Filosofare con Game of Thrones: la guida di Tommaso Ariemma

Game of Thrones (targata HBO e andata in onda dal 2011 al 2019, in Italia su Sky) è una serie tv imbevuta di filosofia. Filosofia politica, ma anche sociale, o più semplicemente una filosofia sistematica sull’essere umano, sulla sua malvagità e pietà, sull’utilitarismo e sull’eterna lotta fra ragione e cieca emozione. A prescindere dal finale di serie, che ha generato polemiche che ancora non si sono placate, resta il fatto che Game of Thrones è stata rivoluzionaria, e non solo per la televisione. Lo è stata da un punto di vista culturale, è entrata nelle nostre vite e ci ha uniti in dibattiti, esortato a tifare, ci ha fatto piangere e arrabbiare.

Tutto questo Tommaso Ariemma, già autore di La filosofia spiegata con le serie tv (Mondadori, 2017) e La filosofia degli anni ’80 (Il Nuovo Melangolo, 2019), lo coglie alla perfezione nel suo ultimo libro, Game of Thrones. Imparare a stare al mondo con una serie tv (Il Nuovo Melangolo) uscito a novembre 2020. Scritto con la tecnica che lui stesso definisce la migliore in termini filosofici, ossia un misto di autobiografia e autofinzione, con una buona dose di (sempre parole sue) “immaginazione didattica” tra lui e i suoi studenti, che hanno il merito di avergli fatto scoprire la serie, il libro parla di questo enorme fenomeno mediatico da angolature insolite e inedite. Ariemma racconta la sua iniziale indifferenza nei confronti della serie (l’aveva iniziata ma non ne era rimasto colpito), per poi passare ad un vero e proprio attaccamento, quello che tutti i fan hanno provato. Un attaccamento ancestrale, che, come nota Ariemma, viene dal passato, dalla tradizione orale, da quei canti (non a caso la serie è tratta dalla saga letteraria di George R.R. Martin, intitolata A Song of Ice and Fire) dal sapore epico, dove la morte è centrale. Morti ingiuste, morti calcolate, morti machiavelliche: Ariemma nota quanto sia presente, nella serie, la filosofia di Machiavelli. La raffigurazione del potere, un potere cieco che vede e sente (e vuole) solo se stesso, proprio come Cersei Lannister sa bene. Un potere che si costruisce dietro le quinte, tramando e tradendo, come fanno Ditocorto alias Petyr Baelish e Lord Varys. Ma anche un potere arguto, tutto intellettuale: come quello incarnato da Tyrion Lannister, il nano, il mezzo-uomo che combatte con la saggezza acquisita dai libri.

Game of Thrones ha dato ad Ariemma lo spunto per una didattica diversa (finalmente!), che si serve delle serie tv per arrivare alle menti degli studenti e delle studentesse delle scuole superiori. Perché le serie tv sono per davvero “il mezzo del futuro”, un futuro che è già qui, in cui le guerre sono tante e su vari livelli, in cui il clima ci si rivolta contro, un futuro fatto di alte barriere di ghiaccio, che non si possono, però, nemmeno buttare giù a suon di fiamme. Perché il fuoco e il ghiaccio sono due estremi che in Game of Thrones portano alla morte, ma la vita sta sempre nel mezzo. Magari in una delle tante storie di cui abbiamo bisogno per sopravvivere, narrate per dissipare quel caos in cui ci troviamo, come ricorda Ariemma citando il celebre dialogo tra lord Varys e Ditocorto: “Il caos è una scala” dice quest’ultimo. Un caos che non ci resta che salire: solo così possiamo abitare davvero il mondo, cercando di capirlo attraverso i tanti racconti, di finzione e non. E se saliamo, non è per ergerci sopra a quel caos, ma semplicemente per goderci meglio il suo panorama.

Per i fan di Game of Thrones il libro di Ariemma sarà una piacevole compagnia e una valida guida. Per affrontare anche le nostre sfide quotidiane — perché non è necessario essere i personaggi di una saga fantasy per ritrovarsi a combattere draghi o pericolosi non-morti: anche i professori di filosofia hanno le loro battaglie da combattere. Ma se ci sono le armi giuste, ossia la filosofia e le serie tv, allora si è in buone mani.

 

Francesca Plesnizer

 

[Photo credit Tommaso Ariemma]

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“Ready Player One” è un viaggio ai confini della realtà

Chiunque sia entrato in un cinema almeno una volta negli ultimi quarant’anni, non può non essersi imbattuto anche solo in uno dei trentadue lungometraggi diretti da Steven Spielberg. Il regista americano è parte integrante di quella schiera di autori le cui opere sono entrate di diritto nell’immaginario collettivo di milioni di persone. Al di là dei gusti personali che, di volta in volta, possono farci amare o meno i suoi film, Spielberg ha il pregio di voler continuare a sperimentare le nuove vie del cinema nonostante abbia raggiunto la soglia dei 72 anni d’età. Il suo nuovo gioiello si chiama “Ready Player One” ed è un viaggio fantasmagorico che anticipa il futuro guardando al passato.

Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore statunitense Ernest Cline, “Ready Player One” racconta di un’avventurosa caccia al tesoro per la conquista di Oasis, uno sterminato universo virtuale in cui, nel 2045, gli abitanti della Terra si rifugiano per sfuggire alla desolazione e ai problemi della vita reale. I temi chiave su cui si basa il nuovo film di Spielberg sono essenzialmente due: il primo è quello della rilettura del passato per imparare a comprendere il futuro che ci attende. Il secondo riguarda l’eterna diatriba sui possibili sviluppi della realtà virtuale e sull’importanza di continuare a instaurare rapporti autentici e reali in un mondo sempre più dominato dalla tecnologia. Il primo dei due nodi tematici appena citati, viene sciolto da Spielberg attraverso l’utilizzo smodato del citazionismo che raggiunge l’apice nella seconda delle tre prove per la conquista di Oasis. Il tema della realtà virtuale contrapposta al reale è invece la parte più debole della storia, dal momento che non riesce mai a sfociare in un ragionamento approfondito sull’importanza del carattere umano, contrapposto al progresso della realtà virtuale.

Nel pensiero filosofico contemporaneo, la problematica della realtà esterna ha assunto una valenza prevalentemente gnoseologica. La riflessione neopositivistica, per esempio in Carnap, ha invece etichettato i contenuti e le soluzioni proposte in passato come risposte a uno pseudoproblema, in quanto non suscettibile di verifica sperimentale. Nella riflessione successiva al neopositivismo il problema della realtà è stato variamente discusso all’interno del rinnovato dibattito sul realismo, illustrando come la contrapposizione con una dimensione virtuale stia assumendo sempre più rilevanza nella nostra quotidianità. Il fatto che questi temi restino solamente accennati in “Ready Player One” costituisce il vero punto debole di un film che merita comunque di essere visto per lo spettacolo che offre agli occhi dello spettatore. Una colossale visione futurista che non può non lasciare a bocca aperta anche chi di cinema non se ne intende. “Ready Player One” è l’immagine di una realtà alla deriva che ci ricorda quanto sia necessario tenere a mente le parole del drammaturgo George Bernard Shaw, il quale sosteneva che «senza l’arte, la crudezza della realtà renderebbe il nostro mondo del tutto intollerabile».

A questo link potete trovare il trailer del film, al cinema da mercoledì 28 marzo.

 

Alvise Wollner

 

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“Chiamami col tuo nome” è un inno alla bellezza

C’è una sorta di classicismo contemporaneo nella vibrante estetica che pervade le immagini del nuovo lungometraggio di Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome. Miglior film ai Gotham Awards di quest’anno, l’opera del regista siculo racconta l’appassionata relazione estiva tra un giovane diciassettenne e uno studente universitario di origini americane in un idilliaco borgo del Nord Italia, a pochi chilometri di distanza da Crema.

Il viaggio di Chiamami col tuo nome inizia nel gennaio del 2017 con la presentazione, in anteprima mondiale, al prestigioso Sundance Film Festival e da lì, visto il successo riscosso oltreoceano, intraprende un trionfale cammino attraverso alcuni dei festival più importanti a livello internazionale, arrivando a essere uno dei grandi nomi nella corsa ai prossimi premi Oscar. Il merito di un simile risultato è dovuto in gran parte al talento di Guadagnino nell’offrire allo spettatore l’immagine di un’Italia che oggi non esiste più, immersa nella bellezza dell’arte antica e nella memoria storica di un passato a dir poco ingombrante (una delle scene chiave del film è girata davanti a un monumento dedicato alle vittime della Grande Guerra). Come ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, l’immagine dell’Italia rimane sempre sospesa in bilico tra il cliché del Paese da cartolina e una location pervasa da insanabili contraddizioni che diventano lo specchio del carattere dei personaggi sul grande schermo.

La perfetta ambientazione anni Ottanta, le pedalate estive dei due protagonisti nella campagna cremasca e una colonna sonora impreziosita da ben tre indimenticabili canzoni del cantautore Sufjan Stevens sono i veri punti di forza del film che debutta nelle sale italiane giovedì 25 gennaio. Per chi non conoscesse ancora la filmografia di Guadagnino, Chiamami col tuo nome diventerà facilmente un film indimenticabile per la sensibilità con cui viene raccontata la trama e la cura dei dettagli con cui è stata preparata ogni inquadratura. Per chi invece ha già imparato a conoscere e amare il lavoro del regista siciliano dai precedenti Io sono l’amore e A bigger splash, questa trasposizione del libro dello scrittore statunitense André Aciman risulterà un piccolo passo indietro rispetto ai lavori precedenti di Guadagnino. Chiamami col tuo nome è infatti un inno alla bellezza a cui manca spesso quella componente di sublime cinematografico in grado di assurgerlo dal semplice status di ‘bel film’ a capolavoro. La pura estetica senza pulsione rischia molte volte di trasformarsi in un semplice esercizio di stile ed è un pericolo a cui i personaggi del film vanno più volte incontro, a differenza delle splendide statue elleniche nascoste nelle acque del Lago di Garda, perfette e misteriose nella loro immutabile ieraticità. Raccontando la bellezza, Guadagnino regala momenti di grande cinema nel momento in cui mette in scena il dolore e la paura del non essere accettati e corrisposti, un sentimento che i suoi personaggi incarnano alla perfezione mentre ardono nella passione di una calda estate lombarda. In quei momenti Chiamami col tuo nome non si limita a essere una semplice storia d’amore ma diventa un film capace di parlare al cuore di ognuno di noi.

