossero la stessa cosa. Più si riflette e si abbraccia la condizione umana, più il dolore si fa largo nei pensieri e nelle membra. Ma è la malinconia che ci spinge a sapere o è il sapere che ci rende malinconici? Impossibile rispondere. È pero possibile affondare lo sguardo nelle profondità della malinconia, spiandone i movimenti, scordandosi però di poter arrivare a un racconto universale e scientifico (clinico) delle sue innumerevoli manifestazioni. Una fenomenologia dai labili confini, dunque, e che si serve di immagini che hanno il merito di suggerire – non definire – sensazioni confuse, ma tra le più seducenti. Si potrà così viaggiare, con l’aiuto del linguaggio poetico e della lucidità filosofica, tra febbri, battaglie, cadute, lutti, deserti, nostalgie. Come fa la malinconia a partorire così tante metafore, spronandoci a superare il linguaggio comune per approdare a lidi nascosti della nostra interiorità, i quali, accarezzati dalle sue visioni, sentono ora la necessità di esprimersi? È ancora quel connubio tra pensare e soffrire a venirci incontro: la malinconia ci accompagna a visitare gli abissi del nostro essere, in un processo di conoscenza graduale (di noi stessi e del mondo) nel quale ci scopriamo lucidi, e così nudi di fronte al mondo per noi doloroso. Pensiamo e soffriamo. Soffriamo e pensiamo. Ma non basta. In questo processo a crescere e imporsi in noi è il bisogno di senso. Pensare, conoscere, sapere, e il loro tingersi di malinconia; oppure la malinconia nell’aprire brecce di lucidità nell’esistenza; accumulano significati. Significati che vanno narrati per ristabilire l’equilibrio – o crearne uno – della vita ferita. Ecco l’arte, il racconto di significati attraverso linguaggi simbolici, e con essa l’arte di soffrire, la malinconia che si esprime, che impara a farlo. Con essa crescono i significati, trovando canali di espressione, in un viaggio che risponde alla necessità di dirsi per trovare un senso alla sofferenza, o più semplicemente alla vita, che nella sofferenza mostra le radici. Difficilmente, però, si troverà conforto in una risposta. Il senso latita; è la ricerca del senso a dar fiato ai giorni. E quanta bellezza, nel corso della storia, ci hanno regalato le malinconie degli uomini! A partire da quel connubio tra genio e malinconia ipotizzato da Aristotele (o da un suo allievo) per spiegare l’eccezionale creatività di alcuni esseri umani – eroi e sapienti –, in seguito riproposto in altre forme nel Rinascimento e poi dai Romantici, fino all’esplosione novecentesca dell’io, foriera di forme d’arte mai viste e sentite prima.

