Catalunya e Veneto: da referendum a referendum

Il referendum che si è appena concluso in Catalunya − avendoci vissuto qualche mese non riesco a chiamarla Catalogna − ha visto votare meno della metà degli aventi diritto, ottenendo però, anche tra blocchi, requisizioni e violenze da parte della Guardia Civil il 90% di Sì per l’indipendenza della regione, con due milioni e duecentomila voti favorevoli. L’esito del referendum dovrebbe implicare la votazione per fare partire il processo di scissione della Catalunya dalla Spagna, fino a portarla a diventare uno stato autonomo sotto forma di repubblica. Il cammino però è tortuoso e sarebbe una decisione unilaterale del governo indipendentista della regione autonoma in quanto il referendum è stato dichiarato illegale dalla corte suprema spagnola. La Spagna ha già dichiarato che userà tutti i mezzi che la legge (e la costituzione) concede per bloccare l’indipendenza catalana. Quello che succederà lo si scoprirà nei prossimi mesi, quello su cui voglio concentrarmi è la funzione che secondo me e secondo molti ha avuto questo referendum nella vita politica catalana e sulle similitudini e differenze con la votazione che interesserà le regioni di Veneto e Lombardia il prossimo 22 ottobre.

A prescindere dal merito, cioè sul diritto o meno che ha ogni regione a potersi separare dal paese a cui appartiene e che non è normata dal diritto internazionale, il referendum catalano alla luce dei fatti di domenica primo ottobre è apparso un pasticcio in molti sensi. La votazione è stata una sconfitta per la Spagna e per il suo presidente Mariano Rajoy, che ha fatto una bruttissima figura sulla scena internazionale, e per la politica in generale. Sembra infatti impossibile che il dibattito sia stato così sterile da rifiutare dialogo e compromessi, tanto da arrivare a voler fermare il referendum all’ultimo istante delegando il potere alle forze dell’ordine e strappando di mano le schede agli elettori. Appare ingiustificato e inutile il ricorso alla forza da parte del governo di Madrid, come appare ben lontano della legalità un referendum auto indetto seguendo modalità non trasparenti.

Dalla giornata di domenica se c’è qualcuno che esce rafforzato è il popolo catalano che chiede l’indipendenza e il diritto di votare, generando simpatia e appoggio trasversale. Subito in Italia gli esponenti più autonomisti (secessionisti si diceva un tempo, e federalisti fino all’altro giorno) sono subito corsi a garantire il loro appoggio verbale ai catalani, sostenendo il loro diritto all’autodeterminazione e bollando le misure attuate dalla Spagna come “atti gravissimi, degni del franchismo”1. In Veneto e in Lombardia c’è chi deve essersi sfregato le mani per la vicinanza tra il referendum in Catalunya e quello del 22 ottobre con il quale le due regioni chiederanno ai propri abitanti se ritengono opportuno che lo Stato conceda maggiore autonomia alle regioni stesse, competenze ora delegate allo stato, e anche più soldi in definitiva (come succede già in quelle a statuto speciale). Un bello spot per tutti i movimenti autonomisti è stato quello dei catalani in fila per ore davanti ai seggi, che sfidano polizia e governo per far sentire la propria voce. Ne sono usciti anche un po’ vittime (centinaia i feriti accertati, due gravi), e questo non guasta. Hanno avuto l’attenzione del mondo e ora Maroni e Zaia sperano di averla di riflesso.

Sta di fatto però che al di là della vuota retorica e della propaganda non c’è mezza cosa che accomuni le due consultazioni popolari. Innanzitutto la forma: il referendum italiano non è in alcun modo osteggiato dal governo e non è vincolante ma solo consultivo (lo Stato avrà l’ultima parola sulle concessioni da fare). Poi, una consultazione di questo genere non è indispensabile per le richieste che le due regioni fanno allo Stato: l’Emilia Romagna ha avviato lo stesso processo per conquistare più autonomia ma senza spendere i milioni di euro che invece spenderanno Veneto e Lombardia.

Se poi i catalani sono mossi, al netto sempre della propaganda, da orgoglio, cultura e tradizioni comuni, ragioni storiche e amministrative e un po’ di maltrattamenti ricevuti, i nordisti ex secessionisti no. A parte l’auspicio per i propri elettori di avere un po’ di “schei” in più per loro, che non prendano la strada caritatevole del meridione, non si vede ombra di programma. Né appunto ci sono regioni storico-sociali valide. E allora cosa c’è di accomunabile tra la Lega Nord e la coalizione Junts pel Sì in Catalunya, promotori delle due consultazioni? La propaganda, appunto.