 

Alvise Wollner

 

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“It” è un film che banalizza la cognizione dell’orrore

Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, il filosofo americano Noël Carroll provò a teorizzare nel libro The Philosophy of Horror (1990) il paradosso dell’orrore. Si tratta di una variazione del più tradizionale paradosso della tragedia, dovuto al filosofo David Hume e riducibile alla domanda: “perché siamo attratti da cose che (se fossero reali) riterremmo orribili?” La notizia che un film come It abbia incassato al box office statunitense oltre duecento milioni di dollari nelle prime due settimane di programmazione, è la dimostrazione che il pubblico è ancora molto attratto dal fascino dell’orrido. Ma che cos’è l’horror? Per Carroll si tratta di un genere eminentemente moderno, che ha avuto origine nel XVIII secolo in Europa con la cosiddetta letteratura gotica. Nell’analizzare l’horror Carroll evidenzia come questo genere sia un dispositivo che funziona nella sua totalità. Tuttavia, il filosofo mette in rilievo alcuni elementi tipici che appaiono essere più importanti di altri nella costruzione della finzione scenica. In particolare: la presenza nel cast di un gruppo di protagonisti generalmente umani (nel caso di It si tratta dei ragazzini che fanno parte del Club dei perdenti) contrapposti a un’entità mostruosa che li minaccia e che, a seconda dei casi, può assumere molteplici forme (tra cui quella umana).

Il successo del romanzo pubblicato nel 1986 da Stephen King è in gran parte dovuto alla sua capacità di riuscire a raccontare con incredibile efficacia un male archetipico, confinandolo in una mostruosa personificazione mutaforma delle paure di ognuno di noi. It è un mostro senza genere (anche se nel libro si ipotizza la sua propensione verso il lato femminile), è la personificazione di ogni nostra paura e si nutre del terrore che riesce a suscitare nelle sue vittime. L’unica soluzione possibile per eliminare un antagonista simile è compiere una crescita personale, superando le paure primordiali dell’infanzia e arrivando alla maturità dell’età adulta, dove i turbamenti non scompaiono ma si evolvono a una fase più consapevole rispetto al terrore di cui si nutre It. Nel nuovo adattamento cinematografico diretto da Andy Muschietti, gran parte di queste tematiche vengono banalizzate e ridotte a una lotta, nemmeno troppo spaventosa, tra un gruppo di ragazzini e un clown assassino (personificazione preferita del mostro creato da King).

Chiariamo una cosa: il nuovo lungometraggio di Muschietti non è del tutto esente da meriti. È girato con grande maestria registica, cura con grande attenzione gli elementi della messa in scena e, con un cast di tutto rispetto, ha il coraggio di prendere una serie di soluzioni narrative che in qualche modo lo rendono libero e indipendente dal peso incombente del romanzo a cui si ispira. It è un film che reclama una sua indipendenza ma che al tempo stesso si dimentica di mettere in scena l’elemento chiave nel conflitto tra il mostro e i ragazzini, vale a dire: l’immaginazione. La parte del viaggio onirico di Bill raccontata da Stephen King, poco prima dello scontro con il clown Pennywise, sarebbe stata una componente fondamentale da mettere in scena per mostrare allo spettatore come rabbia e coraggio non siano sufficienti, in questo caso, a eliminare un antagonista così spaventoso. Serve immaginazione per vincere le proprie paure ma Muschietti sembra dimenticarlo, portando in scena un film che punta molto sullo spavento più immediato e concreto, causato da esplosioni sonore a tratti esagerate e sulla diabolica fisicità del giovane Bill Skarsgård che interpreta It scegliendo saggiamente una prova di sottrazione attoriale, ispirata ai grandi antagonisti del cinema muto. Fatta eccezione per la splendida sequenza iniziale infatti, il clown di Skarsgård è un personaggio quasi muto e presente in scena pochissime volte, divenendo così una presenza metaforica più che un personaggio vero e proprio. In attesa di vedere la continuazione della storia cinematografica nel secondo capitolo dell’opera, questo primo vero adattamento cinematografico di It rimane un ottimo prodotto commerciale per la grande fruizione di massa, anche se la paura dei produttori di fallire al botteghino ha impedito all’opera di galleggiare verso l’Olimpo dei grandi film, rischiando di far naufragare una delle più belle storie mai scritte nella banalità ordinaria dell’intrattenimento orrorifico, già visto decine di volte sul grande schermo.

 

Alvise Wollner

 

[immagine tratta da google immagini]

 

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Blade Runner 2049: il pesante fardello del sequel

Uscito nel 1982, Blade Runner è diventato negli anni un film di assoluto culto, archetipo dei moderni film di fantascienza e capostipite del filone cyberpunk.
Ridley Scott dirige quello che è forse il suo capolavoro e il suo film più iconico, portando la regia ad un livello superiore, mescolando generi e ambientazioni creando un unicum senza eguali.
La caccia di Deckard ai replicanti si svolge in una Los Angeles distopica, soffocata dal fumo e dall’inquinamento, buia e opprimente. La magistrale scenografia fonde edifici immensi e futuristici con la storia architettonica della città, portando sullo schermo la Ennis House di Frank Lloyd Wright e il Bradbury Building. Due omaggi non solo a Los Angeles ma anche alla grande tradizione dei film noir, tradizionalmente ambientati nella più famosa città californiana.

