Il contratto sociale: Rousseau e la contemporaneità

<p>defocused crowd of people --- Image by © Images.com/Corbis</p>

È indubbio che l’Occidente stia vivendo un momento molto interessante della sua storia politica: anche grazie al concretizzarsi di alcuni scenari socio-politici che si credevano impossibili, assurdi, si ha un risveglio – forse lento, forse ancora iniziale – della coscienza politica dei cittadini occidentali. C’è voglia di occuparsi di politica e si è tornati a parlarne quotidianamente: quel che manca, a volte, son le categorie con cui interpretare alcuni fenomeni politici e la discussione pubblica diventa chiacchiericcio. In un sistema di mondi possibili ve n’è uno in cui ogni cittadino è adeguatamente informato a proposito di ciò di cui parla, in cui il discorso pubblico si colloca opportunamente rispetto ai fenomeni di cui si fa interprete. Questo mondo è ben lungi dall’essere identificabile con il nostro, in cui viviamo una tensione, un conflitto tra la voglia di partecipare al discorso pubblico e l’inadeguatezza della formazione generale dei cittadini: tra gli esiti di questo conflitto, vi sono alcune forme insane di partecipazione politica. Diciamo insane per intendere quelle forme di partecipazione alla cosa pubblica che mancano l’obiettivo, che illudono il cittadino di avere una qualche influenza sulla dimensione politica del mondo in cui vive.

Come si può risolvere questo conflitto e rendere possibile per tutti, cioè per chiunque abbia voglia di formarsi adeguatamente, la partecipazione al discorso pubblico?

Bisogna tornare a riflettere sulle origini della comunità politica in cui il cittadino si propone di agire, tentare di comprendere le ragioni di questa estraneità che la generalità delle persone vive rispetto ad essa, per poi ricalibrare adeguatamente le forme di partecipazione: la politica – intesa qui in senso ampio – va evolvendosi a ritmi serrati e non è pensabile che i cittadini non elaborino forme di azione e discorso politico altrettanto evolute, a meno che non si voglia rinunciare del tutto a questa dimensione. La qual cosa significherebbe accettare tacitamente una qualsiasi forma di dispotismo, poiché verrebbe meno la forza politica del cittadino e, con essa, il principale limite di ogni limite costituito.

Per riflettere circa la formazione della comunità politica, è opportuno farsi guidare da quei pensatori che hanno dedicato a questo tema il meglio della loro riflessione filosofica.

Uno tra questi è senza dubbio Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che ha riflettuto a proposito dei momenti costitutivi della comunità politica, quelli in cui gli esseri umani entrano a far parte di un grande e unico corpo politico, attraverso la stipulazione di un contratto sociale. Quanto v’è di peculiare nella riflessione di Rousseau, a ben vedere, è il fatto che il cittadino debba rinunciare del tutto alla propria sovranità, di cui godeva in stato di natura, senza con ciò subire alcuna diminuzione: la cittadinanza riconsidera tutti e sana ogni deficit di potere. È nella partecipazione alla vita della comunità che l’essere umano è pienamente autonomo e libero: e ciò è possibile per il fatto che il cittadino partecipa alla nascita della comunità di cui sarà parte, esercitando in prima persona il proprio potere.

Ciò che sembra mancare alla nostra contemporaneità è la disponibilità ad assumersi, da parte di troppi singoli, porzioni seppur ridotte di responsabilità: a tale resistenza fa da contraltare, ad ogni modo, la richiesta sempre più forte di spazi d’azione critica rispetto alla vita politica. Sembra, cioè, che alcuni cittadini vivano una relazione posticcia con la propria comunità, alla cui ideale fondazione non prendono parte, restando inevitabilmente in una situazione conflittuale tra i propri desideri e le condizioni di attuabilità degli stessi.

Emanuele Lepore

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Il principio di responsabilità: Jonas vs Ricoeur

Il concetto antenato di responsabilità è, secondo Paul Ricoeur, quello dell’imputazione che attribuisce l’azione all’agente, visto come causa dell’azione stessa.1

Come afferma anche Fabrizio Turoldo in Bioetica ed etica della responsabilità 2, il concetto responsabilità è recente e si affermerebbe attraverso un processo di umanizzazione, visto che ad un certo punto solo l’essere umano è visto come unico soggetto capace di responsabilità e imputazione, di individualizzazione, per una responsabilità esclusivamente individuale e di interiorizzazione, perché si afferma il potere della coscienza.

Questo concetto di responsabilità, però, non è ancora quello previsto e teorizzato da Hans Jonas, perché concerne la responsabilità per un’azione già compiuta da parte del soggetto agente nei confronti di qualcuno, quindi si tratta semplicemente dell’obbligo di rispondere di qualcosa che è già stato fatto nei confronti dell’oggetto che ha subito l’azione.

Solo verso il ‘900 la responsabilità inizia ad essere assunta come concetto in relazione a qualcosa di ancora incompiuto, in questo senso non è più un obbligo di rispondere di, ma rispondere a, che significa rispettare l’autonomia della persona.

È proprio questo il senso che Jonas intende per la responsabilità verso la tecnica: essere consapevoli della potenza della moderna tecnologia e delle sue conseguenze verso le generazioni future (ecco come si nota il rapporto che stabilisce il concetto di responsabilità: asimmetrico, dove la società presente è più forte rispetto a quella futura).3

Il concetto di responsabilità ha, inoltre, una doppia etimologia latina, quella di respondere e di risposare, la prima nel senso di ‘impegno verso l’altro, promessa’, presente in Paul Ricoeur, la seconda in quello di ‘resistere, contrastare’, ovvero saper gestire i cambiamenti della modernità: questo può essere considerato uno dei sensi della responsabilità di Jonas.4

Quindi il concetto di responsabilità, secondo Hans Jonas, è proprio il principio cardine di un’etica razionalista applicata soprattutto alla moderna bioetica che oggi è un ambito importante per i problemi che riguardano la libertà della ricerca. È proprio nella bioetica, infatti, che l’uomo è chiamato a fare delle scelte importanti da cui dipenderà il suo futuro, e il principio di responsabilità, in questo caso, assume un ruolo fondamentale: in campo medico la responsabilità non è solo per ciò che è accaduto, ma anche per quello che potrebbe succedere.

