Maggio 2017: una fioritura di eventi e festival

selezionati-eventi-maggio_la-chiave-di-sophia

 

Siamo ormai a primavera inoltrata e le giornate sono piacevolissime da passare all’aperto. Sono molte le città che ci offrono un buon motivo per uscire di casa, anche con iniziative culturali. A maggio fioriscono i festival culturali e letterari da Nord e Sud: l’offerta è varia ma il filo rosso sembra essere solo uno: la necessità di riscoprire il valore di ciò che ci interessa come essere umani. Vediamo insieme ciò che di meglio e di originale ci offre il nostro Paese per il mese di maggio.

 

festival-diritti-umani-2017LOMBARDIA| Festival dei diritti umani | Milano 2-7 Maggio 2017

Ogni parola ha conseguenze. Ogni silenzio anche.
La Triennale di Milano ospita la seconda edizione del Festival dei diritti umani dal 2 al 7 maggio 2017, organizzato da Reset con il patrocino della Presidenza della Camera dei deputati, del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, della Città Metropolitana di Milano, del Comune di Milano, dell’Ordine degli Avvocati di Milano e di Amnesty International.
 
L’attenzione per quest’anno è sulla libertà di espressione, questione sempre più delicata e complessa, come dimostrano i fatti di cronaca internazionale: chiusure di giornali, incarcerazioni di giornalisti, i limiti del web e dei social network, in molte (troppe) nazioni manca ancora totalmente il diritto di liberà di pensiero e di comunicazione.
«La libertà d’espressione non ha frontiere, neppure in quest’epoca in cui la grandezza del mondo può essere rimpicciolita nello schermo del nostro smartphone. La libertà d’espressione è fatta di parole e azioni.» Il festival, articolandosi tra incontri, documentari, mostre, convegni e conferenze con le scuole, vedrà numerosi ospiti, molti dei quali giornalisti e giuristi.
 
Un Festival che sottolinea la necessità di interrogarsi sui confini fragili della libertà di espressione: da un lato il diritto fondamentale da riconoscenza ad ogni uomo e donna del mondo, dall’altro l’abuso di tale di diritto che sfocia in minacce, offese, bullismo e cyberbullismo.
L’ingresso al Festival dei Diritti Umani è libero, fino ad esaurimento posti.

Programma completo: qui

home2017_festivalVENETO | Rovigoracconta | Rovigo 4-7 maggio 2017

Da giovedì 4 maggio a domenica 7 maggio, Rovigo si colora di libri e musica, con il festival Rovigoracconta, giunto alla sua quarta edizione, organizzato dall’Associazione Culturale Liquirizia.
 
Cerca la meraviglia è il filo conduttore di questa nuova edizione che porta musicisti, scrittori e teatranti a invadere le piazze e le vie del centro storico di Rovigo. Una quattro giorni che vedrà numerosi ospiti importanti nel panorama culturale nazionale e locale: Andrea Scanzi, Mauro Corona, Luca Bianchini, Red e Chiara Canzian, Nicolò Fabi e molti altri.
 
Progetto inedito, pensato e creato per Rovigoracconta al quale hanno deciso di prendere parte Manuela Dago, Francesca Genti, Francesca Gironi, Alessandra Racca e Silvia Salvagnini, cinque poetesse italiane che hanno accettato la sfida di redigere il nuovo manifesto della poesia femminile italiana.
 
Programma completo: qui
 
17991334_1659833024326511_1881037850217348481_oVENETO | Gourmandia, le terra golose del Gastronauta | S. Lucia di Piave TV 13-14-15 Maggio
 
La materia come veicolo del gusto con i tanti artigiani e chef presenti alla seconda edizione di Gourmandia. Dal 13 al 15 maggio 2017 all’Ex Filanda di Santa Lucia di Piave (Treviso) ritorna, per la seconda edizione, Gourmandia – Le Terre Golose del Gastronauta.
 
Una tre giorni che metta a tema la necessità di riscoprire la materia, attraverso il racconto dei tanti artigiani del gusto e degli chef che lavorano ogni giorno per valorizzarla attraverso i loro piatti. 
Oltre duecento gli artigiani che porteranno il meglio dello loro specialità, selezionate da Davide Paolini in tutta Italia. Numerosi gli eventi e gli showcooking che articoleranno il programma. Tra gli ospiti di questa edizione: Antonia Klugmann, Nicola Portinari, Riccardo De Pra, Denis Lovatel, Valeria Mosca, Tino Vettorello e molti altri.
 
L’ingresso è a pagamento.
Programma completo: qui 
 
img042Friulia Venezia Giulia | Festival Vicino/Lontano | Udine 11-14 maggio 2017
 
Utopia il filo conduttore della nuova edizione del Festival Vicino/lontano in programma a Udine dall’11 al 14 maggio 2017. Oltre 200 i protagonisti che saranno ospiti in un centinaio di appuntamenti, tra questi: Giacomo Marramao, Frank Furedi,  Ferruccio De Bortoli, Luciano Floridi, Andrew Spannaus, Gian Antonio Stella, Giovanna Botteri, Alessandro Orsini, Lucio Caracciolo, Pier Aldo Rovatti e Padre Alejandro Solalinde, candidato al Premio Nobel per la Pace 2017. Sabato 13 maggio, al Teatro Nuovo Giovanni da Udine, la consegna del Premio Terzani a Sorj Chalandon con La quarta parete.