La pioggia incessante, con il suo senso di prigionia, viene interrotta dai volti dei protagonisti continuamente illuminati da fasci di luce, in un’atmosfera di disagio, come a sottolineare un senso perenne di sorveglianza.
Più che un film di fantascienza Blade Runner sembra un noir ambientato qualche anno più avanti nel futuro; la sua “ambiguità” di generi risulta vincente, ne esce un film assolutamente unico e irripetibile che ha influenzato il cinema di fantascienza negli anni a venire. Fotografia e ambientazioni, la scelta delle luci, delle inquadrature, sono molto attuali, simboli di un film senza età, moderno e all’avanguardia.

Alla base del film c’è una raffinata analisi sul contrasto uomo/macchina, un rapporto conflittuale che qui viene portato all’estremo, facendo dubitare su cosa sia umano e cosa no, introducendo temi delicati come la clonazione e interrogandosi sulle possibilità offerte dall’eugenetica.

Quando un film di questa portata ha queste connotazioni risulta sempre difficile pensare ad un seguito. L’eredità che ha lasciato è immensa, non solo per gli appassionati ma per gli stessi addetti ai lavori; la sua influenza è tale che tocca moltissime corde del cinema di oggi.
Eppure a più di trent’anni di distanza lo stesso Ridley Scott, qui in veste di sceneggiatore e produttore, è protagonista del seguito, intitolato Blade Runner 2049, girato dal canadese Denis Villeneuve, regista interessante, già cimentatosi nel 2016, con successo, con la fantascienza, girando Arrival.
L’attesa per questo sequel è tanta, le prime immagini e scene circolate sembrano decisamente all’altezza. La scelta dei colori, delle inquadrature e delle luci appaiono come le esatte figlie del suo predecessore degli anni ’80, quasi a voler dare una continuità nella crescita e nello sviluppo di quel mondo distopico creato da Scott. L’impatto visivo e la scelta della colonna sonora sono potenti, richiamano ancora un senso di disagio e di apocalisse, descrivendo un’umanità ormai sull’orlo del baratro.

Trentacinque anni dopo Harrison Ford torna a vestire i panni di un vecchio Deckard, vissuto ai margini e dimenticato, ritrovato dal protagonista, l’agente K/Ryan Gosling.
Quello che attira di più di questo sequel sono le tante domande rimaste senza una risposta, la vera natura di Deckard e la sua identità.
Il tema del thriller psicologico e di un noir fantascientifico è ancora presente, un mistero da risolvere che mette in campo tante tematiche esistenziali senza dimenticare l’eterno duello tra uomo e macchina.

L’eredità di Blade Runner è stata raccolta, il suo lascito al cinema di fantascienza è immenso e la sfida di farne un sequel non è sicuramente delle più semplici ma gli elementi per un ottimo film ci sono tutti. Il fardello dell’essere il numero due è pesante, vedremo se 2049 sarà un altro spettacolo per gli occhi e l’intelletto.

Lorenzo Gardellin

 

[Immagine tratta da Google Immagini]

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“Mother!” è un incubo freudiano perturbante

Das Unheimliche è un vocabolo della lingua tedesca, utilizzato da Sigmund Freud nel 1919 come termine concettuale per esprimere, in ambito estetico, una particolare attitudine della paura che si sviluppa quando una cosa (o una persona, una impressione, un fatto o una situazione) viene avvertita da noi come familiare ed estranea al tempo stesso, scaturendo una generica angoscia unita a una spiacevole sensazione di confusione ed estraneità. In italiano il termine è stato spesso tradotto con l’aggettivo sostantivato perturbante. Al cinema, il corrispettivo dell’Unheimliche freudiano potrebbe essere individuato in Mother!, nuovo film dello statunitense Darren Aronofsky, il regista che nel 2011 aveva diretto Il cigno nero.

Presentato in concorso alla settantaquattresima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Mother! (o Madre! se preferite la traduzione italiana del titolo) ha diviso fin da subito critici e spettatori, generando una serie di riflessioni e giudizi contrastanti sul valore etico ed estetico della pellicola. Il perché di tante polemiche e discussioni è presto spiegato: Mother! è un film pensato per disturbare lo spettatore, per farlo uscire dalla comfort zone della sala cinematografica in cui si trova e per scaraventarlo in un incubo a occhi aperti della durata di oltre due ore. Piccola precisazione: il termine incubo qui non vuole far intendere che il film di Aronofsky sia per forza un horror, perché sarebbe sbagliato etichettarlo in questo modo. Piuttosto potrebbe assere catalogato come un complesso thriller psicologico. La verità è che Mother! oltrepassa ogni possibile definizione di genere perché è una sorta di unicum rispetto a tutto quello che abbiamo visto finora al cinema.

La trama segue le vicissitudini di uno scrittore in crisi d’ispirazione e della sua musa intenta a sistemare la casa in cui hanno deciso di vivere. All’esterno dell’edificio sembra esserci solo la natura incontaminata, all’interno dell’abitazione regnano invece i sentimenti più disparati di una relazione: dall’amore alla rabbia, passando per le piccole gioie fino ai sogni infranti. Il microcosmo della casa dovrebbe essere idilliaco per i due coniugi, ma c’è sempre qualcosa in agguato pronto a minare la serenità di un rapporto che insegue di continuo il sogno della perfetta felicità. Poi, all’improvviso, il mondo esterno inizia a fare irruzione nella casa della coppia. Prima con piccole avvisaglie, poi in maniera sempre più invasiva. Jennifer Lawrence interpreta la personificazione della pars costruens, la donna che cerca di costruire e sistemare la propria esistenza insieme a quella del compagno, ricoprendolo di cure e attenzioni. Javier Bardem è invece l’artista demiurgo e imprevedibile che, dando vita alla pars destruens, rimane sempre in bilico tra caos e ragionevolezza.

