Favolacce: morire basta per rinascere?

Favolacce (2020) dei fratelli D’Innocenzo è un’opera complessa da definire, una favola nera in cui non vi sono eroi e forse neanche dei veri e propri cattivi; una favola oscura che ci porta all’interno di una realtà sospesa tra l’assurdo e l’onirico.

Pur essendo l’opera ambientata ai giorni nostri sembra di trovarsi in un limbo, i personaggi sono incapaci di ogni tipo d’azione – e anzi, gli adulti che si sono assuefatti alla realtà ne sono incapaci, ma chi agisce sono i bambini o meglio i quasi adolescenti: sono gli unici che riescono a concepire un’estrema via di fuga e (forse) consapevolmente prendono un’estrema decisione. Nel finale la voce narrante legge alcune parole dal diario di una giovane protagonista affermando di essere dispiaciuta di aver raccontato una storia al limite dell’assurdo, ma ora il tragico finale ci “riporterà a iniziare da zero”.

Ma è davvero la morte l’unica soluzione per poter rinascere? La morte delle nuove generazioni sembra essere ciò che riesce a purificare le vite ormai perdute dei genitori, una redenzione non richiesta, ma essenziale. I genitori che hanno condannato a morte inconsapevolmente i propri figli attraverso la loro infelicità e incomprensione sembra vengano condannati alla sofferenza, ma attraverso questa assolti.

Eppure la morte non basta, perché il ciclo delle vite dannate e assuefatte continua e lo si nota nelle ultime immagini che raffigurano un ennesimo dramma familiare.

Ma se neanche morire è sufficiente, come si può rinascere dalle ceneri del proprio fallimento? Il triste messaggio dell’opera è ciò che spaventa di più ascoltare e vedere: la realtà è senza scampo e per quanto si voglia cercare di fuggirne essa è pronta nuovamente a tendere un agguato, le ceneri che ci portiamo dentro saranno la nostra cicatrice eterna. Si può scegliere di morire prima di essere assuefatti da una realtà che ci priva della nostra sensibilità, come fanno i giovani protagonisti, o si può scegliere di non scegliere e agire come i genitori.

In un noto romanzo di Günter Gräss, Il tamburo di latta, il giovane protagonista rifiuta la sua realtà su cui incombe la minaccia del nazionalsocialismo e decide di provocarsi un danno fisico per non crescere più e di non esprimersi se non attraverso il suono del suo tamburo di latta. La scelta del protagonista è dovuta al fatto che egli afferma di non voler vivere in un modo dove l’individualità è scomparsa, dove non vi sono più eroi o rivoluzionari, ma solo coloro che hanno deciso acriticamente di vivere una realtà in cui non sono più protagonisti, ma spettatori. Ciò che pensa il giovane protagonista del romanzo descrive esattamente quello che è il messaggio che i giovani protagonisti di Favolacce vogliono passi attraverso lo schermo: si deve lasciare la scena prima di diventare privi di sensibilità e delle grandi qualità umane da romanzo quali l’ambizione, l’umanità, l’empatia.

I genitori dei giovani protagonisti sono affetti da una malattia tipica dell’età moderna: la continua ricerca di qualcosa che superi ciò che già si possiede. Sono incapaci di prendersi la responsabilità delle proprie scelte e talmente incentrati su sé stessi che diventano cechi di fronte alle esigenze dei propri figli, tanto da non riuscire a vedere ciò che accade alla luce del sole dinanzi ai loro occhi.

I genitori mancano di empatia perché concentrati sulla propria insoddisfazione ed eterna sensazione di non essere mai abbastanza, una terribile sensazione di “normalità” sembra li assalga. Sono incapaci di ambizione perché inconsciamente non vogliono uscire dal microcosmo di una provincia immaginaria troppo reale e asfissiante di cui fanno parte, l’atto estremo dei bambini è un atto di ribellione, la ribellione è un sentimento forte che si cela dietro anche gesti estremi. La morte come ribellione è un concetto difficile e forse a tratti paradossale, la ribellione intesa come azione qui si trasforma in un atto che pone fine ad ogni azione. L’umanità e la paura dei giovani protagonisti è tangibile quando poco prima dell’atto estremo una lacrima riga un volto; è straziante che siano così indifesi e soli e per questo disperatamente costretti ad agire.

Favolacce è una parabola amara che cattura l’attenzione dello spettatore, lo trasporta in una storia macabra, oscura, simile a un incubo e forse ciò che spaventa di più è che sia in effetti reale, troppo reale. Non c’è risposta alle domande dello spettatore che deve accettare che a volte bisogna soltanto riflettere e osservare; la grandezza di un’opera d’arte sta nel suscitare domande che non hanno risposta e spingerci oltre il nostro piccolo microcosmo: in questa prospettiva Favolacce è sicuramente un’opera eccezionale.