Siamo capaci di ripensare il futuro come armonia globale delle differenze e dell’inclusione? Intorno a questa domanda si articoleranno lezione magistrali di grande rilievo culturale e filosofico, mostre e altri spettacoli.Novità di grande rilievo a vicino/lontano 2017 è la collaborazione attivata con un ente prestigioso e autorevole, l’Institute of ideas di Londra, che ha scelto il festival di udine per realizzare il primo evento “satellite” in italia del Festival “Battle of ideas”, ogni anno di scena a Londra al Barbican Centre.
 
Programma completo: qui
 
c43lse2xaaugzbfToscana | Festival Dialoghi sull’uomo | Pistoia 26-28 maggio 2017
 
Giusto all’ottava edizione, Dialoghi sull’uomo, festival dell’antropologia contemporanea, si terrà dal 26 al 28 maggio 2017.

«La cultura ci rende umani. Movimenti, diversità e scambi» è il tema del 2017, che richiama la nomina della città toscana a Capitale Italiana della Cultura.

Per questa edizione 25 incontri di profilo internazionale, rivolti a un pubblico intergenerazionale e eterogeneo.
 
Dialoghi sull’uomo si conferma come un nuovo modo di fare approfondimento culturale, sia per la scelta antropologica che per la produzione dei contenuti culturali. Al centro la declinazione plurale del concetto di cultura che rappresenta una delle grandi rivoluzioni conoscitive del Novecento e che ci ha permesso di relazionarci all’umanità intera con nuovi occhi e con nuove prospettive.
 
«Novità di questa edizione è la nascita del Premio Internazionale Dialoghi sull’uomo, conferito a una figura del mondo culturale che con il proprio pensiero e la propria opera abbia testimoniato la centralità del dialogo per lo sviluppo delle relazioni umane.» Vincitore di questa prima edizione è l’autore israeliano David Grossman, ospite sabato 27 in Piazza del Duomo.
 
Programma completo: qui
 

TRENTINO | Grazia Toderi e Orhan Pamuk. Words and Stars | MART, Rovereto

Il MART di Rovereto presenta il lavoro a quattro mani di Grazia Toderi, artista padovana di fama internazionale, e di Orhan Pamuk, premio Nobel per la letteratura 2006.

L’opera si compone di tre grandi installazioni multi schermo in cui si fondono immagini e testo. L’artista e lo scrittore portano avanti una personale riflessione sull’innata vocazione dell’uomo a interrogare le stelle, sulla sua curiosità cosmologica e sul suo insaziabile desiderio di esplorare lo spazio. Un lavoro che trova un perfetto equilibrio espressivo in un unico corpo visivo e letterario.

Fino al 2 luglio. Maggiori informazioni qui.

VENETO | The Boat is Leaking. The Captain Lied | 13 maggio – 26 novembre 2017 | Fondazione Prada, Venezia

La Fondazione Prada di Venezia inaugura, il 13 maggio, un interessante progetto transmediale curato da Udo Kittelmann. Un lavoro che nasce dal confronto tra lo scrittore e regista Alexander Kluge, l’artista Thomas Demand, la scenografa e costumista Anna Viebrock. La mostra − attraverso diversi linguaggi come il cinema, l’arte e il teatro − esplora le criticità del presente attraverso il lavoro d’indagine e cronaca dei tre autori. Punto di partenza: la citazione della tragedia Giulio Cesare di William Shakespeare: «scatenata è ormai la gran tempesta, e tutto adesso è rischio».

Fino al 26 novembre 2017. Maggiori informazioni qui.

museo-bailo_treviso_la-chiave-di-sophia

VENETO | Lost in Arcadia | 6 maggio – 25 giugno 2017 | Museo Bailo, Treviso

Sabato 6 maggio alle ore 18.30 inaugura la mostra Lost in Arcadia, curata da Andrea Bruciati ed allestita nelle sale temporanee del museo Bailo di Treviso. L’intento è quello di suscitare una riflessione leggera e drammatica sulla condizione umana contemporanea, ma vuole anche omaggiare un intellettuale quale Giovanni Comisso che di queste istanze è stato anticipatore sottile e prezioso. Le opere selezionate sono una quarantina (tra gli altri troviamo Arturo Martini, Paolo Gioli, Lucio Fontana, Ernst Ludwig Kirchner e Filippo De Pisis) e possiedono dunque la medesima temperatura dello scrittore, immoralista per vocazione, credente soltanto nei sensi, refrattario alle idee e docile all’istinto, disposto alla letteratura ‘non per pensare, ma solo per seguire gli incanti’.
Le opere invaderanno anche lo spazio di Ca’ Dei Ricchi, con inaugurazione sabato 20 maggio alle ore 18.30, grazie ad una collaborazione del Comune ed i Musei Civici di Treviso con l’associazione TRA – Treviso Ricerca Arte. Anche durante questo mese Ca’ dei Ricchi intende intrattenere il suo pubblico con le sue vulcaniche attività, dalle conferenze sull’arte contemporanea curate da Carlo Sala alla proiezione di film che hanno fatto la storia del cinema della metà del Novecento, mentre il 31 maggio si chiuderà la rassegna musicale TRAcce di Jazz.

Maggiori informazioni sulla mostra qui.
Calendario appuntamenti di TRA qui.

 

Elena Casagrande & Claudia Carbonari

[Immagini tratte da Google Immagini]

banner2-pubblicita-rivista2_la-chiave-di-sophia

 

 

Il cinema riscopre le favole per raccontare l’attualità

Una storia vecchia quanto il tempo può riuscire a raccontare in modo verosimile il presente? Nell’era delle fake news dilaganti, dell’iperconnessione social e della verità spiata e distorta, come si può mettere in scena il grande caos della quotidianità? Il cinema hollywoodiano si è arrovellato spesso su questi interrogativi nel corso degli ultimi mesi e la conclusione a cui è arrivato sembra essere tanto scontata quanto efficace.