Impossibile raccontare di più, onde evitare di rovinare un film che andrebbe vissuto con la piena volontà di lasciarsi trasportare dalle immagini, senza pretendere che queste possano avere un significato ed un senso nell’immediato. Mother! è uno di quei film che potrà disgustarvi o deludervi a una prima visione ma che saprà smuovere le vostre coscienze spettatoriali, lasciandovi con un’infinità di spunti su cui riflettere nei giorni successivi a quando lo vedrete. È un film che ha bisogno di tempo per essere assimilato e che non lascia indifferente chi lo guarda. Per questo è un’opera coraggiosa e stimolante che merita di essere vista al cinema superando i pregiudizi che potrebbero influenzarne la visione. Mother! parla al cuore e soprattutto alla mente dello spettatore. È un film che denuncia lo stato di degrado e violenza in cui si trova oggi il nostro Pianeta. È un’opera che non si vergogna di essere autobiografica nel momento in cui mette in scena il rapporto tra un artista e la sua musa (Aronofsky e Jennifer Lawrence sono una coppia nella vita reale). Soprattutto è un film che ha il coraggio di prendersi dei rischi immani e di osare tantissimo pur di raccontare una vicenda capace di provocare una reazione forte in chi la guarda. Un lavoro in cui i difetti non mancano, ma che sarà capace di accompagnare per molto tempo i suoi spettatori, lasciando un messaggio che per ognuno di loro sarà diverso. In questo risiede la forza del Pertubante: nel portare alla luce ciò che credevamo nascosto e inesistente, facendoci diventare consapevoli di come l’arte, capace di indagare realmente le dinamiche umane, riesca ancora a turbarci nel profondo, avvicinandoci nel contempo al sublime.

Alvise Wollner

 

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Tracce di natura e ambiente nella VII Rassegna di Arte Contemporanea di Treviso

La trevigiana Rassegna di Arte Contemporanea si è conclusa questa domenica ma fortunatamente ho avuto modo di visitarla ad un passo dalla chiusura, approfittando di una visita guidata con lo stesso curatore, Daniel Buso.

Quest’anno siamo giunti alla settima edizione: rincuora ed entusiasma il fatto che anche la piccola Treviso offra annualmente ai suoi abitanti e visitatori un tuffo nelle ricerche e nella creatività dei nostri giorni. Ca’ dei Carraresi, grazie all’organizzazione progettuale di Artika Eventi, ha raccolto ed accolto per una settimana (dal 17 al 25 giugno) le opere di ottantotto artisti, prevalentemente italiani, che attraverso diverse tecniche e modalità e secondo le più personali ed intime sensibilità interpretano con l’arte la visione e le tematiche dell’oggi. Molte sono infatti le questioni che emergono durante la visita, che si snoda in un percorso di sedici sale pensate per accogliere opere che riflettono, seppur in modi diversi, su tematiche comuni: dai migranti agli enigmi, dalle vedute urbane al packaging.

La mia sensibilità ed interesse hanno fatto emergere però un aspetto che non è stato scelto di riunire in un’unica sala – cosa che ho apprezzato perché penso che questa riflessione possa costituire un fil rouge che unisce diversi autori senza bisogno di essere esplicitato, come se fosse una loro caratteristica propria ed intrinseca riscontrabile più o meno apertamente nelle loro produzioni artistiche. Parlo delle tracce di una sensibilità nei confronti dell’ambiente naturale e dell’ambiente Terra più in generale. Alcune opere sono più esplicite di altre, altre si soffermano su un livello apparentemente superficiale di rappresentazione dell’ambiente naturale, come la laguna quasi eterea di Sabrina Grossi, ma la riflessione si svolge su più fronti.

Rino dal Pos ritrae un volto su una tela sulla cui superficie compone materiali creati dall’uomo ed impropriamente dispersi nella natura, per esempio gli ormai inutili oggetti di plastica gettati negli oceani; in quanto biologo il suo trarre dal mare materiali che non gli appartengono e riportarli proprio in un ritratto l’ho trovato un atto velato di denuncia di un atteggiamento che ormai ci è proprio come esseri umani, tristemente disattenti ed incuranti nei confronti di ciò che vive attorno a noi. Diversi altri artisti in effetti utilizzano nelle loro opere dei materiali di scarto: è il caso per esempio delle composizioni di Lili Mascio, in cui questi materiali si fondono in un vorticoso fluire per veicolare sensazioni di bellezza e leggerezza.

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Rino dal Pos, 2015

La riflessione attenta sull’ambiente però si riscontra anche attraverso l’umano costruire ed una lettura che viene fatta di esso. Ne riscontro una traccia nelle opere di Gemma Zoppitelli che attraverso una tecnica di foto trasferimento riporta le fotografie dei porti di Palermo e Genova su assi o scarti di legno trovati proprio in quei luoghi: il loro recupero e il riportarli ad una nuova vita, che è tuttavia profondamente legata alla precedente, li rende idoli di memoria, simboli apparentemente nostalgici di un mondo in continua corsa e progresso. Così come la monumentale archeologia industriale di Walter Marin, relitto abbandonato di un passato che sembra schiacciato dalla smania del nuovo.

L’azione incurante dell’uomo è anche violentemente denunciata, in particolare attraverso l’opera scultorea di Ralph Hall, simbolo oltretutto di questa rassegna: Rabbits. È ben esplicito il significato di quel tubo al neon, violentemente acceso e quasi fastidioso, che trafigge una coppia di conigli dall’aspetto del tutto adorabile, con le lunghe orecchie dall’aria apparentemente morbida e persino delle gorgiere secentesche che avvolgono i loro colli, una bellezza estetica che ne rappresenta l’innocenza. La denuncia è infatti proprio di quell’azione violenta e noncurante dell’uomo perpetrata su creature innocenti ma anche “vicine” (quasi addomesticate) all’uomo.

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Chiara Lorenzetto, 2016

Ci sono infine opere che sottolineano il completo fluire delle cose della natura, all’interno del quale l’uomo convive con tutto ciò che vive, e il suo essere si trova in piena connessione con la natura. Il Pensiero fluttuante di Monica Sarandrea per esempio è nato da un sasso gettato nello stagno: i colori, i movimenti ed i disegni della natura si ricollegano anche attraverso l’arte nel nostro vivere più profondo e che (anch’esso) ci è proprio, dal limite fluido della tangibilità dell’acqua alla fuggevolezza del pensiero. È di fatto nella dimensione spirituale che si apre il dialogo. Da questo punto di vista, concluderei con le opere che più di tutte sono riuscite a raggiungermi: quelle di Chiara Lorenzetto. Attraverso la tecnica del frottage l’artista riporta il disegno ciclico e sinuoso di un tronco tagliato: con la matita su di una carta molto leggera racchiude l’anima dei tronchi di tiglio di un viale in cui, a seguito di un programma di abbattimento, tali alberi sono stati tagliati. La forma che viene riportata sul supporto ricorda molto da vicino le impronte digitali di una mano umana, manifestando in modo delicato ma palese l’assoluta comunanza tra uomo e albero, e dunque l’appartenenza dell’uomo ad  un contesto di connessioni naturali in cui non può esistere, a livello profondo, una vera gerarchia. Ogni singolo albero, in questa lunga serie di tele di cui sono due quelle scelte per questa esposizione, ha una sua individualità ed è portatore di una sua storia di vita e cultura, così come ogni essere umano è un individuo unico ed irripetibile, ed in quanto tale degno di vivere la propria vita.

 

Giorgia Favero

Riferimenti più approfonditi alla mostra qui.

Lady Macbeth: ritratto di donna in interno

Magnetico e deplorevole, sensuale e raggelante: sono davvero pochi i personaggi di pura fantasia che riescono ad avere una carica dicotomica così forte come quella insita in Lady Macbeth. Una figura costruita su una serie di contrasti apparentemente inconciliabili: un amore che sfocia nell’orrore del delitto, una sottomissione che in un attimo si può trasformare in incontenibile onnipotenza. William Shakespeare le ha dato vita, lo scrittore russo Nikolaj Leskov l’ha portata nel freddo distretto di Mtsensk e infine il regista teatrale britannico William Oldroyd l’ha filmata sul grande schermo, unendo gli insegnamenti dei due maestri sopracitati.

Il risultato finale porta il titolo di Lady Macbeth, un raffinato dramma in costume uscito nelle sale italiane lo scorso 15 giugno. Nonostante il film non manchi di alcune imperfezioni (ricordiamoci che stiamo parlando di un’opera prima), il lavoro di Oldroyd merita interesse per la sua grande capacità di costruire un personaggio femminile quantomai riuscito e appassionante. Il merito è soprattutto di una sensazionale Florence Pugh che da ragazzina timida e sottomessa inizia un percorso di trasformazione che la porterà a diventare una Lady Macbeth dilaniata da una tensione amorosa a dir poco sconvolgente. Fotografia e ambientazioni sono l’altro grande punto di forza di questa storia. Se il libro da cui il film è tratto era ambientato in Russia, la brughiera inglese si dimostra qui molto più adatta a rappresentare il simbolico conflitto interiore della protagonista, sottomessa e prigioniera all’interno delle mura domestiche, libera e passionale quando si trova a passeggiare nelle terre verdi e incontaminate del Regno Unito. Le dicotomie e le passioni di Lady Macbeth sono le stesse di un’adolescente viziata del nostro tempo, disposta a tutto pur di avere ciò che desidera ed è questa un’altra grande sorpresa del film di Oldroyd. Mentre nell’immaginario shakespeariano Lady Macbeth ci appare come una donna già matura al fianco di un marito da sostenere nella sua folle corsa all’onnipotenza, qui la protagonista è una ragazza che diventa donna solo dopo aver annientato gli uomini che la circondano. Il genere maschile esce annichilito alla fine della proiezione, ma al contrario di quanto si possa pensare Lady Macbeth non è una fastidiosa celebrazione del femminismo tout court, al contrario è un’intelligente esaltazione delle mille sfaccettature della donna in contrapposizione alla stupidità e alla pulsione fisica che caratterizza la maggior parte degli uomini.