 

Francesca Peluso

 

[immagine tratta dal film]

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Zabriskie Point: 50 anni dall’insuccesso di Antonioni

Uscito nel marzo 1970, clamoroso insuccesso a livello di botteghino, di pubblico e di critica, Zabriskie Point fu additato di mistificazione, vaghezza e semplicismo. Particolarmente dura fu la critica americana che accusò Antonioni di aver rappresentato l’America da europeo, a mo’ di «un provinciale che punta al grandioso», e di essere scaduto in un erotismo che rasenta la comicità involontaria. «Non sono un sociologo, il mio film non è un saggio sugli Stati Uniti ma si situa al di sopra dei problemi precisi, particolari di quel Paese. Ha essenzialmente un valore etico e poetico»: questa la risposta del regista ferrarese alle numerose critiche negative sul suo primo lungometraggio girato negli States, secondo film, dopo Blow Up (1968), girato in lingua inglese per la Metro-Goldwyn-Mayer. Più articolata la critica italiana divisa tra chi apprezzava il carattere sperimentale e poetico dell’opera, come Micciché, e chi invece, come Mereghetti, riteneva l’interpretazione del ribellismo giovanile «enfatica e fasulla».

Cinquant’anni dopo Zabriskie Point credo possa essere considerato un cult, un film emblema della rivoluzione dei costumi e delle contestazioni studentesche degli anni Settanta : road movie e storia d’amore in piena rivoluzione culturale, sullo sfondo il paesaggio della Death Valley e le note dei Pink Floyd. Nel deserto, simbolo dell’America non inquinata dal post-capitalismo delle grandi multinazionali, due rivoluzionari giovani e liberi, interpretati dai bellissimi e esordienti Mark Frechette e Daria Halprin, si fondono ripetutamente tra di loro e con la natura fino a una scena di amore la cui intensità del momento è resa dal regista con il moltiplicarsi delle coppie coinvolte e cui la Commissione per la revisione cinematografica impose diversi tagli.

Attraverso dialoghi scarni che accrescono il valore estetico delle immagini il film si scinde tra reale e onirico, opponendo alla metropoli californiana di Los Angeles il deserto di Zabriskie Point, alla società oppressiva il silenzio della natura e al destino di Daria quello di Mark. Dopo la passione travolgente sbocciata nella Death Valley, Mark, che, ribelle e temerario, aveva dichiarato di chiamarsi Karl Marx, coinvolto nell’assassinio di un poliziotto e in fuga a bordo di un aeroplano da turismo rubato, viene ucciso, Daria, invece, studentessa che lavora saltuariamente come segreteria e ha una relazione con il suo capo, fuggita verso il deserto in macchina, è ancora incasellata nell’alienazione della società, dove fa ritorno mentre apprende alla radio la notizia della morte del suo giovane amante.

Daria come Vittoria (interpretata da Monica Vitti) di L’eclisse (1962) è simbolo dell’estraniamento di chi non riesce a trovare il proprio posto nel mondo moderno di banche e macchine, in una realtà non più interpretabile e i cui ideali sono stati distrutti dal post capitalismo che lascia gli individui soli con loro stessi vaganti tra freddi paesaggi che non appartengono loro. La modernità appare agli occhi di Daria priva di ideali e falsa, ovattata e platinata, rispetto ai colori soffusi e naturali del deserto, fino ad immaginare nella sublime scena finale un’esplosione apocalittica della villa del suo capo: sette minuti durante i quali tutto, dal cibo ai libri, dai vestiti agli elettrodomestici salta in aria.

 

Rossella Farnese

 

[immagine tratta da Pixabay]

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Woodstock tra ieri e oggi: dalla mostra del Museo di Asolo al 15 marzo

Tre settimane fa migliaia di persone, ma soprattutto di giovani, in tutto il mondo, sono scesi in piazza per il clima.
Cinquant’anni fa, nel 1969, migliaia di giovani in tutto il mondo scendevano in piazza contro la guerra in Vietnam, contro una società chiusa e retrograda, cantando e dialogando in favore della pace, delle libertà e dei diritti. Quello è stato l’anno di splendore di una cultura nuova sotto il profilo sociale, artistico, letterario: ci si augura che lo sciopero del 15 marzo 2019 possa essere lo stesso, prima scintilla di un’inversione di rotta di un popolo di giovani che si ribellano alla noncuranza degli adulti, i quali continuano imperterriti a ignorare le ferite di un pianeta che sarà sempre più inospitale per le generazioni future.