Per trovare, nel 2017, un cinema che sia ancora in grado di raccontare la realtà che ci circonda, gli spettatori devono tornare in sala a vedere e riscoprire i grandi film d’animazione del passato, aggiornati in chiave moderna. Basta con i documentari impegnati, i thriller a sfondo politico o i film horror pieni zeppi di messaggi sociali nascosti. Oggi la quotidianità passa attraverso i grandi studi d’animazione Disney e Pixar che, faticando a trovare idee originali per nuovi soggetti, preferiscono spesso ri-adattare sul grande schermo i cartoni animati che hanno segnato l’infanzia di intere generazioni di spettatori. Così, dopo il noioso Cenerentola di Kenneth Branagh e il digitalissimo Libro della giungla di Jon Favreau, ecco arrivare al cinema La bella e la bestia di Bill Condon. Musical in live action che, in apparenza, nulla aggiunge alla storia raccontata dal celebre cartone animato nel 1991 ma che in verità inserisce numerosi riferimenti al nostro presente. Alcuni già insiti di per sé nella favola originaria (la ricerca di un amore che vada oltre le apparenze, l’accettazione del diverso e l’eterno confronto tra bene e male), altri molto più innovativi e attuali (la sequenza del presunto ballo gay è costata alla pellicola il ritiro immediato dal mercato malesiano). Non solo: se il super blockbuster con protagonista Emma Watson strizza l’occhio alla comunità Lgbt, il nuovo film della Pixar cerca di ingraziarsi il  mercato messicano, messo alla gogna dalla nuova amministrazione Trump. Il trailer di Coco ha già registrato migliaia di visualizzazioni in pochissimi giorni e si prepara a diventare uno dei titoli più attesi della prossima stagione.

Il cinema d’animazione entra così di prepotenza nella nostra attualità e gli incassi, per il momento, sembrano dargli ragione. Forse perché, come sosteneva la scrittrice Ida Bozzi, siamo tutti testimoni dell’eternità delle favole. La favola ha il potere della trasmissione di padre in figlio, anzi molto spesso di madre in figlio. Ha il potere dell’identità, la porta fino a noi. Le fiabe sono più antiche della rivoluzione industriale, più semplici di Platone (forse) e più trasportabili del Partenone, ma ugualmente sono un bagaglio comune e nostro. Sono la chiave di lettura per capire che al cinema si può ancora raccontare ciò che quotidianamente ci circonda, senza perdere minimamente il piacere di sognare a occhi aperti.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google Immagini]

“Sono cose da grandi” – Simona Sparaco

Simona Sparaco, autrice di romanzi molto apprezzati come Nessuno sa di noi (2013, finalista Premio Strega), Se chiudo gli occhi (2014, Premio Selezione Bancarella), Equazione di un amore (2016), torna in libreria cimentandosi con una formula inedita.
Sono cose da grandi non è un romanzo ma una lunga lettera che Simona scrive al figlio Diego, nell’estate dei suoi quattro anni, un’estate che sarà diversa da tutte le altre perché nella vita di Diego, come in quella di tanti altri bambini, si farà spazio il male, si faranno spazio cattivi molto diversi da quelli delle favole. Cattivi che non hanno il volto dell’uomo nero ma quello di un camion bianco, che sulla Promenade di Nizza spazza via come fossero birilli vite di adulti e bambini mentre, con gli occhi ancora al cielo, contemplano incantati lo spettacolo dei fuochi di artificio. Pochi minuti di incomprensibile e assurdo dolore e quei corpi giacciono distesi sull’asfalto, immobili. Lo sguardo di Diego si sofferma casualmente sul telegiornale, mentre le immagini del tragico attentato scorrono sullo schermo, e la paura si fa spazio nel suo piccolo cuore, si annida nei suoi incubi, si trasforma in interrogativi a cui una madre fatica a trovare risposta.
Davanti al terrore che Simona legge negli occhi di suo figlio, nasce l’esigenza di mettere nero su bianco i suoi pensieri, di trovare delle parole che intrecciandosi tra loro possano costituire una rete in grado di contenere le paure di Diego, ma anche quelle di chi lo ha messo al mondo.
Da genitore, da madre di una bambina di tre anni e mezzo, mi sono ritrovata in ogni riga di queste cento pagine. Mi sono ritrovata con la testa, con il cuore, con l’anima scoperta, esposta, fragile. Perché forse le paure più profonde delle madri sono le stesse, riassumibili nella paura di consegnare tuo figlio al mondo, un mondo che appare instabile, inospitale, pericoloso e violento.
Per impedire che anche i sogni vengano inghiottiti dalla paura, Simona inventa per Diego una scatola magica, in cui custodire quanto di più prezioso un bambino possieda: i suoi desideri. Quei germogli teneri che ogni madre impara ben presto ad annaffiare e a proteggere dal vento, ad alimentare con la speranza e a fortificare con la fiducia.
Con una penna lieve, dolce, fragile, Simona Sparaco parla di paure e di speranze, parla a Diego, a se stessa, al lettore, mentre consapevolezze tanto effimere quanto tenaci si fanno strada nelle sue riflessioni: spiegare l’esistenza del male ad un bambino forse è impossibile, ma impedire che la sua ombra scura venga proiettata sulle loro piccole vite, quello è il vero compito del mondo adulto. E l’unico modo per riuscire in questa missione è impedire che la paura diventi terrore, perché il terrore paralizza e, compresse nella sua morsa, le tenere ali dei bambini perdono per sempre la capacità di spiccare il volo.
Pagina dopo pagina mi sono riconosciuta in Simona e nelle sue incertezze, nella fatica di imparare qualcosa a cui nessuno ti prepara mai abbastanza, perché solo quando stringi a te per la prima volta quel fagotto fragile e indifeso, capisci che ti sta accadendo la cosa più meravigliosa e spaventosa del mondo e che la paura non ti lascerà mai più, dovrai imparare a conviverci, addomesticarla, impedirle di sopraffarti.