Certo, è difficile stabilire gli effetti futuri della moderna tecnologia perché molti di questi non sono subito individuabili.

Paul Ricoeur vede proprio in questo il pericolo di rovesciare l’etica della responsabilità nel non considerare più nessuno responsabile di nulla5, perché dover pensare a ogni conseguenza di ogni singolo gesto umano

finisce col rendere l’agente umano responsabile di tutto in modo indiscriminato. L’agente, in questo modo, non risulta più responsabile di nulla di cui egli possa assumersi il carico, perché prendere in carico la totalità degli effetti, significa capovolgere la responsabilità in fatalismo, nel senso tragico del termine, o meglio nella seguente denuncia: siete responsabili di tutto e colpevoli di tutto!6

Anche perché, secondo Ricoeur, fa parte della natura finita dell’uomo il fatto che molte conseguenze delle sue azioni siano ingestibili. Per questo egli insiste sul fatto di affiancare all’etica della responsabilità, che deve pensare alle conseguenze future, un’etica intenzionale che non si occupi delle conseguenze; ma questo non è attuabile, in quanto prevede il disinteresse totale nei confronti degli effetti futuri.

Nel libro Il Principio Reponsabilità del 1979, Hans Jonas giunge, invece, proprio alla necessità di applicare il principio di responsabilità ad ogni gesto dell’uomo che deve prendere in considerazione le conseguenze future delle sue scelte e dei suoi atti.

Quella di Jonas è un’etica orientata al futuro questo perché occorre la salvaguardia dell’essere e dell’umanità nel mondo minacciato dalla tecnica, con le sue conseguenze distruttive sul piano planetario.

L’imperativo di questa nuova etica, secondo Jonas, è:

Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza della vita umana sulla terra.7

Questa affermazione ci fa rendere conto come per Jonas l’etica della responsabilità sia vicina ad un’etica dell’intersoggettività, in quanto il soggetto responsabile è naturalmente sociale, dunque in rapporto con l’altro, in questo caso con le generazioni future.

Per Jonas è dunque necessaria una nuova teoria etica che possa valutare le possibili conseguenze catastrofiche dell’agire umano che oggi come oggi coinvolge l’intero pianeta.

Questa nuova etica potrà fondarsi ed essere vincolante solo attraverso un ripensamento del concetto di natura che secondo il nostro autore possiede una finalità in se stessa ed è ciò che determina il dover essere dell’uomo come insieme di scopi. infatti l’etica della responsabilità di Jonas muove dall’ontologia e questa è una rarità visto che le proposizioni dell’ontologia sono descrittive, mentre quelle dell’etica dovrebbero essere prescrittive; avendo, dunque, come fondamento l’ontologia, l’etica della responsabilità si basa sul principio secondo cui è meglio essere che non essere, visto che l’essere consiste nell’avere degli scopi che hanno valore in sé.8

La sopravvivenza dell’uomo diventa, così, un dovere metafisico: è necessario che ci sia un futuro, è necessario che continui la serie e che l’uomo permanga; la responsabilità verso il futuro, dunque, comprende un dovere diverso, ovvero si tratta di salvaguardare l’idea ontologica di uomo, non si può pretendere di fondare il diritto all’esistenza di un non-esistente.

La nuova etica dovrà dunque essere cosmica basata sul concetto della paura nei confronti dei possibili esiti catastrofici delle nostre azioni e sulla responsabilità.9

Valeria Genova

Note

1- P. Ricoeur, Il concetto di responsabilità, Il Giusto, Torino 1998, pp 31-56
2-F. Turoldo, Bioetica ed etica della responsabilità, Cittadella Editrice 2009, p.17
3- cfr Hans Jonas, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, 1997
4- F. Turoldo, op. cit. p.38
5- cfr P. Ricoeur, op. cit.
6- F. Turoldo, op. cit. p. 22
7- Hans Jonas, op. cit. p.16
8- cfr F. Turoldo, op. cit. p.43
9- Hans Jonas, op. cit.
 

Intervista a Eugenio Borgna: tra psichiatria e filosofia

Eugenio Borgna è primario emerito di Psichiatria dell’Ospedale Maggiore di Novara e libero docente in Clinica delle malattie nervose e mentali presso l’Università di Milano. Fra le più recenti pubblicazioni ricordiamo: Parlarsi. La comunicazione perduta (Einaudi 2015), L’indicibile tenerezza (Feltrinelli 2016) e Responsabilità e speranza (Einaudi 2016).
Ho l’occasione di incontrare il professore successivamente al suo intervento al Festival di Pordenonelegge. Si concede alle mie domande e ai microfoni dei miei due gentili colleghi e amici. Ci accoglie con la cordialità e la pacatezza dei gesti che lo contraddistinguono in ogni sua manifestazione, sia essa scritta o orale e con la coerenza di chi cerca di vivere i valori dei quali si fa portatore. Al termine di ogni domanda si sincera di aver esaudito le mie richieste. Una delicatezza autentica, di un uomo di grande cultura e profondità spirituale, che nella propria esistenza ha scelto di condividere la sua straordinaria sensibilità e umanità per avvicinare le ferite dell’anima ed alleviarne le sofferenze, attraverso l’ascolto, la comprensione e l’empatia.

Professor Borgna, nel suo ultimo libro Responsabilità e speranza lei afferma che «conoscere se stessi e gli altri è il modo più intenso di essere responsabili. Ma la vita è, insieme, proiezione di speranza». Può illustrarci quale rapporto intercorre tra responsabilità e speranza?