Lo spirito della mostra “Woodstock: Freedom” organizzata al Museo Civico di Asolo da MV Eventi vuole essere anche questo. Gli intenti degli organizzatori vanno nella direzione di una mostra esperienziale in cui i visitatori si possono immergere con i sensi nel clima della fine degli anni Sessanta, orientandosi liberamente tra espressioni di Pop Art, musica rock, film e musical. Il percorso storico ci porta dai telegiornali d’epoca alle testimonianze della guerra in Vietnam, con il ritornello penetrante e quasi ossessivo del musical Hair, un vero e proprio inno che recita “Let the sunshine / Let the sunshine in / The sunshine in”; la musica cambia quando si approda nella sala dedicata alle contestazioni giovanili con opere e testimonianze di una gioventù che lotta per farsi ascoltare. Il grido di speranza di Hair lo si sente in quel cartello sollevato da un manifestante e fotografato per i posteri che recita “Vogliamo pensare”. Noi, i posteri, lo guardiamo e sentiamo (o meglio dovremmo sentire) scattare dentro qualcosa. In un momento in cui il clima politico spinge (soprattutto noi giovani) all’omologazione, propinando gli stessi temi e prodotti pseudo-culturali, è forse giunto il momento di dimostrare che non siamo affatto i bamboccioni choosy con un problema di dipendenza da genitori e smartphone. I giovani alla fine degli anni Sessanta sono riusciti a cambiare qualcosa, quindi possiamo farlo anche noi oggi: il fatto che certi adulti abbiano snobbato o ignorato il messaggio del 15 marzo forse significa che se la ricordano la fine degli anni Sessanta, e che magari un po’ di paura la facciamo.

Ma la mostra intanto prosegue raccontandoci le conquiste sociali e culturali del periodo: la voce di John Lennon, la beat generation descritta nell’iconico On the road di Jack Kerouack e (perché no) l’utilizzo sempre più diffuso della minigonna. Con questo spirito si approda in Sala della Ragione, che custodisce le opere d’arte più significative e sintonizza i nostri pensieri sulle note dei più grandi artisti che hanno suonato a Woodstock. Per qualche istante è possibile sedersi su quel fazzoletto d’erba sintetica e provare ad immaginare quello che dev’essere stato. 500.000 ragazzi per tre giorni di musica. Una grande operazione di marketing, quella, che però mette il cappello a uno slancio interno umano verso la libertà che ha caratterizzato mesi e anni.

Il 15 marzo ha coinvolto centinaia di migliaia di giovani in circa 1325 piazze di oltre 98 Paesi nel mondo, e pare esserci già la data del prossimo appuntamento: il 24 maggio 2019. In pochi mesi sono sorte decine di pagine Facebook con lo slogan “Friday For Future” in cui i giovani hanno cominciato ad organizzarsi, a condividere, ad invitare gli amici; lo stesso avviene sugli altri social e c’è dibattito anche alla vecchia maniera, cioè a voce. Di certo i mezzi sono cambiati, ma chissà che questo 2019, proprio cinquant’anni dopo Woodstock, non sia l’anno decisivo di rinascita del movimento dei giovani? Anche le sfide sono nuove: i cambiamenti climatici e l’ecologia trainano la protesta e da quel futuro rubato (già rubato, già perso, irrecuperabile) nasce la voglia di prendere il controllo, riappropriarsi del proprio destino.

FREEDOM!

 

Giorgia Favero

 

locandina-woodstock-freedom“Woodstock: Freedom”, dal 23 febbraio al 12 maggio 2019 al Museo Civico di Asolo e alla Torre Civica di Asolo
Orari: venerdì ore 15-19, sabato e domenica ore 10-19. I medesimi orari valgono per la Torre Civica.
Biglietti: 10€ intero, 8€ ridotto. Comprende anche l’ingresso alla Torre Civica.
Visite guidate: ogni sabato alle ore 15 e ogni domenica alle ore 11 (fatta eccezione del giorno di Pasqua) con un supplemento di 5€ al prezzo del biglietto.
Per info sulla mostra e sulle visite: info@museoasolo.it o 347 5735246

 

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Il “Trattato del ribelle” e il senso di Jünger per la rivoluzione

Nonostante lo avrebbe potuto dire qualsiasi uomo di qualsiasi epoca, quelli che viviamo non sono tempi semplici. Confermiamo quindi a tutti gli uomini del passato che a livello di malessere o disordine percepito il mondo non è cambiato troppo, pur non volendo essere sfascisti e pessimisti.