«Dentro ogni madre c’è una bambina che piange. La puoi sorprendere quando diventa violenta, aggressiva, e dice che non ce la fa più. Quando il senso di responsabilità si fa opprimente, quando è la paura a prendere il sopravvento. Dobbiamo sempre nasconderla, ai vostri occhi, farci più grandi di quelli che siamo, perché solo così possiamo essere utili nel vostro percorso».

Nelle domande di Diego, nella sua dolcezza, nella sua sensibilità esposta alle intemperie del mondo, ho rivisto mia figlia, il suo soffermarsi sulle cose ben oltre l’apparenza, la sua fiducia incrollabile nelle mie capacità e, allo stesso tempo, la voglia di difendermi da ogni pericolo.
Riflessioni delicate sulla genitorialità, pensieri d’amore verso un figlio, scorci di una vita quotidiana a due, dove le storie e la fantasia rendono tutto più magico. Un volume piccolo ma prezioso che, come un abbraccio, riscalda e consola. Un libro che ogni genitore dovrebbe custodire in libreria.

«E finché sarò in vita, amore mio, ti prometto che farò di tutto per rendere la nostra casa, la nostra realtà, un luogo in cui valga la pena fare ritorno».

Stefania Mangiardi

[Immagini tratte da Google Immagini]

Allied: l’ombra nascosta del divismo contemporaneo

Poteva nascere qualcosa di davvero memorabile dall’incontro tra il regista di Forrest Gump, Ritorno al Futuro, Cast Away e molti altri celebri film, con due degli attori più amati del nostro tempo: Brad Pitt e Marion Cotillard. Nonostante le ottime premesse però, Allied-Un’ombra nascosta non solo è un film poco riuscito, ma è anche un’opera che in qualche modo sancisce la fine del concetto di divismo, inteso nella sua accezione più tipica e tradizionale.

Come riportato da G.L. Farinelli e J.L. Passek nel libro Stars au féminin: naissance, apogée et décadence du star system (edito nel 2000), il divismo è un fenomeno strettamente connesso al Novecento, secolo in cui la civiltà occidentale, dominata dalla complessa interazione tra economia, tecnica e scienza, ha trovato in sé stessa un antidoto allo spirito razionalizzatore nella presenza dei divi. Considerati da sempre come prodotti della cultura di massa e al contempo arcaismo della modernità, i divi simboleggiano la potenza del mito del doppio all’interno della civiltà razionalista. Essi incarnano un bisogno moderno di fede, un bisogno psicologico e affettivo di proiezione e di identificazione dell’individuo con una vita diversa, una vita che potrebbe accordarsi con i suoi desideri, una vita da eroe, da ribelle o da aristocratico, una vita intensa, rischiosa e non soggetta agli obblighi prosaici della banalità quotidiana, fatta d’amore, bellezza, forza, piaceri, felicità e immortalità. Il divo è colui a cui guardare con ammirazione, colui che incarna e rende concreti personaggi ideali sulla superficie di uno schermo cinematografico. La società contemporanea ha lentamente sgretolato quest’immagine, in vari modi e con svariati mezzi, primo tra tutti l’annullamento totale della dimensione privata della vita del divo. Se nel Novecento infatti i grandi attori erano sempre circondati da un alone di fascino e mistero, al giorno d’oggi chiunque può permettersi di conoscere la vita privata delle star dal momento che, sempre più spesso, sono loro in prima persona a raccontarsi attraverso la rete. Il divo d’oggi tende a non separare più la dimensione privata da quella professionale, avvicinandosi così all’uomo della strada, ma al contempo mostrando al mondo tutti i suoi difetti e le proprie fragilità.

Non a caso Allied è balzato agli onori della cronaca non tanto per il suo valore artistico, quanto piuttosto per essere il film che ha portato alla fine del matrimonio tra Brad Pitt e Angelina Jolie, dal momento che in molti avevano ipotizzato una love story (poi smentita) tra il divo americano e Marion Cotillard. Ispirandosi molto all’estetica di un film come Casablanca, Allied mette in mostra tutte le sue debolezze, soprattutto nella parte finale della storia. Pitt e Cotillard sono solo un pallido simulacro dell’indimenticabile coppia Bogart-Bergman e il film, nonostante una discreta messa in scena e un paio di sequenze degne di nota, non riesce mai a convincere fino in fondo. Invece di farli nascere come un tempo, i film d’oggi sembrano distruggere i divi contemporanei, trasformandoli in fragili esseri umani che, provando a dare forma ai sogni degli spettatori, finiscono sempre più spesso per perdersi e nascondersi nel buio della loro ombra artistica.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google Immagini]

Sully: l’etica dell’eroismo secondo Clint Eastwood

<p>Tom Hanks in una scena del film</p>

Era il 15 gennaio del 2009 quando il volo 1549 della US Airways fu costretto a un ammaraggio d’emergenza nelle gelide acque del fiume Hudson, a New York. Grazie all’esperienza e all’incredibile sangue freddo del pilota ai comandi, 155 persone si salvarono e nessun passeggero restò ferito o perse la vita nell’incidente. Nelle settimane successive stampa e opinione pubblica etichettarono la vicenda come un vero e proprio “miracolo americano”. Una notizia ai confini della realtà destinata a trasformare un semplice uomo dedito al suo lavoro, in un vero e proprio eroe dei nostri tempi. Quell’uomo risponde al nome di  Chesley “Sully” Sullenberger.