Azzardo, ma sono dell’opinione che le due formazioni politiche abbiano capito che tirare in ballo la volontà popolare e il diritto del popolo ad autodeterminarsi, in qualsiasi forma lo faccia, al momento sia una delle cose più spendibili ultimamente. Basti guardare al fiorire di movimenti indipendentisti e autonomisti, più o meno xenofobi poi, in giro per l’Europa. La Lega è dagli anni Novanta che dà voce al popolo del nord Italia che si sente oppresso dallo stato e nello stato non si riconosce a suon di secessione e federalismo; solo ora si scontra con la linea di estrema destra di Salvini. Comunque sia ha rappresentato e (scusate la bruttissima parola) fidelizzato un territorio con il miraggio, l’obiettivo ultimo della divisione dallo stato italiano in maniera almeno federale.

Molti commentatori hanno notato questo anche in Catalunya, e cioè che il sentimento indipendentista si sia rinfocolato prepotentemente in concomitanza con la crisi economica del 2008, cavalcato da molte formazioni politiche. La gente ha trovato nel progetto di uno stato catalano libero (Catalunya lliure) una speranza e un obiettivo per cui lottare, e il dibattito politico si è così azzerato, appiattito sul tema dell’indipendenza, portando montagne di voti ai suoi promotori. Adesso l’indipendentismo probabilmente non è ancora maggioritario in Catalunya, ma è molto convinto, chiassoso e sicuro di sé. Di certo è trasversale e molto più integralista di prima e può camminare con le sue gambe. Le proporzioni con l’indipendentismo nostrano sono ridicole, ma non si sa mai che la promessa di qualche soldo in più in saccoccia in un momento ancora non facile per la nostra autonomia non riesca a far serrare le fila anche qui. Sicuramente il referendum del 22 ottobre sarà vinto a larghissima maggioranza dal Sì e la Lega la trasformerà in una sua vittoria esclusiva, anche questa spendibile politicamente.

Tommaso Meo

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NOTE:

1. Queste parole sono state proferite dal governatore del Veneto Luca Zaia all’interno della trasmissione In mezz’ora andata in onda il 01/10/2017.

Dal tentato golpe alla vittoria al referendum: l’ascesa di Erdoğan

Nell’articolo «Turchia: un golpe fallito e il fallimento dei diritti» eravamo rimasti con l’immagine di una realtà caratterizzata da una violenza a due facce. Una violenza che appariva come ultima risorsa per mantenere inalterati gli equilibri di potere.

Nei mesi a seguire la condotta di Recep Tayyip Erdoğan non è cambiata. Il presidente turco ha perdurato nella sua linea intransigente: estreme misure di repressione ed epurazione hanno continuato a coinvolgere a ondate università, redazioni giornalistiche, ONG1. Inoltre, distruzione, assedio ed uccisioni hanno compromesso il sud-est curdo.

Queste sono state le condizioni che hanno preceduto e accompagnato il referendum del 16 aprile.

Tale referendum poneva il dilemma “repubblica parlamentare o repubblica presidenziale?”. Il 51,4% dei votanti si è dichiarato a favore del programma presidenzialista.

Le due principali forze di opposizione, il partito socialdemocratico (Chp) e quello liberale procurdo (Hdp), hanno successivamente denunciato brogli e irregolarità. L’OSCE ha dichiarato 2,5 milioni di schede manipolate, quindi il mancato rispetto degli standard internazionali. Queste, pertanto, si dimostrano essere ragioni sufficienti a porre in discussione il risultato referendario.

Eppure i segnali vi erano tutti. Le continue repressioni citate poc’anzi, come l’assenza di libertà di stampa, erano sufficienti a dimostrare pregiudicato l’appuntamento al fatidico giorno.

Negli ultimi tempi, è stata chiesta la condanna all’ergastolo per 30 giornalisti ed ex dipendenti del gruppo editoriale Zaman, principale quotidiano di opposizione turco. I media chiusi sono stati 158 e circa 150 giornalisti sono tuttora detenuti e sotto processo.