I tempi attuali vedono le parti del mondo cercare di unirsi, capirsi, connettersi in tentativi goffi e guadagnando terreno solo se da un lato lo si è perso. Per questo abbiamo sia la sensazione che il livello di benessere attuale non sia mai stato raggiunto, sia che essendo aumentato per certi aspetti, molti altri minacciano la nostra quiete quotidiana. Senza contare che uscendo dai parametri occidentali, la situazione di benessere cala enormemente.

È indubbio dunque che a più livelli si respiri una certa voglia di ribellione, di sfogo, di sistemazione di qualcosa che si percepisce come rotto o sbagliato.

Assistiamo allora alla riscoperta di pensieri, atteggiamenti e azioni che vogliono sovvertire ciò che non va o che è visto come nemico. Allo stesso tempo però ci sembra che l’unico modo di reagire a questa situazione sia quello della rumorosa e disorganizzata aggregazione di idee mal pensate e persone confuse. Può esistere un modo di pensare e agire che possegga la forza del cambiamento ma che sia alternativa alla linea solitamente intrapresa?

Uno dei massimi esempi e delle più intense ispirazioni al riguardo ci giunge dal Trattato del ribelle di quell’anima visionaria e unica che è stata Ernst Jünger. Il titolo originale dell’opera è Der Waldgang, che si traduce con “colui che passa al bosco”. Il libro di Jünger, pensato sui postumi del nazismo, ha voluto dipingere l’aspetto dell’«uomo concreto che agisce nel caso concreto», dissociato dalla massa ipnotizzata e che riesce a riacquisire i propri tratti individuali originari.

Anche oggi di fronte al caos che fronteggiamo su più fronti – personalmente, socialmente, politicamente – avvertiamo una palese chiamata alle cosiddette azioni “concrete” o “pratiche”, che tolgano l’uomo contemporaneo dalla fanghiglia di una società che non lo rispecchia (ma che comunque e allo stesso tempo contribuisce a creare): le forme del populismo chiassoso, degli attacchi alle poche certezze (si pensi alla odierna delegittimazione della scienza attuata da elementi e forze politiche pseudo-innovative), cercano di porsi come forze nuove e sovvertitrici verso un ordine sovrano.

Chi non sopporta il maleodorante odore di quest’atmosfera, ma vorrebbe comunque dar vita alle proprie energie e alle istanze di cambiamento, in che modo può sfogarsi e riconoscersi al di fuori del proprio mondo privato?

Jünger suggerisce, con le solenni e leggere parole che hanno animato una intera generazione intellettuale a lui contemporanea, che proprio nel mondo privato e interiore riesce a insinuarsi l’idea guida per il cambiamento vero: che solo nel solitario e silenzioso ritiro e raccolta delle proprie «risorse più profonde»1  sta l’inizio di una vera rivoluzione. Rivoluzione che traendo linfa dalla dimenticata forza della memoria e del ricordo delle fonti vitali originarie che l’uomo contemporaneo ha barattato per la corsa alla «hybris del progresso»2, assume i caratteri di una «restaurazione conservativa»3.

«Passare al bosco» significa appunto questo: riallacciare i contatti con se stessi attraverso una pratica riflessiva, di pensiero, che vada sì «oltre i confini della meditazione»4, ma che sia anche «una tattica di guerra» e di azione per il cambiamento. Tornare alla terra non significa affatto ritrovare un rapporto perduto con la natura per rinnovare il proprio essere e distoglierlo da quello storico-mondano, ma «preparare gli uomini al viaggio che li porta nelle tenebre e nell’ignoto»5, andando oltre la dialettica della folla incapace e inconcludente, proprio per ricostruire una mondanità che sia realmente a dimensione d’uomo e che con colui sappia autenticamente dialogare.

Per un’azione che sia reale, efficace, profonda, è necessario che reale e profondo sia il soggetto da cui fiorisce.

 

Luca Mauceri

NOTE:
1. Ernst Jünger, Trattato del ribelle, Adelphi, Milano, 2012, p. 41.
2. Ivi, p. 45.
3. Ivi, p. 55.
4. Ivi, p. 9.
5. Ivi, p. 86.

 

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Gastrite filosofica e capitalismo

«L’inganno più grande che io abbia mai fatto è stato di farti credere di essere te».