A sei anni di distanza dall’accaduto, Clint Eastwood decide di tornare dietro la macchina da presa per raccontare sul grande schermo quest’incredibile storia, rinunciando alla pomposa retorica hollywoodiana e scegliendo una prospettiva che induce lo spettatore a compiere una serie di importanti riflessioni. Senza scadere mai nell’agiografia cinematografica, Eastwood si affida a un ottimo Tom Hanks per raccontare il lato oscuro dell’eroismo. Sully (qui il trailer del film) racconta la storia, a molti sconosciuta, che ebbe luogo nei giorni successivi al miracolo sull’Hudson, quando il capitano Sullenberger divenne protagonista di un’indagine che rischiò di distruggere per sempre la sua reputazione e la sua carriera nel mondo dell’aviazione. Il pilota veterano venne accusato di aver messo a repentaglio 155 vite umane, preferendo ammarare in mezzo al fiume piuttosto che fare ritorno all’aeroporto La Guardia di New York. Seguendo, alla lontana, le orme dello splendido Flight, diretto nel 2012 da Robert Zemeckis, Eastwood mette in scena i problemi che la popolarità può causare alla vita delle persone e condanna i meccanismi miopi di una burocrazia interessata sempre più al denaro che al lato umano dei cittadini. Sully sceglie di non spettacolarizzare la realtà, preferendo concentrarsi sul complicato ventaglio di emozioni provate dal suo protagonista. La sceneggiatura è solida e precisa, la regia di servizio non si perde in inutili virtuosismi e, oltre alla splendida interpretazione di Hanks (papabile candidato ai prossimi Oscar), anche il co-protagonista Aaron Eckhart non sfigura nei panni di valido comprimario. Presentato sabato 19 novembre, in anteprima italiana al Torino Film Festival, il film arriverà nelle nostre sale a partire dal 1 dicembre. Non sarà esteticamente perfetto, ma Sully è di sicuro un’opera che centra il suo intento: raccontare, nell’epoca della cultura digitale in cui onori e gloria durano a malapena il tempo di un click, come sia sempre più difficile riuscire a riconoscere e celebrare i veri eroi del nostro tempo, troppo spesso confusi o dimenticati in favore di vacue celebrità “USA e getta”.

Alvise Wollner 

Café Society: il nostalgico presente di Woody Allen

“La filosofia non è altro che una particolare forma di nostalgia”, parola del poeta e filosofo tedesco Novalis. Stando a questa affermazione, si potrebbe dire che Café Society, nuovo film scritto e diretto da Woody Allen, sia una delle pellicole più filosofiche degli ultimi anni.

Dopo aver aperto con successo l’ultima edizione del Festival di Cannes, la pellicola è arrivata nelle sale italiane poche settimane fa, sancendo il ritorno in grande stile del regista statunitense dopo una lunga serie di passi falsi (Irrational man, Magic in the moonlight e To Rome with love). Nel corso degli ultimi anni in molti erano giunti alla conclusione che l’Allen delle origini e di Match Point fosse ormai solo un ricordo lontano. Niente di più falso:  ciò che ancora oggi riesce a rendere il cineasta americano uno dei più grandi maestri del cinema contemporaneo è la capacità di saper restare al passo con i tempi, pur riproponendo sempre gli stessi temi forti della sua filmografia. Café Society si presenta quindi come un film a due facce. La prima parte, ambientata nella dorata Hollywood degli Anni 30, si distingue per un ritmo leggero e disimpegnato, volutamente privo di spessore. E’ il tempo dei primi amori per Bobby Dorfman e per la giovane segretaria Vonnie, due sconosciuti prima uniti e successivamente divisi da un amore che sembra perfetto, ma che è destinato a non realizzarsi mai. Allen racconta i suoi innamorati in maniera poco incisiva, affidandosi molto alle prove attoriali del pregevole cast e alla fotografia impeccabile di Vittorio Storaro, capace di restituirci l’atmosfera dorata della Hollywood di quel tempo. Nella frivola e opportunistica Los Angeles, Allen non riesce però a esprimere al meglio il suo cinema e così, seguendo le orme del suo innamorato protagonista, si trasferisce a New York. Qui ritrova la vera essenza della storia, costruendo un meraviglioso omaggio dedicato alla forza del passato che ritorna e all’accettazione del rischio di diventare le persone che non avremmo mai voluto essere. Il passato non si può cancellare, Allen lo sa e si crogiola spesso nell’idea di inseguire e raccontare tempi storici ormai lontani dalla nostra attualità. Un’epoca in cui lui stesso avrebbe voluto vivere e che il cinema gli permette ora di esplorare. Woody Allen guarda al passato ma allo stesso tempo si adegua al presente e, per la prima volta in carriera, gira un film in digitale e non in pellicola, lascia spazio a due degli attori più promettenti del cinema americano (Jesse Eisenberg e Kirsten Stewart) e porta lo spettatore a una vivida catarsi nostalgica. Dietro l’apparente spensieratezza e l’allegro cicaleccio della società dei caffè, si nasconde una storia universale, fatta di fantasie romantiche e speranze disattese, nate nella luce rosea di un’alba a Central Park e infine perse e svanite per sempre nel fragoroso frastuono di un cenone di Capodanno. Una commedia dal piacere negato che sembra tradurre in immagini le parole e il pensiero di un grande autore del passato come Arthur Schnitzler: “È la nostalgia a nutrire la nostra anima, non l’appagamento. Il senso della nostra vita è il cammino, non la meta. Perché ogni risposta è fallace, ogni appagamento ci scivola tra le dita, e la meta non è più tale appena è stata raggiunta”.

