Squisito! – Ruth Reichl

Billie Breslin lascia la California per trasferirsi a New York, dove ambisce al posto di segretaria per Squisito!, celebre rivista gastronomica della Grande Mela. Sin da piccola Billie ha un talento naturale, un palato attraverso il quale riesce a distinguere anche gli ingredienti più complessi, a visualizzare alchimie di sapori, a prevedere perfette sinfonie di gusti. Talento che si rifiuta di utilizzare in cucina da quando un doloroso evento ha invertito per sempre la rotta della sua vita.

Squisito! si rivelerà per Billie una grande avventura, un caleidoscopio di conoscenze e nuove esperienze, purtroppo destinate ad interrompersi bruscamente. La rivista chiuderà i battenti per bancarotta e toccherà proprio a Billie rispondere agli ultimi reclami dei clienti in quella maestosa casa newyorkese ormai vuota, abbandonata dai colleghi e destinata a trasformarsi in un’abitazione privata. Proprio in questa circostanza Billie farà una scoperta inaspettata: una stanza segreta che custodisce una corrispondenza epistolare risalente a settant’anni prima, lettere inviate da una ragazzina al celebre chef James Beard, nei tragici anni della seconda guerra mondiale. Billie, grazie alle parole di Lulu, cariche di gioia di vivere, coraggio, determinazione e speranza, intraprenderà un cammino alla ricerca di quella ragazzina del passato, ma anche e soprattutto di se stessa.

Squisito! è una storia che profuma di zenzero, arancia e cannella. E’ una storia zuccherosa al primo morso, ma con un retrogusto deciso e speziato. Billie per tutta la vita ha combattuto con il suo sentirsi inadeguata, inadatta, a volte addirittura invisibile. Poi accade ciò che non sarebbe mai dovuto succedere, e da quel momento si chiuderà in se stessa, si trincererà in un cieco senso di colpa, annientando il proprio essere, annullando la propria anima e privandosi di ciò che più ama fare: cucinare. Finché Lulu, una ragazzina cresciuta durante la guerra non si farà spazio nella sua vita e nei suoi pensieri, creando una piccola crepa nell’armatura di Billie. Una crepa dalla quale ben presto entreranno luce, vita, rinascita e forse persino l’amore.

Lo stile di Ruth Reichl è caldo e accogliente, guida il lettore tra le strade di New York, tra personaggi unici, caratteristici, modellati con cura e maestria. Il cibo, la cucina, l’arte culinaria, riempiono la narrazione di odori, sapori, dettagli che rapiscono i cinque sensi del lettore. Come la gastronomia italiana di Sal Fontanari che, nel cuore di New York, dona ai clienti non solo salumi e formaggi, ma anche una porzione di sentimenti tipicamente italiani: ospitalità, condivisione, umorismo, ilarità.

E’ come se pensassero che tornando a casa troveranno un po’ dell’ottimismo di Sal, incartato insieme al formaggio.

Squisito! è una lettura piacevole, dai toni delicati e dai sapori dolci, ma non solo. E’ un libro che ci invita ad andare avanti nonostante tutto, a diventare ciò che desideriamo essere, ad assumerci i rischi azzerando i timori. Perché in fondo la vita è molto simile ad un soufflé e, come direbbe James Beard…

 l’unica cosa che fa sgonfiare un soufflé è sapere che ne avete paura.


Stefania Mangiardi

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Inside out non è un film per bambini

Nella stagione in cui i titoli più attesi dell’anno escono nelle sale, Inside out è stato uno dei film non solo più visti, ma anche più apprezzati del mese di ottobre. Un risultato in parte prevedibile, dal momento che quasi tutti i film prodotti dalla Pixar Animation hanno sempre riscosso ottimi successi di pubblico e critica. E’ importante osservare però che Inside out, pur rientrando nella categoria “cinema d’animazione”, non può essere ridotto alla semplice definizione di: film per bambini.

Molti critici, nel corso degli anni, hanno sottolineato, a ragione, il fatto che la Pixar abbia dato una svolta netta al modo di realizzare film animati. Non solo a livello di tecnica, ma anche a livello di contenuti e di trama, grazie a storie apparentemente semplici e legate al mondo dell’infanzia, capaci però di sviluppare tematiche molto complesse e profonde, adatte a un pubblico adulto più che a un gruppo di giovanissimi. Inside out, e quasi tutti gli ultimi film firmati Pixar (Wall-E, Up e Ratatouille in particolare), sono quindi il paradigma di un’ideologia. I registi e i produttori di questi film hanno iniziato nel tempo a produrre delle pellicole i cui veri destinatari non sono più stati i bambini, bensì i genitori che accompagnano i propri figli al cinema. Cercando di produrre uno spettacolo formato-famiglia con ambientazioni ispirate alla vita quotidiana e personaggi iperreali, gli autori della Pixar hanno capito che l’importante non è avere l’attenzione dei più piccoli, ma quella dei più grandi che rappresentano il vero pubblico pagante. Se un genitore si diverte a guardare il cartone che il figlio gli ha chiesto di vedere, ci sarà una buona probabilità che con l’uscita del titolo successivo, prodotto dagli stessi autori, sarà il genitore stesso a riportare il proprio bambino in sala, perché ritiene che quello sia uno spettacolo piacevole e istruttivo non solo per il figlio ma anche per lui stesso. Ecco perché la Pixar sta puntando tutto sulla produzione di sequel dei suoi film più famosi e non su opere nuove (pensate a Toy Story 4 in uscita l’anno prossimo, Cars 2, Monster University eccetera eccetera).