Certo, non è solo bellezza. È anche tenebra, abisso, pulsione di morte. La malinconia e quello che in essa può scatenarsi (ansia, angoscia, noia, mania) fino alla depressione – la sua forma più attanagliante, che spesso seda qualsiasi impulso vitale – è pericolosa, cioè viva. In essa convivono gli opposti, luce e ombra, vita e morte, come in ogni sentimento autenticamente vitale. Ed è proprio dall’ombra che sgorga la luce, non c’è bisogno di ricordarlo. O forse sì, considerato il tempo in cui viviamo, anestetizzato dalla ricerca frenetica del divertimento, un modo per non pensare a noi stessi, ma di consumarci interiormente, consumati dalla macchina capitalistica i cui occhi hanno il simbolo del dollaro. Ci dobbiamo distrarre, siamo spinti a farlo, per non soffermare lo sguardo sulle catene luccicanti che ci stringono mani e pieni. Eccolo il paradosso: nel mascherare la malinconia, propensione profondamente umana che ha a che fare con la costruzione dell’identità e con la ricerca del senso, il sistema sociale (ormai mondiale) – e quindi noi stessi, volontariamente asserviti a esso – instilla in tutti noi i germi di una malinconia ancor più profonda che non vogliamo ammettere. La repressione della pericolosità dei sentimenti più vitali ci ha reso apparentemente più “felici”, ovvero distanti dalla vivida sofferenza, ma al contempo più sterili, incapaci di creare e vedere bellezza (il “bello” sarà quello che ci dicono essere bello). In sostanza depressi, di quella forma di depressione che si insinua nell’autoinganno del benessere (prettamente materiale). Ma cosa sono ansia, angoscia, preoccupazione, precarietà, paura, incertezza, frustrazione indotte dalla nostra società della prestazione e dell’efficienza, se non una forma profonda di depressione che coviamo in noi senza accorgercene? Schiacciati da un pensiero unico che ci vuole col sorriso, sempre pronti e reattivi, e instupiditi dai media digitali – la vera droga del nostro tempo – andiamo incontro alla schiavitù della mediocrità (vivere senza sapere, senza senso), perdendoci tutto di noi, l’occasione irripetibile di conoscerci ed esprimerci. Siamo la benzina di un sistema livellatore, che non ha occhi per le persone, ma solo per lo sfruttamento dei loro bisogni. Ipocritamente, non si mette in discussione, non ha alcuna intenzione di limitarsi: la gente è depressa? diamogli i farmaci, inventiamone sempre nuovi e sempre più potenti cosicché possa distrarsi di un malessere che nasce da uno stile di vita imposto ovunque – un dolore assurdo, inspiegabile, insensato perché disumano. La malinconia è un’altra cosa, non ha niente a che fare con la schiavitù, è libera conformazione dei nostri desideri, ci fa soffrire perché ci consente di vivere – le giornate che molti conducono oggi tra lavoro, traffico e social network sono solo un surrogato della vita – permettendoci, nel conoscerci, di crearci, forgiando così la nostra identità, scoprendo la bellezza che si cela in tutti noi sotto il velo del dolore di essere al mondo. E dunque riprendiamoci la nostra malinconia, riconquistiamo il diritto di avere il tempo e lo spazio per “pensare e soffrire”. Per essere vivi.

Non dobbiamo crogiolarci nella sofferenza, e nemmeno invocarla. Ma si soffre, la vita non sarebbe vita altrimenti. Impariamo a soffrire, a farne un’arte, senza soffocare ciò che di più profondo esiste in noi e cerca di parlarci, nel tentativo di essere noi fino in fondo, e non lo specchio di un mondo che non vede l’ora di finire per lasciare il posto a qualcun altro.   

 

Stefano Scrima

 

Scrittore, musicista e filosofo, sulla malinconia ha recentemente scritto L’arte di soffrire. La vita malinconica (Stampa Alternativa 2018). Il suo lavoro si concentra sull’applicazione della filosofia alla vita quotidiana, nel tentativo di analizzare la società in cui viviamo mettendone in luce le contraddizioni e creando spazi di confronto. Riflettere sulla malinconia, creatrice di bellezza, in un mondo depresso dal culto del mercato, diventa in questo senso un’urgenza. Così come lo è porre un argine all’amplificazione di odio e ignoranza sui social network, di cui si tratta in Socrate su Facebook. Istruzioni filosofiche per non rimanere intrappolati nella rete (Castelvecchi editore 2018), o ripensare i dogmi della contemporaneità come il lavoro e l’efficienza, spesso alibi del non-pensiero, attraverso una rivalutazione della pigrizia, tema affrontato in Oziosofia (Diogene Multimedia 2017) e Il filosofo pigro. Imparare la filosofia senza fatica (il melangolo 2017).

 

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Il corpo parlante: elementi di un linguaggio di cura

Che valore acquista oggi la celebre espressione di Giovenale mens sansa in corpore sano, divenuta oramai motto della nostra contemporaneità?

Ci insegnano, fin da piccoli, a essere e a diventare ciò che mangiamo. Diamo al cibo lo spazio fisico dentro di noi in cui abitare e nel quale abitarci. Senza renderci davvero conto, tuttavia, di quanto il cibo faccia parte di quella grammatica invisibile del nostro quotidiano essere al mondo.

Certo, riuscire a capire il significato e l’essenzialità di vivere un’armonia tra mente e corpo non è semplice. Lo è oltretutto molto meno in un’epoca quale la nostra, in cui siamo diventati soggetti di una servitù volontaria, come la definirebbe Etienne de la Boétie. Bulloni di un ingranaggio complesso che, in modo invisibile, ci priva della capacità di avere piena consapevolezza rispetto a ciò che compiamo.

Mangiare è diventata un’azione come un’altra. Esattamente come lo è bere, respirare e camminare. Semplicemente parte della nostra routine. Una componente di quel registro di attività che svolgiamo meccanicamente.