Alvise Wollner

I SEGRETI DELLA CASA SUL LAGO – KATE MORTON

vvvv

«Ricordava ancora l’amore, l’amore totalizzante che si prova da giovani, sebbene fosse ormai passato tanto tempo da allora. C’era bellezza in un amore come quello e, indubbiamente, pericolo».

Sadie è una detective e ha commesso un errore che non avrebbe dovuto compiere. Così adesso si trova in Cornovaglia, si è rifugiata a casa di nonno Bertie, per trascorrere un periodo di pausa forzata da Londra e dal lavoro. Mentre percorre una strada di campagna per la consueta corsa mattutina, si imbatte in qualcosa che attira la sua attenzione: una villa abbandonata, circondata da quello che un tempo era stato un giardino maestoso e che ora appare come una selva inestricabile.
Quella dimora abbandonata, in cui tazze di fine porcellana giacciono ancora sul tavolo sotto una spessa coltre di polvere e la vita sembra essersi congelata, sospesa come nella più terribile delle fiabe, attrae Sadie con un fascino inspiegabile. La giovane detective vuole saperne di più e ciò che scopre non fa che accrescere il suo desiderio di riportare la luce tra quelle vecchie mura: settant’anni prima, proprio in quella casa, un bambino è scomparso senza lasciare traccia. Gli Edevane, la famiglia che viveva a Loanneth, lasciarono la Cornovaglia dopo la tragedia per non farvi più ritorno. Ma cosa sarà accaduto in quella casa? E che fine avrà fatto il piccolo Theo, l’ultimo genito degli Edevane? Sadie è determinata a scoprire la verità e ignora che il suo desiderio di sapere la porterà in un viaggio a ritroso nel tempo, dove giacciono segreti che attendono di essere dissepolti.
Nel 1933 in quella casa si sta per celebrare il solstizio d’estate. Alice, la secondo genita degli Edevane, ha sedici anni e il cuore pieno di speranze. E’ innamorata di Ben, uno dei giardinieri della villa, e sogna di diventare una scrittrice. Ma ben presto un evento doloroso stravolgerà ogni cosa e niente sarà più come prima.

«L’erba folta, le ombre di una giornata d’estate di tanto tempo prima, le macchioline bianche delle margherite in primo piano. Un breve momento nella vita di una famiglia felice, immortalato prima che cambiasse tutto».

Kate Morton, scrittrice australiana laureata in letteratura inglese, è una delle autrici contemporanee che più amo e, ancora una volta, riesce a regalarci una storia intessuta con maestria, intrisa di emozioni, pervasa da un mistero che trova radici nel passato. La più grande abilità di questa autrice va ricercata nella sua capacità di prendere per mano il lettore, dissolvere i contorni del suo mondo e trasportarlo in luoghi e tempi lontani, dai quali si fatica a fare ritorno. Le descrizioni sono così dettagliate, poetiche e suggestive che durante la lettura si ha l’impressione di essere entrati in un affresco, di trovarsi nella Cornovaglia degli anni ’30, di passeggiare nel giardino di Loanneth, con le sue siepi fiorite e il lago che luccica placidamente sotto il tiepido sole di giugno, in un contesto così reale da indurre il lettore a provare nostalgia per luoghi e tempi mai vissuti. Come nei libri precedenti, si assiste alla presenza di due diversi piani temporali, il presente e il passato che si avvicendano, per comporre sotto gli occhi del lettore un mosaico che va via via prendendo forma, fino al tassello finale che lascia, come sempre, senza fiato. Un’altra costante dei suoi libri risiede nella presenza di figure femminili potenti, affascinanti ammantate da un’aurea che ammalia. In questo libro, tuttavia, anche le figure maschili ricevono maggiore spessore, risultano più approfondite e complesse rispetto ai libri precedenti in cui, a mio avviso, perivano all’ombra delle donne. Ho trovato alcune parti prolisse, la vicenda che riguarda Sadie e il suo temporaneo allontanamento dalla Polizia avrebbe forse potuto occupare meno spazio, senza dare così l’impressione di interrompere il filone principale della storia. Tuttavia la scrittura coinvolgente della Morton alleggerisce il peso delle pagine e non toglie il desiderio di arrivare fino in fondo. Non posso quindi che consigliare questo libro a chi ama i misteri, i sentimenti antichi, le epoche passate. I segreti della casa sul lago vi incanterà con le sue atmosfere cariche di fascino.

Stefania Mangiardi

[immagini tratte da Google immagini]

Inno alla (pazza) gioia

C’è un filo sottile e inaspettato che unisce il regista Paolo Virzì a Victor Hugo, uno dei più grandi autori della letteratura francese. Quel collegamento è composto da una serie di parole che, rilette oggi, sembrano essere state scritte per descrivere alla perfezione La pazza gioia, uno dei film più riusciti degli ultimi mesi. Parole che compongono una frase, divenuta aforisma, e che suonano esattamente in questo modo:  “La più grande gioia della vita è la convinzione d’essere amati.”

