Il “Peplum”

Essere nostalgici è la moda di questi ultimi anni. Si guarda al passato probabilmente per fuggire un presente troppo frenetico ed irrequieto che sembra non soddisfarci più. Ed ecco che le storie di atleti, attori e musicisti di qualche anno fa acquistano immediatamente un’aura magica, capace di riconciliarci con il mondo. Parlando di cinema, voltarsi indietro e guardare i decenni scorsi, spesso può essere più utile di quel che sembra.

Negli anni ’50 Hollywood (a cui seguirà quasi contemporaneamente il cinema italiano), inaugura un genere di grande successo, che aveva già avuto un timido inizio negli anni ’10; si tratta del Peplum, un filone cinematografico di film storici in costume, ambientato in contesti biblici o nel periodo della Grecia antica o della civiltà romana. Il termine “peplum”, derivante dal greco e a suo volta mutuato dal latino, indica una semplice tunica femminile usata dai greci.

Molti film furono prodotti a basso costo ma altri rimangono ancora oggi delle pellicole straordinarie: titoli come Ben-Hur, I Dieci Comandamenti, Quo Vadis, Spartacus, La Tunica, Giulio Cesare, sono stati dei grandi successi e a modo loro hanno rivoluzionato il cinema. Rivedendoli oggi ci si accorge di quanto lavoro ci fosse alle spalle: un’attenzione costante alle ambientazioni, una cura dei costumi e dei dettagli, uno studio della Storia che pur con qualche piccola differenza, era preciso e veniva curato. Non esistevano ancora gli effetti speciali di oggi e la disponibilità tecnologica era limitata, molte scene venivano quindi girate negli studios; eppure la recitazione non sembrava risentirne. Gli attori recitavano quasi fossero a teatro, come se sentissero la platea a pochi metri da loro, con enfasi e pathos. Indimenticabili in questo senso le interpretazioni di Charlton Heston nei panni di Giuda Ben-Hur e di un giovane Marlon Brando che in Giulio Cesare incantò il pubblico con una recitazione sublime, una di quelle interpretazioni che passano una volta ogni tanto.

Il genere ebbe il suo apice negli anni ’60, per poi essere abbandonato, incalzato dai primissimi film degli spaghetti-western.
Negli ultimi anni c’è stata una ripresa del film storico in costume; gli anni 2000 hanno visto una sorta di rifiorire del genere, partendo da Il Gladiatore, film di enorme successo, consacrato con l’Oscar a Russell Crowe. A questa sono seguite numerose altre pellicole, sicuramente di grande impatto visivo, maestose nella realizzazione ma non così significative come i film sopracitati. Si è preferita la spettacolarizzazione a scapito di una recitazione vera e di un’attenzione ai dettagli storici che sembra non interessare più. Ha vinto l’idea dell’intrattenimento per sé stesso, dello spettacolo portato avanti a tutti i costi. Ne è un esempio lampante il remake di Ben-Hur, che uscirà a breve nelle sale: è un’evidente dimostrazione di come manchino le idee, prendendo un capolavoro e cercando di trasformarlo in una giostra vorticosa che appaghi solo la vista e non l’intelletto. In questo caso essere nostalgici non aiuta, si dovrebbe guardare al passato con riverenza e rispetto, cogliendone l’atmosfera, la genialità, per non correre il rischio di incappare nella banale ripetizione che uccide la fantasia.

Lorenzo Gardellin

[Immagine tratta da Google Immagini, ritrae Charlton Heston in Ben-Hur]

Il mondo visto da dietro lo schermo – Intervista a Luca Ward

Il mondo non è stato creato una volta, ma tutte le volte che è sopravvenuto un artista originale.

(Marcel Proust)

La voce è qualcosa che ti entra dentro, che ricordi, che ti fa sognare. La voce rende sonora la nostra vita e ci permette di comunicare con gli altri, esprimendo sensazioni, emozioni, perché no, se stessi.

Ci sono voci e voci che cambiano a seconda del messaggio che devono trasmettere ma che magari col tempo dimentichi, e poi c’è la sua, inconfondibile ma soprattutto indimenticabile, capace di lasciare il segno dietro ad ogni film che doppia e ad ogni ruolo che interpreta.

Sto parlando di Luca Ward, famoso doppiatore nonché attore italiano, la cui voce si è prestata al doppiaggio dei più grandi attori internazionali, tra cui Russel Crowe ne Il gladiatore, Keanu Reeves in Matrix, Samuel Lee Jackson in Pulp Fiction e molti altri.

Ho avuto il piacere di carpire un po’ di più chi si celi dietro a questa voce così famosa, cercando di indagare insieme a lui il mondo del cinema, del teatro ma anche della vita che oggi noi viviamo.

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– Luca Ward, classe 1960. Cosa sognava di fare da bambino?

Il pilota!

Non di aerei militari perché la guerra non mi appartiene, pur avendola vissuta sia mio padre che mio nonno. Io volevo fare il pilota civile e per questo ho frequentato la scuola apposta ma all’epoca diventare pilota era praticamente impossibile, o eri figlio di un pilota o…di un “vescovo”!

– L’avere avuto un padre artista quanto ha influito nella sua scelta professionale?