Non male per un regista al debutto sul grande schermo. La sua ammirazione per la pittura di inizio Ottocento emerge tutta nelle riprese paesaggistiche che prendono a piene mani dai capolavori di William Turner o Caspar David Friedrich. I paesaggi simbolici di quello specifico genere pittorico diventano nel film un luogo chiave per spingere la protagonista verso il sublime, rappresentato qui da un bisogno d’amore che degenera in una spirale di violenza fisica e psicologica non facile da sostenere agli occhi di uno spettatore impreparato. Non c’è punizione o redenzione per una protagonista di tal fatta: la sfrontatezza data dalla giovane età e la sicurezza che solo il desiderio di onnipotenza possono dare, le consentono di tornare a sedersi sul divano di una casa ormai vuota come se niente fosse successo, salvo poi lasciarsi cullare dall’idea di essere diventata, a tutti gli effetti, un personaggio indimenticabile.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Le “Istantanee” di Claudio Magris: raccolta di suggestioni

Uno scrittore è – soprattutto e prima di tutto – un osservatore. Nel suo ultimo libro Istantanee (La nave di Teseo, 2016), Claudio Magris osserva l’umanità che lo circonda e, al contempo, se stesso, offrendoci un potente collage fotografico-letterario che tocca le tematiche più svariate. Nell’incipit cita – per esplicare la scelta del titolo – il Grande dizionario della lingua italiana: un’istantanea viene «eseguita con un tempo di esposizione molto breve senza l’impiego di un sostegno». Magris presenta infatti circa una cinquantina di scatti “letterari”, brevi, intensi stralci delle esistenze altrui nonché della sua.

claudio_magris_istantanee_cover_la-chiave-di-sophiaGli scorci raccolti fanno parte di un arco temporale che va dal 1999 al 2016, ma a volte scavano ancora più in profondità, nella memoria storica collettiva: è il caso dell’istantanea “Il Muro durerà ancora anni…”, dove egli ricorda una giornata passata in Francia, ad un convegno dedicato all’Europa dell’Est, all’inizio del novembre 1989. In quel mentre una epocale protesta sta prendendo vita a Berlino Est, ma lì si discute pacatamente; è presente anche un regista berlinese. L’uomo è in fibrillazione, e prima di ripartire per unirsi alle contestazioni, afferma di essere convinto di una sola cosa: «il Muro durerà purtroppo ancora per anni». Eppure, solo un paio di giorni dopo esso «era ridotto a qualche rovina scalcinata, un’anticaglia del passato». Magris mette l’accento sulla nostra cecità conservatrice: «Scambiamo la facciata del reale per l’unica realtà possibile, definitiva». In questo prezioso scatto, attraverso parole memori di una rivoluzione passata, il proverbiale velo di Maya viene squarciato un po’.

Leggiamo anche d’amore e dei diversi modi di concepirlo: si sottolinea la differenza tra “stare con” e “andare con” qualcuno. Il primo è programmatico e pone obblighi a prescindere, il secondo è invece «un eros schietto e onesto» che non fa promesse, viene vissuto liberamente e per questo può dare e durare molto di più.

In “Scene mute di un matrimonio” troviamo invece una coppia in un’osteria carsolina: entrambi sono presi dai loro rispettivi smartphone. Le persone attorno, con voyeuristico godimento, constatano quanto due persone che hanno una relazione di lunga data possano non avere più nulla da dirsi. Magris però non è un censore, bensì un osservatore discreto, attento: nota che gli sguardi dei due ogni tanto si incrociano, in «un istante di tranquilla, misteriosa tenerezza», e che la donna tocca il braccio dell’uomo. Per quale motivo, si domanda lo scrittore, «stare insieme in silenzio dovrebbe essere sempre segno di aridità e lontananza?». Ci invita a rispettare quello che degli altri non sappiamo, poiché: «Amare significa anche comprendere e proteggere quella solitudine di cui l’altro ha bisogno», la necessità di «stare unicamente con i propri pensieri e con il loro randagio vagabondare e perdersi».

Sono presenti anche riflessioni sulla soggettività e sull’identità: in “Ritratto di gruppo con giurista addormentato” siamo trasportati in una soporifera riunione accademica, durante la quale un illustre giurista si addormenta. Magris vede «il suo viso allentarsi, come se le singole parti si lasciassero andare, ognuna per conto proprio, e quello non fosse più un viso, ma un insieme casuale di bocca, naso, guance, palpebre». Quel volto «sembra perdere la sua individualità, i suoi tratti irripetibili, e diventare il viso di ognuno, di tutti e di nessuno, generico e inespressivo». Il sonno ha momentaneamente derubato il giurista della sua identità, ha scolorito il suo io: il manto di Morfeo ci livella tutti. Eppure, dormire è necessario: Magris ci suggerisce fra le righe che abbiamo bisogno di sprofondare in un abisso di indistinzione, smettendo per un po’ i nostri panni, forse per sopportare meglio gli ostacoli della vita.

C’è anche il tema del riconoscimento – in questo caso grottesco: nell’ultima istantanea, “Selfie”, un uomo è inferocito perché un’auto si è parcheggiata abusivamente davanti al suo garage bloccandogli l’uscita. In essa c’è una bambina che attende la madre, animaletto impaurito di fronte alle irose invettive dell’uomo, che d’un tratto si vede riflesso nel finestrino: «non mi sono mai visto così brutto e sgradevole». È Magris stesso, quell’uomo, abbrutito dalla situazione.