Parallelamente, le trame dei film cercano di approfondire tematiche sempre più complesse: l’ecologia. il passaggio all’età adulta, le emozioni che governano l’uomo e così via, motivando anche gli spettatori nella fascia d’età tra i venti e i trent’anni a vedere questi film. Una complessa quanto efficace strategia di marketing, che sfrutta il mezzo cinematografico per produrre idee ed emozioni ogni volta più incredibili ed elaborate. “L’arte sfida la tecnologia e la tecnologia ispira l’arte” ha dichiarato il fondatore della Pixar J. Lasseter. Ed è proprio grazie alla complessità di questi meccanismi che film come Inside out continuano ad avere un così grande successo trans-generazionale. E’ la forza del cinema, ma non azzardatevi a chiamarli ancora: film per bambini.

Alvise Wollner

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Come raccontare la sindrome di Down

Traffico, un giorno d’estate, l’aria calda mi congela i pensieri.
Una fermata degli autobus come tante, la solita fermata a cui mi dirigo abitualmente per tornare a casa. Ho appena sostenuto un esame, a dir la verità è uno degli ultimi; le mie sensazioni quando penso che sto per finire un percorso mi risvegliano gli istinti più interiori e mi percorrono.
Vedo intorno a me persone, più o meno distratte. Dai pensieri, dagli impegni, dalla vita fin troppo ordinaria.
La vita ci lascia poca follia. Ci lascia troppe cose a cui affidiamo un’importanza immeritata. Navigo con le preoccupazioni del giorno, tra il pensiero del mio futuro e i ricordi del mio passato prossimo. Navigo egoisticamente, vedendo gli altri senza guardarli.

Forse per caso, forse per sensazioni diverse dal solito, vedo un paio di occhi azzurri. Un paio di occhi che mi colpiscono, perché diversi dagli altri. Sono profondi pur essendo chiari, hanno la profondità di chi si sente diverso in una società di uguali, o presunti tali.

La ragazza che ho davanti avrà dodici anni. Mi sorride con i suoi occhioni, so già che nei suoi pochi anni la vita la conosce molto più di me. Mangia dei biscotti sorridendo, di certo non si fa le consuete paranoie che scandiscono le mie giornate quando ingerisco qualche caloria in più.

– Mangerai a pranzo oppure non avrai più fame? – le chiede la madre seduta accanto a lei.
– Ho una gran fame mamma. Mangiamo vero a casa? –
– Basta che tu poi non faccia i soliti capricci –

La ragazza che ho di fronte ha i capelli di un biondo cenere che le cadono alle spalle. Ha un sorriso che potrebbe conquistare il mondo, ha le mani che affondano nel sacchetto che tiene stretto. Ha la capacità di assaporarsi gli attimi come quei biscotti che le piacciono tanto. Credo siano al cioccolato, a forma di cuore forse.

Per la prima volta oggi guardo senza vedere. Guardo i suoi sogni e ad un certo punto la sento parlare nella mia direzione.

– Fai l’università? –
Sono oggetto della sua curiosità, di quella curiosità innocente che agli umani sembra quasi non concesso avere ancora.
– Sì, giurisprudenza –
– È noiosa vero? –
La spontaneità a volte arriva quasi ironicamente al momento giusto.

– Sembra, eppure puoi farci un sacco di cose –
– Io vorrei curare gli animali, ma ai miei amici fa ridere quando lo dico –
– Forse sono solo invidiosi del fatto che tu così giovane sappia già cosa fare –

Sorrido, non mi viene da ridere.
La ragazza che ho di fronte ha dei sogni più grandi di quelli che hanno gli adulti stessi, ha un pensiero che dice che ce la farà, ha una percezione della sua vita che la porta già a poterci sperare. Non spera tanto per farlo, ma spera nella propria realizzazione. Nonostante la sua età, nonostante le sue paure, nonostante tutti pensino che “sono solo sogni”. E quante volte ci siamo visti guardare come se i nostri fossero solo sogni e noi fossimo gli unici a crederci. E quante volte qualcuno ha riso delle nostre idee, perché troppo lontane e apparentemente intoccabili.