«Chi uccide un uomo – scriveva Milton – uccide una creatura ragionevole, immagine di Dio; ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa, uccide l’immagine di Dio nella sua stessa essenza»2.

Ricordando, dunque, che ancora prima di una libertà di stampa vi è la libertà di pensiero: «Cogito, ergo sum». Il pensiero apporta in nuce i requisiti per l’esercizio della libertà, come legittimazione della manifestazione della possibilità di contrapposizione non cruenta fra differenti principi politici. Una libera circolazione di idee come fondamento della conoscenza e dell’emancipazione dell’uomo. Tale espressione può essere adattata a tutti quei giornalisti oggi rinchiusi nelle carceri turche, rei di aver espresso un pensiero scomodo.

Dalla censura della libertà di stampa è conseguito un debole fronte del #Hayɪr.

Una situazione che non ha allarmato la comunità internazionale, o forse non abbastanza. Inoltre, la presa di decisione drastica del governo olandese riguardo al respingimento di membri del governo turco ha funzionato in pro di Erdoğan, sopratutto per quanto riguarda il voto degli elettori turchi espatriati.

Il risultato del 16 aprile, tuttavia, è quello di una maggioranza risicata, oltre che contestata. La Turchia si ritrova ad essere un paese spaccato. È riemersa una società in parte attratta da un autoritarismo nazionalista, ma dall’altra appare una Turchia tutt’altro che sedotta dal potere di Erdoğan.

Così possiamo domandarci se sia davvero la conclusione della Turchia moderna di Mustafa Kemal Atatürk e il coronamento del sogno neo-ottomano di Erdoğan, oppure se avremo ancora una speranza.

Jessica Genova

NOTE:

1. Il decreto emesso il 22 novembre 2016 ai sensi dello stato di emergenza ordinò la chiusura definitiva di 375 organizzazioni non governative.

2. J.Milton, Areopagitica. Discorso per la libertà di stampa

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Italia sì, Italia no, Italia…

Data siderale: giorno dopo le calende di dicembre.
Anno duemilasedici della nostra era.
Sempre meno ore all’Armageddon.

A chiunque leggerà queste righe,

ho trovato un posto sicuro, ma non lo sarà a lungo perché mi stanno cercando.
Sono dappertutto, loro intendo, quelli che ti propinano la domanda sibillina “E tu cosa voti al referndum?”, quelli che ti danno del folle o dell’eroe a seconda della risposta.
Ed io per interi mesi ho dato una risposta superficiale, l’ho cambiata più volte nella mia mente ma solo perché ho perso tempo per informarmi, per documentarmi, per cercare di capire meglio cosa sarò chiamato a scegliere.
Il punto è che non posso dire queste cose ad alta voce, devo sussurrarle qui, dove rimarrò anonimo per non mostrare il fianco ma soprattutto per confessare impunemente: ebbene sì, non so ancora dove porrò la fatidica ‘ics’; fosse per me aggiungerei un quadratino con la dicitura ‘Forse’.
Legittimo no? Lo facevamo alle elementari quando scrivevamo il biglietto alla ragazzina che ci piaceva, perché dovrebbe cambiare qualcosa? Perché sottovalutare la terza via?
A me non dispiacerebbe sapete, non dispiacerebbe esprimere il mio dubbio.
Ma come spiegarlo a quelli lì? Sì, sempre quelli che mi stanno ancora cercando e che non si daranno per vinti almeno fino a lunedì.
Quante ore sono? Ancora troppe… ancora troppe, un’infinità per un latitante.

Analizzando bene la situazione – tanto per ingannare il tempo, magari per velocizzarlo – sono pochi quelli che me ne parlano tranquillamente, che mi danno addirittura delle spiegazioni sostenute da idee. No, non sono loro a preoccuparmi, non sono loro a darmi la caccia.
Sono gli altri… voi non potete nemmeno lontanamente immaginare cosa sono capaci di fare, non vorrei avvilire queste pagine con inchiostro macchiato di calde lacrime, ma non posso nemmeno starmene zitto senza denunciare.
Ti trovano, ti parlano e dicono cose.