Istantanee è un’opera antropologica: l’essere umano viene osservato e rappresentato, ma senza che l’autore si cristallizzi mai in alcuna delle sue interpretazioni. Magris legge segni – verbali, mimici – e azioni con una buona dose di autocritica e con una risata liberatoria – che si può sentire sfogliando le pagine – che dice semplicemente: “Siamo fatti così”. Leggiamo la sua mostra fotografica, a tratti tenera, a tratti selvaggia, che ci permette di respirare il mondo attraverso la sua persona, conducendoci ad una riflessione continua, destinata forse a rimanere incompiuta. Scopriamo di sentirci a volte comodi e al sicuro fra le pieghe dei suoi pensieri, ma poi incappiamo in verità scomode e imbarazzanti – come il fastidio provato quando in autostrada si crea una coda a causa di un ferito, o quando un conferenziere viene interrotto da qualcuno in preda a un malore forse mortale.

È un libro corale e al contempo diaristico, che ci sussurra l’incanto, la regalità, ma anche l’invidia, la bruttura, la pochezza dell’essere umano, e lo fa tramite la scrittura, che – come la definisce Magris – è un donarsi agli altri aprendo un dialogo, ed è in esso, «nell’uscire da se stessi e nell’incontrare l’altro, che consiste il senso dell’esistenza».

Francesca Plesnizer

Francesca Plesnizer, classe 1987. Sono nata e vivo a Gorizia, ho conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Trieste nel 2015. In passato ho scritto per due quotidiani locali – “Il Piccolo” e “Il Messaggero Veneto di Gorizia” – e da alcuni mesi collaboro con due riviste: “Charta sporca”, periodico culturale per il quale scrivo recensioni cinematografiche e articoli su tematiche filosofiche, e “Friuli Sera”, per il quale analizzo e interpreto – per una rubrica dedicata – opere di Street Poetry e Street Art. La scrittura è il mio più grande amore (scrivo anche racconti, poesie, saggi), ma adoro anche passare il tempo a leggere e a guardare film. Un’altra mia passione è l’insegnamento, specie della filosofia.

[Immagini tratte da Google Immagini]

“Orecchie”: la riscossa del cinema italiano

In una stagione cinematografica a dir poco altalenante, il cinema italiano ha dato finora ben pochi segnali di vita sia a livello artistico che economico. Con l’arrivo del mese di maggio però la situazione sembra destinata a cambiare: sono diversi, infatti, i titoli degni di nota presenti in sala in queste settimane che rischiano però di passare inosservati senza un buon passaparola che li promuova. Basti pensare al caso dell’eccellente documentario di Michele Rho, Mexico! Un cinema alla riscossa, uscito in appena sette cinema in tutta Italia. Una sorte che purtroppo rischia di ripetersi anche per Orecchie, il nuovo film di Alessandro Aronadio, presentato in anteprima, lo scorso settembre, alla settantatreesima Mostra del cinema di Venezia.

Prodotto da Biennale College, Orecchie è uno dei lavori più originali di quest’annata cinematografica. Un road-movie pedestre, fortemente caratterizzato da un’intelligente vena comica e da situazioni a dir poco paradossali. Tutto ha inizio una mattina con il suono di un fastidioso fischio alle orecchie percepito da Lui, un uomo sull’orlo di una crisi esistenziale, costretto a intraprendere un indimenticabile viaggio a piedi attraverso le strade di Roma per scoprire l’identità di Luigi, suo fantomatico amico, venuto a mancare poche ore prima. Partendo da una sceneggiatura impeccabile, dove i tempi comici e narrativi sono calcolati alla perfezione, Aronadio costruisce la sua odissea capitolina valorizzando le impareggiabili eccentricità di un’umanità tanto singolare quanto grottesca. Enfatizzando le nevrosi che caratterizzano buona parte del nostro tempo, Orecchie racconta con leggera intelligenza quel senso di inadeguatezza che tutti noi abbiamo provato almeno una volta nella vita. Il disagio provocato dal sentirsi inadatti traspare tutto negli occhi espressivi e stralunati di Daniele Parisi, straordinario interprete intorno a cui ruotano una serie di indimenticabili personaggi secondari, su cui svettano Rocco Papaleo (in versione sacerdote fuori dagli schemi) e Piera Degli Esposti, nel ruolo di una direttrice sagace e senza scrupoli.

Pur nella sua semplicità, Orecchie colpisce nel segno perché è un prodotto che mancava da tempo al nostro cinema. Grazie ad alcune trovate stilistiche piuttosto raffinate, come l’utilizzo dell’immagine ristretta dello schermo che si allarga di pari passo con il procedere della storia, fino al tema del surrealismo come chiave interpretativa del nostro presente, Aronadio regala al pubblico un film delicato e prezioso, in cui si ride di gusto ma allo stesso tempo si riflette su sé stessi e sulle proprie paranoie. Il fischio alle orecchie diventa così metafora di un malessere contemporaneo che si può curare solo lavorando su noi stessi e sull’accettazione di un presente dominato sempre più dall’assurdo. “Secondo lei c’è ancora speranza per il mondo?” E’ la domanda che apre il film. La risposta, categorica, è un secco “No”. Alla fine della proiezione di Orecchie, invece, provate a chiedervi: “C’è ancora speranza per il cinema italiano?” La risposta potrebbe lasciarvi piacevolmente sorpresi.

Alvise Wollner

[Immagine tratta da Google immagini]

 

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