No, non ha influito perché, anche se i miei genitori erano attori, mio padre non voleva che io e i miei fratelli facessimo il suo mestiere e a me non interessava fare l’attore: era davvero un lavoro difficile quasi più che pilotare un jumbo, quindi chi me lo faceva fare? Eppure alla fine mi sono trovato costretto a farlo perché, avendo perso mio papà a 13 anni e avendo mia madre che non lavorava più da tanti anni, io e i miei fratelli ci siamo ritrovati all’improvviso nel mondo degli sceneggiati televisivi, del doppiaggio, della radio e una volta entrati non siamo più usciti.

– Il lavoro del doppiatore rimane sempre in sordina e spesso ci si dimentica che chi stiamo guardando recitare sono in realtà due persone diverse: l’attore e il doppiatore. Quanto è difficile, nel suo mestiere, omologare la voce alla perfezione con la mimica dell’attore?

Un tempo sia il doppiaggio che la recitazione erano discipline che venivano studiate molto e la voce aveva un ruolo importante, infatti veniva “lavorata”, “elaborata”, perché non c’era solo bisogno di fisicità, ma forte era la necessità di una vocalità; a testimonianza di questo basta risentire i grandi sceneggiati di una volta in cui gli attori erano tutti dotati vocalmente, a differenza di oggi, periodo in cui talvolta non capisci nemmeno quello che dicono. Per me è sempre stato fondamentale il lavoro sulla voce, sia nel doppiaggio, per assecondare la mimica dell’attore, sia nella recitazione, e lo è tuttora, infatti quando incontro dei giovani ragazzi che vogliono sfortunamente fare questo mestiere io ricordo loro di educare sempre la voce e di andarsene a casa se qualcuno dice “questa battuta buttala via buttala via..” perché le battute non si buttano via, altrimenti non arriveranno mai al pubblico.

– Il suo lavoro è assolutamente curioso in quanto coinvolge tre persone, o meglio, tre personalità sempre diverse: quella del doppiatore, quella dell’attore e quella del personaggio che si recita. A mio avviso, lo sforzo che deve fare lei nel doppiaggio è duplice, in quanto deve rappresentare perfettamente il personaggio e non deve storpiare la personalità dell’attore che lo sta interpretando. Concorda? Come ci si prepara a tutto questo?

Io sono stato un autodidatta, ho imparato da bambino e ho appreso come una spugna mano a mano che crescevo , senza avere fatto nessuna scuola, né accademia, perché da subito mi sono trovato accanto ai grandi attori che mi hanno spesso e volentieri dato dei consigli. A casa invece con mia madre non parlavamo mai di lavoro perché il nostro problema fondamentale riguardava il quotidiano, quello di portare i soldi a casa. Per questo, non essendo un attore accademico, non saprei rispondere alla domanda su come ci si prepari, perché io faccio sempre tutto molto fisicamente, di istinto, senza mai fare nessun riferimento a chi precedentemente ha interpretato un ruolo che mi viene assegnato, anzi non vado nemmeno a vedere come l’attore precedente l’ha fatto e se l’ho visto lo cancello dalla mente, non perché mi senta più forte di lui ma perché io voglio solo fare il mio agendo di istinto.

– L’attore incontra mai il suo doppiatore? In cosa consiste il confronto tra i due? Consigli, accorgimenti o solo complimenti? Le è mai capitato che un attore non fosse contento dal lavoro lei svolto?

Spesso è capitato di incontrarli, ma ti risponderò parlando della mia esperienza da ‘attore doppiato’: tempo fa feci uno sceneggiato, Elisa di Rivombrosa (la prima serie) che ebbe un grande successo, erano anni in cui per la televisione si facevano le cose importanti. Mi trovavo in Francia a girare un film sulla vita di Modigliani e un giorno in hotel alla tv davano proprio Elisa di Rivombrosa; ovviamente era doppiato in francese e proprio per questo mi è preso un colpo appena mi sono sentito doppiato! Per questo posso immaginare che quando i miei colleghi d’oltreoceano si sentono doppiati abbiano uno shock, anche se poi loro carinamente per educazione mi dicono di avere fatto un buon lavoro!

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– Non solo doppiatore ma anche attore: quale differenza sostanziale trova tra queste due arti, oltre al fatto che in una usa solo la voce, nell’altra presta sia voce che corpo?

Il doppiaggio è un mestiere puramente tecnico che però deve avere delle forti basi di recitazione altrimenti non lo si può fare. Doppiare senza saper recitare trasforma i copioni in semplici letture, come accade purtroppo ai nostri giorni in cui i doppiaggi non sono più interpretati ma sono solo letti perché si fanno di corsa. Basti pensare ad esempio ad un film del 1994, Pulp Fiction che abbiamo doppiato in circa due mesi e mezzo, oggi lo stesso film lo si fa in una settimana ottenendo ovviamente un risultato ben diverso. Un tempo non ci si accorgeva nemmeno del doppiaggio in un film perché era fatto talmente bene e a regola d’arte che le voci si incollavano perfettamente alle interpretazioni, anch’esse di tutto rispetto. Oggi tutto è cambiato e la voce viene messa in secondo piano, senza pensare che invece essa è fondamentale perché è la vera colonna sonora di un film. Pensiamo ai non vedenti: loro si accorgono subito se un attore recita bene oppure no, se trasmette emozioni o no, perché hanno un udito talmente fine e sofisticato che riesce a carpire qualsiasi sfumatura. Loro sono i più esperti in fatto di “voci” cinematografiche e spesso i film di nuova generazione preferiscono non sentirli, rimanendo ancorati ai vecchi film in cui la recitazione era molto più profonda.