Hanno dei superpoteri, prendetemi per pazzo se volete ma non cambio idea, so cosa ho visto.
Il primo è quello di fare discorsi sconnessi senza capo né coda: serve a disorientare, a confondere, in modo da poter colpire più agevolmente la vittima; ma sarebbe troppo facile tramortirla immediatamente; no… il loro gioco è appena cominciato.
Gliel’ho visto fare migliaia di volte, posso considerarmi veterano in questo, e forse è il motivo per cui sono una primula rossa, un uccel di bosco, sì insomma, uno sbandato.
Rafforzano il tutto con la storia dell’enigmatico complotto architettato dai poteri forti.
Ho cercato questi poteri forti, ho trovato: cultura personale, informazione libera, obiettività, confronto. Me la sono vista davvero brutta perché a loro non andavano bene.
Loro intendevano banche, case farmaceutiche, scie chimiche, Bilderberg, gli abeti della Val di Fiemme, l’associazione bocciofila di Busto Arsizio e altre malvagità che non rammento.

Una volta ho provato a ribattere dicendo che in qualsiasi caso sarà il popolo a scegliere, e che sarà in grado di scegliere anche in futuro indipendentemente dal risultato; ho detto che ci vorrà sicuramente più partecipazione, più interessamento… ho persino detto che avremmo dovuto rinunciare a qualche spritz e che avremmo dovuto imparare ad usare lo smartphone in modo intelligente.
Mi hanno rivelato beffardamente che loro a certe cose non credono, perché “quando c’era Lui”…
Di nuovo ‘Lui’, il famigerato, onnipresente ‘Lui’, talvolta scritto LVI.
Sono arrivato alla conclusione che il più pericoloso superpotere a disposizione di costoro sia il viaggio spazio-temporale.
Vedo già la vostra incredulità dipinta sul volto, ma è tutto vero: loro possono.
Si aggirano tra noi… sì, ormai ci siete dentro fino al collo quindi uso la prima persona plurale, passeggiano da un capo all’altro della Storia e sanno molte più cose di quel che può sembrare: sanno come si viveva in un’epoca molto lontana dalla loro nascita, sanno cosa volesse dire non poter votare, o esprimere la propria opinione sotto una dittatura.
Forse sanno anche com’era Dante da vicino, anzi no, questo è sicuro visto il primo superpotere dei discorsi sconnessi; però potrebbero dirci com’era Giulio Cesare da vicino, la peste nera, i lanzichenecchi… chissà!

Tuttavia sanno cosa avrebbe votato Gandhi o Cavour; me lo vedo Gandhi presentarsi con la tessera elettorale al seggio di Pescasseroli, ma vaneggio… è sicuramente colpa della paura.
Conoscono la Costituzione a memoria – almeno così dicono – sono politologi consumati, esperti giornalisti d’inchiesta, s’intendono di diritto internazionale, diplomazia, geopolitica, calcio, cucina e ricamo.
Ma la cosa più importante è che…

Aspettate, sento dei rumori.
Sono loro.
Non mi avranno.
Non mi avranno mai.

Passo e chiudo.

Alessandro Basso

Una pace in attesa di giustizia. Il referendum in Colombia

«Sogniamo che la Colombia sia un paese libero dove tutti abbiano gli stessi diritti e possano esprimersi liberamente, senza repressioni.»
Jaqueline, paramedico del blocco Jorge Briceño.

«In dieci anni abbiamo lavorato con le comunità e le famiglie dei guerriglieri e dei contadini. Abbiamo spiegato la situazione alla gente, li abbiamo aiutati ad andare avanti. Ritrovare le nostre famiglie sarà molto emozionante. Pensiamo tutti a quando rincontreremo la nostra famiglia.»
Xiomana Martínez, combattente del fronte Felipe Rincón delle Farc)1.

Queste erano alcune delle parole di speranza in Colombia. Lo storico accordo di pace tra il presidente Juan Manuel Santos e le Fuerzas Armadas Revolucionarias rappresentava la possibilità di concludere un conflitto durato 52 anni.

Il 50,2% dei votanti, tuttavia, ha scelto il voto del “senza giustizia non può esserci la pace”. Il fronte del “No”, capitanato da Alvaro Uribe, sostiene che la pace è l’obiettivo di tutti i colombiani, ma l’accordo necessita di alcune modifiche. Le questioni più controverse per l’opinione pubblica nazionale riguardano la partecipazione politica degli ex guerriglieri e la giustizia per i responsabili di crimini contro l’umanità.

L’esclusione dalla vita politica di una parte della società è stata una delle cause della guerra, ciononostante, la maggior parte della popolazione colombiana considera inaccettabile vedere gli ex guerriglieri in Parlamento, anziché nelle carceri.