Da Revolver, film di Guy Ritchie del 2005

 

Quale migliore citazione per la vittoria definitiva del Capitalismo tanto temuto dal buon Karl Marx? Alla fine il più grande inganno della società contemporanea è essere riuscita a instillare in tutti noi l’unica e ferma convinzione che in fondo le cose non possano stare che così e in nessun altro modo. Va dato al mondo contemporaneo e ognuno di noi quindi il merito di aver piegato ogni dissenso e ogni voce critica fino a soffocare il grido di un recente passato di conquiste sociali all’ovatta del tempo.

La società occidentale, così immune alle patologie devastanti che hanno flagellato i secoli passati, vede un crescente aumento di malattie croniche di poco conto: vedasi gastriti, sindromi del colon irritabile e disturbi vari. Ovviamente esse non sono niente se paragonate a una epidemia di vaiolo, eppure questi piccoli e fastidiosi disturbi si insinuano sempre più violentemente nel vivere quotidiano di milioni di persone ogni giorno, inesorabilmente. Solitamente esse vengono derubricate alla voce stress, un termine ormai abusato e quasi dato per scontato, ma filosoficamente indagato pochissimo − in fondo siamo tutti (chi più chi meno) stressati, perché occuparcene quindi? Ma che matrice intima ha questo stress?

La società capitalista che ha una forte matrice cartesiana sorvola grandiosamente l’interazione tra fisico e mente e viceversa. Del resto niente vi fu di più grande dell’idea che in qualche modo l’esistenza fosse slegata dal tanto disprezzato corpo che con la sua caducità metteva a nudo la deflagrazione di quelle idee e derivanti ideologie che si volevano incorruttibili. Cartesio imparò bene dal cristianesimo.

Tutti noi siamo stati educati, cresciuti e abituati (ma sarebbe meglio dire addestrati) a gestire come normali certi sfoghi o reazioni del nostro corpo, perché in fondo ritenute parte dell’esistere contemporaneo come l’inquinamento ambientale, l’uso di conservanti nell’alimentazione, seppur nocivo, o lo smog perché, in fondo, si è normalizzata l’anomalia dello stare male.

Non solo Karl Marx ha fallito come ha fallito il materialismo, ma siamo ben oltre: noi stessi rifiutiamo costantemente ciò che il nostro corpo, che poi è la nostra parte più vera, prova disperatamente a dirci, e cioè che le cose così come sono non vanno bene. Nella vostra vita avete trovate o troverete un’orda di motivatori, coach improvvisati, melliflui chiacchieroni sempre pronti a dirvi che in fondo bisogna andare avanti, bisogna pensare positivo, che se hai la gastrite buttaci giù due pastiglie che passa e via. Avanti tutta verso la meta.

Che meta poi?

Una esistenza consistente, autentica?

No, in questo mondo esisti solo nella misura in cui produci un reddito, lo sanno bene le orde di stagisti e poveracci sottopagati che si ammassano alla ricerca di un lavoro “perché tanto bisogna fare curriculum”, lo sanno bene i poveri, gli storpi, gli esclusi dalla società che come la vostra gastrite vi ostinate a non voler ascoltare, anche se, in fondo, è parte di voi. Forse quella dannata gastrite è la parte più vera di voi.

Scrive bene Karl Marx nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859):

«Non è la coscienza degli uomini che determina la loro vita, ma le condizioni della loro vita che ne determinano la coscienza».

Allo stesso modo tutti noi siamo stati educati che in fondo un po’ di gastrite può andar bene, che bisogna lavorare anche se ti pagano poco, che anche se stai male bisogna produrre e in fondo che stare male è una condizione strutturale dell’essere umano salvo tu non abbia la fortuna di essere un milionario, un vincitore del Superenalotto o in generale qualcuno che può vivere di rendita o ergersi sopra gli altri.

Quella dannata gastrite che prende il sopravvento è invece forse la parte più autentica di ognuno di noi, è quel mutus animi (moto dell’animo) che in fondo ci sta sussurrando dal basso del nostro ventre che le cose, così come sono, in fondo non vanno; è un richiamo ancestrale al ribellarsi e alla ribellione, perché in fondo ogni essere umano nasce libero, ma non sempre siamo capaci di sostenere o di ricordare quella libertà.

Meno Malox dopo i pasti e più e più Lex, intesa come giustizia, cioè dare a ognuno il suo. Forse seguire questo principio ci aiuterebbe a risolvere tanti problemini di stomaco in prima battuta e a costruire una società migliore nel complesso. Le cose non sono date così come sono, ma ciò che ogni giorno scegliamo di essere determina ciò che le cose sono.

«Il difetto principale d’ogni materialismo fino ad oggi è che l’oggetto, la realtà, la sensibilità vengono concepiti sotto la forma di oggetto o di intuizione, ma non come attività umana sensibile, prassi, non soggettivamente».