La speranza allarga la capacità che noi abbiamo di prevedere le azioni che esercitiamo sugli altri. Se la speranza non c’è in noi, vi è il rischio di esaurire il giudizio. Senza la speranza il futuro si chiude, si raggruma, si isterilisce. Finché la speranza vive in noi, come ha continuamente detto Leopardi, riusciamo a vivere. Senza speranza diventiamo delle monadi con porte e finestre chiuse, senza riuscire a intuire quello che c’è nell’animo delle persone. La speranza è memoria del futuro, è la premessa affinché si costruiscano relazioni umane autentiche fondate sulla corrispondenza, la concordanza e la pace; nonché la capacità di intuire, accettare e accogliere le nostre debolezze senza mai sottolineare e rimarcare quelle che sono le differenze negli altri.

Cerchiamo poi di cogliere il sorriso di un’anima anche quando le lacrime scendono senza fine. Ci sono lacrime che testimoniano un sorriso ancora più umano, ancora più creativo, ancora più capace soprattutto di oltrepassare le terrificanti barriere dell’odio, della violenza, del risentimento. La speranza va intesa come “nemica mortale” della violenza. Se si spera poi, si riescono a cogliere e intravedere scintille, apparentemente invisibili, che ci aiutano a dare un senso alla vita. Attraverso la speranza la nostra vita si fa più intensa, più capace di carità, di fede, più capace soprattutto di vivere e comprendere i dolori indicibili del sofferente. Senza speranza, potremmo anche essere giganti del pensiero, ma con i piedi di gesso.

Lo psichiatra Viktor Frankl sosteneva che l’uomo che non si proietta/progetta nel futuro facilmente smarrisce il senso della propria vita. Cosa ne pensa? E in che modo, secondo lei, la speranza ci apre al futuro?

Conosco molto bene i libri di Frankl. Credo che riescano a cogliere alcuni aspetti essenziali della vita dello spirito. Al contempo ritengo che lo psichiatra viennese sia però minato da quella che per me è stata la sua defaillance e cioè il pensiero di poter generalizzare situazioni, come quelle che lei mi ha descritto, che valgono solo in determinate circostanze e soprattutto con determinate personalità. Quindi, senza dubbio il pensiero di Frankl è un lume e una finestra aperta per uscire dai grovigli dell’egocentrismo e della solitudine. Tuttavia, eviterei di trasferire questa indicazione pratica e terapeutica in un sistema ideologico. Per cui, una tesi così secca come quella che lei mi ha espresso, non mi sembra sempre sostenibile. Riconosco comunque la qualità dei suoi scritti, tradotti anche dalla Morcelliana, che hanno senza dubbio un grande valore euristico.

In che misura la filosofia, e la fenomenologia in particolar modo, si sono integrate nella sua attività di medico psichiatra a diretto contatto con la sofferenza?

Come accade di frequente nella vita certe strade si aprono così, improvvisamente, senza che vengano direttamente cercate. Inizialmente io in clinica universitaria mi occupavo di neurologia, ma di casi di psichiatria ce n’erano pochissimi e venivano considerati come non degni di uno studio scientifico, come invece avrebbero dovuto essere tutti i casi di neurologia. Tuttavia, incontrando alcuni pazienti, ospiti in questa clinica famosissima, mi sono accorto che gli aspetti materiali, organici, cioè neurologici, mi interessavano relativamente, mentre mi interessava il risvolto interiore, cioè come quei pazienti vivevano i propri disturbi, le proprie malattie, i propri handicap, la propria disperazione. Da lì, quindi, ho seguito i pazienti che non avevano problemi neurologici specifici, ma che invece erano pazienti depressi e ansiosi. Quindi, non i grandi pazienti psicotici, cioè non schizofrenici, ma depressi, ansiosi, ossessivi. Ho capito che volevo seguire quella strada, altrimenti non avrei combinato niente, anche perché non ho grandi attitudini mediche pratiche, chirurgiche.

Inoltre, essendo uno dei pochissimi psichiatri italiani che conoscono il tedesco, ho potuto leggere, nel 1955, Allgemeine Psychopathologie, grande libro di Jaspers (scritto quando aveva appena trent’anni e che ancor oggi si studia), uscito nel 1913 in Germania e tradotto in Italia nel 1964. Jaspers a trent’anni si ammalava di tubercolosi e non potendo più fare lo psichiatra divenne filosofo. Uno dei grandi filosofi, che introdusse un nuovo parametro di conoscenza della psicologia sulla base delle idee fenomenologiche che erano state introdotte da Husserl prima e da Scheler dopo, per cui l’oggetto della psichiatria non sarebbe più stato il cervello, come oggetto neurologico, ma l’anima, cioè i sentimenti, le emozioni, i pensieri, i comportamenti che si possono riconoscere però soltanto se noi cerchiamo di metterci nei panni di chi soffre. Sembra la scoperta dell’uovo di Colombo, eppure questo concetto dell’einfuhlung, cioè dell’immedesimazione, ha davvero cambiato il mondo. Infatti, immergendoci e cercando di ricostruire la storia e le vicende della vita del paziente ci si è accorti di come avesse grande importanza nella cura anche il sentire come proprie queste sofferenze e il capire che non appartenevano ad un altro mondo, anche se espressione di esistenze lacerate e sofferenti; spesso dotate di qualità umane superiori a quelle che noi nella nostra umanità raggiungiamo.

Per esempio, Jaspers ha scritto un libro su Van Gogh, applicando per la prima volta anche nella storia dell’arte la categoria dell’immedesimazione per capire il motivo di questi particolari gialli del pittore olandese, questa sua schizofrenia, l’orecchio tagliato e l’esito del suicidio.

Il concetto stesso di speranza sembra oggi molto lontano dal vocabolario di adolescenti e giovani, che si confrontano con una società che spesso non crede in loro, se non a parole, e che è priva di ogni genere di certezze e stabili opportunità. Quale consiglio si sente di dare loro affinché non perdano la speranza nel futuro e in particolare in un futuro migliore?

