Una citazione per voi: Hegel e la razionalità del reale

 

• CIÒ CHE È RAZIONALE È REALE, E CIÒ CHE È REALE È RAZIONALE •

 

È una delle affermazioni più riportate e citate del filosofo George Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), massimo esponente dell’idealismo tedesco del XIX secolo.

Tale asserzione, principio fondamentale del pensiero hegeliano, è posta dall’autore tedesco nella Prefazione all’opera Lineamenti di filosofia del diritto (1820), che costituisce una sorta di summa del pensiero etico-politico dello stesso Hegel.

Questa celebre, quanto arcana, affermazione rimanda alla convinzione hegeliana che tutto ciò che è (il reale) è ragione realizzata (razionalità per l’appunto). Ciò che è avvenuto e quanto accade è giusto che sia avvenuto e che, in qualche modo, accada. Per comprendere meglio il significato di tale espressione può essere utile servirci di un esempio storico coevo allo stesso Hegel. L’iniziale trionfo di Napoleone in Europa e il suo dominio su diversi popoli e territori stanno a significare che tale era il disegno dello spirito del mondo (Weltgeist) nel suo svolgersi progressivo: quanto accaduto è avvenuto in quanto razionale. Tale è il piano di sviluppo storico. Diversamente, ciò che nella storia non si realizza è dovuto al fatto che è privo di razionalità.

Consapevole delle controversie alle quali può dar adito una simile affermazione, Hegel ne precisa il contenuto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1830). Qui, l’autore specifica che per realtà (Realität) non è da intendersi il mero accadere, bensì quei grandi e significativi eventi che hanno segnato in maniera indelebile il passo della storia. Per questo il filosofo tedesco invita a distinguere fra eventi effettuali (Wirklichkeit) – per esempio fatti privati e insignificanti per la storia – da eventi forti e intrisi di ragione capaci di modificare il corso della storia, come per esempio gli eventi legati alla figura di Napoleone.

Con la consapevolezza di non poter compendiare un’asserzione densa di significati e implicazioni logiche e filosofiche particolarmente complesse in così poco spazio, è possibile sostenere, sinteticamente, che l’intento hegeliano è quello di evidenziare l’identità fra ragione (o pensiero) e realtà. Ciò che è razionale non è affatto un concetto astratto ma si attua nella realtà concreta e in essa è riscontrabile. Al contempo, l’esistente è espressione della ragione: nella realtà ogni evento segue un ordine razionale e rispecchia una struttura di pensiero. Quanto avviene è razionale, naturale e giusto. Da questo consegue la missione della filosofia, paragonata metaforicamente da Hegel alla civetta di Minerva che si leva sul far del crepuscolo, al tramonto di una stagione, ad eventi accaduti, per giustificarne la razionalità. Tale è l’esito, certamente discutibile e pertanto ancor oggi fonte di considerazione e stimolo di riflessione, della celebre asserzione hegeliana.

 

Alessandro Tonon

 

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Rileggere Platone ai tempi del Covid-19: il mito del carro alato

La nostra vita quotidiana ci pare una fantasiosa trama da film post-apocalittico: strade deserte, tutti chiusi in casa, persone che lottano per sopravvivere, governi che a colpi di decreti cercano di contenere il contagio di un virus nuovo, sconosciuto. La paura serpeggia: paura della vicinanza, perché sappiamo che per proteggerci vicendevolmente dobbiamo stare a distanza, non abbracciare chi amiamo, non andare a trovare i nostri genitori, parenti e amici. Ci preoccupa il nostro futuro, che pare nebuloso, lontano, e quando una sua vaga sembianza ci si avvicina, vediamo in esso crisi economiche, abitudini sociali mutate, scenari tutt’altro che rassicuranti.
Vivere a questo modo, sarebbe superfluo dirlo, logora, abbatte, annienta. Non possiamo permettere che la paura che sentiamo nelle nostre pance, nei nostri petti e nelle nostre menti sature di informazioni, abbia il sopravvento.

Che fare? Personalmente, ciò che ogni giorno mi sta salvando (oltre alla cura e all’amore dei miei cari, vicini o lontani che siano, ma sempre presenti in me) è la cultura. In ogni sua forma. Il cinema, potente e liberatorio anche se visto dallo schermo della televisione o del tablet; la letteratura, classica o contemporanea; i fumetti, che riescono a portarmi via, in un altrove pieno di cose da scoprire; la musica, a volte commovente e malinconica (del resto, la tristezza va anche esperita, mai negata), altre volte divertente e spensierata.