Beatrice Morandini,  mitomane logorroica, e Donatella Morelli, madre abbandonata, fragile e introversa, sono due donne disperatamente bisognose d’affetto e attenzioni. Entrambe pazienti dell’istituto terapeutico Villa Biondi, sui colli toscani, si ritrovano a unire i loro tragici vissuti in una rocambolesca fuga on the road, destinata a stravolgere per sempre le loro esistenze. Non capita spesso, al cinema, di trovare un uomo che sappia raccontare con delicatezza e intelligenza l’universo femminile. Paolo Virzì ci riesce grazie al contributo fondamentale di Francesca Archibugi (sceneggiatrice del film) e della compagna di vita Micaela Ramazzotti, qui alla sua miglior interpretazione in carriera. Il film è stato lodato da pubblico e critica, ma c’è da dire che per gran parte della sua durata, La pazza gioia dà l’impressione d’essere un film fastidiosamente mediocre. Molti elementi della messa in scena (dall’interpretazione di un’eccessiva Valeria Bruni Tedeschi, alla scelta di un tema ad alto tasso di banalizzazione) rischiano più volte di rovinare il film di Virzì. Grazie a un finale indimenticabile però, il regista toscano riscatta la sua storia e la trasforma in uno dei lavori più meritevoli di quest’annata.

locandinaNella scena chiave in cui Donatella confessa il proprio terribile passato a Beatrice, il film inizia a sprigionare tutta la sua potenza e ci trascina in un coinvolgimento emotivo che va ben oltre la comune catarsi spettatoriale. Ognuno di noi ne La pazza gioia arriva a immedesimarsi in maniera estrema nel disperato bisogno d’amore e libertà provato dalle due protagoniste. La sofferenza che le attanaglia è tale da farci sperare, fino all’ultimo fotogramma, in una loro possibile “salvezza”. Nonostante la vita abbia fatto di tutto per privarle della felicità, Beatrice e Donatella sono due donne che non vogliono rinunciare al loro diritto alla gioia. Ed è in questo che risiede la loro pazzia: nel saper sperare e gioire laddove tutti noi “normali” ci saremmo arresi. La pazza gioia è una riflessione sulla perdita della ragione, ma al tempo stesso è anche un’opera che ci porta a ragionare su quanto importante sia il nostro diritto alla felicità.  Non è un film perfetto, ma è di sicuro un film necessario per la sua spiazzante capacità di farci vivere attraverso le emozioni. Da un distaccato divertimento iniziale, fino a un’amara riflessione sui concetti di normalità e diversità, in un finale che ci lascia con il volto rigato di lacrime e ci fa sentire finalmente tutti uguali, nel buio magico di una sala cinematografica.

Alvise Wollner

 

Dentro soffia il vento – Francesca Diotallevi

L’amore è il più complicato dei sentimenti.

Il più meschino e, allo stesso tempo, il più coraggioso.

Ho atteso Dentro soffia il vento con trepidazione, stregata dalla lettura de Le stanze buie, libro d’esordio di Francesca Diotallevi che mi ha introdotto nella scrittura matura, curata e suggestiva di questa autrice. Quando ho avuto tra le mani la mia copia, inviatami in anteprima dall’ufficio stampa Neri Pozza, invece di riporre il libro sullo scaffale come di consueto, l’ho tenuto sul comodino accanto al letto, in attesa di terminare il libro in lettura. Non lo avevo ancora iniziato ma non volevo già separarmene. Una sensazione che si è concretizzata e protratta non appena mi sono ritrovata nel piccolo villaggio incastonato tra i monti, Saint Rhémy, in Val d’Aosta, durante il primo conflitto mondiale.

Fiamma, la ragazza dagli occhi color del bosco e dai capelli rossi come il pelo della volpe che l’accompagna, è per tutti una strega. Vive da sola in un capanno tra la fitta vegetazione, ai margini della comunità, nell’abitazione che ha condiviso con la madre fino alla sua morte. Da quando Raphael, il suo unico amico, è partito per la guerra non facendovi ritorno, le giornate di Fiamma scorrono in completa solitudine. Gli abitanti del villaggio credono che dentro di lei scorra il sangue del demonio e la tengono a distanza. Di giorno. Perché di notte una processione silenziosa si avvicenda alla sua porta. Gli abitanti di Saint Rhémy, protetti dall’oscurità, si rivolgono a Fiamma per ricevere i decotti curativi che lei, avviata a quest’arte dalla madre, prepara servendosi di fiori ed erbe.

Mia madre lo diceva sempre: non basta il cuore a sconfiggere l’ignoranza e la superstizione.

Raphael, l’amico che sapeva comprenderla e starle accanto come nessuno, ha lasciato un grande vuoto nel suo cuore, ma la sua assenza non è per lei l’unica fonte di tormento. Yann, il fratello di Raph, sembra provare per lei un odio quasi palpabile, sentimento che Fiamma teme più di ogni altra cosa.