Questo è un tasto molto delicato perché tendo, anche con i pazienti, a non dare consigli, tendo a non fare domande. Tendo, se ci riesco, a fare in modo che chi sta male, riesca a dire le cose che sente e se le sente, perché non sono un poliziotto come tanti psichiatri o psicologi che fanno domande in continuazione perdendo di vista il rapporto terapeutico e la relazione. Per cui, i consigli possono essere solo quelli che vengono dalla testimonianza, dall’esperienza, dagli studi e dai libri di alcuni importanti psichiatri o filosofi fra i quali Basaglia o Jaspers (pur nella complessità dei suoi scritti) o magari qualcuno dei miei libri relativi alla speranza.

Alessandro Tonon

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Hic sunt leones: l’immunità nei social

Nel 2016 gli italiani che adoperano quotidianamente i social network sono circa 21 milioni ovvero il 35% dell’intera popolazione del Bel Paese, un dato non indifferente se consideriamo di come nell’autunno di otto anni fa si aggirava attorno al milione di utenti. Un boom che ha portato a considerare la piattaforma più usata: Facebook, come una sorta di nuova piazza, capace di far interagire tra loro persone non solo di tutta Italia, ma anche di tutto il mondo. Si tratta di un’ulteriore evoluzione della comunicazione di massa?

Guardando brevemente la storia della stessa possiamo rispondere tranquillamente che sì, i social network hanno sintetizzato le passate esperienze della radio e della televisione; dalla prima hanno ereditato l’interazione – sebbene la maggior parte degli apparecchi potesse solo ricevere, non di rado si potevano incontrare appassionati smanettoni capaci di costruirsi la propria stazione radio in grado anche di trasmettere e quindi di comunicare: da metà anni ’70 si assiste infatti alla diffusione delle “radio libere” – dalla seconda invece hanno ereditato la componente video.

Esistono dei benefici, degli aspetti positivi nell’uso di questi veri e propri strumenti, specialmente in ambito mediatico o della conoscenza, eppure sotto la superficie esiste un intricato labirinto oscuro capace di mostrare la parte più recondita – e forse più sincera – delle persone. Quello che si percepisce è un grosso divario tra ciò che si potrebbe e ciò che invece si fa con l’internet del XXI secolo; ognuno di noi per esempio potrebbe incrementare la propria capacità di critica, di analisi e di confronto, nel concreto invece si assiste ad un fenomeno diametralmente opposto: più aumentano i presupposti del progresso sociale, più le persone costruiscono un muro di ottusità oltre il quale si estendono diversi ettari di occasioni perdute.

Così i pensieri espressi si omologano al pensiero-matrice della personalità legata al mondo della politica, o dell’opinionismo spiccio, oppure del mondo fittizio della “bufala”; il risultato sono centinaia e centinaia di frasi ripetute all’infinito prive di fondamenti concreti, orfane di fonti o addirittura inserite a caso nei più svariati contesti.

Come se non bastasse, a questa babele informatica si aggiunge il fattore cattiveria.

La “cyber diffamazione” amplifica l’antica derisione all’ennesima potenza: se in passato il proprio raggio di socializzazione era limitato ad ambienti locali e quindi per ricostruire la propria reputazione, messa in pericolo da qualche buontempone, bastava semplicemente cambiare quartiere o frequentazioni, oggi la propria vita privata è esposta a rischi ben più profondi poiché il raggio di socializzazione si è prolungato a dismisura raggiungendo un numero considerevole di persone con la conseguenza evidente che i rimedi del passato risultano totalmente inefficaci. I risultati sono tristemente noti: suicidi per cyber bullismo o traumi riconducibili ad esso e ripercussioni sulla salute psicologica della vittima.

Oltre all’accanimento contro una persona specifica assistiamo sempre di più alla violenza espressa, sempre attraverso frasi di cattivo gusto, nei confronti di comunità straniere – senza risparmiare i bambini – o nei confronti di determinate categorie di persone perché non annoverabili nella “normalità”.

Sebbene venga spontaneo chiedersi se gioire della morte di qualcuno o auspicare gratuitamente stragi efferate sia il metro di giudizio della normalità, è interessante il diverso atteggiamento che gli stessi individui utilizzano nei social network e nella realtà del quotidiano. Siamo tutti affetti da una sorta di bipolarismo confuso? Più probabilmente è la diretta conseguenza del nostro snobbare le parole.

Esse infatti, come dice un antico proverbio, feriscono più della spada, ma dato che non hanno la forma di un’arma e non sono consistenti tanto quanto un’arma, vengono il più delle volte sottovalutate, non tanto da chi le legge, ma da chi le pronuncia. Lasciano segni interiori, quindi invisibili ai più, ed il confine tra invisibile ed inesistente è così labile che spesso e volentieri lo si varca senza preoccuparsi troppo.

Negli ultimi anni in particolare è proprio la piattaforma Facebook ad averci regalato punti davvero bassi per quel che concerne la qualità del dialogo tra utenti. Si è via via trasformato in un’arena dove ci sono i leoni, quelli da tastiera ovviamente, convinti di vivere in un mondo ultraterreno, dove le conseguenze – in particolare quelle penali – sono incorporee, e forse non hanno nemmeno tutti i torti.

Tirando le dovute somme la domanda si pone un dubbio fondamentale. Ripartendo dai dati forniti all’inizio, proprio perché ormai il 35% degli italiani usa i social network, proprio perché le conseguenze dell’errato uso degli stessi provocano danni spesso irreversibili alle persone, quando verrà il momento di regolamentare, anche attraverso sanzioni più concrete, il comportamento degli utenti? Quando verrà finalmente il momento in cui tutti i fruitori della rete dovranno, per legge, prendersi la responsabilità di ciò che dicono pubblicamente?