Ma io sono un’insegnante di filosofia e storia, e in queste settimane c’è una lezione, che occupa la mia mente e non se ne va. Una lezione che ho fatto a una delle mie classi prima dell’evento Coronavirus, quando ero fisicamente con loro, in classe, vedevo i loro sguardi e rispondevo alle loro domande, senza alcuna distanza fisica, è la lezione platonica contenuta nel mito del carro alato che troviamo nel Fedro. La riassumo brevemente, per chi non se la ricordasse o non la conoscesse: c’è un carro guidato da un auriga, che si trova in grossa difficoltà poiché dovrebbe condurre il carro verso la retta via (che per Platone è il mondo trascendente, il perfetto e immutabile Iperuranio), ma non ci riesce. A rendere arduo il suo compito è uno dei due cavalli che trainano il mezzo. Come in tutte le storie, c’è un cavallo buono, bianco e gradevole alla vista, facile da portare; e poi c’è il suo antagonista: un cavallo dal manto nero, massiccio e un po’ storto, terribilmente recalcitrante, praticamente impossibile da domare. Per comprendere questo mito e il suo significato, è necessario spiegare chi è chi: il carro è l’uomo, l’auriga è la ragione, il destriero scuro e cattivo è l’anima concupiscibile, ossia gli istinti, le emozioni straripanti e fuorvianti, e, infine, il cavallo bianco è l’anima irascibile, che per Platone rappresenta coraggio ed eroismo. Il mito vuole rappresentare l’eterna e instancabile lotta che l’essere umano è chiamato a combattere, che tutti noi, in questi giorni bui, siamo costretti a combattere: la lotta tra quelle emozioni cupe e bestiali a cui diamo il nome di angoscia, terrore, ansia, e tra il coraggio della ragione. Noi non siamo solo quel carro alato, siamo anche quell’auriga in palese difficoltà, siamo noi che dobbiamo condurci verso la retta via. Che non è l’Iperuranio platonico. La retta via è la strada per la serenità di corpo e anima, la strada della nostra ragione, che non dobbiamo mai perdere di vista. Solo lei può aiutarci, portarci in alto dove c’è più luce, più speranza, dove possiamo intraprendere tutti un percorso che porta alla conoscenza – intesa, direi, come il lume dell’età illuminista.

Penso tanto a tutto questo, alla bellezza del mestiere che svolgo, alla potenza che non solo la filosofia, ma la cultura tutta, ha. Perché ci eleva, ci solleva, ci salva, riportandoci alla ragione e permettendoci di domare quel cavallo nero, denso di emozioni negative, che tuttavia fa parte di noi.

 

Francesca Plesnizer

 

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Libertà, razionalità e Morale: è possibile la loro coesistenza?

Veniamo subito al sodo: filosofia, società e cultura occidentali hanno tentato – e tutt’ora continuano a farlo – di esprimere un Mondo nel quale questi tre pilastri della nostra tradizione (Libertà, razionalità e Morale appunto) possano convivere in armonia.
Per come siamo stati abituati a pensarla, ci sembra una scelta quasi obbligata e del tutto legittima. Se la seconda può essere in prima battuta accettata, la necessità di questo sforzo può essere messa in discussione. Ed un semplice esempio sono alcuni tipi di filosofie e religioni orientali, nelle quali l’una o l’altra vengono soppresse in favore di una piena e completa realizzazione delle altre o di una singola altra.

La prima obiezione a questo ragionamento è quasi scontata: Nietzsche. Il filosofo del nichilismo. Il pensatore di Röcken, infatti, ha fatto di tutto per mettere in luce la genesi storica della Morale e la conseguente perdita di valore di qualsiasi (perdonate il gioco di parole) valore della tradizione. Ed è a tutti gli effetti un filosofo occidentale. A questo punto, però, la questione che si apre lascia ampio spazio al dibattito: Nietzsche rigetta la morale in quanto morale o la morale in quanto frutto di una tradizione (o della Tradizione)? Inoltre, scendendo di un gradino nella scala del suo impegnativo ma fondamentale lascito: la negazione di ogni verità non è essa stessa un’affermazione di (una) verità?