Il referendum, così, sembra rappresentare una scelta tra pace o giustizia.

Eppure, la pace dovrebbe essere un diritto inalienabile dell’uomo. Come recita l’articolo 28 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’Uomo: «Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati». Si tratta del superamento del concetto di pace kantiano, secondo cui la pace non è raggiunta da un equilibrio di forze, bensì da un’assenza delle stesse. Si giunge, così, all’individuazione di una pace positiva, seguendo la definizione di Norberto Bobbio, nella quale vi è un’effettiva preparazione alla pace, attraverso la costruzione di un sistema di istituzioni, relazioni e di politiche di cooperazione.

Come assicurare un progresso verso la pacificazione in Colombia?

Grazie al contributo del sociologo Galtung per la risoluzione dei conflitti, è possibile individuare tre stadi:

1. la riconciliazione, cioè il curare gli effetti della violenza passata;

2. la costruzione della pace, cioè lo studio e l’azione per prevenire la violenza futura;

3. la trasformazione del conflitto, cioè la ricerca di metodi per mitigarli.

Nella trasformazione del conflitto è opportuno introdurre l’aiuto ai contendenti a trovare soluzioni di mutuo beneficio. Le contraddizioni tra le parti possono essere superate attraverso la ricerca di obiettivi “sovraordinati”2.

La domanda cruciale da porsi in questo momento è: cosa accadrà ora? La Colombia riuscirà a sottrarsi ai cent’anni di solitudine e ad avere una seconda opportunità?

Jessica Genova

NOTE:
1. www. internazionale.it
2. J. Galtung, Theories of conflict. Definitions, dimensions, negations, formations, Columbia University, 1958; J. Galtung, Theories of Peace. A synthetic approach to peace thinking, 1967

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La questione del suffragio universale

In questo ultimo periodo caratterizzato da referendum e votazioni mi sono sorpreso da ciò che questi fatti producevano al mio interno: la messa in discussione della valenza del suffragio universale.
Inizialmente pensavo fosse causato dal mio orrore mentre ascoltavo i resoconti delle affluenze così basse, delle interviste e degli autorevoli pareri di esperti. Successivamente, però, mi sono reso conto che – analizzato logicamente dal punto di vista teorico – forse una discussione attorno alla sua necessità debba essere intavolata, almeno per essere sicuri di accettarlo consapevolmente e non per comune abitudine.

Il suffragio universale è uno dei capisaldi della democrazia, introdotto in Europa nel corso dell’Ottocento – nonostante per un periodo di tempo brevissimo sia stato adottato anche nella Francia post-rivoluzionaria. Esso esprime gli ideali democratici in maniera massima: ognuno vale uno, cioè ognuno è uguale, ogni opinione ha lo stesso peso, ogni desiderio ha la stessa importanza di ogni altro. Non ci sono restrizioni: non c’è ceto, etnia, censo, genere, orientamento sessuale che tenga.
Concentriamo il nostro sguardo sull’unica discriminante: è necessario aver raggiunto la maggiore età per poter esercitare questo diritto. Quindi: per votare, è necessario avere un’età minima.
Ora mi chiedo: e perché non si è presa in considerazione anche un’età massima?
La questione è molto meno banale di quello che sembri, basti osservare cosa è successo nel Regno Unito recentemente: la parte “vecchia” della popolazione ha imposto il Leave alla nuova generazione, che aveva votato compatta per il Remain (75%). Non sto esprimendo giudizi su chi avesse ragione e chi torto, sto semplicemente analizzando un fatto: chi non vedrà i risultati del proprio voto ha imposto il futuro a chi, invece, subirà le conseguenze (positive o negative che siano) di questa votazione.
Stesso discorso per quanto riguarda, invece, due non-restrizioni: il grado di istruzione e il bagaglio di informazioni. Queste due variabili, infatti, condizionano pesantemente le nostre scelte. Guardando sempre alla “Brexit” per comodità temporale, la differenza tra zone rurali e grandi città come Londra è molto evidente.
Con ciò, di nuovo, non sto dicendo che una delle due sia nella ragione ed una nel torto, sto analizzando semplicemente dei dati.