– La filosofia e la recitazione sono due discipline che sono meno distanti l’una dall’altra di quanto si potrebbe pensare, viste le numerose questioni con le quali entrambe le discipline si confrontano. Un esempio di questa reciproca influenza è dato dalla problematicità della condizione di sdoppiamento vissuta dall’attore, il quale deve inscenare un “altro” e allo stesso tempo si interroga sulla propria condizione esistenziale in rapporto al personaggio interpretato, sul rapporto con l’altro. Secondo la sua esperienza personale, quante volte le è capitato di porre delle domande di vita a Luca-persona in relazione a Luca-personaggio appena interpretato? È qualcosa che l’ha aiutata a capire meglio se stesso e il mondo oppure no?

Assolutamente no, non mi capita mai perché sono due mondi completamente diversi: Luca è Luca sempre anche quando sono sul palcoscenico e interpreto un personaggio. Rimango sempre io e perfettamente cosciente di essere Luca, non mi sdoppio mai. Rispetto le opinioni di tutti, ma credo che chi alla fine di uno spettacolo si chieda “chi è”, usi tale discorso solo come specchietto per le allodole.

Gilles Deluze trovava la somiglianza tra cinema e filosofia nel fatto che “il cinema stesso è una nuova pratica delle immagini e dei segni, di cui la filosofia deve fare la teoria in quanto pratica concettuale”, intendendo la filosofia appunto come pratica dei concetti. Tutto questo per dire che la filosofia è una pratica tanto quanto il cinema e, anzi, diventa la teoria del cinema stesso, perché lo concretizza in concetti. Lei, da attore, lontano dal mondo filosofico, vede lo stesso intersecarsi delle due discipline? Perché?

Non saprei, credo dipenda fortemente dai temi trattati da un film piuttosto che da un altro. Ovviamente ci sono dei film e dei lungometraggi che vengono fatti apposta per fare riflettere e per innescare un ragionamento filosofico, ma sono sicuramente una minoranza vista da un pubblico di nicchia.

Tutti insieme appassionatamente, musical contro la guerra con, sullo sfondo, l’annessione dell’Austria al Terzo Reich. Un musical che vuole lanciare un messaggio positivo: una grande storia d’amore e il sorriso di sette bambini come antidoto alla guerra. Quali sono i punti di forza di questo popolare spettacolo che vuole celebrare il desiderio di riunirsi ‘tutti insieme appassionatamente’ a teatro trasmettendo serenità, speranza e passione?

Il punto di forza è sicuramente il concetto di famiglia che oggi, secondo me, è l’unico reale punto di riferimento rimasto per i giovani. Io sono di un’altra generazione, direi molto più fortunata di quelle di oggi, perché abbiamo avuto la possibilità di avere tanti punti di riferimento: c’erano i grandi sportivi, i grandi gruppi rock, i grandi politici, i grandi attori…eravamo ricchi in ogni campo. Oggi, invece, i grandi politici non ci sono più, i grandi attori nemmeno, i grandi sportivi lo stesso e i grandi gruppi rock sono finiti, quindi qual è il punto di riferimento rimasto fondamentale e forte? Sicuramente non la chiesa, ma la famiglia. Il bello è che piano piano i giovani lo stanno capendo e ne stanno riscoprendo il valore, perché si rendono conto che in effetti fuori cosa c’è? Il nulla (a parte il mondo meraviglioso della natura), non ci sono più stili da seguire, rimane solo quello familiare di cui l’esempio dato dai genitori è fondamentale.

– Dai video che lei pubblica sui suoi profili Social traspare un Luca gioviale e auto-ironico che si sa godere la vita. È forse questa la ricetta, oltre a studio, perseveranza e gavetta, per rimanere ai massimi livelli in qualunque campo professionale?

L’unica ricetta è essere se stessi, non c’è altro modo per durare: essere se stessi nel bene e nel male. Nel mio mondo falso e ipocrita (come in realtà ormai tutti i campi lavorativi) è sicuramente difficile esserlo ma bisogna essere superiori e lavorare ognuno facendo il proprio. Certamente il tutto dipende da che persona sei perché non tutti sono altruisti, simpatici, gioviali, ma si possono trovare benissimo persone scorrette; l’importante è andare avanti come uno schiaccia sassi per la propria strada, senza fare del male a nessuno, senza prevaricare, rimanendo sempre leali.

– Che consiglio darebbe ad un giovane di oggi che voglia intraprendere un percorso artistico nel mondo odierno così sopraffatto da qualunquismo, raccomandazioni e superficialità?