Non resta che aspettare, speriamo non troppo, ulteriori sviluppi e approfondimenti sul tema.

Alessandro Basso

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La mia generazione: abbiamo fallito, avanti il prossimo

Quando ho visto Matrix per la prima volta ero seduto in un cinema, in una giornata assolata di maggio come tante, eravamo seduti sui gradini del cinema perché eravamo arrivati in ritardo e nel buio non eravamo riusciti a trovare dei posti a causa della sala gremita. Avevo 14 anni e stavo seduto accanto alla ragazza più affascinante che avessi visto, uno di quegli “amori” tipicamente adolescenziali. Non sapevo che in quel film di fantascienza si sarebbero coagulati tanti significati e tante questioni che avrebbero poi influito sulla mia generazione. Era il 1999. Era un film strano che parlava di volontà, destino, amore, senso della vita, il tutto coagulato in un blockbuster ben confezionato in pieno stile hollywoodiano.
Qualche anno dopo rimasi colpito, deluso, ma comunque attento per i riferimenti cristologici inseriti in Matrix 2 e 3 e ancora ripenso alla frase che descrive un messia cieco, un simbolo per tutti quelli come lui, patetico, in attesa che qualcuno gli dia il colpo di grazia.

In fondo ripensandoci era proprio un film adolescenziale, senza usare il termine in maniera dispregiativa, anzi, era una enorme storia in salsa cinematografica della Volontà di Potenza di Nietzsche che ha profondamente attraversato la mia generazione, una generazione sorta all’alba della decadenza dell’Occidente e della sua crescita: gli anni ’90 hanno rappresentato il preludio di un declino. La volontà di potenza ci mette un attimo a trasformarsi in volontà di impotenza, indolenza e ozio.

Penso che la mia generazione abbia delle grandi responsabilità per quanto è accaduto, sta accadendo e accadrà: siamo stati incapaci di dar vita a grandi prese di posizione generazionali, ma anche di dare alle cose una nostra inclinazione, seppur non all’insegna di rotture nette; siamo caduti preda di una anestetizzazione tecnologica, imbambolati da Mediaset e figli del berlusconismo, a prescindere che fossimo pro o contro.

Che fossimo pro o contro siamo pur sempre cresciuti all’ombra della figura di Berlusconi, una figura paradigmatica perché come i nostri genitori la sua generazione si è dimostrata quella dei moderni Crono e come tali non hanno che potuto divorare i propri figli. Gli anni di governo personalistico e finalizzato alla produzione di leggi ad personam più che di leggi per lo sviluppo non ci ha messo al riparo dalla crisi ed anzi hanno catalizzato quanto di peggio ha finito poi per abbattersi sul nostro Paese.

In un’ ottica marxiana i boomers (le generazioni che hanno vissuto la prosperosa epoca del boom economico) hanno fatto quello che i capitalisti fanno con i mezzi di produzione, hanno cioè fagocitato diritti in modo ipertrofico finendo per privare i propri figli e le generazioni future delle medesime opportunità, lo stesso dicasi per quanto riguarda gli impatti ambientali.

Lungi da me tuttavia indicare il male, additare le generazioni passate e sgravare così noi tutti da un onere di responsabilità al quale eravamo chiamati a dare una risposta, perché se le generazioni che ci hanno preceduto non sono state virtuose noi abbiamo peccato di una ignavia ben peggiore, ci siamo infatti ben guardati dal rompere gli schemi e ci siamo invece trincerati nel consumismo e nella moda.
La nostra risposta ai cambiamenti del mondo è stata quella di comprarci l’ultimo Ipad, di tirare per le lunghe lo studio e continuare a farci foraggiare dai nostri genitori. Se da un lato l’aiuto è servito a sostenerci in questi tempi difficili, dall’altro ha avuto l’effetto di renderci apatici e poco inclini a rompere gli schemi costituiti. Siamo stati come gli animali da allevamento, come un animale domestico che non esce mai di casa e come tali non abbiamo mai saputo elaborare una visione del mondo che ci permettesse di crescere al di fuori della pesante ombra dei nostri genitori.
Siamo dei novelli Benjamin Button: privi di progettualità a lungo e medio termine, finiamo per vivere una vita all’incontrario. Se la fine degli studi universitari un tempo significava l’accesso all’età adulta, è qui che il processo si inverte, assistiamo così alla devoluzione, un regresso inquietante quanto diffuso, un perenne rifiuto di confrontarsi con il mondo e prendere in mano il proprio destino.

Spesso vedo ragazzi di ormai quasi trent’anni farsi foto in discoteca che normalmente si era soliti farsi fare quando si avevano quindici o sedici anni, ma al posto di provare vergogna per l’immaturità manifesta tali foto sono invece oggetto di orgogliosa ostentazione. In un mondo dove conta sempre meno essere ciò che si è e conta invece apparire per ciò che la società ha presunto che dovremmo essere.

La mia generazione è fatta di cani di Pavlov, ma a differenza del celebre cane noi siamo restii a imparare dall’esperienza. Più subiamo la nostra impotenza e la vessazione di chi non ha alcuna tutela lavorativa e quindi nessuna dignità umana, più continuiamo ad abbeveraci dalla fonte che sta anche all’origine di tutti i nostri mali. Anziché ribellarci o quanto meno rifuggire gli stimoli negativi, nel migliore dei casi finiamo per chinare il capo diventando gregari e subalterni delle generazioni che ci hanno preceduto, nella vana speranza che prima o poi tocchi anche a noi, come se la nostra mente non avesse registrato che all’alba del nuovo millennio l’aspettativa di vita è tale che è molto più probabile che saremo noi a perire di stenti prima della dipartita di chi oggi regge le leve del potere.