– Io mi chiamo Giada, tu? –
– Mi chiamo Cecilia .. –

Prima di aggiungere qualcosa arriva l’autobus che sta aspettando. La madre la prende per mano e lei mi dice “ciao” prima che io finisca la frase. Non so se ci vedremo ancora, chissà se la vita ci farà rincontrare per caso.

Giada è una ragazza affetta da sindrome di down, e questa diventa l’ultima cosa che ricordo di lei. Quel cromosoma in più non è che un pretesto di pregiudizio per l’ignoranza che dilaga nel mondo.
Mi piace pensare che sia quel cromosoma in più ad essere capace di insegnarci a sorridere una volta in più, perché ci viene dall’istinto. Mi piace pensare che sia quel cromosoma a muovere la paralisi del mondo. Mi piace che sia quel cromosoma che possa insegnarci a dire le cose come stanno, con i modi che ci appartengono di più. E ad accettare chi abbiamo davanti per ciò che è, per le aspirazioni che ha, perché ha un sogno che noi non sapevamo nemmeno che esistesse.

Cammino in questo giorno e il mio mondo non sembra più così problematico. Penso alle cose belle che mi aspettano e alle sfide che mi merito. Penso a chi incontrerò e a chi rivedrò nella mia vita. Penso alle difficoltà che avrò o alle cose belle che verranno.
E ricorderò spesso o ogni tanto, di avere un briciolo di quell’entusiasmo; il più autentico che io abbia mai visto.

Cecilia Coletta

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UN BISOGNO SPECIALE
Non è mai facile raccontare qualcosa che viene generalmente percepito come una diversità. Non è semplice spiegare a tutti che sono più le cose che abbiamo in comune con le persone che additiamo come ‘diverse’, rispetto a quelle che ci differenziano da loro. Ancor più difficile infine, è riuscire a trattare tematiche come la sessualità e la sindrome di down, unendole tra loro in un’unica storia destinata al grande schermo. Il primo lungometraggio di Carlo Zoratti però ha il coraggio di parlarci proprio di questo e ha il merito di farlo senza moralismi e soprattutto senza voler dare nessuna lezione di vita. A metà strada tra il documentario e il road movie comico e avventuroso, “The special need” è stato uno dei titoli più apprezzati della scorsa stagione cinematografica. Un esordio indipendente ed efficace che non ha paura di prendersi molti rischi, riuscendo a evitare facili polemiche su una questione spinosa come questa. Il film di Zoratti racconta la storia di un viaggio alla ricerca e alla scoperta dell’amore. Enea è infatti un ragazzo affetto dalla sindrome di down che ha un disperato bisogno d’affetto da parte dell’universo femminile. Lui ama le donne, ma loro inevitabilmente lo respingono intimorite. Saranno Alex e Carlo, i suoi due amici di una vita, a portarlo in un viaggio indimenticabile fino in Germania, alla ricerca di una donna che sappia soddisfare il suo bisogno d’essere amato. “The special need” non scade nella banalità e nella volgarità della ricerca sessuale. Ha il pregio di lasciarla appena accennata, salvo poi superarla raggiungendo un livello più profondo: quello dell’amore. Un livello che ci fa capire quanto un solo cromosoma in più non possa cambiare in realtà quello che il nostro cuore prova e che è in fondo ciò che tutti gli esseri viventi riescono a provare: l’amore. Amore che abbatte le barriere della diversità, amore che per un ragazzo come Enea può sembrare un miraggio irraggiungibile ma che grazie all’aiuto dell’amicizia riuscirà in qualche modo ad apprezzare. “The special need” è un documentario che ci insegna ad amare e a riscoprire il valore dell’amicizia, guardando all’autismo non come a una diversità, ma solo come a un altro punto di vista che non può far altro che arricchire la mente di chi pensa di essere lui quello normale. Zoratti vince così molte sfide: una tra le tante è quella di essere riuscito ad ottenere un successo nazionale con un film quasi amatoriale. Se lo stile registico è per certi versi ancora acerbo in molti punti, quello narrativo riserva invece molte sorprese e confeziona una trama che si fa guardare con piacere, alternando momenti leggeri ad altri più intensi e profondi. La storia di Enea ci fa capire che tutti noi esseri viventi, in salute o in malattia, abbiamo un nostro bisogno speciale che ci rende uguali gli uni agli altri. Si tratta di un bisogno elementare, ma allo stesso imprescindibile: riuscire a trovare qualcuno che ci faccia sentire amati. Alla fine non importa quanti cromosomi possediamo, sono i battiti del nostro cuore quelli in grado di renderci tutti uguali e vulnerabili senza distinzioni.