La vostra gastrite è reale, care amiche e cari amici, ed è dannatamente oggettiva e vi ricorda ogni dannato giorno, o almeno ci prova, che le cose non vanno come sentite che dovrebbero andare.

Meno Malox e più ribellione, provare per credere.

Matteo Montagner

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

 

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La ribellione impossibile

Perché la mia generazione non si ribella? E – soprattutto – perché non si ribellerà mai? Non vorrei aggiungere fiumi di inchiostro multimediale a quello che altri hanno scritto su questo tema. Non vorrei farlo semplicemente perché molti di loro, se non tutti, non hanno la mia età.

Questo basterebbe a squalificare le loro analisi. Troppo distante il mondo in cui sono cresciuti per poter anche solo avvicinarsi al disastro antropologico ed economico degli ultimi 10-15 anni.

Bisogna vivere intensamente il tramonto per poter capire la notte che ci attende. Dipingere da posizioni di privilegio – spesso con toni moralistici – la crisi che ci ha investito, è un gioco letterario.

Riuscire a capire qualcosa della situazione attuale, per un giovane, è invece una missione politica chiara e definita. Per questo tutti i discorsi sullo scontro generazionale, sulla fine della moralità, sull’edonismo giovanile non hanno nessun senso se non prendono in considerazione la condizione di possibilità che ha permesso il loro avvento.

La risposta alle banalissime domande poste all’inizio, allora, diventa molto semplice. La mia generazione non si ribella e non si ribellerà mai al mondo proprio perché non è di questo mondo.

La “società dello spettacolo” – rubo l’espressione dal maestro Guy Debord – ha trionfato definitivamente. E noi tutti siamo stati traslati in una sorta di meta-mondo che con quello “materiale” non ha, apparentemente, nulla in comune.

I giovani vivono in una sorta di iperuranio telematico, elettronico, estetizzante all’ennesima potenza, che ha irrimediabilmente condizionato il loro di stare-al-mondo tradizionalmente inteso.

La società dello spettacolo di Debord presenta certo delle differenze sensibili, visto che cinquant’anni fa si poteva ben dire quale fosse il confine tra chi guarda e chi è guardato. Oggi tutto questo non è possibile, visto che quel limes è venuto meno, e la barriera tra osservato e osservatore è caduta miseramente.

Il gioco delle parti è diventato irreversibile, motivo per cui tutti possono guardare, essere-guardati e addirittura guardarsi dall’esterno.

La nostra è una società che si osserva nella sua interezza, e che ha perso qualsiasi movente per agire: quando è l’occhio (elettronico?) il perno di tutte le dinamiche sociali, è inevitabile il sorgere dell’abulia e dell’accidia che caratterizzano questa generazione.

Vedo e sono visto, quindi esisto, verrebbe da dire. E il comportamento dell’osservatore è – come da tradizione – quello di rimanere fermo ad analizzare nei dettagli la situazione.

Questo iperuranio estetico ha sicuramente radici materiali ed economiche, ma viverci comporta la netta eradicazione da qualsiasi impegno – politico e non solo – nel mondo. Ecco perché i giovani non si ribellano: le leggi del meta-mondo sono completamente diverse da quelle della realtà quotidiana di un tempo.

In questo senso si può parlare anche di un’alienazione radicale, visto che la vita delle radici viene completamente obliata, fin da subito. La protesica di cui ci siamo dotati per creare il mondo virtuale ha fatto sì che molti esponenti della vecchia generazione “perdessero” il treno della nuova modernità.

In molti casi si tratta di coloro che dovrebbero legiferare e amministrare governi e nazioni: il problema è proprio che appartenendo al mondo, e non al meta-mondo, la vecchia generazione si occupa, politicamente, solo del primo. L’iperuranio si è trasformato ben preso in una materia informe, anarchica e mimetica: sfido infatti chiunque a distinguere il mondo “vero” da quello “falso”. La sfida, come sempre, è vedere il doppio nell’unità.

Roberto Silvestrin

[Immagine tratta da Google Immagini]

Samurai dello spazio: Jurij Gagarin davanti alla morte

<p>Immagine tratta da Google Immagini</p>

La storia di Jurij Gagarin mi ha sempre commosso nel profondo: iniziare da una realtà agreste, povera e semplice, e col proprio innato entusiasmo giungere ad essere il primo umano della storia ad orbitare attorno al nostro pianeta. E tutto solamente a ventisette anni. Non riesco a immaginare l’euforia folle di sentirsi imminenti cosmonauti, l’ansia estrema e l’inquietudine eterna di vivere solo per quel momento in cui galleggerai sopra la casa della vita; buttarsi a letto elettrizzati, nella notte, contemplando il soffitto, sentendosi destinati alla più toccante esaltazione umana e in cammino lungo la strada che porta oltre ogni orizzonte. Sarebbe come sapere che si sta per nascere, e poterne assaporare ogni istante.