Ci hanno detto che il lavoro doveva essere flessibile, ci hanno fatto imparare le lingue e tantissime competenze diverse, ci hanno raggirato usando accattivanti termini anglosassoni come long life learning o learning by doing, ma mi chiedo quanti dei grandi ideologi di questo modo di pensare, quanti professori che ci hanno proposto questo modello di vita e quanti funzionari che hanno stilato protocolli amministrativi che deliberavano in tal senso si sono sottoposti allo stesso trattamento. Quanti di loro hanno veramente provato ad assaggiare la ricetta che avevano preparato per noi e per i loro figli? Penso ben pochi visto che la pubblica amministrazione è piena di gente che non parla nemmeno l’inglese e che per anni non ha fatto altro che ripetere sempre e solo la stessa mansione, senza mai aggiornare le proprie competenze, tanto che se si rimettessero oggi sul mercato del lavoro a stento troverebbero posto come posteggiatori di auto o lavapiatti in un ristorante. Non bisogna però fare di tutta l’erba un fascio e nella Pubblica Amministrazione ci sono ancora tante persone che si aggiornano e combattono ogni giorno per garantire servizi migliori ai cittadini: perché non siamo stati capaci di allearci con loro?

Siamo stata la generazione che ha potuto studiare fino ai gradi più alti della formazione, ci hanno viziati dicendo che eravamo tutti speciali, ma se siamo tutti speciali vuol dire che non lo è nessuno e così il nostro grado di istruzione crescente ha finito con l’unico scopo di far crollare la retribuzione salariale di coloro che potevano essere impiegati nel lavoro cognitivo.

Abbiamo ostinatamente voluto credere alle promesse dei nostri genitori circa il fatto che il mondo fosse un posto facile dove vivere, che eravamo unici e irripetibili e che strabilianti opportunità ci avrebbero atteso, chiusi sotto una amorevole campana di vetro che ci ha tenuti al riparo dal mondo. Abbiamo rimandato un confronto con la realtà destinato ad essere devastante, quella ovattata campana non era altro che una bolla paranoica di mediocrità. Non siamo stati meglio di coloro che si sono affrettati a votare Berlusconi perché persuasi che avrebbe davvero creato – già il termine mi cagiona ilarità – un milione di posti di lavoro, abbiamo preferito credere che creare le nostre opportunità con un po’ di fatica e di sudore. Abbiamo voluto far finta che ci fossero risposte semplici a domande complesse.

In politica e nel lavoro ci siamo relegati noi stessi al margine, ogni volta che abbiamo chinato il capo e ci siamo fatti imboccare, tutte le volte che non abbiamo provato noi stessi a mostrare che le cose potevano essere diverse nascondendoci dietro a una presunta italianità della raccomandazione, ogni volta che non abbiamo anteposto il merito al nostro interesse abbiamo replicato la mediocrità dei nostri padri e delle nostre madri che facendoci trovare sempre la pappa pronta non hanno fatto altro che crescerci deboli e fragili, ma anche supponenti perché mai posti di fronte ai nostri stessi limiti. Così si è costituita la generazione dove tutti siamo speciali, tutti siamo qualcuno, abbiamo tutti vite interessanti e fantastiche, mentre viviamo una condizione miserabile contronatura perché costretti a restare presso i nostri genitori senza la possibilità di svilupparci diventando ciò che siamo come adulti e perché no anche nella senilità.

L’ultimo grande demerito è che non abbiamo saputo restare uniti, ci siamo fatti investire dalle ideologie già precostituite dai nostri padri finendo per farci molto più la guerra tra di noi che provare a imporre una nuova visione delle cose, noi che siamo nati alla fine delle grandi ideologie, dove la religione è più mite nella rigidità, dove il muro di Berlino è caduto, dove se da un lato ci hanno accusati di non credere in niente avevamo invece l’opportunità di credere in tutto con uno sguardo nuovo e invece non abbiamo fatto altro che suonare uno spartito datoci da altri e danzato su quelle stesse note.

Non abbiamo fatto tesoro delle parole di Michael Young che ci ha provato a dire:

«I giovani devono combattere il potere degli anziani invece di allearsi con loro per ricevere favori».

Spero solo che le generazioni che stanno crescendo oggi e che verranno domani imparino dai nostri errori e non ce ne abbiano troppo a male per il mondo che ci apprestiamo a consegnare loro.

Matteo Montagner

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La Terra, casa mia

Alla base di ogni conflitto c’è una incomprensione, e questo vale anche per il rapporto tra onnivori e vegani. Dal momento che sono vegetariana da poco conosco perfettamente entrambe le campane e dunque so che essere onnivori non è affatto sbagliato, ciò che è sbagliato è essere onnivori senza sentirsi a posto con se stessi: in quel caso, ci vuole solo un po’ d’impegno e coraggio, ma poi ci si sente più leggeri. O almeno, per me è stato così.

Non è detto che sia facile. Per me, è stato un clic. Ero al banco della pescheria ed aspettavo pazientemente il mio turno. Davanti a me c’erano almeno cinque persone e per tutto il tempo che le ascoltavo ordinare osservavo quegli occhi vitrei e senza vita in bella esposizione alla totale noncuranza, la mia compresa. Era quasi il mio turno, il signore davanti a me evidentemente aveva organizzato una cena a base di pesce perché se n’era preso in gran quantità per antipasto primo secondo e anche dessert. Finché non è arrivato il momento dell’astice. L’indifferenza totale con cui l’impiegata s’è messa il guanto lungo di plastica, ha tuffato la mano nell’acquario, arraffato la prima creatura che le è capitata a tiro, gettandola poi nella bilancia e chiedendo “Vanno bene 400 grammi?”, mi ha dato la nausea. Ancora di più mentre il mio sguardo non riusciva a staccarsi dal povero astice che si muoveva ancora con lentezza mentre stava sulla bilancia e il cliente decideva se per lui era o non era abbastanza grasso. A quanto pare lo era, perché se l’è portato via. Io invece, quasi come una bambina impaurita, sono fuggita e mi sono andata a sedere in un angolo tra gli scaffali dei cracker, perché sentivo la testa girarmi come una trottola. E’ stato quello il click, quello il momento in cui ho capito che per me tutto ciò è assolutamente assurdo. Non era certo la prima volta che andavo al bancone del pesce, ma il click è arrivato in quel momento. Per uno scherzo del destino, uno di quelli che mi fa pensare di essere veramente nel mio personale Truman Show, era il 14 febbraio: non avendo un uomo con cui celebrare la ricorrenza, mi è sembrato giusto festeggiare con l’ambiente.