Il problema non è di facile soluzione, perché ha a che fare con il Tutto, nel suo rapporto con la molteplicità.
Inoltre, il suffragio universale, mi sembra che presupponga se stesso nella sua accettazione: una ipotetica votazione che abbia come oggetto l’adozione o meno del suffragio universale come metodo di voto deve per forza di cose essere già aperta a tutti, e quindi esso si troverebbe già ad essere il metodo di votazione.

Un inizio di soluzione può essere intravisto alla base del sistema.
La questione non è la diversità di opinione a cui il suffragio universale dà voce; anzi: essa è ciò che permette l’essere di uno stato democratico. L’anello debole della catena è la volontà subdola di creare o trasformare opinioni negli/degli altri, di allarmare, di terrorizzare, di deviare l’attenzione verso capri espiatori. Ciò fa gravemente ammalare la validità del suffragio universale, che diventa una semplice facciata: un nome per coprire gli intenti demagoghi e populisti e un mezzo per realizzarli.
La cura, a mio modo di vedere, prevede una medicina politica ed un per la società.
La prima dà voce a come sia necessario avere la capacità critica di scegliere quali decisioni debbano essere espresse dal collettivo e quali dalla rappresentanza di esso. Con il nostro voto, infatti, scegliamo i nostri rappresentati, ai quali diamo la nostra fiducia. E una delle sezioni all’interno di questa fiducia è la speranza che scelgano per noi il meglio, a fronte di una capacità politica che noi non possediamo. Questo determina delle scelte in cui la nostra voce di popolo non conta, perché è appunto espressa dalla rappresentanza, o comunque essa tenta di raggiungere i migliori risultati possibili per la collettività.
La seconda ha a che vedere con la buona informazione.
Può essere un’utopia, in un mondo dominato dalla Rete; in cui ogni notizia è praticamente istantanea e priva di filtri, in cui si fa a gara a chi pubblica per primo una notizia, in cui i dettagli non contano: ciò che importa è il titolo (al quale una buona parte del pubblico si ferma senza andare oltre).
Ma una buona informazione è uno – se non il – presupposto perché il suffragio universale sia espressione del popolo e non di opinioni condizionate.

Massimiliano Mattiuzzo

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Brexit: il Leviatano capovolto

Al di là della valutazione sull’esito del referendum, abbiamo assistito a una pagina di storia importante per l’Unione Europea e per la storia in generale: il Regno Unito entrato nel mercato unito nel 1973 ha deciso di abbandonare l’Unione Europea. La Filosofia e il pensiero hanno l’obbligo di provare a interpretare la contemporaneità e le vicende che ci riguardano tutti, qualcosa è cambiato.
Le mutazioni derivanti dall’innovazione e la svolta digitale stanno modificando in maniera indelebile le democrazie contemporanee, assistiamo sempre di più alla richiesta di partecipazione, alla disintermediazione che sembra minare in profondità l’idea stessa di democrazia rappresentativa. La democrazia rappresentativa sorge da esigenze palesi, non tutti possono decidere tutto o essere informati su tutto, servono luoghi preposti alla decisione, infrastrutture precise e la decisione non può essere sempre estesa a tutti, eppure il modello democratico che vede nel Regno Unito un esempio a partire dal 1700 sembra entrare in crisi in una nuova richiesta di partecipazione.

Il Regno Unito è la patria di Thomas Hobbes, teorico della turborappresentatività: tutti i cittadini devono stringersi intorno a un despota illuminato e dar così vita al Leviatano; oggi quel Leviatano sembra essersi capovolto, le classi dirigenti sembrano sempre più in balìa di una smodata richiesta di partecipazione che non riescono a canalizzare. Del resto una delle lamentele ricorrenti relative all’Unione Europea è proprio la sua distanza, il sembrare scarsamente rappresentativa della volontà del popolo o di una nuova categoria che serpeggia sempre più nel dibattito pubblico quotidiano “la gente”.

«Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa…»
Thomas Hobbes, Leviatano

Hobbes oggi ci sembra un autore estremo, dispotico, conservatore e accentratore, ma nel contempo appare altrettanto rischioso far esprimere tutti su tutto se non correttamente informati. Studi recenti mostrano come l’analfabetismo funzionale sia in fase dilagante mentre l’istruzione di base delle persone è complessivamente migliorata, ma se è vero che ormai quasi tutti sanno leggere pare che non tutti siano in grado di interpretare correttamente un testo. La rete, internet e la digitalizzazione sono strumenti potentissimi per l’informazione, ma diventano anche veicolo di disinformazione: quante volte abbiamo visto amiche e amici cadere tranello in qualche bufala? Perché la tentazione di leggere superficialmente e condividere alle volte è forte, l’approfondimento o il controllo delle fonti risulta faticoso e complesso – anche chi vi scrive adesso un paio di volte è cascato in qualche idiozia per pigrizia. L’editoria così come l’abbiamo conosciuta è in crisi e il controllo delle fonti sembra sempre più superato, la comunicazione si è velocizzata a discapito della profondità; e non lo scrivo con nostalgia, non si torna indietro, ma bisogna farci i conti perché la circolazione di informazioni fallaci comporta anche la costruzione di opinioni meno consapevoli o per nulla consapevoli, irrazionali e dettate spesso da rabbia o rivendicazione.

Guardando la BBC stupisce vedere certi intervistati dire:
«I’m shocked e worried. I voted Leave but didn’t think my vote would count. I never thought it would actually happen». Oppure: «What I have done? I actually didn’t expect the UK to leave».
Persone che in fondo non pensavano che il loro voto avrebbe contato, che lo hanno fatto superficialmente o per esprimere un malessere. Persone che magari lo hanno fatto nella convinzione, anche questo è un mito ricorrente nel dibattito contemporaneo, al motto “tanto i poteri forti non ce lo faranno mai fare!”. Ecco, questa vicenda ha dimostrato che si può uscire dall’Europa, che la democrazia diretta può esprimersi liberamente; non ci sono limiti e proprio per questo dovrebbe renderci tutti più responsabili, perché tutti andiamo a determinare quel Leviatano molto strano di cui ci parla Canetti nel libro Massa e Potere. L’autore impiegò 38 anni a scrivere questo libro, ci tengo a segnalarlo per far capire quanto è complessa questa bestia strana che chiamiamo “Massa”, che è formata da tutti e nel contempo è anche “altro” dalla mera somma di tutti noi.
L’Europa, per le generazioni che l’hanno voluta, era l’orizzonte per sentirsi di giorno in giorno in una “casa”, in un posto più sicuro dopo che la divisione intestina degli Stati Nazione aveva portato a quella deriva culminate nelle due guerre mondiali; oggi ci avventuriamo in acque inesplorate dove ci si chiede fino a che punto si sfogherà questa spinta centripeta che potrebbe vedere la disarticolazione del Regno Unito con la separazione di Irlanda del Nord e Scozia. Ma non è solo questo: in Spagna si inizia a chiedere che Gibilterra, dove ha ampiamente vinto al 96% il Remain, possa tornare spagnola.

Hobbes afferma che il suo Stato assoluto può degenerare in una tirannide, tuttavia ripete a più riprese che questa situazione sarà sempre migliore e più sopportabile della guerra civile. Estremo? Decisamente sì. Però bisogna anche far attenzione ad invocare la democrazia diretta attraverso il referendum in maniera poco accorta, perché il paese si può anche spaccare generando fortissime tensioni sociali tra le parti.

C’è chi ha ridotto questo voto alla disuguaglianza derivante dall’Unione Europea e il declino della classe media, ma è interessante notare invece che i giovani britannici, i quali certamente sono il gruppo sociale che soffre più di tutti delle accresciute disuguaglianze economiche, hanno votato in massa per restare, mentre chi soffriva meno, ovvero gli anziani, ha deciso di lasciare. C’è da aggiungere che molti anziani hanno fondi pensione integrative molto sensibili alla fluttuazione della sterlina e che quindi subiranno maggiormente la sofferenza della moneta.

Non esprimo giudizi, ma pare che l’epoca contemporanea sia sempre più in balìa di un Leviatano capovolto: non un monarca al potere, ma l’egemonia della massa nell’epoca della rete e della democrazia diretta, dove ognuno vale uno, ma non sempre si può garantire che ognuno sia informato correttamente.

La Filosofia e i saperi umanistici forse possono essere d’aiuto nella acquisizione di una maggior consapevolezza, perché senza consapevolezza non può essere fatta una scelta davvero genuina: possiamo scegliere nell’ignoranza, ma restiamo pur sempre responsabili della nostre azioni – come dice Aristotele -, quindi meglio assicurarci di aver capito bene cosa stiamo scegliendo prima di impugnare la matita e fare una X su un foglio elettorale.