Alvise Wollner

CINEMA EN PLEIN AIR: UN VALORE DA CUSTODIRE

L’abbiamo detto e ribadito innumerevoli volte ormai: l’estate è senza dubbio la stagione più problematica per l’industria cinematografica. Le belle serate estive non invitano certo a chiudersi nel buio di una sala, soprattutto se i film sono di qualità molto inferiore rispetto agli altri mesi dell’anno. Come reagire allora a questa situazione? Una risposta potrebbe arrivare dall’inaspettato successo riscosso dalle molte rassegne di cinema sotto le stelle, sparse in tutta Italia. Da pochi giorni per esempio si è conclusa la splendida manifestazione: “Il cinema ritrovato” che ha portato, come ogni anno, i grandi classici del cinema nella magica cornice di Piazza Grande a Bologna. Un evento di importanza internazionale che ha riscosso uno straordinario successo di pubblico. Non solo, il parco di Villa Borghese a Roma ospita ogni estate rassegne cinematografiche seguite e apprezzate da pubblico ed esperti di settore. L’estate è poi per antonomasia la stagione dei festival cinematografici che sovente sfruttano aree urbane e spazi cittadini all’aria aperta per proiettare i loro film in concorso. Il Bobbio Film Festival vicino a Piacenza e il Sole Luna Festival di Palermo ne sono due esempi perfetti. Se però non avete troppa voglia di viaggiare attraverso l’Italia in cerca di sale all’aria aperta, vi basterà sapere che anche a Treviso si può godere di un’ottima rassegna cinematografica sotto le stelle. Stiamo parlando di “Cinema estate”, l’evento culturale organizzato dal circolo Arci di Treviso in programma dal 1 luglio al 6 agosto nella cornice dell’oratorio Aurora, nei pressi della chiesa votiva. Tanti i titoli in programma, capaci di alternare le proposte più interessanti delle ultime stagioni (“Torneranno i prati” di Olmi, “Una nuova amica” di Ozon e “Mommy” di Dolan sono solo alcuni esempi) a grandi classici del cinema italiano come “Il vangelo secondo Matteo”, “Uccellacci, uccellini” e “Accattone”.

Cinema sotto le stelle come risposta alla crisi estiva, riscoprendo quell’effetto nostalgia raccontato così bene da Giuseppe Tornatore nel suo “Nuovo cinema Paradiso”. Ricordi ma anche occasioni per vivere una serata in compagnia degli amici o della persona amata, sfruttando l’occasione per discutere sulle impressioni trasmesse dalla pellicola a fine proiezione. Amare il cinema è possibile allora anche in piena estate, scoprirete che sotto un cielo stellato la magia della settima arte risalta ancor di più in tutto il suo splendore.

Alvise Wollner

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Orgoglio e pregiudizio – Jane Austen

LIBRO

Jane Austen è, e non smette mai di essere. Per quanto si leggano e rileggano i suoi libri, per quanto si sfoglino – anche per l’ennesima volta – quelle pagine, si rimane ancora spettatori increduli delle sue storie.

Le campagne inglesi sullo sfondo, le peculiarità della gente in primo piano. È straordinario come i comportamenti umani possano essere plasmati dalla società in cui sono inseriti. Ieri come oggi; i romanzi di Jane Austen non sono per nulla distanti da noi, ma rispecchiano una rigidità di allora che adesso sembra essere diventata, qualche volta, ostentazione.

A me non piace dare una definizione di Amore; non può essercene soltanto una. Non può valere un’unica accezione dell’amore per ogni tempo e luogo. Intorno a noi l’evoluzione delle cose ci investe, ma l’Amore? Quello vero. Quello con la lettera maiuscola, quello che non ti lascia tempo per decidere, per riflettere. Se dovessi pensare ad un romanzo d’amore, proprio in cima alla lista troverei “Orgoglio e Pregiudizio”.

Una lei ed un lui. Una società che non permette di esprimere un sentimento. Una ribellione contro un’etichetta. Il valore di ciò che è giusto contro ciò che si vuole. Voler realizzare i propri sogni che non coincidono con quelli che si dovrebbero avere.

Non cambia molto rispetto a tante storie di oggi, non cambia molto rispetto alla vita che ci passa davanti e abbiamo paura di prendere. Ci manca il coraggio, quello che non manca ad Elizabeth Bennet, quello che non manca a chi desidera essere indipendente già in un’Inghilterra vittoriana.

La diversità e l’indipendenza potrebbero essere definiti “super poteri”; quelli di cui si vestono i personaggi di Jane Austen. Non tutti, per la verità. Soltanto quelli che cataloghiamo come eroi, soltanto quelli che ci trasmettono la capacità di essere loro stessi in una dimensione in cui non avrebbero potuto esserlo.