Perché, in realtà, si tratta proprio di questo: dell’ambiente. Come ho detto, posso capire gli onnivori: la carne è buona, il pesce forse di più, sono nutrienti, e può essere che uno non avverta dentro di sé un buon motivo per rinunciarvi: è possibile, succede, e va bene così. Non esiste il “giusto”, non esiste lo “sbagliato”. Per me invece deriva tutto da quella mia fastidiosa impressione che siamo noi esseri umani gli alieni di cui tutti vanno in cerca. Lo so che in realtà siamo frutto di un processo evolutivo, ma a volte mi sembra proprio che, soprattutto da un paio di secoli a questa parte, il nostro impatto sul pianeta sia stato pari ad una pioggia di meteoriti. Grazie a noi e al nostro esagerato ma elitario benessere, a Napoli a gennaio ci sono 16°; grazie a noi, un’isola al largo della Norvegia che si chiama Bjørnøya, letteralmente “isola degli orsi”, non vede più l’ombra di un orso polare da anni; grazie a noi i volti delle Cariatidi di marmo che hanno sorretto una loggia dell’Acropoli di Atene e conservatisi meravigliosamente per 2500 anni, solo negli ultimi 90 (dunque 1/28 della loro vita) sono stati divorati dalle piogge acide; grazie a noi, la foresta amazzonica… Beh, la lista è lunga, ed è pure nota! Ma noi proprio non ascoltiamo! Come con la pioggia: “piove, cosa posso farci io?”. In effetti, viviamo in uno stato del progresso tale per cui inquiniamo tutti quanti tutti i giorni, è inevitabile: quello che invece si può evitare, però, va evitato. Perciò, ben vengano gli accordi di Parigi: è qualcosa vicino al niente, ma è vero che senza sarebbe stato ancora peggio; il fatto però è che non dobbiamo necessariamente stare ad aspettare i comodi dei quadri mondiali: lo so che sembra difficile e assurdo, ma davvero possiamo fare la differenza. Io, sì, proprio io! Essere vegetariani, fare la raccolta differenziata, evitare gli sprechi di cibo (gli All you can it purtroppo offrono spettacoli raccapriccianti, ma da parte dei clienti!), scollegare il caricatore quando il cellulare è al 100% di batteria, prendere i mezzi pubblici tutte le volte che è possibile, riempire le bottiglie alle “case dell’acqua” invece di comprare giorno dopo giorno bottiglie di plastica, chiudere il rubinetto quando ci si lava i denti, usare pile ricaricabili, spegnere la luce quando si lascia una stanza… e chissà quante cose che ancora non so! So bene che non sarò mai perfetta, ma mi consola il pensiero di impegnarmi come posso. Non sempre ci riesco (con il rubinetto quando mi lavo i denti è una vera lotta), ma almeno ci provo. Del resto la Terra è casa mia; sono felice di vedere il sole, adoro i fiori, mi piacciono molto i delfini (anche se dicono che in realtà sono cattivelli), amo i gatti, mi affascinano il deserto e il paesaggio delle isole tropicali. Detesto pensare che ogni cosa bella che esiste è a rischio, e vorrei fare finalmente la mia parte, assumermi le mie responsabilità. E quando sento che Milano ha sforato abbondantemente i livelli di PM10 per il 93° giorno dell’anno (93 giorni = circa 3 mesi, 3 mesi = ¼ dell’anno, un quarto dell’anno!) e mi scoraggio e penso “Tanto che mi affanno a fare, sono solo gocce nell’oceano!”… a quel punto mi ricordo che del resto l’oceano è fatto proprio di gocce, e che tutto sommato, certamente e sicuramente, è meglio essere una goccia che contribuire alla siccità.

Giorgia Favero

Hannah Arendt: come la banalità genera il male

Il modo in cui Hannah Arendt descrive il momento della condanna a morte di Adolf Eichmann è impeccabile. Impeccabile nel peso che ogni singola parola espressa, acquista. Impeccabile nel valore che riesce a comunicare nella descrizione di alcuni particolari e di quei gesti che, anche durante il processo del 1961, hanno fatto la differenza, mettendo a nudo le contraddizioni di una mentalità perversa, incarnata in quell’essere umano, accusato di essere uno dei responsabili di uno dei più tragici crimini contro tutta l’umanità.

«Eichmann andò alla force con grande dignità. Aveva chiesto una bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. […] Percorse i cinquanta metri della sua cella alla stanza dell’esecuzione calmo e a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie e le ginocchia, chiese che non stringessero troppo le funi, in modo da poter restare in piedi. “Non ce n’è bisogno”, disse quando gli offersero il cappuccio nero. Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso»1.

Quello che possiamo percepire anche attraverso una prima e veloce lettura è il ritratto di un protagonista, la rappresentazione di un uomo che, fino all’ultimo, si è sentito al centro della scena. Anzi, egli non solo ha fatto in modo che le luci fossero rivolte su di lui fino alla chiusura del sipario, ma ha inoltre contribuito alla stessa costruzione della rappresentazione di quella scena teatrale finale che, attraverso la sua condanna a morte, lo proclamava e lo innalzava quasi come se, i suoi, fossero stati dei gesti eroici.

Nessuna colpa, nessun rimorso. Per lui quelli commessi non erano crimini orrendi, senza pietà e dei quali doveva essere ritenuto responsabile.