Per ora prendiamo un attimo le distanze dal teorizzatore della Volontà di Potenza e ritorniamo alla domanda principale. Per comprenderne meglio il suo significato e le sue implicazioni ritengo utile partire da una concretizzazione del problema. E per aumentare ancora di più la tensione utilizzo un esempio molto “sentito” al momento: il grande fenomeno migratorio che sta interessando l’Italia.
La questione è problematica fin dalla prima occhiata. La scelta che si pone a chi legifera – ma anche a chi vuole esprimere solamente una propria opinione – è la seguente: può la mia decisione (intendiamoci, qualunque essa sia) essere contemporaneamente giusta, logica e libera?
Proviamo a dare tre iniziali risposte (non le uniche possibili):

  • mettiamo caso che si opti per chiudere i confini, impedendo l’accesso a qualsiasi richiedente asilo (lasciamo stare quali siano le motivazioni che spingono a farlo). Questa scelta potrebbe essere stata intesa come logica e libera da parte di chi la compie. Ma se non mente a se stesso, non può non ammettere che sia ingiusta, almeno nei confronti di chi meriterebbe una possibilità di vivere dopo l’inferno che abbia effettivamente vissuto nel suo Paese.
  • La seconda ipotetica scelta è quella di valutare l’impatto della propria decisione in vista di una futura votazione e di optare quindi per accontentare il maggior numero, con la speranza di vedere incrementata la propria possibilità di vittoria. Ciò potrebbe essere visto come logico e giusto, ma non sarebbe libero in quanto guidato dalla volontà altrui e non dalla propria. E potremmo sollevare dubbi anche sulla sua effettiva etica.
  • Infine, un possibile scenario è quello di decidere in base alla propria testa, scegliendo quindi in libertà e secondo (propria) morale. Lo sfavore, però, andrebbe alla razionalità, per la quale una scelta di tale proporzioni non può avere una base soggettiva.

Sembra una situazione senza via d’uscita. Iniziando a riflettere, la nostra vita è costellata di scelte di questo genere. Anzi, mi verrebbe da dire che ogni scelta ha queste implicazioni.
A ben vedere, inoltre, questo è il problema fondamentale della Democrazia: sopravvivere cercando di permettere la convivenza delle tre. Il Contemporaneo sembra ne stia sancendo la definitiva sconfitta.
Spesso la soluzione più semplice è quella di sacrificarne una (o addirittura due) in favore delle/a altre/a. La maggior parte delle volte che si compie quest’annullamento lo si fa secondo utilità: maggior risultato con il minimo sforzo o massimizzazione degli utili. Queste due regole sono la base della razionalità economica, che ormai permea ogni ambito della Società.
Ironico come la Democrazia abbia permesso liberamente la negazione di ciò che aveva promesso di salvaguardare, no?

Proviamo ora a tentare di risolvere la questione, consapevoli di non avere in mano nessuna chiave per riuscire ad uscire da questa cella. Perché quella prigione è la realtà che permea ogni singola sfaccettatura del nostro vivere sociale e privato. È un sistema di equazioni a tre variabili che – ora come ora – dà come risultato un insieme vuoto, ovvero esprime una impossibilità.
Un inizio può essere quello di riflettere sul perché questo sistema dia quel risultato. La risposta che mi è venuta in mente si basa sulle condizione di esistenza. Ci siamo dimenticati il dominio, il campo di esistenza all’interno del quale queste equazioni si possano dare, possano essere realtà.

Tradotto in termini linguistici dobbiamo domandarci se sia giusto eliminare la morale per poter far sopravvivere Libertà e Razionalità.
A prima vista abbiamo una contraddizione in questa frase: come posso togliere la morale se la mia domanda inizia con un giudizio di tipo morale? Ma è proprio in questo che si basa la forza di questa riflessione: riconoscere la contraddizione apparente come necessaria per la descrizione della realtà. Appena compresa questa sua caratteristica, la sua funzione annullante perde lo scettro in favore di una dimostrativa. Elimino la Morale dall’equazione come variabile perché la inserisco nel campo di esistenza.
Il passo successivo è di svolgere la stessa operazione con le altre variabili per produrre le seguenti domande: sono libero di eliminare la Libertà in favore della Morale e della Razionalità? Oppure: è logico eliminare la Razionalità per fondare la Morale e la Libertà?
Il gioco nelle tre è sempre lo stesso. Il risultato? Incerto.