Proprio per questo si generano miti letterari come “Orgoglio e Pregiudizio”, proprio perché fanno credere possibile ciò che sembra impossibile. La difficoltà dell’amore che diventa linearità. L’incapacità di superare barriere che diventa una costante. La purezza dei sentimenti che li trasforma in dannatamente tossici. I protagonisti che dovrebbero limitarsi a sopravvivere eppure sono bramosi di vivere.

Leggere Jane Austen non è semplicemente sognare, leggerla è riuscire a pensare che si possa essere precursori dei propri tempi, lasciandosi alle spalle l’ordinarietà e dando vita alla più autentica essenza di noi stessi.

Cecilia Coletta

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FILM

Se c’è una scrittrice che, più di molte altre, è riuscita ad affascinare con le sue storie il mondo del cinema, questa è sicuramente Jane Austen. La dote che ho sempre apprezzato in quest’autrice è quella di esser riuscita a legare in maniera indissolubile il suo nome a quello dell’universo femminile. Come raccontato da Virginia Woolf nello splendido saggio breve: “Una stanza tutta per sé”, la Austen fu una delle prime scrittrici che a inizio Ottocento, pur essendo costretta a scrivere in condizioni terribili, nel soggiorno comune e stando sempre attenta a non farsi scoprire dai suoi familiari, riuscì a scrivere una serie di romanzi considerati ancora oggi delle colonne portanti della letteratura mondiale. Storie di donne scritte da una ragazza in cerca d’amore e indipendenza, che hanno segnato una tappa fondamentale nel percorso dell’emancipazione femminile.

Se c’è una storia che più di altre può rappresentare al meglio l’importanza di Jane Austen e il suo rapporto con il mondo delle donne, questa è sicuramente “Orgoglio e pregiudizio”. Per farvi capire l’impatto straordinario di questo romanzo sul mondo del cinema e della televisione, vi basterà sapere che la storia ha avuto finora una dozzina di adattamenti tra miniserie, serie televisive e veri e propri film per il grande schermo. Di quest’ultimi si ricordano il primo storico adattamento del 1940, diretto Robert Z. Leonard, con protagonisti Elizabeth Bennet e Laurence Olivier e il celebre rifacimento del 2005 diretto Joe Wright e interpretato da Keira Knightley e Matthew Macfadyen. Ci soffermeremo proprio su questa seconda versione che ha saputo rileggere con efficacia la storia originale, dimostrando quanto le parole scritte dalla Austen potessero essere attuali e coinvolgenti anche all’inizio degli anni Duemila. Wright, regista al suo esordio cinematografico, conosceva bene l’importanza della sfida e senza rischiare più di tanto ha diretto un adattamento giudicato da pubblico e critica “estremamente fedele al testo scritto”. Un lavoro che traspone in immagini le parole di Jane Austen. Un prodotto che resta in bilico tra il blockbuster raffinato e la pellicola che ricerca pregevoli soluzioni stilistiche (un esempio su tutti: il piano-sequenza del ballo a palazzo)  per raccontare un amore vittoriano che ha conquistato generazioni di lettori e, soprattutto, di lettrici. La rigidità dei costumi ottocenteschi emerge tutta nel film di Wright che dal canto suo riversa un’attenzione estrema per gli elementi della messa in scena: dai costumi alle scenografie passando per i trucchi e la fotografia che ci restituiscono una campagna inglese pregna di suggestioni romantiche. L’amore tra Elizabeth Bennet e l’affascinante signor Darcy dimostra così di non subire per nulla il peso dell’invecchiamento e ci fa capire come il rapporto tra cinema e letteratura sia spesso capace di dar vita a una fusione che invece di schiacciare il libro in favore del film, lo porta a rinnovarsi di una nuova linfa, esaltandone la bellezza e la sua forza nel resistere alle insidie del tempo.

 
Alvise Wollner
 
 
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Christopher Lee – Il volto dell’orrorismo

La filosofa Adriana Cavarero in una delle sue ultime pubblicazioni ha coniato il termine “orrorismo”, inserendolo in una brillante riflessione sulla violenza nel mondo contemporaneo. Se nell’immaginario collettivo infatti, il terrore rimanda etimologicamente alla fenomenologia della paura e alla minaccia di una morte imminente, l’orrore indica invece una violenza che genera ripugnanza, in quanto eccede l’omicidio stesso, implicando la sfigurazione del corpo della vittima e la conseguente distruzione della singolarità della sua esistenza. L’orrorismo, secondo la teoria sostenuta da Adriana Cavarero, marca dunque uno spostamento dell’attenzione dal carnefice alla vittima. Si tratta di un discorso applicabile anche al mondo del cinema. Se ci pensate un attimo infatti, noterete che il genere horror si chiama così perché produce a suo modo una violenza visiva e psicologica sullo spettatore, inducendolo a provare sentimenti di panico e terrore.