Ma il futuro è sempre incerto, i calcoli prettamente umani, questo paradiso si trova solo a un passo dal fallimento, e quella gloria indicibile diviene all’improvviso la più esigente delle ambizioni. Essa richiede il servigio estremo del conquistatore, e la dea non si mostra se non si è disposti a morire per lei. Il cosmonauta è costretto ad accettare. Si allena e si esercita per far eccellere le proprie prestazioni, studia come un disperato per prevenire qualsiasi situazione, passano i giorni e si avvicina la data del lancio, e il cosmonauta si è in realtà preparato all’eventualità della morte. Col tempo ha scoperto in essa la più magnifica delle mete, e quando passeggia sulla passerella fende l’aria coi pugni stretti come per scaricare l’adrenalina; è entusiasta e onorato di poter verificare la sua fede assurda di potercela fare, e semplicemente non vede l’ora di arrivare là dove nessuno ha mai messo piede.
Ma Gagarin si consumò velocemente e la sua vita s’interruppe con bruschezza solo qualche anno più tardi. Cos’era successo all’intrepido umano dalle ambizioni smisurate? Incidente, fatalità, ma sappiamo che muor giovane colui ch’è caro al cielo, come diceva Menandro, ed è lecito credere che a Gagarin sia toccata la stessa tragica sorte. Gli dei invidiosi, gli dei gelosi, le forze cosmiche troppo potenti e assolute per poter avere anche solo un nome; è a causa degli enti eterni che l’umanità teme la propria limitata corporeità e si prostra fedelissima, perché se non ci ammazzano per sadismo come dittatori paranoici, ci condannano a un servilismo inconcepibile che mortifica la nostra libertà. Nessuno vuole essere l’eletto di Dio, forse neanche Abramo lo voleva davvero. Ma come Gagarin altri innumerevoli grandi spiriti si sono affrettati a compiere il loro destino, hanno percorso la loro strada correndo a perdifiato verso la meta luminosa, ribellandosi agli dei imperativi, e da lì si sono voltati a contemplare il resto del mondo che da lontano arrancava, stremato, mutilato, cencioso come un cane randagio, stupito nel vedere delle anime sfuggire alla sua famelica avidità. “Uccidimi pure, Dio”, dicevano beffardi oltre il traguardo, “Uccidimi pure, che tanto ti ho già dimostrato che sono più grande di te”.

E a noi semplici umani, che destino ci spetta? Uno sciame di sogni ci vortica attorno alla testa e spesso ci abbandoniamo al suo ronzio per voluttuosità e pigrizia. Qualche volta capita che afferriamo uno di questi ideali, di questi angeli, lo prendiamo in ostaggio e lo costringiamo a dirci tutto quel che sa sul conto di Dio; poi lo lasciamo tornare a volteggiare coi suoi compagni e ci riteniamo scioccamente soddisfatti delle informazioni ricavate. Ma è un’ingenuità!, un’illusione!, perché dovremmo invece catturarne subito un altro per verificare la congruenza delle due testimonianze. Quando abbiamo realizzato un movimento dobbiamo poi compierne un altro, come i passi delle gambe, e da lì proseguire in una lunga sequela di movimenti che ci tenga mobili e vivi; fermarsi vuol dire fissarsi su un punto morto, ancorarsi ad esso, e poi accasciarsi a terra quando cedono le ossa stanche e sbrindellate dal tempo. Uno dei nostri errori più comuni è quello di credere che la tappa sia la meta, e piuttosto di guardare oltre il colle per vedere se la strada si snoda per altre distanze, ci inventiamo il mito delle colonne d’Eracle o dei guardiani infernali per non proseguire. Ma la vita come tale non deve incontrare finalità, non deve essere risolta in un’unica azione, ma deve invece ricominciare sempre da capo, eterna, ossessiva, inconcludente, per non esaurirsi prima del tempo. Le anime ferme sono come messaggi mai letti imbottigliati in cadaveri ambulanti, e quelle che corrono sono fiere di andarsene da un mondo che dà loro molto poco. Noi a metà strada dovremmo solamente incamminarci canticchiando, e spingerci fin dove possiamo arrivare in attesa della nostra occasione.