La narrazione viene affidata a tre diverse voci: quella di Fiamma, di Yann e di Agape, il nuovo reverendo giunto nel villaggio per sostituire l’anziano parroco, don Jacques. I loro punti di vista si avvicendano, trasportandoci in questo viaggio tra la neve, i boschi, le superstizioni e gli amori, di una storia che avvince e conquista il lettore. Lo stile di Francesca si conferma superbo. Descrizioni curate e suggestive, con un ritmo caldo e avvolgente che ricorda le storie raccontate intorno al bagliore di un focolare. Un libro di cui ho amato ogni cosa: i personaggi con le loro debolezze, che si annidano tra le pieghe di anime stropicciate dalla vita, i luoghi intrisi di personalità, la cura per i dettagli, cesellati con maestria, la descrizione dei sentimenti: vivi, palpitanti, poetici. L’amore ineluttabile, quello che ti sceglie e non lascia via d’uscita. L’amore che vince su tutto, anche sui pregiudizi più difficili da sradicare.

L’amore non si insegna, è l’unica cosa che non posso spiegarti. Non posso dirti quali battaglie combattere, dovrai capirlo da sola e non sarà facile. L’amore non lo è mai, richiede coraggio e tenacia. Non si sceglie, è sempre lui che sceglie te.

Impossibile per il lettore non rimanere avviluppato nella storia, non empatizzare con i turbamenti che colorano le pagine, non lasciarsi coinvolgere e commuovere. Un insieme che non fa che confermare la bravura di questa autrice che, ne sono certa, continuerà a regalarci emozioni tramutate in carta.

La sera in cui ho terminato, tra le lacrime, questo libro, il cielo della notte era tinto di viola. Mentre percorrevo in macchina il tragitto che mi separa dalla casa in campagna dei miei genitori, i personaggi che turbinavano ancora nella mia mente, ho intravisto tra le sterpaglie una coda fulva. Ribes, ho pensato senza rifletterci. In quel momento ho capito che ci sono storie che scivolano via ed altre destinate a conquistarsi un pezzetto di cuore.

Fiamma non mi avrebbe abbandonato.

Stefania Mangiardi

[immagine tratta da Google immagini]

Lui è tornato: il risveglio (im)possibile di Adolf Hitler

Cosa accadrebbe se Adolf Hitler si risvegliasse oggi nel cuore della Germania e iniziasse a comportarsi esattamente come fece nel 1933? La domanda, piuttosto inquietante, è stata posta nel 2012 dallo scrittore tedesco Timur Vermes che ha dato vita a uno dei romanzi più riusciti degli ultimi anni,  trasformato oggi in un adattamento cinematografico pronto a sbarcare sugli schermi italiani e sulla piattaforma digitale Netflix.

Lui è tornato. E’ questo il titolo di un vero e proprio miracolo artistico che riesce nell’intento di farci riflettere sulle tante contraddizioni del nostro presente. Il film, diretto da David Wnendt, ci mostra un mondo in cui la politica è allo sbando per colpa di persone che badano solo ai loro interessi, in cui i cittadini si lamentano per i molteplici sbarchi di migranti e richiedenti asilo, mentre la televisione propina di continuo programmi di cucina o reality basati su trash e volgarità. È il nostro mondo, starete pensando, ma se a farvi notare tutte queste cose fosse l’autore del Mein Kampf in persona, voi come reagireste? La risposta che il film dà è a suo modo geniale: sfruttando il genere poco conosciuto del mokumentary (ossia una storia di finzione raccontata attraverso lo stile di un documentario), Wnendt riesce a rendere giustizia alle pagine del romanzo di Vermes, raccontando la nuova ascesa di un Führer (interpretato magistralmente da Oliver Masucci) che torna a farsi amare dal popolo che egli stesso aveva condotto alla rovina durante la Seconda Guerra Mondiale. Aiutato da un giovane e fallito regista televisivo, che in lui vede solo un attore da proporre come novità al suo network per non essere licenziato, il nuovo Hitler inizia a girare le città della Germania, ascoltando l’opinione della gente che gli parla del proprio malcontento. I video del suo ritorno iniziano così a essere diffusi in Rete e da lì le televisioni cominciano a vedere in lui un enorme potenziale per la conquista dello share. In un contesto del genere, per amore della propaganda, il Führer è anche disposto a farsi trattare come un comico da baraccone pur di raggiungere il suo scopo. Del resto, chi mai potrebbe credere di trovarsi di fronte al vero Hitler? Peccato però che la realtà superi di gran lunga la finzione, e così l’epifania collettiva dei protagonisti rischierà di arrivare troppo tardi, rendendo inevitabile il ripetersi della Storia.

Lui è tornato è un film che contiene al suo interno molteplici insegnamenti. Non si tratta di una semplice opera satirica che deride o ironizza una delle pagine più buie dell’umanità. È piuttosto un vero e proprio pugno in faccia ai tantissimi perbenisti ipocriti che affollano il nostro tempo, sbandierando il politically correct mentre cercano di imporre a tutti la loro convinzione di essere nel giusto. Lui è tornato azzera i confini tra giusto e sbagliato. È un film che mina le nostre certezze perché non è un deprecabile lavoro di propaganda o una banale condanna verso le dittature. È un grido d’allarme che ci avvisa che proprio in momenti di enorme crisi come quelli che stiamo vivendo, personaggi determinati e con una precisa ideologia politica, come quella di Hitler, possono fare proseliti. Il fatto che Lui è tornato sia stato scritto, pensato e diretto in Germania potrebbe portarci a pensare che il popolo tedesco abbia compreso appieno la gravità di ciò che è stato commesso in passato. La realtà dei fatti è però ben diversa. Vermes e Wnendt ce lo dicono chiaramente: il confine tra una grottesca finzione e la realtà dei fatti sta diventando, giorno dopo giorno, sempre più labile. Spetta solo a noi non addormentarci di nuovo nel sonno della ragione.

 

Alvise Wollner

 

lui