Eppure il cibo, così come l’acqua, rappresentano ciò in ragione di cui tutto il resto diventa possibile. Senza cibo, non riusciremmo più a camminare. Il nostro corpo inizierebbe a deperire. Il nostro battito cardiaco a rallentare, sino al suo arresto.

Il nutrimento è ciò che ci permette di sopravvivere, di respirare, lavorare e amare. Nutrirsi correttamente, perciò, equivarrebbe alla capacità personale di costituire un’armonia dialettica tra quei bisogni fisici che ci costituiscono e il cui soddisfacimento è essenziale per mantenere un buon ed efficiente stato di salute, e quelle spinte emotive che esprimono la dinamicità del nostro essere-al-mondo. Quel disagio che talvolta proviamo quando ci sentiamo gettati in un mondo estraneo. Quell’amore che, invece, in un modo o nell’altro ci anima sempre, facendoci provare il sapore frizzante dell’esistenza.

Già Platone, nel Timeo, analizzando le caratteristiche fisiche dell’essere umano, aveva sostenuto il bisogno di realizzare un’armonia tra la conoscenza del corpo e quella dell’anima. Pertanto, la medicina aveva lo scopo di rendere manifesta la congiunzione dei due mondi: quello psichico e quello corporeo.

Certo, un’alimentazione equilibrata risulterebbe necessaria al fine di poter crescere e sopravvivere sul piano fisico e biologico. Può tuttavia questa sola prospettiva essere sufficiente?

La riduzione del cibo a oggetto da integrare e assimilare nel nostro corpo al fine di poterne garantire il mantenimento sembra non bastare. A maggior ragione nell’epoca dell’individualismo, in cui il mero sopravvivere richiede di essere accompagnato da un’etica del vivere.

Gli automatismi che impastano il nostro vivere quotidiano hanno così implicato lo svuotamento di senso di quello che dovrebbe essere il significato simbolico originario del cibo.

Necessariamente dipendenti, prima da quel ventre materno che ci culla e poi da quel seno che ci allatta, abbiamo appreso a nutrirci attraverso la presenza dell’Altro. Un Altro che ci da la vita e che ci alimenta attraverso il suo essere lì. Semplicemente presente. Unicamente per Noi. Par amarci e accarezzarci.

Che cosa potrebbe accadere di fronte all’assenza di quell’oggetto d’amore?

Una fuga. Un abbandono. Un’attesa troppo lunga. Uno sguardo non rivolto.

E l’improvviso sentirsi scivolare nel desiderio-di-niente. Nell’assenza-di-bisogni. Soprattutto di quelli primari. Del cibo, con i suoi sapori e i suoi colori, i suoi odori e profumi. L’anestesia dei sensi. E con essa, un’anestesia nei confronti della vita.

Quando ci si sente sprofondare in quel vuoto che ci portiamo dentro, il cibo diventa spesso il protagonista delle nostre vite. Un digiuno costante per non sentire più il dolore. Una ricerca ossessiva di tutto, per riempirci di tutto ciò che ci manca.

Capire il legame esistente tra cibo ed emozioni non è facile. Come non è facile talvolta ascoltarci per capire se abbiamo voglia di dolce piuttosto che di salato.

Prendersi cura del proprio corpo, di quel corpo che abbiamo, certo, ma soprattutto di quel corpo che siamo, significa anche soffermarsi a riflettere sul significato che attribuiamo al cibo che assumiamo. A quello che proviamo quando ne assaporiamo il gusto. Alla sensazione avuta quando soddisfiamo la voglia di questo piuttosto che di quest’altro alimento. A ciò che sta dietro i nostri bisogni e i nostri desideri.

Parlare di cibo significa essere capaci di investire il cibo-oggetto, mercificato e consumato in modo automatico e consapevole, con il suo valore esistenziale. L’alimentazione meccanica lascia così spazio ad un’alimentazione consapevole e vissuta nella misura in cui il corpo abbandona la sua funzione di contenitore-svuota-emozioni.

Non si tratta pertanto unicamente di sapere che cosa mangiamo, quanto più perché lo assumiamo. Ascoltandoci, e attraversando quel vuoto attraverso una nuova cultura ed etica della cura che, inevitabilmente, si intreccia con il valore simbolico che ciascuno di noi attribuisce al cibo.

 

Sara Roggi

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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