D’altronde, sostenne Eichmann, egli si occupava solamente del trasporto dei deportati verso i campi di concentramento: personalmente, non aveva mai ucciso nessuno, aveva solo rispettato gli ordini ed era diventato un piccolo ingranaggio di quella macchina infernale2, alimentata dall’odio verso il diverso, l’altro. Chi poteva dunque essere considerato il vero responsabile dell’uccisione degli ebrei? Poteva Eichmann definirsi innocente, solo per il fatto di aver rispettato le decisioni e gli imperativi di un comando superiore cui aderiva e cui non poteva in alcun modo sottrarsi? Che fine fanno la responsabilità e la colpa?

Hannah Arendt in Responsabilità e giudizio spiega come talvolta, quando un crimine commesso coinvolge un grande numero di attori, si finisce con il sostenere il valore di una responsabilità collettiva, in altre parole, una dimensione globale alla quale nessuno può sottrarsi. È importante ammettere tuttavia che l’idea di una responsabilità universale non solo impedisce che vengano definiti gradi di colpevolezza differenti a seconda del crimine commesso da ogni singolo individuo; ciò che è ancora più grave è che questo possa essere utilizzato come strumento attraverso il quale ciascuno, attraverso la logica del “se nessuno è colpevole, nemmeno io lo sono”, riesce a sentirsi innocente e ad uscirne “pulito”.

Strumentalizzare un concetto di responsabilità collettiva al fine di decolpevolizzarsi in quanto membro di una collettività in cui il dovere kantiano doveva ad ogni costo essere ascoltato e rispettato, in onore di un’ideologia, non può tuttavia permettere di dimenticare il valore di una responsabilità particolare che, anche Eichmann, avrebbe dovuto ammettere. Sotto il regime nazista, come nel caso di molte altri sistemi basati su una forte struttura ideologica, le norme imposte venivano assimilate come naturali e giuste e il loro rifiuto non era mai stato oggetto di una presa in considerazione. Gli ordini pertanto erano corretti e giusto era eseguirli. Al contrario, l’ingiustizia nasceva nel loro rifiuto.

In Banalità del male3 Hannah Arendt esprime chiaramente il suo giudizio a proposito dell’accusato: egli era una persona totalmente normale, a tal punto che perfino gli psichiatri lo avevano definito tale. Qualsiasi altra persona, dunque, avrebbe potuto prendere il suo posto ed essere accusato dello stesso crimine; ciò non toglie che, se solo lo avesse voluto, avrebbe potuto fare in modo che le cose cambiassero. Malgrado ciò potesse significare opporsi al sistema o costituisse una negazione del suo solito e profondo dovere morale. Nonostante un tale atto avrebbe potuto costargli la morte. Ma Eichmann no: fino all’ultimo si è dichiarato innocente.

Secondo Arendt, i giudici avrebbero dovuto sostenere che solo potenzialmente i cittadini di uno Stato avrebbero potuto compiere i crimini più inauditi, e che c’è un abisso tra ciò che egli ha fatto realmente e ciò che gli altri avrebbero potuto fare, tra l’attuale ed il potenziale4Eichmann doveva dunque essere ritenuto responsabile poiché attualizzò quegli ordini che, dall’alto, vegliavano su di lui come un imperativo categorico il cui valore assoluto era indubitabile e il cui rispetto non solo era necessario, ma per di più naturale.

Quanto può influire un’ideologia nella formazione della propria persona? Come fare in modo di poter preservare e custodire quella libertà che, attraverso un giusto utilizzo della ragione, ci permette di prendere delle scelte adeguate, secondo le circostanze? Il male commesso da Eichmann è stato sì, terribile. Malgrado ciò e senza giustificarlo, le azioni da lui commesse sono state frutto del rigoroso rispetto di un volere naturalmente reputato corretto.

Anche oggi, nel momento degli attentati terroristici in Francia e nel resto d’Europa ma anche in numerose altre occasioni, siamo diventati e continuiamo ad essere spettatori delle numerose manifestazioni della banalità del male. Adolf Eichmann è stato l’incarnazione di questa banalità. Una banalità che può provenire dall’ignoranza, sia volontaria, sia frutto di un’abitudine le cui profonde radici costituiscono le fondamenta di un’ideologia, la cui mostruosità non può essere percepita da chi, crescendo, è stato educato secondo il rispetto di particolari valori, credenze e imperativi morali.

Rilevare il peso che le circostanze esterne a noi può avere rispetto alle scelte che prendiamo, certo, è importante. Una cosa, tuttavia, è ammettere la loro influenza, tutt’altra è non prendersi carico, nonostante tutto, delle responsabilità dei propri atti e definirsi, come nel caso Eichmann, non colpevoli di una tragedia contro tutta l’umanità.

 

Sara Roggi

 

NOTE:
1. H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli Editore, Milano, 2011, p. 259.
2. H. Arendt, Résponsabilité et jugement, Editions Payot & Rivages, Paris, 2009.
3. Ibidem.
4. Ibidem.

[Immagine tratta da Google Immagini]

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Innovare e perpetuare sono due facce della stessa medaglia?

Desidero fare una riflessione su una questione che da un po’ mi fa riflettere ed alla quale cerco di dare una risposta, una questione che pongo a quanti possono essere interessati all’argomento e dai quali mi piacerebbe ricevere delle risposte in un confronto che potrebbe risultare sicuramente molto utile.

La questione è questa: mi chiedo cosa fa sì che le persone prima di ricoprire determinate cariche e ruoli di importanza nell’ambito di un organismo si dimostrino essere estremamente vivaci, propositive, stimolanti, ricche di idee, ma non appena si insediano ottenendo una posizione di rilievo in quello che può essere un Partito o un Ente è come venisse loro meno quella carica propulsiva di idee, quella volontà di cambiare, la forza stessa che li contraddistingueva e che li faceva emergere tra tanti altri. Read more