Il mio primo consiglio spassionato è quello di studiare per essere sempre pronti, senza ascoltare i media che cercano di inculcare che basti fare un grande cugino o un grande cognato per diventare un attore, perché non è assolutamente così. Il secondo è quello di tenere sempre presente il confronto con l’estero, perché oggi non possiamo più pensare al paese-Italia; chi vuole fare questo mestiere deve guardare oltre i confini senza rimanere qua. Noi siamo piccoli e produciamo cose piccole e provinciali solo per l’Italia, non venendo mai esportate da nessuna parte. Ma tutto questo quanto può ancora durare? Se noi guardiamo gli altri paesi, bastano quelli intorno a noi, i francesi, gli spagnoli, gli inglesi, loro sì che viaggiano! Perché da loro l’arte è arte e rimane tale, pura, i grandi cugini rimangono grandi cugini. Molti giovani scelgono il talent come via per il successo, però io consiglio loro di vedere come va a finire la maggior parte dei ragazzi che vi partecipano: girano all’interno degli stessi programmi e vengono frantumati in breve tempo, perché non hanno un background solido costruito nel tempo; guardiamo invece a Claudio Baglioni, Zucchero, Vasco Rossi che vengono da una gavetta vera, avendo iniziato a suonare nei garage, negli scantinati, facendo un percorso lungo e faticoso prima di arrivare dove sono. Questo è il successo duraturo. Quello dei talent quanto può durare realmente? Il nostro difetto è quello di vedere nei programmi il vero talento e di cercare in essi di apparire senza essere veramente; se proviamo invece ad andare in Russia? Qui quando si parla di danza si parla solo di Bolshoi, lo stesso vale per gli attori che sono tutti grandi attori.

– Vi è una grande disparità nella percezione della cultura teatrale tra le città del Nord e per esempio Napoli, lei cosa ne pensa?

Concordo. A Napoli il teatro fa parte della città, i napoletani si mettono da parte i soldi per avere una poltrona per assistere a qualche spettacolo teatrale, sono abituati, fa parte della loro cultura. Basti pensare che quando le compagnie romane, torinesi o bolognesi devono andare a Napoli, hanno tutte paura perché quelli seduti in platea sono degli esperti veri, anche se fanno il calzolaio, il droghiere, il barbiere, a livello teatrale non li batte nessuno. Questo è anche il motivo per cui le compagnie napoletane sono le uniche in attivo, mentre nel resto di Italia si chiudono i teatri, le compagnie falliscono e agli spettacoli assiste solo un pubblico anziano, a differenza di Napoli dove vedi anche i ragazzi.

– L’ultima domanda che facciamo a tutti i nostri ospiti: cosa pensa lei della filosofia?

La filosofia c’è in tutto perché è vita!

Per parlare in assurdo la filosofia è presente anche quando devi comprare un panino al prosciutto: c’è la scelta del tipo, la riflessione sulla differenza tra uno e l’altro, il perché si usi un coltello piuttosto di un altro. La filosofia è un mondo fantastico e chi la considera inutile non sa nemmeno di cosa stia parlando, perché non riesce a vedere che la storia del pensiero è dietro ogni cosa e ne andrebbe aumentato lo studio per aiutare a sviluppare il pensiero. Ma evidentemente chi la rinnega ha paura di formare persone pensanti e cerca di lobotomizzarle anche attraverso i Social Network, perché in questo modo tu non scendi più in piazza ma ti sfoghi con un semplice post, facendo, così, il loro sporco gioco. Mi auguro che tutto questo prima o poi sparisca e che la gente, soprattutto i giovani, capiscano che è molto meglio ritrovarsi al tavolino di un bar per discutere e cercare di cambiare le cose.

Le parole di Luca Ward, in questa intervista, sono rivelatorie di un mondo che sempre più si basa sull’apparenza e sull’esistere piuttosto che sull’essere. Occorre riflettere sul concetto di Arte e sulla persona che la interpreta per vocazione, l’Artista, arrivando a capire che essere artisti non significa per forza essere solo speciali, famosi, conosciuti e riconosciuti, ma vuol dire fare un lavoro di studio, fatica, disciplina e passione, come qualunque altro lavoro; però ciò che può fare la differenza tra questo mestiere e uno più ‘consueto’ è la persona che lo svolge e il modo di approcciarsi ad esso: la semplicità di essere Artista, i valori che gli appartengono possono distinguere un vero artista da una meteora pronta a sparire.

Ancora più evidente è che essere Artisti non è da tutti e non è per tutti.

Il vero artista è chi ha la consapevolezza del mondo per poterlo interpretare ogni volta in modo diverso; è colui che, a volte, prende le distanze dalla vita per poterla oggettivare e raccontare agli altri, riunendo il tutto nel suo sguardo o nella sua voce o nei suoi movimenti.

L’Artista vero è quello che conosce il sacrificio e il valore del rispetto del lavoro altrui che gli ruota attorno ed è in grado di stare al livello degli altri sentendosi a proprio agio.

Occorre essere sempre critici, prudenti e obiettivi quando si parla di Arte, per non rischiare di semplificarla e banalizzarla. Allo stesso modo è necessario porre attenzione nello scovare l’artista vero, colui per cui onore e successo sono indifferenti perché l’unica cosa che conta è l’arte per cui si sacrifica.

 

Esistono due modi per non apprezzare l’Arte. Il primo consiste nel non apprezzarla. Il secondo nell’apprezzarla con razionalità.