Il cinema del Novecento ha avuto la peculiarità di associare i nomi di grandi attori non a dei film, ma a dei veri e propri generi creando così delle maschere attoriali (da Charlie Chaplin nella commedia, a Cary Grant nei gialli di Hitchcock, passando per i nostrani Totò e Massimo Troisi, per fare solo alcuni esempi). Nel genere horror di metà Novecento, la grande industria hollywoodiana ha raggiunto i suoi apici grazie ad alcuni interpreti del calibro di Lon Chaney, Boris Karloff, Vincent Price e Christopher Lee. Proprio lui, considerato l’ultimo grande esponente ancora in vita di quella generazione, si è spento nelle scorse ore all’età di 93 anni. Una scomparsa che ha lasciato il mondo del cinema in un grande rammarico per aver perso colui che era considerato come l’ultimo vero Dracula cinematografico, degno erede dell’inarrivabile Bela Lugosi. Nella sua carriera Lee ha recitato in più di 200 film e in quasi tutti questi è stato un grande villain (un antagonista) destinato a entrare nell’immaginario collettivo. Dal vampiro della Transilvania che gli diede fama e onori, passando per il ruolo dello stregone Saruman ne “Il signore degli anelli” e arrivando ad essere l’antagonista di James Bond in “007 – L’uomo dalla pistola d’oro”. Una carriera sotto il segno dell’horror. Una vita passata a capire i meccanismi del male cercando sempre di renderli con grande professionalità ed intensità, aiutato di sicuro da un imponente aspetto fisico. Un metro e novantacinque di altezza, occhi scuri e penetranti, carattere ferreo. Il suo volto rimarrà per sempre associato a un genere che con gli anni ha perso sempre più il suo fascino nei confronti del grande pubblico. La grandezza di Lee è però stata quella di saper scherzare con la sua passione per i ruoli oscuri (lo dimostra il film-parodia “Tempi duri per i vampiri”). Un volto, quello dell’attore britannico, che ha saputo dare i brividi a innumerevoli generazioni. E a proposito di questo suo destino nell’interpretare ruoli legati all’orrore diceva: “Per impersonare un cattivo ci vuole molta forza, ma bisogna anche essere in grado di comunicare la tristezza nascosta in chi fa del male”. E lo sguardo di Sir. Lee ha saputo come pochi rendere fino in fondo tutte le sfumature che si celano dietro all’orrorismo.

Alvise Wollner

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Momenti di trascurabile felicità – Francesco Piccolo

Quanti istanti nel corso della nostra vita meritano di essere ricordati per la felicità con cui li abbiamo vissuti?

Pochi, penserete voi. Pochi, penserebbe chiunque in realtà. Esistono per brevi frazioni di tempo, contrapposti a quelli di enorme dolore. Sono quelli in cui ti dimentichi di tutto ciò che non funziona, in cui riesci perfino a dimenticare di esistere forse, in cui per un attimo smetti di sopravvivere.

E vivi. Irrimediabilmente, forse. Sconsideratamente, magari.

Ma tra i momenti di palpabile felicità e di lacerante dolore, ci sono dei momenti differenti. Quelli in cui ognuno di noi si ritrova nella quotidianità senza nemmeno farci caso. Quelli che si mimetizzano perfettamente nella sequenza delle nostre ore ordinarie. Sono nascosti, non capita spesso di notare che esistano.

Sono “Momenti di trascurabile felicità”, come li definisce Francesco Piccolo nel titolo della sua breve ed intensa introspezione del nostro essere. Proprio perché noi siamo continuamente, in una sequenza sospesa tra rimanere e divenire. Perché ci sono quelle sensazioni che – almeno una volta nella vita – abbiamo provato tutti. Ci sono quelle situazioni, ricorrenti e non, in cui non consideriamo il fatto che si possa realmente toccare con mano la felicità.

Tutte le persone che non sono belle, o che sono brutte, poi quando le conosci diventano più belle, sempre.

Gli sms dopo le undici di sera che dicono: «dove sei?», che significano molto di più di quello che dicono.

 La prima e l’ultima pagina di un libro.

 Le coppie che stanno insieme da tanto tempo e che giocano a carte in silenzio, la sera.

 Quando mi rendo conto che tra due persone c’è un amore segreto. Me ne accorgo quasi sempre, subito, da un gesto o uno sguardo. E mi piace, mi fa sentire complice.

 Le grandi librerie, perché puoi girare, toccare, sfogliare, senza nessuno che ti voglia dare un consiglio.

 L’odore di pane del primo mattino.

 Un litigio furioso per una questione di principio.

 Tutti i sogni di una notte, gli ultimi giorni da sindaco del sindaco, tutte le feste a sorpresa, e il rumore della carta da regalo quando viene scartata.

 Il fatto che nessuna donna al mondo riesca a ottenere dal parrucchiere la pettinatura che desiderava. 

 Tutte le donne nel gesto di legarsi i capelli.

Nessuno se ne rende mai conto, di questi stralci di vita: io non faccio mai caso a quando individuo al supermercato la fila che scorre più velocemente. Quell’attimo in cui ho la percezione di aver compiuto un’impresa eroica, pur essendo una cosa apparentemente da nulla. E la sensazione che provate quando qualcuno che vi ha superato in fila alle poste ha sbagliato sportello in cui andare? Quella piacevole sensazione di rivalsa impagabile, quasi più irruenta del bere un mojito ghiacciato su una spiaggia della Polinesia.

Eludere un divieto e non essere colti in flagrante; aspettare che lui o lei si faccia sentire perché in fondo noi l’abbiamo già fatto troppe volte. Un vissuto che si ripete, esattamente come un vissuto che può ancora sorprenderci. Stralci di pensieri quelli di Francesco Piccolo. Stralci che ci rendono tutti comuni nei gesti e al tempo stesso differenti nelle sensazioni.

Non amiamo mai abbastanza momenti apparentemente insignificanti, non amiamo mai abbastanza la possibilità di viverli. Ci concentriamo sulle piccole e grandi cose che non vanno, non considerando quegli impercettibili e minuscoli momenti di immediata spensieratezza.

Quante cose ci sfuggono di mano prima di toccarle con coscienza? Quanta vita perdiamo senza emozionarci? Ammiro chi sorride anche senza alcun apparente motivo. Ammiro chi afferra la vita a piene mani, ammiro chi si mette in gioco nonostante le difficoltà. Perché la vita viene concessa un volta soltanto, perché attimi importanti e insignificanti ci sopraggiungono soltanto una volta. Non perdersi nessun momento di trascurabile felicità, questo ci insegna questo breve libro di Francesco Piccolo.

Da tenere sul comodino, come per tenere a portata di mano la vita di tutti i giorni e quella di un minuto soltanto. Da tenere in tasca per trovare il coraggio di affrontare tutto ciò che ci pervade.

In un attimo si può trovare la felicità, tanto quanto in un momento più lungo. E’ sufficiente non dimenticarlo, perché significherebbe smettere di credere che valga sempre la pena di vivere la vita.

Cecilia Coletta

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C’era una volta Andy Warhol. Poi arrivò Instagram.

Si è conclusa ieri a Roma l’esposizione delle opere di Andy Warhol appartenenti alla Brant Foundation.
Un’esperienza diversa rispetto ad una normale mostra. Qualcosa di più di una serigrafia, di colori, luci e tecniche. Ci si immerge in un mondo, terribilmente attuale. Ci si identifica in fobie, ci si immedesima in debolezze, ci si rassicura nei paradossi.
E’ difficile durante il percorso soffermarsi solo sulle opere dell’artista. Viene spontaneo osservare i volti dei visitatori, le loro espressioni di complicità, di solidarietà, di “So di cosa stai parlando”.


La morte

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Le persone dovrebbero essere maggiormente consapevoli della necessità di lavorare su come imparare a vivere, perché la vita è così breve e a volte vola via troppo rapidamente

Warhol teme la morte più di ogni altra cosa. E disegna teschi, in un modo così paradossalmente vitale e colorato, da scacciarla via, la morte, rendendola un’icona. L’iterazione è uno dei codici linguistici prediletti dall’artista, perché rende semanticamente più neutro il soggetto. La ripetizione di un’immagine, che sia un teschio, una sedia elettrica o un leader politico, ne aumenta il potenziale iconico.

Noi temiamo la morte più di ogni altra cosa. E compriamo magliette e gioielli con teschi raffigurati in ogni modo possibile ed immaginabile.


  Esclusività vs accessibilità

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Quel che c’è di veramente grande in questo paese è che l’America ha dato il via al costume per cui il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del più povero. Mentre guardi alla televisione la pubblicità della Coca-Cola, sai che anche il Presidente beve Coca-Cola, Liz Taylor beve Coca-Cola, e anche tu puoi berla

Per Warhol ciò che è importante non è l’esclusività, ma l’accessibilità. E anche La Gioconda, se riproposta 30 volte, in serie, non è più un qualcosa di esclusivo. Ed ecco che anche la tendenza dei brand di investire sempre di meno nella pubblicità “dall’alto”, con spot in tv con modelle-dee dell’Olimpo, prediligendo invece forme di promozione basate sul “passaparola” non sembra poi qualcosa di così recente. Credo più alla fashion blogger che alla top model. Credo più a chi mi sembra accessibile, che all’esclusivo. Credo più all’artista comunicatore che all’artista demiurgo.


La fama

15 minute

Nel futuro ognuno sarà famoso per quindici minuti”.

Warhol è ossessionato dalla fama e dalla celebrità. Noi siamo quelli che facciamo a gara a postare in bacheca foto con i c.d. “ vip”. Quelli che hanno l’illusione che una persona popolare sia alla nostra portata perché lo seguiamo su Twitter. Quelli che non sanno che molti dei loro “amici” famosi su Facebook non sono altro che profili fake o gestiti da persone addette. Perché se Brad Pitt sta su Facebook come minimo si chiamerà Mario Rossi ed al posto delle impostazioni della privacy avrà dei cecchini rigorosamente in abiti camouflage. Eppure una foto con un vip anche di serie D, noi la postiamo. E crediamo che questo nostro interagire possa accorciare la distanza tra “noi” e “loro”. La nostra ricerca costante di 15 minuti di celebrità avviene ormai facilmente tramite You Tube, Instagram, Facebook. A cui segue la spasmodica ricerca dell’approvazione altrui.


L’estetica

   campbells

Ogni cosa ha la sua bellezza, ma non tutti la vedono”.

Andy Warhol rende la zuppa Campbell’s un’icona. Nella comunicazione web attualmente un prodotto ha il suo momento di celebrità, fino a diventare un’icona.  L’attenzione sulla scatola di biscotti su cui mettete distrattamente “mi piace”, la borsa attorno a cui ruota l’intero post di Chiara Ferragni, l’I- phone 6. L’intero marketing digitale ruota attorno all’esaltazione dell’oggetto, all’approvazione, al like, alla condivisione, all’iterazione della stessa immagine in ogni angolo del web.. Talmente tanto che oggi si possono comodamente acquistare consensi, like, condivisioni, fan su siti quali www.magicviral.com. Che tu sia una zuppa. O che tu sia una persona. La sintesi della filosofia estetica di Warhol è quella di riproporre oggetti semplici della vita reale in chiave sempre uguale mescolando banalità ed impatto visivo.
E la mania di postare piatti di pasta, lattine di birre, penne, non sembra poi così nuova.


 Autoscatti.

autoscatto

Andy Warhol è schiavo della sua Polaroid. Autoscatti, foto truccate, ritoccate, deformate. In una parola: selfie. In due: selfie ed Instagram. In più parole: “Se volete sapere tutto di Andy Warhol, basta che guardiate la superficie: quella delle miei pitture, dei miei film e la mia, lì sono io. Non c’è niente dietro “.

Difficile non immedesimarsi. Anche se, ogni tanto, mentre stiamo per invadere bulimicamente la nostra bacheca di momenti della nostra vita, dando l’idea volutamente di essere ciò che postiamo, dovremo ricordarci un’altra delle frasi che racchiudono la filosofia di Warhol:

Si ha più potere quando si tace, perchè così la gente comincia a dubitare di se stessa.”

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

[Immagini tratte da Google Immagini]

Christopher Nolan: il truffatore che si fa chiamare genio


Viaggio segreto nella filmografia di uno dei registi più acclamati degli anni Duemila. Da Memento a Interstellar per farvi capire come quest’uomo vi abbia sempre preso clamorosamente in giro.

Alberto Pezzella nella sua “Estetica del cinema” ha portato alla luce un ragionamento davvero interessante sulla fascinazione che la Settima Arte ha da sempre esercitato in tutti gli spettatori. La sua riflessione parte dal fatto che il “cinema spettacolare” non sia altro che un’enorme e complessa macchina volta a far prevalere l’ipnotismo delle funzioni percettive nel corso della rappresentazione. In questo modo chi guarda un film si ritrova privo della sua naturale consapevolezza e si fa trasportare, come in un sogno, dai simulacri proiettati sullo schermo. La storia del cinema è piena di pellicole che hanno raggiunto gloria e successi grazie al loro lato spettacolare e al loro impatto emotivo-empatico con gli spettatori.  Read more

Per sempre – Susanna Tamaro

 

“Esiste il “per sempre”? “mi avevi chiesto. Ti tenevo stretto a me con ancora più forza. Sotto lo strato di maglie, maglioni e giacca a vento, avevo sentito vivo e caldo il tuo esile corpo.

“Esiste solo il “per sempre” ti avevo risposto.

Un indissolubile patto d’amore tra Nora e Matteo, questo il loro modo di parlare della vita che avrebbero passato insieme.

Matteo è un giovane cardiologo a cui nella vita non manca davvero nulla: ha una moglie che ama e che lo rende felice ogni giorno ,un bambino di due anni, un secondo figlio in arrivo. La sua vita scorre nella serenità, una serenità colorata di verde chiaro.

Un verde simile all’erba del prato che lui e Nora avevano scelto per la cameretta del loro primo figlio; un verde che aiuti a sperare, che racconti una vita in continua evoluzione. Read more