 

Massimiliano Mattiuzzo

[Immagine di Martin Reisch]

 

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Il sonno della ragione genera mostri

Incisione quanto mai attuale, quella di Francisco Goya, nel suo significato. Per rendersene conto basta riflettere su ciò che accade regolarmente nei nostri tempi, che esemplificherò tramite tre fatti − due di cronaca ed uno giudiziario − da poco successi.

Il primo è il caso di un uomo disabile annegato in un laghetto vicino alla cittadina di Cocoa, non distante da Orlando in Florida, il 9 luglio scorso. Il tutto è avvenuto sotto la luce di un gruppo di adolescenti, che lo filma ridendo ed aspettando che le sue disperate forze di sopravvivere terminino e scompaia sotto la superficie. In quello Stato non esiste il reato di omissione di soccorso: «“Ci abbiamo provato a cercare un modo per punirli, ma non esiste una legge nel nostro Stato che loro abbiano violato” ha spiegato Yvonne Martinez, portavoce della polizia. Jamel Dunn, la vittima di 31 anni padre e marito, ha gridato e chiesto aiuto […] Potevano chiamare il 911, sono invece rimasti a ridere tutto il tempo. Durante l’interrogatorio”, ha aggiunto Martinez, “in loro non c’era nessun rimorso, solo una risatina ironica”»1.
Queste parole fanno venire i brividi. Com’è possibile? Come si può non solo rimanere insensibili ma addirittura divertirsi alla vista di un uomo che affoga?

I prossimi due riguardano invece il nostro Paese.

Infatti, «Scadrà tra pochi giorni l’interdizione dai pubblici uffici scattata con le pene inflitte cinque anni fa ad alcuni poliziotti condannati dopo i fatti della scuola Diaz di Genova e la vicenda dell’introduzione nell’edificio delle false molotov durante il G8 del 2001. Alcuni sono già in età  pensionabile, mentre altri potranno essere reintegrati. Tra questi l’ex capo dello Sco Gilberto Caldarozzi, l’ex dirigente della Digos genovese Spartaco Mortola e il funzionario di polizia Pietro Troiani mentre Massimo Nucera, il poliziotto che raccontò di aver ricevuto una coltellata, è già  stato reintegrato»2.
Questi fatti si commentano da soli. Come si fa ad avere fiducia nelle istituzioni se è permesso che chi si è macchiato di questi reati − per non parlare di tutte le incredibili assoluzioni − possa tornare per strada?

Infine, leggendo il sito del Corriere della Sera, si scopre che una coppia omosessuale napoletana aveva prenotato on-line in un Bed&Breakfast calabrese ed inizialmente avevano concluso la prenotazione. In seguito avevano contattato tramite WhatsApp il proprietario per delle informazioni e ad un certo punto la risposta del titolare raggela chi la legge: “Non accettiamo gay e animali. Mi perdoni ancora”.
Delle tre quella che mi ha colpito più di tutte è stata forse quest’ultima, per un motivo ben preciso. Al tempo del Nazismo, in Germania, si era soliti leggere all’entrata dei negozi “vietato l’ingresso ai cani e agli ebrei”. La somiglianza fa riflettere.

Nel contemporaneo gli spunti di riflessione che abbiamo a disposizione sono praticamente infiniti: media, blog, social network, convegni, conferenze, dibattiti, mostre, musei e chi più ne ha più ne metta; eppure, sembra che alla costante crescita di disponibilità si accompagni un sempre maggiore disinteresse delle potenzialità. Ci concentriamo solo sull’aspetto superficiale dei social, condividiamo principalmente le notizie divertenti o curiose, snobbiamo la cultura e la releghiamo all’interno delle università, dei musei o di materie cui gli studenti rivolgono sempre meno interesse e ci nascondiamo quando durante un dibattito viene chiesta la nostra opinione.
È come se rifiutassimo l’idea che la nostra ragione sia un vaso da riempire con conoscenze, esperienze ed interessi. Rifiuto categoricamente il pensiero che il raziocinio sia una caratteristica innata, che abbiamo a disposizione come già data e immobile.
Piuttosto, essa è una capacità la cui base è presente dentro di noi ma che, come ogni capacità, per esprimersi, ha bisogno di un allenamento costante e di un impegno faticoso. Faticoso sì, perché pensare non è facile: mettere in discussione se stessi, le proprie opinioni e sicurezze è un lavoro duro e che necessita di tempo per dare i suoi frutti.
Ma nonostante le sue difficoltà è la caratteristica che più ci rende umani secondo Aristotele e − possiamo aggiungere − anche più felici.
La sua mancata espressione porta − a mio modo di vedere − alla nascita di umani che tanto umani non sono.
Come possiamo chiamare umani quei ragazzi che lasciano affogare un − questo sì − uomo? Come possiamo chiamare umani individui che per liberare la loro violenza massacrarono dozzine di − loro sì − uomini, donne, vecchi e ragazzi totalmente disarmati e innocenti alla Diaz? Come possiamo chiamare umana una persona che associa una coppia di − loro sì − uomini ai cani e nega loro l’entrata come all’epoca del Nazismo? E noi − uomini veri − vogliamo continuare a subire la non-umanità di altri e a trasformarci in essi o vogliamo coltivare la razionalità, vivere la cultura e sperimentare la morale?