Oscar Wilde

 

Valeria Genova

[Immagini di proprietà di Luca Ward]

 

“Un grammo di comportamento vale un chilo di parole”

Tutto quello che vuoi si trova dall’altra parte della paura
Recitazione. Roma. Lezione di prova: repulsione. O qualcosa del genere.
Non capivo perché, ma avevo un fastidio interno ed una gran voglia andarmene.
Esercizio dopo esercizio mi sentivo agitata, giudicata, tesa.
La lezione di prova finì ed io dissi ai professori: “Spero di tornare, ma con il mio lavoro sarà difficile”.
Tornai a casa nervosa, scombussolata, con qualcosa che mi si agitava dentro.
Sembrava adrenalina. Quella che mi veniva quando andavo a nuotare di sera. Quella che poi fino alle tre di notte non la smaltisci neanche con tisane alla passiflora del Gabon e 20 gocce di xanax.
Ma era qualcosa di più forte.
Era paura.
Era aver intuito che qualcosa stava per sradicarmi dalla mia comfort zone, dal mio divano, dal mio Sky, dai miei aperitivi.
Forse era il famoso “Tutto quello che vuoi si trova dall’altra parte della paura”.
O forse mi stavo trasformando in un personaggio di un film di Muccino su sceneggiatura di Fabio Volo.
Fatto sta che le ore di sonno furono poche e le domande troppe.
A tutti i punti di domanda della notte rispose una sensazione di benessere appena aperti gli occhi al mattino. Una sensazione che mise un punto. E mi fece andare a capo. Quella sensazione che provi solo risvegliandoti con la persona che ami accanto. Quel momento in cui si realizza. E quella mattina realizzai che l’unica cosa che avrei fatto sarebbe stata infilarmi un paio di scarpe da ginnastica e chiudermi fino a sera in un’accademia. A fare e rifare senza sosta quegli esercizi che solo qualche ora prima mi avevano fatto diventare rossa, mi avevano fatto tremare la voce, mi avevano fatto pensare “ma che ci faccio io qui in mezzo?”, mi avevano fatto dire “Non credo di poter tornare, non ce la farei con il mio lavoro”.
Il lavoro? La pioggia? La neve? L’invasione di cavallette? Tutte scuse.
Il modo, il tempo, lo trovi. E se non lo trovi lo cerchi. E se non lo cerchi lo rubi.
Tra lavoro ed un minimo di vita sociale dormo sempre meno. O tra lavoro e sonno, ho sempre meno vita sociale. E tutto questo è esaltante ed al tempo stesso rassicurante. Esiste la recitazione e chi o cosa riesce ad inserirsi con grandi sforzi tra me, il mio lavoro e quella che posso chiamare senza mezzi termini un amore viscerale, è un chi o un cosa davvero importante. Anche una telefonata diventa difficile. Ma chi ti vuole bene capirà. Chi non capirà, è perché non ha capito chi sei. Per me studiare recitazione è una bolla. Indistruttibile. E tutte le persone che ci sono dentro lo sono. Di alcuni di loro non so nulla, di altri molto, di altri ancora tutto. Ma una sola cosa la so: quando siamo lì dentro, nella nostra bolla, tutti insieme, in quella stanza nera, spartana, senza fronzoli, senza orologi, coi cellulari che, pur volendo, non prendono, senza anelli, bracciali, tacchi, cravatte, il mondo fuori con le sue regole, le sue riverenze, i suoi clichè non esiste più.
Una lezione di prova  dovrebbero farla tutti. Sopratutto chi pensa che questo non sia un mondo straordinario, ma un sottobosco squallido e umido. E dovrebbero provarci tutti, ma non per vincere l’oscar. Ma per capire. Tante, troppe cose che diamo per scontate.
Quanto un silenzio arriva molto più che un flusso di parole.
Quando un silenzio arriva e perché.
Quanto non ascoltiamo l’altro.
Quando l’altro dobbiamo ascoltarlo, altrimenti salta tutto.
Quando l’altro deve ascoltarci, altrimenti salta tutto.
Quanto siamo centrati su noi stessi.
Quanto impatta uno sguardo.
Quanto sia fondamentale il dettaglio. E quante cose da quel dettaglio si capiscono.
Quante infinite possibilità ci sono di recitare un copione. Quello che recitate ogni giorno fingendovi felici, vincenti, griffati e rampanti su Facebook e nella vita reale.
Quante infinite possibilità di vivere esistono.
Quante regole della recitazione sono regole di vita.
Quanto nell’improvvisazione niente sia lasciato al caso.
E’ dura mettersi alla prova. Ed è ancora più dura ammettere di essere banali, scontati, pieni di sovrastrutture e pregiudizi. Recitando vengono fuori i propri limiti, le proprie insicurezze, le proprie paure e lezione dopo lezione, ora dopo ora, si sciolgono dentro e fuori quella stanza.
Non ti importa più del contorno, della forma, del superfluo. Arrivate le 19 vuoi solo mettere le tue converse, buttare i tacchi e la giacca, ed entrare in uno spazio in cui potresti vivere per ore, senza mangiare o bere.
Se vi sembra esagerato, vi auguro di provarla almeno una volta nella vita una sensazione così.
Quando sei davvero dentro qualcosa, abbi il coraggio di rimanerci.
“State”, ci dicono a lezione.
Stacci.
Prenditi il tuo tempo.
Vivitelo.
E poi, restituisci.
Anche un silenzio.
“Fatevi portare dal vostro centro”, anche questo ci dicono sempre a lezione.
È difficile capire cos’è, dov’è e perché.
Ma è da lì che parte tutto.
Fatevi portare dal vostro centro. Seguitelo.
Chi lo chiama cuore, chi plesso solare, chi istinto, chi energia. Che importa.
Seguite il vostro centro.
E se il vostro centro vi porta dal codice civile ad un palco sgangherato di un teatro Off, è sul palco sgangherato di un teatro Off che dovete salire.
Piangerete di felicità. Non di frustrazione.
Troverete sulla vostra strada chi cercherà di ridimensionare questo vostro amore.
Chi vi dirà banalizzando “eh si, è bello coltivare un hobby”, facendovi sentire ridicolo, fuori dal mondo e fuori tempo. Chi vi farà sentire strano. La noia sulla faccia di chi vi ha appena chiesto “E quindi che si fa a questa recitazione”? dopo la prima parola della vostra risposta.
Non importa.
Andate avanti per la vostra strada.
Se è la vostra strada lo sentirete nelle ossa, nella testa, nel centro.
Avrete sempre un monologo che vi ronza nella testa, e avrete sempre voglia di imparare il prossimo.
Paradossalmente, quello che accade recitando, è autentico.
Di recitazione non si vive, mi dissero tempo fa.
Di insoddisfazione, si muore, non ebbi la prontezza di rispondere.
Per salvarsi, si è sempre in tempo. Sali sul tuo palco. E il sipario non calerà mai.
Anche perche nei teatri Off il sipario manco ci sta.
 

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

[Immagini tratte da Google Immagini

 

“Di tutte le storie che sono state scritte ne manca una: la tua”.

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che la vita è una, che ogni giorno è l’ultimo, che tutto cambia, che il successo o la fortuna non si misurano in banca ma derivano dall’apprezzare ogni più piccola gioia, che ciò che per te è sacrosanto e giusto, è assurdo e sbagliato un metro più in là

 Era un venerdi mattina milanese. Di dicembre. Di quelli che appena ti suona la sveglia vorresti solo posporla, almeno fino a maggio. Almeno. Si, dormo ancora un po’, tanto è solo un corso.

E invece.

Il corso di Storytelling non è stato un corso. O almeno non solo quello. È stato scavarsi dentro, ricordi, incontenibili sorrisi, lacrime represse, il cervello e il cuore finalmente a cinema assieme. A vedere il mio film. La mia storia.

Il momento preciso in cui capisci che vivere significa essere chi si vuol essere e non chi gli altri vogliono che tu sia te lo ricordi per sempre.    Ti trapassa da parte a parte.

A me è successo durante le due giornate di “un corso di formazione, come tanti”. Perché ho scritto chi e cosa sono stata, e vedendo la mia vita tutta nero su bianco, ho capito chi sono e chi voglio essere.

Il Mio capitolo inizia proprio dalle parole con cui ho concluso il corso: “Donatella era una bambina timida ed insicura. Che alle feste di carnevale aveva freddo. Diceva sempre si ed era educatissima.  Poi un giorno…”. Ma le 18.30 sono arrivate, il corso è finito, e qualche vita, forse, è iniziata.

Tutto questo è stato possibile grazie ad una persona che  ha reso un corso di formazione, un corso di emozione: Francesca Marchegiano.

-Cominciamo così: c’era una volta una bambina di nome Francesca che…

…che era arrivata sulla Terra così come ogni eroe entra nella sua storia: con un dono da condividere e una ferita da sanare, e che partì per scoprire quali fossero entrambi.

-Continuiamo così: un giorno Francesca capì cosa avrebbe voluto fare da grande e…

Decise di mettersi in proprio alla soglia dei 40 anni, in una nazione dove la crisi regnava sovrana, senza contatti e dovendo inventarsi un lavoro che prima non c’era. Così si mise a studiare e studiare, passò giorni e notti a esplorarsi dentro e cercare di conoscere il fuori, arrivò a pensare: “Và che ho sbagliato tutto?” ma, arrivata a quel punto della storia, decise che piuttosto sarebbe morta provandoci, ma mai avrebbe abbandonato il suo sogno. E in quel momento davanti a lei si aprì un campo di fiori, da attraversare.

-Se ti chiedessi di spiegare cosa è lo storytelling in 10 parole?

Insieme di conoscenze e strategie per costruire racconti ingaggianti (ne manca una, aggiungo: olè!).

-Quando e come hai capito che questa sarebbe stata la tua strada?

Durante un Master in Orientamento e Outplacement, seguito perché già pensavo di supportare le persone nello scegliere strade di qualità rispetto ai propri talenti e alla propria natura, stimolandoli attraverso percorsi di narrazione autobiografica, attraverso la scrittura. Dovendo imparare a farlo per gli altri, l’ho fatto su di me, e lì ho capito chi ero e quale strada non tanto dovevo scegliere (perché non c’era), ma dovevo inventare.

-In che modo lo storytelling è applicabile al mondo dei bambini?

I bambini INSEGNANO lo storytelling, vivono perennemente in Neverland e ricordano a noi, adulti che cerchiamo di stare dritti e seri, quanto la narrazione sia innata, nutriente, indispensabile, guaritrice, salvifica e creatrice.

-Siamo tutti storyteller inconsapevoli?

Assolutamente sì! Dove c’è una persona, lì c’è uno storyteller. Solo che è talmente naturale questo modo di essere, che è inconsapevole come il battito del cuore o il respiro. Il mio compito è risvegliare questa consapevolezza, in modo che tutti possano valorizzare la loro identità, orientarsi nella vita, promuovere ciò che fanno e realizzare i loro obiettivi.

-Al corso hai anche parlato dello storytelling utilizzato per scopi terapeutici, ad esempio negli hospice. E’ qualcosa che mi ha colpito molto, potresti spiegarci meglio in cosa consiste?

Già da tempo si parla di Medicina Narrativa, anche in Italia, ed è la possibilità di far esprimere (narrare) i propri vissuti ai pazienti, e spiegare o affiancare i pazienti in percorsi di cura con un approccio narrativo, da parte del personale medico. La mia esperienza è consistita nell’introdurre lo storytelling autobiografico nelle cure palliative per pazienti terminali, per far sì che, raccontando e “rileggendo” la propria storia, ciascuno di loro potesse accorgersi del disegno unico e speciale che la propria esistenza aveva avuto, così da darle un senso e poterla chiudere con più serenità.

-La serenità che trasmetti come si concilia con la tua indole da esploratrice “Into the wild”?

Si capisce che non sei mai stata in macchina con me… lì la mia serenità scompare e mi trasformo in Hulk! A parte gli scherzi, ho avuto il grandissimo privilegio di avere quelli che io chiamo “Maestri di vetro”. Li ho incontrati nei primi lavori che ho fatto dopo l’Università, erano ospiti di comunità per schizofrenici cronici e malati d’aids terminali. Loro mi hanno insegnato tutto quello che importa sapere: che la vita è una, che ogni giorno è l’ultimo, che tutto cambia, che il successo o la fortuna non si misurano in banca ma derivano dall’apprezzare ogni più piccola gioia, che ciò che per te è sacrosanto e giusto, è assurdo e sbagliato un metro più in là… e anche di questo bisogna saper farne un valore.

– Ci spiegheresti in pochissime parole “Il viaggio dell’eroe”?

Il Viaggio dell’Eroe è un format narrativo, sul quale sono state costruite tutte le più grandi storie del mondo, della mitologia, delle religioni ma anche del cinema e della letteratura. Parla dell’Uomo e dell’arco di cambiamento e possibile) evoluzione che ciascuno di noi fa nella vita, e nella singola giornata. Insegna che nulla di importante accade nelle proprie zone di comfort, ma è solo mettendosi in viaggio (reale o metaforico), incontrando aiutanti e ostacoli, che abbiamo la possibilità di scoprire il nostro reale sé, il tesoro interiore, e riportarlo al punto di partenza, affinché tutti possano beneficiarne, oltre a noi.

-Ora a che punto del cerchio ti trovi?

Ognuno di noi ha tanti cerchi del Viaggio attivi, contemporaneamente. Uno per il lavoro, uno per l’amore, uno per la salute… davvero tanti. Rispetto allo storytelling, per un punto di vista sono alla fase del tesoro, perché ho chiaro cosa devo fare di ciò che so e ho imparato in questi anni, cosa devo fare per me E per gli altri. Ma qui comincia un nuovo Viaggio.. che sarà ricco di ostacoli, conflitti, prove da superare e fate pronte a darmi un aiuto, ma solo quando aderirò così totalmente al viaggio, da non prevedere la possibilità di arrendermi e tornare indietro.

-Se dovessi scegliere tra “ C’era una volta” e “E vissero felici e contenti”?

Sono molto proiettata verso il futuro, quindi starei sull'”e vissero”. “E vissero” mi basta, “felici e contenti” per l’eternità mi sembra un incubo…aggiungiamo anche “nostalgici, disperati, folli, sognatori”… tutto quanto cirende meravigliosamente tridimensionali!

– Francesca in una citazione:

La mia preferita di questo periodo è: “Tutte le cose sono connesse le une alle altre, e sacra è la loro connessione”. È di Marco Aurelio, ogni volta sono scioccata di quanto avesse già detto tutto lui.

-Francesca in una sola parola:

Libera.

– Francesca in uno sbaglio:

Come, solo uno??? Ma ne ho fatti un sacco, altrimenti non sarei potuta cadere in ginocchio e trovare pepite d’oro proprio lì dov’ero.

-Francesca è stata, è, sarà…?

Una persona uguale a tutte le altre, che sta scrivendo (nel viverla) la sua storia, cercando di avere più pagine belle possibili, e di far tesoro di quelle che si sono strappate.

 -Dove possono contattarti i nostri lettori?

www.francescamarchegiano.com lì ci sono anche i link ai social o la mia mail.

Grazie mille Francesca, o come ti firmi tu… Fra.

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

[Immagini tratte da Google Immagini]

Ps. Un ringraziamento a  Ninja Academy che si è affidata a Francesca per un corso che ancor prima di cambiare il mio modo di lavorare, ha cambiato il mio modo di essere.

 

Mirko Artuso: Re del Tempo

La meraviglia, ecco che cosa mi interessa: riportare lo sguardo alla meraviglia. Se l’infanzia non è davvero un’età della vita, ma è un modo per guardare il mondo, la meraviglia è quel modo, quello sguardo.

Mirko Artuso, attore e regista, ha inizio la sua attività di attore e narratore nel 1987 presso la compagnia Laboratorio Teatro Settimo di Torino, in stretta collaborazione con attori come Laura Curino, Marco Paolini ed Eugenio Allegri. La sua ricerca artistica si basa sul continuo confronto tra il linguaggio poetico del teatro e l’interpretazione della realtà e dei luoghi in cui esso si manifesta.

Le sue creazioni nascono, dunque, dalla necessità di raccontare.

Da tempo Artuso ha intrapreso un percorso che tende a valorizzare l’incontro tra le persone. Dal 1995, infatti, cura Teatro & Diversità, progetto che coinvolge persone diversamente abili di varie età e affette da diverse patologie psicomotorie e neurologiche. Il progetto consiste nel tenere laboratori teatrali in tutta Italia per promuovere l’autonomia, il benessere e la partecipazione nella vita sociale di queste persone. Dalle loro storie e immagini, Mirko prende ispirazione per i suoi disegni: semplici, diretti e pieni di vita.

Nel corso del CartaCarbone Festival ho avuto la possibilità di assistere al suo spettacolo teatrale Re del tempo. Il tutto è cominciato da una riflessione, sua e degli altri attori, sul concetto di Debolezza. Jonathan Swift affermava che

Si accusano tanto gli uomini di ignorare le loro debolezze (…)

Loro invece hanno avuto il coraggio di affrontarle, dando inizialmente allo spettacolo il titolo di Deboli e storti. Successivamente sono diventate persone che sanno stare dentro il tempo, citando lo stesso Mirko Artuso.

Durante i laboratori i partecipanti iniziano raccontando la propria storia. Hanno tutti età diverse ed inevitabilmente percorsi di vita differenti ed è da questa differenza che iniziano a lavorare. In Re del tempo come in ogni altro loro spettacolo manca un copione definito, ogni volta è improvvisazione, è una scommessa: ognuno ha un proprio repertorio, ma nessuno sa quale sarà il risultato.

La disabilità è un’arte. È un modo ingegnoso di vivere.

spiega Neil Marcus, attore e drammaturgo americano affetto da distonia da quando aveva otto anni. Spesso i diversamente abili vengono messi tristemente da parte per i loro problemi. Ci si dimentica che, proprio come chiunque altro, sono persone con i propri interessi, le proprie passioni e attitudini. Tutto questo Mirko Artuso l’ha capito, ed è stato davvero emozionante assistere allo spettacolo Re del Tempo ammirando il sorprendente lavoro di Mirko e dei suoi allievi. L’attore, nel parlare, ha addirittura difficoltà a pronunciare “diversamente abili”, perché per lui sono solo persone che si incontrano e condividono le loro passioni. Io ho personalmente apprezzato molto questo aspetto del lavoro di Mirko Artuso. Si ripete continuamente che non bisogna aver paura del diverso e non fermarsi all’aspetto esteriore, ma l’emarginazione che i diversamente abili vivono ogni giorno dimostra come troppo spesso queste parole siano vuote di retorica. È vero che bisogna sempre andare oltre all’aspetto esteriore per guardare in fondo alle persone, nella parte interiore di tutti noi che ci differenzia l’uno dall’altro. Ma non basta solamente ripetere queste parole, bisogna anche metterle in atto. Questo problema non riguarda solo i diversamente abili: dimentichiamoci del nostro aspetto fisico e impariamo a conoscerci per quello che siamo e non per ciò che mostriamo.

Molte volte il disabile è commiserato e con ciò discriminato proprio da quelli che hanno paura di riconoscersi in lui, direttamente o indirettamente.

Giuseppe Pontiggia, Disabili dal punto di vista antropologico

I disegni dell’artista si potranno vedere dal 27 ottobre al 30 novembre 2014 negli spazi espositivi di Palazzo Rota Ivancich.

Ilaria Berto


[Immagini tratte da Google Immagini]

La recitazione : un gesto d’amore – Intervista a Ruggero Franceschini

Vivendo la nostra routine giornaliera, quasi inconsapevolmente, diventiamo gli interlocutori di una serie di messaggi che ci vengono trasmessi da degli enormi schermi al plasma. Siamo un pubblico che deve essere persuaso, quasi “ammaestrato”, a prendere determinate scelte definite “giuste”.

In un certo senso, finiamo con il recitare quella stessa parte che non avremmo mai voluto accettare, che ci aliena, che ci allontana dal nostro vero essere ma che, dall’alto, ci viene astutamente imposta.

Andiamo al cinema, guardiamo uno spettacolo di danza, oppure andiamo a vedere la nostra pièce teatrale preferita..sempre pronti a fantasticare sui passi di una storia irreale che ci viene presentata e che, forse, poi così lontana dal normale non è. La distanza tra gli attori e gli spettatori è apparente, meramente fisica.

Ed è questo ciò che accade quando il teatro incontra la vita delle persone.

Ho avuto da poco modo di affrontare queste questioni con Ruggero Franceschini, attore della scuola del Piccolo Teatro di Milano, il quale ci ha dato anche la possibilità di comprendere più a fondo l’intreccio tra il teatro e la filosofia.

A seguito, la breve intervista da cui possiamo ricavare numerosi punti fertili per una più amplia discussione. Read more