Chi ha buon senso si accontenta dei pochi metri che fa in un paio di passi, e da ciò cerca di ricavarne la miglior soddisfazione. Viaggia, parla, interagisce, ma sempre consapevole dei suoi limiti e in pace con essi. Ma se si parla di spiriti folli, tragici, caotici, troviamo ribelli che dedicano la propria vita alla lotta costante contro se stessi, all’annientamento radicale dell’Io e della propria volontà. Parliamo di spiriti che di fronte all’aut-aut tra la vita e la morte scelgono la seconda per glorificare la magniloquenza della prima, così come farebbe un autentico samurai. Il guerriero giapponese difatti s’impratichisce per affrontare la morte e in nome di essa s’immola per trovare un senso onorevole alla sua esistenza; sa che lì, nella tomba, c’è il compimento estremo di quel che un’anima fu. La fine di ogni fine, la parola ultima, l’atto creativo terminale; in questo essi erano onorati, e in questo consisteva la summa del Bushido. Gagarin lo seguiva, il Bushido, Gagarin padroneggiava la Via seppur inconsciamente. Gagarin era un autentico samurai dello spazio.

Leonardo Albano

James Dean: attore, icona, mito

A 24 anni si è ancora forse troppo giovani per capire cosa fare della propria vita. Si è da poco entrati in un mondo nuovo, fatto di grandi sfide e decisioni da prendere. Ci si guarda intorno spaesati.
Il 30 settembre 1955, sulla Route 466, James Dean moriva in un incidente stradale, al volante della sua Porsche 550 Spyder, “Little Bastard” come l’aveva lui stesso soprannominata.
A soli 24 anni se ne andava un ragazzo già uomo, un talento purissimo del grande cinema americano, un timido ribelle.
Tanto è stato scritto negli anni di Dean, fiumi di inchiostro. Il suo viso è ritratto ovunque: fotografato con cappello da cowboy e sigaretta stretta tra i denti, con un sorriso sornione e furbo, immortalato con il suo sguardo di ghiaccio, un’aria da ribelle senza tempo e una bellezza immortale.

È stato e continua ad essere lo specchio di un’epoca: figlio di una generazione che aveva versato sangue sui campi d’Europa e del Pacifico durante la Seconda Guerra Mondiale e che stava costruendo l’America di oggi, rappresenta l’inadeguatezza e la ribellione di un giovane uomo che cerca il suo posto. “Rebel without a cause”, come il titolo originale di Gioventù bruciata, è l’espressione che più si avvicina a ciò che Dean rappresenta.

Nei soli tre film in cui ha recitato si percepisce tutta la sua anima, la sua potenza; non si limitava solo a recitare, portava tutto sé stesso all’interno del suo personaggio, si fondeva in un tutt’uno. Che si chiamassero Cal Trask, Jim Stark o Jett Rink poco importava, esisteva solo uno, James Dean.

Celebri sono le sue improvvisazioni, come quella incredibile e commovente ne La valle dell’Eden, in cui interpretando Cal porta al padre 5000 dollari per risarcirlo di una perdita economica. Il suo viso è carico di gioia. Il padre però lo respinge e nella sceneggiatura originale Dean avrebbe dovuto andarsene. Invece rimase sulla scena, mutando gradualmente espressione, disperandosi, piangendo, aggrappandosi abbracciato al padre.
Se lo si vede recitare si ha subito l’impressione di trovarsi di fronte ad un attore diverso dagli altri: ci si immedesima subito nella sua irrequietezza, un’angoscia che sembra non trovare quiete. Si viene catturati dalla sua bellezza portata in maniera timida, con quel senso di ribellione e imbarazzo di un ventenne che è già uomo, che se ne frega, che vuole vivere a 100 all’ora.

Fu proprio la sua passione per la velocità a portarlo via così presto; correva regolarmente in moto e in auto e quando morì stava andando a Salinas, in California, per partecipare ad una corsa.

È stato definito in molti modi: sfacciato, ipersensibile, insicuro, sofferente, un ribelle che usava la provocazione come maschera del proprio disagio. Ma forse più semplicemente Dean era «troppo veloce per vivere, troppo giovane per morire», uno di quei ragazzi destinati a diventare un mito che trascende il tempo, un simbolo di ribellione emotiva e interiore, diversa dalle grandi correnti giovanili che avrebbero investito il decennio successivo alla sua morte. Il suo fascino e la sua bravura rimangono limpidi ancora oggi. La sua stella ha brillato per pochi anni, ma la sua immagine di timido ribelle in jeans, maglia bianca e giubbotto rosso rimarrà immortale.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini]