La lettrice – Annie François

Il lettore in apnea è imprevedibile: un bacetto sul collo può farlo saltare fino al soffitto. È un asociale, solitario, una sorta di autistico. Provate ad impedirgli di finire il paragrafo. La persona più affabile va in bestia. Fino a quando un lettore non ha posato il libro di sua spontanea volontà, è un essere potenzialmente pericoloso.

La lettrice, a metà tra un diario e un saggio, racconta la passione sfrenata di Annie François, editor parigina, per i libri.

Passione che accomuna tutti i bibliofili, tutti coloro che vivono di storie, quelli che senza un libro tra le mani proprio non ci sanno stare.

Tra le pagine di questo libro ogni lettore potrà trovare un pezzetto di sé, riconoscendo manie ed idiosincrasie, abitudini irrazionali e gioie segrete che solo gli amanti dei libri possono comprendere.

E allora scoprirete di non essere gli unici a non riuscire a prendere sonno senza aver letto almeno una riga:

Devo sempre leggere prima di addormentarmi. Anche alle quattro del mattino ho bisogno della mia dose. Incapace di fermarmi alla fine del capitolo, del paragrafo o della riga, mi blocco a mezza frase, stecchita.

a1hlAmeA tremare temendo che un conoscente chieda in prestito uno dei libri che più amate:

Chi non ha temuto l’occhio curioso, il dito che scorre sui dorsi e che si ferma? Ecco. Il libro è condannato. Non lo rivedremo più. Ci piange il cuore. Non quello. Non a lui, non a lei, che non restituiscono mai niente o Dio sa quando.

A sentire l’esigenza compulsiva di acquistare nuovi titoli, anche quando molti altri attendono di essere letti e le finanze non lo consentirebbero:

Come il bulimico evita di passare davanti alle pasticcerie, mi distolgo dalla vetrina delle librerie per evitare di farmi prendere dalla golosità, evitare gli acquisti compulsivi che servirebbero soltanto ad accrescere l’immensa pila in attesa che vacilla accanto al letto: di sicuro le opere si vendicherebbero franandomi addosso durante il sonno.

In un susseguirsi di capitoli lapidari, l’autrice espone, sotto forma di appunti personali, ogni implicazione dell’essere un bibliofilo. Ogni aspetto del libro viene sviscerato e analizzato, dalla fascetta promozionale, usata puntualmente come segnalibro, all’abitudine di affondare il naso tra le pagine per aspirarne l’essenza, alla repellenza per il codice a barre che come un graffio marchia il lettore, lo riduce al ruolo di volgare consumatore prigioniero di un mercato.

E poi scopriamo chi sono i lettori, cosa li spinge ad accumulare volumi su volumi, ad anteporre la lettura ad altre attività, in un’indagine non esente da ironia e critiche.

Perché anche la lettura può diventare indigesta quando ci si dimentica del mondo circostante.

Tutti questi personaggi, queste bestie, queste nuvole, queste tragedie, questi paesaggi, queste avventure sordide o magnifiche mi soffocano. Perché questi giochetti di sostituzione, questi viaggi di carta, questi surrogati di passione, di delitto? Voglio vivere. Sottrarmi alla tirannia della loro finzione. 

Alcuni passaggi sono addirittura imbarazzanti perché, ammettiamolo, la bibliofagia, come ogni altra dipendenza, può rasentare il ridicolo. Inevitabile riflettere su cosa penserebbe un osservatore esterno vendendoci in preda ad una crisi di panico per aver dimenticato il nostro libro nella valigia già imbarcata, oppure trovandoci talmente assorti nella lettura da non riuscire a recepire nulla di ciò che ci accade intorno.

Un vademecum del lettore, come avrete intuito, i cui limiti sono strettamente connessi alla sua francesità. L’autrice, infatti, infarcisce il testo di molteplici riferimenti appartenenti al mondo culturale e letterario francese, decisione che a mio avviso rende il testo eccessivamente contestualizzato.

Nonostante ciò non posso che consigliare questo volumetto a chi ama la lettura e il libro inteso come oggetto in sé, oltre che per la storia che custodisce. Sono certa che troverete tra le pagine un pezzetto di voi e della vostra meravigliosa follia.

Stefania Mangiardi

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Il ritrattista – Carlo Buccheri

Una Milano alla vigilia dell’Expo, Alfio Cafiero stagista al Corriere della Sera, un serial killer enigmatico; questi sono gli ingredienti principali del romanzo d’esordio di Carlo Buccheri.
Romanzo semplice, essenziale, che allo stesso tempo non rinuncia al particolare, alla descrizione dei personaggi, soprattutto del loro lato interiore.

Alfio Cafiero, il protagonista della storia, appare come un giovane giornalista promettente, più per la sua schiettezza e intraprendenza che per gli articoli, un po’ troppo ironici e poco professionali che tuttavia rispecchiano il suo carattere, i suoi modi di fare, talvolta irriverenti nei confronti di chi gli sta davanti: il direttore, due importanti registi italiani trapiantati negli ‘States‘, il commissario Battistella, l’assassino seriale che sconvolge la sua vita privata e professionale…
Solamente verso il suo tutor, il dottor Teruzzi, prova una sorta di rispetto e soggezione.
Un ragazzo alla ricerca del successo improvviso, dei sogni modellati sui film americani, a metà tra l’eroico e l’impacciato che tuttavia strappa sempre un sorriso.

Da semplice stagista, emarginato da colleghi ben più celebri, si ritrova al centro del caso mediatico che infiamma la cronaca locale e nazionale, viene scelto personalmente dall’assassino come interlocutore a cui affidare l’esclusiva degli omicidi, o ‘opere d’arte’ come le chiama lui.
Ma perché?
Perché “il dottor Cafiero” è tagliente, sincero, non tralascia nulla; un perfetto ritrattista per un uomo in cerca di macabra attenzione.

copertina-ritrattista1-378x537Attorno ad Alfio gravitano personaggi altrettanto caratteristici: Mauro, un professore di religione in pensione; Rosita, la ragazza ispano-abruzzese con la quale condivide l’appartamento e Pantaleo Frontino detto Diogene, ‘filosofo contemporaneo’ con la sua inseparabile fisarmonica.

Lo stile di scrittura è calzante, coinvolgente, il classico romanzo giallo che ‘prende’ e porta via le ore come se fossero minuti.
I riferimenti alla Filosofia sono filtrati attraverso gli occhi del protagonista e dei suoi amici, a loro volta pensatori eccentrici, quasi estranei al 2012, anno in cui sono ambientati i fatti.
Sono presenti salti temporali, brevi ma necessari per seminare indizi che il lettore è portato a raccogliere, conscio che verso le ultime pagine tutti i nodi verranno al pettine e i puntini saranno uniti da una linea che renderà definitivo il disegno dell’autore.
I sospetti ricadranno inevitabilmente su numero imprecisato di persone, ma il colpo di scena è garantito.

Alessandro Basso

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Ad occhi chiusi: recensione di “Cecità” di José Saramago

C’è un mare di latte in una città imprecisata di questo nostro Pianeta che ferisce tutti, succhia la vita e la getta via. Un guidatore sta fermo al semaforo in attesa del verde quando si accorge che i suoi occhi non riescono a vedere più nulla. All’inizio pensa si tratti di un disturbo passeggero, ma una visita medica gli diagnostica una cecità assoluta, di quelle che avvolgono le sue vittime in un candore luminoso. Tale destino, tuttavia, colpirà progressivamente l’intero paese e tutti i malati verranno messi in quarantena in un manicomio, isolati e controllati, finché non rimane più nessuno capace di vedere, eccetto una donna, la moglie di un medico, che sembra essere immune da questa terribile malattia, ma che, per rimanere vicina al marito, finge di essere cieca a sua volta, così da farsi internare con lui. Sarà in questo luogo, privo di controllo e di alcuna legge se non quella del più forte, che l’unico personaggio vedente diverrà metafora del bene in mezzo al male, in quanto farà dono e sacrificio di sé per la salvezza degli altri.

523fb5f93f92d96d6e3978f7efcaba30Scritto con una durezza spiazzante, Saramago ci racconta una storia unica su quegli istinti che, non potendosi sfogare all’esterno, si rivolgono all’interno. Concepito come una grande metafora su un’umanità primordiale e feroce, incapace di vedere con lucidità e distinguere le cose su una base razionale, ne deriva un saggio sul potere e la sopraffazione, sull’indifferenza e l’egoismo, una forte denuncia del buio che pervade l’animo umano. Cecità è un flusso costante e ininterrotto di pugni allo stomaco che ci invita a guardare il nostro mondo e le sue sfumature più nere, che scuote il nostro lato più subdolo rendendoci tutti potenzialmente cattivi. Con uno stile per nulla sincopato, il premio Nobel portoghese spolpa i suoi personaggi della loro carnalità per trattarli esclusivamente come anime cieche e prive di compassione. Ed è proprio, infatti, in una condizione di panico estremo che l’uomo rivela il peggio di sé, anteponendo la cattiveria, l’irrazionalità e la brutalità alla ragione. Libro che fa riflettere, claustrofobico, angosciante. Eppure un libro che tutte le persone adulte dovrebbero leggere. Perché di fronte al buio e all’abiezione più totale, è possibile una rinascita attraverso la riscoperta degli elementi essenziali alla vita come l’acqua, di gesti così semplici da non ricordarne neppure più l’importanza, di emozioni che sgorgano spontanee, non inficiate da alcuna contaminazione visiva. E quando tutto questo sarà finalmente acquisito, quando la metaforica sporcizia di cui sono rivestiti tutti i ciechi viene lavata dalla pioggia della purezza, allora ad uno ad uno ritornano a vedere e soprattutto a vedersi.

Luzia Ribeiro

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Un momento di follia: essere padri sul grande schermo

“Non esiste un buon padre, è la regola. Non bisogna prendersela con gli uomini, bensì con il legame di paternità. E’ quest’ultimo a essere marcio.” Le affermazioni provocatorie del filosofo Jean-Paul Sartre, scritte nell’opera Le parole, del 1963 non sono forse il modo migliore per celebrare l’odierna festa dedicata ai papà, ma sono sicuramente un ottimo spunto per parlare di un’opera che mette al centro della sua narrazione le innumerevoli sfaccettature della figura paterna, vale a dire: Un momento di follia, il nuovo film diretto dal francese Jean-François Richet.

Rifacimento aggiornato dello splendido Un moment d’égarement, diretto nel 1977 da Claude Berri, il film si presenta come una patinata commedia che nasconde un cuore di dramma a sfondo familiare. Le premesse, c’è da dire, sono ottime: dagli splendidi paesaggi della Corsica in estate, passando per un cast che alterna star del calibro di Vincent Cassel a giovani promesse del cinema francese come la splendida Lola Le Lann, per arrivare infine a una storia di torbida passione che rasenta l’incesto. Due amici di mezza età decidono di trascorrere le vacanze insieme, portando con loro le figlie adolescenti. Uno ha appena divorziato, l’altro è in piena crisi coniugale. La loro amicizia sembra essere l’unica cosa certa, ma quando il neo scapolo si farà sedurre dal fascino della figlia (minorenne) del suo migliore amico, le cose prenderanno una piega del tutto inaspettata. Un momento di follia si inserisce nel filone di pellicole che raccontano i lati più oscuri dell’essere padre. Si comincia con la leggerezza e la volontà di crescere bene i propri figli e si finisce per commettere errori che potrebbero diventare irreparabili. Una paternità piena di problemi non solo a causa dei comportamenti dei figli ma anche per l’irresponsabilità dei genitori. Richet purtroppo perde una grande occasione e finisce per girare un film con troppi difetti. Sprecando le ottime premesse iniziali, la sua opera non raggiunge mai i livelli del film a cui si ispira, molto più esplicito e provocatorio già nel 1977. Nella nuova versione tutto sembra pudico e controllato, la regia non rischia nulla, la fotografia attribuisce una patina da fiction televisiva alle immagini e la sceneggiatura raggiunge spesso momenti di grossolana banalità. L’unico a salvarsi è un ottimo Vincent Cassel che, arrivato alla mezza età, riesce a unire alla perfezione il suo lato scapestrato con il fascino del padre vissuto. Un ruolo che l’attore francese ha sentito molto vicino, anche se ai giornalisti ha più volte dichiarato che non potrebbe mai essere nella vita reale un padre-seduttore. “Come genitore sono simile al mio personaggio, sono aperto. Oggi abbiamo la fortuna di poter essere dei papà-mamma. La femminizzazione dell’uomo ha dei lati interessanti: c’è una vicinanza con i bambini che un papà all’antica non aveva. Ho sempre desiderato che le mie figlie mi conoscessero meglio di come io conoscevo mio papà. Oggi c’è una prossimità possibile perché ci sono donne con le palle e uomini che non seguono più le regole di un tempo.”

Un momento di follia è solo l’ultimo caso di un genere, tipico nel cinema straniero, che tende a demonizzare la figura paterna esaltandone più i difetti, rispetto ai pregi: film come Shining, Il Petroliere Star Wars ne sono una chiara dimostrazione. Non è un caso invece che il cinema italiano abbia raccontato negli anni tutta un’altra versione di questa figura: dal recente La ricerca della felicità al più datato La vita è bella, i papà del grande schermo italico hanno avuto spesso una connotazione positiva, diventando così lo specchio di un popolo e di un Paese che non perde mai l’occasione per celebrare il suo amore nei confronti dell’istituzione familiare.

Alvise Wollner

Spotlight: un caso che merita l’Oscar

Diciamolo subito: quest’anno la notte degli Oscar si preannuncia come un evento al di sotto delle tradizionali aspettative. Certo, c’è attesa per la vittoria (ormai certa) di Leonardo DiCaprio, ma tra i film in gara è davvero difficile trovare una grande pellicola, capace di distinguersi nettamente dalle altre, sbaragliando la concorrenza. I candidati sono tutti validi, ma sembrano destinati a regalare poche sorprese durante la serata delle premiazioni. Mad Max – Fury Road, da un punto di vista estetico e cinematografico, è il migliore tra i dieci selezionati dell’Academy, ma il vincitore potrebbe essere (un po’ a sorpresa) un film allo stesso tempo classico e coraggioso: Il caso Spotlight.

Dimenticatevi il cinema inteso come arte. Nell’opera di Tom McCarthy non troverete i piani sequenza del virtuoso Alejandro González Iñárritu e nemmeno la grande estetica tipica della filmografia di George Miller. Scordatevi l’azione e i colpi di scena tipici dei legal-thriller o dei film polizieschi. Il caso Spotlight non è nulla di tutto ciò. Non è un film che vi terrà incollati alla sedia, non vi regalerà una messa in scena indimenticabile e vi racconterà una storia che vi farà sentire molto a disagio. Nonostante questo però è l’opera che, più di molte altre, merita di vincere l’Oscar come miglior film. I motivi sono diversi: Spotlight è un film solido, costruito su un’ottima sceneggiatura che riporta alla luce un tema scottante come quello della pedofilia nella Chiesa cattolica, in un periodo in cui la nostra contemporaneità è segnata dal complesso dibattito sulle unioni civili. Spotlight non costruisce storie inventate, ma si serve della finzione scenica per raccontare la realtà. Il film di McCarthy è una lucida e quasi documentaristica ricostruzione della realtà dei fatti che nel 2002 portarono alla scoperta di uno dei più grossi casi di pedofilia al Mondo per merito della redazione del Boston Globe. Spotlight non giudica mai i protagonisti della sua storia, ne rimane oggettivamente distaccato e con una visione giornalistica racconta in modo preciso e dettagliato la sua versione dei fatti.

La regia, studiata e precisa, lavora qui per sottrazione quasi a voler scomparire per focalizzare tutta l’attenzione sulla vicenda narrata. Lodevole l’intero cast (Mark Ruffalo e Stanley Tucci su tutti) che si mette al servizio dei fatti, interpretandoli con accorato sentimento, senza eccessi o manierismi di alcun tipo. Il modello di riferimento è l’inarrivabile Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula, primo esempio di cinema-giornalistico capace di raccontare la verità attraverso la finzione. Spotlight deve molto a un film come quello, ma allo stesso tempo riesce a superarne l’eredità, basandosi sulla potenza della trama e sull’inconfutabilità delle prove portate alla luce sul grande schermo. Uno scoop cinematografico in piena regola che merita di veder riconosciuto il suo valore. Nel 1977 il film di Pakula si portò a casa ben quattro premi Oscar. Oggi, a quasi quarant’anni di distanza, non sarebbe immeritato dare la statuetta a un film, magari non perfetto o esaltante, capace però di ricordarci quanto sia importante ricercare e divulgare la verità delle cose.

Alvise Wollner

Amore in assenza: Tornatore e La corrispondenza

Costruendo un immaginario controcampo narrativo al suo ultimo film (La migliore offerta), Giuseppe Tornatore ritorna alla regia per raccontare una storia d’amore e mistero incentrata su due concetti molto affascinanti: la tecnologia e l’assenza. Se nell’opera precedente infatti, la figura sfuggente e misteriosa era la donna, in La corrispondenza è il protagonista maschile a interpretare il ruolo di grande assente nella storia.

Sullo sfondo grigio di due Paesi come l’Inghilterra e la Scozia, si amano e si cercano Jeremy Irons e Olga Kurylenko. Innamorati divisi nella realtà, ma uniti dal sottile e ambiguo filo della tecnologia. Sottotraccia c’è un mistero tutto da svelare che rischia, ancora una volta, di compromettere un amore che avrebbe potuto essere idilliaco. Il concetto più interessante dell’opera è proprio quello di voler raccontare una storia d’amore per assenza. Una relazione a distanza che si nutre necessariamente dell’ausilio tecnologico, dando vita a una riflessione tutt’altro che banale. E’ davvero possibile amare qualcuno senza mai vederlo in carne e ossa? E soprattutto: l’immagine dell’innamorato filtrata attraverso lo schermo di un computer  può restare sempre vivida e concreta o rischia di trasformarsi in un simulacro idealizzato e ingannevole? In questi quesiti l’undicesimo film del regista siciliano sfiora la riflessione filosofica d’attualità, ma a livello stilistico il cinema di Tornatore non progredisce. Messo a confronto con La migliore offerta, suo ideale contrappunto, La corrispondenza non regge neanche lontanamente il paragone. In primis, a livello attoriale, la performance di Jeremy Irons non è paragonabile a quella dello straordinario battitore d’asta interpretato da Geoffrey Rush, ma anche a livello tecnico e stilistico il film lascia insoddisfatto lo spettatore più esigente.  Ciò che nel lavoro precedente era un punto di forza, rischia qui di trasformarsi in una serie di elementi godibili ma, in qualche modo, già visti. Dalla passione nostalgica di Nuovo cinema Paradiso al ritmo raffinato di La leggenda del pianista sull’oceano, Tornatore ci ha insegnato che il cinema italiano può ambire a livelli artistici internazionali. Ne La corrispondenza la sua vis poetica si affievolisce, confezionando un buon prodotto privo però di quel sentimento che ha permeato molte sue opere precedenti. Come i due protagonisti del film si amano senza vedersi, anche Tornatore sembra dirigere senza immedesimarsi fino in fondo nella storia. E’ un’occasione sprecata ma si sa, il cinema come l’amore è fatto da un continuo alternarsi di alti e bassi, presenze e mancanze, allontanamenti che ambiscono in continuazione a ritorni ancor più intensi.

Alvise Wollner

Ognuno potrebbe – Michele Serra

Giulio Maria ha trentasei anni, è un antropologo, ed è nato anacronistico, figlio inatteso di una coppia non più giovane. Da sempre attribuisce a questa forzatura anagrafica la tendenza a sentirsi stonato, poco in armonia con l’ambiente circostante.

Eppure la realtà che Giulio non riesce ad accettare e che lo porta di continuo ad interrogarsi, è quella nella quale ognuno di noi si muove ogni giorno, spesso inconsapevole, troppo preso da singoli dettagli per alzare lo sguardo sul quadro complessivo.

Giulio è un ricercatore che, per settecento euro al mese, studia e cataloga le esultanze dei calciatori. Un lavoro che non lo entusiasma e che lo porta a riflettere su quanto la nostra società sia diventata egocentrica ed esibizionista.

Del resto persino Agnese, sua compagna da quattro anni, soffre di quella che qualcuno definisce la Sindrome dello sguardo basso: sguardo fisso sullo smartphone e totale inconsapevolezza di ciò che ci circonda.

Passano i digitambuli, nel vasto mondo attorno, a migliaia, a milioni, assorti nei loro rettangolini di luce fredda, così fredda che neppure gli si riverbera sul viso. Lo sguardo rivolto in basso rende la loro fronte piana; le palpebre a mezz’asta fanno schermo alle pupille, nascondendo anche il colore degli occhi. Sono volti inabissati, volti che hanno abbandonato il volto. Hanno tutti qualcosa di sospeso: uno star dicendo, uno star facendo che deve avere avuto un inizio e che certamente avrà una fine, ma non adesso. Attraversano questi posti e queste giornate come se non li riguardassero. Passano soltanto.

Tutti sentono il bisogno di condividere, di dimostrare, di apparire, il bisogno che gli altri sappiano che sono colti, socievoli, innamorati, fortunati, devoti, importanti. Di spettacolarizzare tutto. Di esibire ogni cosa.

Ma quanti poi, vivono davvero? Quanti, spenti i telefoni e oscurato lo schermo di un computer sanno davvero condividere e comunicare? Quanti pensano ancora a godere il momento prima di scattare una foto con quello che Giulio definisce Egòfono? E mai definizione fu più adatta, perché l’Ego è la sua sfera d’uso, è ciò che dall’obiettivo viene ingigantito, deformato, trasfigurato ed inviato all’esterno. Selfie. Immagini di sé condivise, twittate, postate e riprodotte decine di volte al giorno.

Impossibile non riflettere e non porsi queste domande durante la lettura.

Ognuno potrebbe, attraverso gli occhi di Giulio, ci offre uno sguardo dissacrante sulla realtà, una finestra sul mondo che ci siamo costruiti. Un mondo fittizio, in cui gli unici obiettivi che ci si pongono riguardano click, like, visualizzazioni, commenti.

Quanti investono altrettanto tempo, interesse, attenzione, nei rapporti affettivi, nella propria crescita personale, nella vita reale?  Penso alle famiglie che si riuniscono intorno ad una tavola apparecchiata, un tempo simbolo di convivio, chiacchiere, confronti, e adesso le immagino senza difficoltà chine sul proprio smartphone.

La sostanza della questione è che il lontano sta diventando molto più importante del vicino. E siccome il vicino è la realtà materiale, e il lontano è solo un’astrazione, noi stiamo facendo deperire ciò che abbiamo a vantaggio di ciò che ci illudiamo di avere.

Più che un romanzo – manca infatti una vera trama – definirei questo libro un insieme di fotogrammi narrativi. Una sequenza di immagini che inquadrano la vita di Giulio, un uomo di quasi quarant’anni con i dubbi di un ragazzo che, contrariamente alla massa, pensa, si interroga, osserva. Percepisce lo scorrere inesorabile del tempo, subisce l’indifferenza di Capannonia, l’asfissiante porzione di pianura in cui vive, tutta “tubi e cubi”, dove il cemento sembra aver soffocato pensieri e sogni.

Il linguaggio è colto, lo stile curato. L’autore ci invita alla riflessione, alla consapevolezza.

La mia opinione è che ognuno dovrebbe fare un passo indietro. Da tutti i punti di vista. Anche fisicamente. Darsi un poco di spazio e, dandoselo, darne anche a chi gli sta intorno. Come c’è un frattempo tra un’azione e l’altra, così dovrebbe esserci un fralluogo tra una persona e l’altra. E come il frattempo così il fralluogo serve a dare fiato. Un passo indietro e una parola in meno.

Ridurre il proprio Ego per dare spazio agli altri. Alzare lo sguardo per soffermarsi sulle cose semplici, per godere di un cielo particolarmente azzurro o di un albero fiorito nella stagione sbagliata, per abbracciare e baciare, per salutare il vicino di casa, per ridere guardando qualcuno negli occhi e non fissando uno schermo piatto. Per vivere, la vita vera.

Che lì, il tasto rewind purtroppo non c’è.

Stefania Mangiardi

Fotografia – “Non ora, non qui” di Erri de Luca

Recensione di “Non ora, non qui” di Erri de Luca

C’è un mare, il Tirreno, che rende i bambini sacri alla sua acqua, li pettina come una lingua madre di lupa e si ammala dei loro resti. E c’è un Erri de Luca un po’ balbuziente che ripercorre la sua infanzia guardando una fotografia di madre, un’istantanea con la quale poter dialogare del passato. “Non ora, non qui” non ha una trama da riassumere, solo uno sciabordio di episodi che si rincorrono, è il palpito agitato di un animale appena nato.

Al suo primo romanzo, lo scrittore napoletano decide di rivivere la sua infanzia nello stesso modo in cui farebbe chiunque: sul bilico della maturità, tenendo stretto nei denti e nelle mani i nomi e i volti di chi lo ha cresciuto e voluto bene, tuffando indietro gli occhi per riemergere nella realtà e salvare il salvabile.9788807723094_quarta.jpg.312x468_q85_upscale

Dice di se stesso, l’autore, di essere sempre stato un bambino che non sapeva domandare, ma che non sapeva neppure allo stesso tempo, dare risposte. E la potenza di questo romanzo breve sta tutta qui: nel rapporto tra una madre e un figlio, fatto di parole spesse volte a senso unico, bisbigli ferventi e continui che tessono leghe sotterranee dure come piombo. La giovinezza di Erri de Luca è la giovinezza di un cuore legato a chi lo ha fatto nascere, a quella madre giovane che gli raccontava le disgrazie del mondo, che gli passava un ciclo di dolori fatto di vecchi, malati, miseri e bestie che rantolavano, che gli insegnava a vivere come sapeva. È la maturità di un ragazzo che soffre i primi amori e le prime perdite, tra tutte quelle dell’amico Massimo, affogato in mare. Di lui ricorda il fisico da nuotatore, le bracciate, il suo pianto lasciato in fondo al Tirreno, i suoi sudori, le sue stanchezze. È la storia di un uomo che si sposa con chi sa provare solo affetto ma non amore, perché resa esperta da molte leggerezze fatte e subite.

“Non ora, non qui”, scritto con una musicalità struggente, fatta di piccole note amare che vanno a depositarsi in fondo allo stomaco di chi legge, è un click sui rapporti umani, su quel vizio di darci per scontati come se dovessimo esserci sempre, come se fosse impossibile vedere i propri genitori morire prima di noi. È una fila di parole che non vuole ammonirci né spaventarci, semplicemente farci vedere come si possa e si debba ammettere il passato, prima o poi, perché se ci si ferma un istante allora si raggiunge un punto d’equilibrio, un tempo, un’occasione per incontrarsi e capirsi.

Non importa se non accade ora né qui, non importa se tra due persone le parole sono state usate male, masticate a forza; Erri de Luca ci insegna, con la sua voce frammentata, che anche un figlio anziano e una mamma giovane possono incontrarsi al di là di un qualsiasi spazio predefinito.

Perché il tempo fa come le nuvole e i fondi del caffè: cambia le pose, mescola le persone. E il senso di ri-appartenenza ci aspetta.

Luzia Ribeiro da Costa

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Star Wars e la filosofia della Forza

Tanto tempo fa, in una galassia chiamata Via Lattea, un uomo di nome George Lucas superò i confini della cinematografia per creare una storia che, nei 38 anni a venire, avrebbe rivoluzionato per sempre l’immaginario collettivo di milioni di persone. Parlare del fenomeno Star Wars, riducendolo a una semplice serie di film, significa commettere subito un enorme errore di partenza. Fin dalle sue origini infatti, la saga ha subito dimostrato un’incredibile capacità nel saper diventare un fenomeno sociale di culto, oltrepassando le comuni barriere di giudizio generalmente erette dalla critica. Analizzati da un punto di vista critico-tecnico i sette film della serie hanno ben poco di speciale (fatta eccezione per l’episodio IV) rispetto a capolavori fantascientifici come 2001: Odissea nello spazio Blade Runner, ma pur essendo blockbuster ben fatti tecnicamente e poco più, sono riusciti a rimanere impressi nell’immaginario collettivo per la loro capacità di raccontarci la nostra Storia attraverso una metafora tanto semplice quanto efficace.

Che i nemici siano i vietcong degli anni Settanta o i terroristi dell’Isis pronti a mettere a soqquadro il mondo occidentale, l’universo bipolare di Star Wars ha dato vita a personaggi che possono essere sempre collegati alla nostra realtà. L’eterno confronto tra Bene e Male, la lotta tra ordine e disordine, la fascinazione del Bene per il Lato Oscuro e così via, sono solo alcuni degli aspetti che ci appassionano di più e ci fanno percepire questa saga come parte integrante dei nostri vissuti. Dietro a Star Wars si nasconde un vero e proprio universo filosofico che parte dal superamento del complesso di Edipo (con la vicenda di Luke Skywalker) e arriva all’esaltazione del superuomo fanta-nietzschiano, impersonato dalla figura mitica del cavaliere Jedi. Trentotto anni dopo quel lontano 1977, la Forza torna sugli schermi di tutto il Mondo, a dimostrazione del fatto che la storia di Star Wars è un percorso di autocoscienza da far intraprendere anche alle nuove generazioni. Poco importa se la Disney ha rimaneggiato gli immaginari che i fan più accaniti considerano intoccabili. Quello che vi possiamo dire è che il regista J.J. Abrams e la sua equipe di infaticabili professionisti si sono basati moltissimo sulla prima storica trilogia, prendendone i concetti più importanti  per dare nuova linfa alla Forza, soddisfacendo così l’attenzione dei fan più esigenti con una serie di imperdibili citazioni. Con Star Wars il cinema oltrepassa le categorie di genere e ambisce all’immortalità artistica grazie a un’idea che non passerà mai di moda. Fino a che esisterà un pubblico, questa saga non si fermerà perché in fondo la Forza siamo tutti noi che guardando quelle immagini sullo schermo, da semplici spettatori ci sentiamo persone un po’ più speciali.

Alvise Wollner

Niente è come te – Sara Rattaro

Esiste una forma di dolore che rischia di non vedere mai la fine. E’ una fessura, una lacerazione o, meglio ancora, una ferita che nasconde fra i suoi lembi strappati tutti i tuoi compleanni senza di me, i lunghi viaggi della mia fantasia nei quali tornavi sempre qui dove sei nata e tutti i giorni in cui ho atteso una risposta che non è mai arrivata.

Francesco è un padre a metà. La figlia, Margherita, gli è stata portata via illegalmente all’età di cinque anni dalla madre, Angelika, danese. Una madre che non si è limitata a scegliere per sé. Con le sue azioni ha cambiato per sempre il destino di sua figlia e dell’uomo che un tempo aveva scelto di amare.

Dieci anni dopo, Francesco riceve una telefonata. «Angelika è morta. Devi venire a prendere Margherita». Dieci anni di attesa, di vita non vita, di speranze puntualmente disattese, di un dolore sottile ma persistente, di mancanza e vuoto. Così inizia la storia di Francesco e Margherita che diventano padre e figlia con dieci anni di ritardo, due sconosciuti legati da un dolore cieco e da un amore vivo ma ancora in boccio.

Ma noi ne abbiamo troppo pochi di ricordi insieme. Abbiamo in comune solo un grande vuoto, quello che, in modo diverso, ci ha procurato tua madre.

Niente è come te è la storia di un caso di sottrazione internazionale di minore. E’ la storia di un amore tra un ragazzo italiano e una ragazza danese e della nascita di una bimba di nome Margherita. E’ la storia di un matrimonio in crisi. E’ la storia di una menzogna. Di un viaggio di sola andata. Di una bambina che cerca il suo papà. E che poi non lo cerca più. E’ la storia di una battaglia burocratica, di un’attesa senza fine, di un’ingiustizia protratta troppo a lungo. E’ la storia di un padre innamorato di sua figlia e di una ragazzina fragile, cresciuta in un affilato castello di bugie. Ma Niente è come te è soprattutto una storia vera.

La narrazione è affidata a Francesco e Margherita che, a capitoli alterni, mettono a nudo pensieri ed emozioni che accompagnano il  loro incontro e la nuova vita insieme, ma anche ricordi del passato, del periodo antecedente al ricongiungimento.

Una storia come quelle che ascoltiamo di sfuggita al telegiornale, genitori che tornano nel loro paese d’origine portando con sé i figli, mariti e mogli che in un giorno qualunque, senza alcun preavviso, si trovano catapultati in un incubo, privati di ciò che di più caro possiedono.

Ero un giovane uomo con tutta la sua forza, Margherita, ma non ci sono riuscito. Non ce l’ho fatta a riportarti qui, a tenerti legata a me, e mi chiedo se potrai mai perdonarmi perché te l’avevo promesso, così come fa un padre, quando il tuo piccolo pugno aveva stretto il mio dito per la prima volta.

Vivere questa vicenda dall’interno, attraverso la penna di Sara Rattaro è stato un colpo al cuore, come spesso accade con i suoi libri. Con uno stile intenso e palpitante, l’autrice ci conduce nella mente di Francesco e Margherita, nelle paure di un uomo che ha lottato tutta la vita per essere padre, nel senso di inadeguatezza di una ragazzina di quindici anni che trova conforto solo nella musica, nell’amato violino, l’unico punto fermo della sua vita, l’unico amico a non averla abbandonata.

A Francesco e Margherita si aggiungono altre vittime. Enrica, giovane ricercatrice e compagna di Francesco, che negli anni ha imparato a stare accanto ad un uomo ferito e sfiduciato, ha rinunciato alla possibilità di avere un figlio suo, ha accettato di convivere con i silenzi e i fantasmi di un passato sempre presente e lo ha fatto col sorriso, un sorriso che non ha mai vacillato, anche quando da sorridere c’era ben poco. E poi la madre di Francesco, morta prematuramente a causa di un male incurabile o forse schiacciata dal dolore, dal senso di impotenza davanti ad una battaglia senza vincitori.5680116_291163

I personaggi sono vivi, reali, con pensieri e sentimenti che si attaccano alla pelle, impedendoti a tratti di respirare. Difficile scrollarsi di dosso le lacrime di Francesco, le lapidarie verità di Enrica, le domande senza risposta di Margherita.

E, soprattutto per un genitore, impossibile non porsi degli interrogativi: e se fosse successo a me?

Eppure la Rattaro riesce a parlare di argomenti così forti senza calcare mai la mano, con un realismo che non è mai brutale e nemmeno edulcorato, un realismo intinto nella speranza.

Tra un capitolo e l’altro sono presenti dei trafiletti che riportano ad altre storie, tutte diverse e tutte uguali, storie di genitori che hanno vissuto la stessa esperienza e che da anni hanno perso le tracce dei propri bambini.

Davanti a vicende simili si usa spesso l’espressione strappare. Una bambina strappata dalle braccia del padre, dalla sua casa, dal suo paese. Mi soffermo sul significato di questo verbo e mi rendo conto di come esprima bene ciò che avviene in questi casi. Uno strappo. Per quanto il tempo possa lenire le ferite o si possa persino giungere ad una soluzione, uno strappo non può sparire. Le persone coinvolte ne porteranno sempre i segni, i punti con cui la lacerazione è stata ricucita rimarranno ben visibili, cicatrici che continueranno a pulsare, a ricordare tutti i momenti persi.

Ma di una cosa sono convinto: sarà grazie ad ognuno di questi singoli minuti che un giorno capirai che niente, ma proprio niente, è come te, Margherita.

Perché forse l’amore trova sempre la strada per giungere a destinazione.

Vincitore del Premio Bancarella 2015, Niente è come te è una storia che tutti dovrebbero conoscere.

Stefania Mangiardi

[Immagine tratta da Google Immagini]