Matteo Montagner

La Patria delle trivelle

In seguito alle votazioni di ieri, mi è giunta forte fortissima la riflessione su un concetto tanto semplice quanto denso di significato, quello di Patria.

Nella modernità troppo spesso si è utilizzato il socialismo marxista per demolire l’amore di patria, infatti, si cercava di diffondere l’idea che se la patria è qualcosa di  ereditato dagli antenati attraverso la tradizione, allora il lavoratore dipendente, che non possiede nulla di suo, non trae alcun vantaggio dalla patria, quindi va respinta come mero vuoto sentimentalismo che le classi dominanti sfruttano per meglio assoggettare i popoli e di cui i proletari  è meglio che si sbarazzino per il progresso del mondo.

Questo pensiero per molto tempo è stato alla base di ogni più stupida e ridicola denigrazione dell’ideale della Patria e purtroppo si sente ripetere ancora troppo spesso da alcuni di vergognarsi di essere italiani, di non sentirsi italiani se rappresentati da una determinata fazione politica: questo non è essere patrioti!

La politica non deve mai compromettere il sentimento che si prova per la propria terra! Un sentimento, appunto, che non svanisce solo perché non si concorda con una determinata politica; l’amore per la propria Nazione deve trascendere questo puro materialismo, anzi, a causa di questo dovrebbe aumentare l’orgoglio patriottico.

La denigrazione del proprio Paese non ci rende degni di esso, di questo ne sono certa.

Concordo con Fichte, esponente dell’idealismo tedesco, quando afferma:

Ma dove mai si può trovare una garanzia per queste aspirazioni e questa fede dell’uomo bennato nell’eternità e perpetuità dell’opera sua? Evidentemente solo in un ordine di cose che egli possa riconoscere eterno in sé e capace di accogliere in sé l’eterno. Tale ordine è quella speciale forma spirituale dell’ambiente umano, che non si può chiudere in un concetto e tuttavia esiste realmente, da cui egli è uscito fuori con la sua attività e la sua mentalità e colla sua stessa fede nell’eterno: il popolo da cui è nato, in cui fu educato e crebbe qual è ora.

[…] Ecco dunque il significato della parola “popolo”, dal punto di vista di un mondo spirituale: quel complesso di uomini conviventi permanentemente e permanentemente riproducentesi sia naturalmente che spiritualmente, stando esso sotto una speciale legge di sviluppo dell’elemento divino che esso ha in sé. La comunanza di questa “speciale legge” è appunto ciò che cementa questo complesso di uomini nel mondo eterno e quindi anche nel mondo temporaneo, facendone un tutto organico e tutto! pervaso di sé. […] Quella legge di sviluppo dell’elemento primitivo e divino determina e compie ciò che si è chiamato il carattere nazionale di un popolo.”

Il concetto di popolo nell’idealismo si fonda con quello di spirito, visto come dimensione metaindividuale alla quale il singolo appartiene: attraverso questa identificazione l’uomo è in grado di oltrepassare i suoi limiti perché entra a far parte di un processo infinito ed eterno. In questo modo risulta chiaro che la Nazione è la vera dimensione dell’individuo in cui può effettivamente realizzarsi.

Ho scelto Fichte perchè a mio avviso esprime proprio il sentimento, la dimensione spirituale che lega l’uomo al proprio Paese: la Patria è ciò in cui vige un legame di partecipazione profonda, di vera e propria identificazione  mediante la quale l’individuo supera la propria particolarità per sentirsi un’unica realtà con gli altri.

La Patria è ciò che ci fa conoscere l’eternità nella nostra finitezza terrena, è

il fiorire del divino nel mondo, sempre più puro, più perfetto, più prossimo al limite nel suo infinito perfezionarsi. Perciò l’amor di patria deve governare lo Stato come suprema incontrollata istanza”.

La voglia di Unità d’Italia deve riguardare tutti gli italiani ogni giorno dell’anno, attraverso la riscoperta dell’universale ideale della Patria che è ciò che ci rende forti e pronti a combattere ogni tipo di sistema che non ci vada a genio, altrimenti, se questo sentimento lo manteniamo sopito dentro di noi o, anzi, lo deturpiamo, beh non lamentiamoci di chi siamo ora e di quello che saremo domani.

Valeria Genova