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

NOTE:
1. Il Messaggero.it, 22 luglio 2017
2. Il Mattino.it, 19 luglio 2017

[Immagine tratta da google immagini]

 

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Giacomo Rizzolatti: intervista alla mente dei Neuroni Specchio

Quello che distingueva l’essere umano da tutte le altre specie viventi (e soprattutto da quelle animali), era la grande abilità cognitiva. Un cervello più grande degli altri, più sviluppato. Ma non siamo stati neurologi per secoli interi, comunque abbiamo potuto vedere la nostra superiorità da semplici dati di fatto: contare, ragionare, progettare, realizzare, inventare. Tutte azioni precluse al resto dei viventi.

Oggi tutto questo idillio di razza superiore è finito.

Non siamo più primi, forse nemmeno secondi. Siamo guardati dall’alto al basso dalle macchine, dagli algoritmi, dalla tecnologia. Contare, ragionare, progettare, realizzare, inventare. Tutte azioni che una macchina sa fare meglio di noi, molto meglio. E più velocemente.

Eppure siamo ancora aggrappati a un filo, a una caratteristica che ci posiziona (per ora) ancora al di sopra delle macchine e dei robot. I sentimenti. L’empatia. Le emozioni.

Dobbiamo smetterla con questa corsa alla bravura: ci sarà comunque una macchina più brava e veloce di noi. Possiamo però fare la differenza con una relazione nuova, di valore, profonda sentimentalmente.

Allora chiediamolo alla neurologia, alle neuroscienze, cosa dobbiamo fare. Su cosa possiamo fare la differenza.

I neuroni specchio sono una risposta. A tratti sono “La Risposta”. E sono stati scoperti in casa nostra, grazie all’eccellenza italiana, dal professor Giacomo Rizzolatti a cui abbiamo fatto questa intervista.

 

Se dovesse spiegare a un ragazzino cosa siano i neuroni specchio, senza banalizzare questa straordinaria scoperta, ma facendola comprendere ai non addetti ai lavori, come li descriverebbe?

Ci sono dei neuroni, sia nella scimmia che nell’uomo, posti nella corteccia motoria, che rispondono sorprendentemente non solo al movimento, infatti la corteccia motoria è connessa al movimento, ma anche alla visione di azioni fatte da un’altra persona. Una nota importante è che la stessa azione che quel neurone fa fare alla scimmia ad esempio, è quello che eccita il neurone quando la scimmia vede farlo da una persona.

Dato che ha collaborato e discusso anche con filosofi sulle tematiche dei neuroni specchio, in che modo pensa che la filosofia possa aiutare la ricerca e le riflessioni nelle neuroscienze e negli ambiti scientifici?

Il mio team era fatto tutto da medici e un biologo (quello che ha scoperto i neuroni specchio), successivamente i neuroni specchio hanno suscitato molto interesse nell’ambito della filosofia, in particolare di quella fenomenologica. Giordano Giorello un giorno mi ha invitato a tenere un seminario a Milano e lì ho conosciuto Corrado Sinigaglia, il quale ha avuto un training specifico proprio in fenomenologia, in quanto ha fatto un lungo periodo a Lovanio a studiare gli archivi Husserl.
A questo punto abbiamo deciso di scrivere questo libro che ha avuto molto successo. Prima di questo contatto milanese sono stato invitato alla Sorbona per discutere ancora con filosofi fenomenologi, riguardo la nostra scoperta.

La capacità del filosofo è quella di andare a fondo delle definizioni, di trovare delle definizioni anche quelle degli scienziati, che pure sono attenti, per vedere se ci sono degli errori logici, delle contraddizioni con altre cose. Poi, nel caso di Sinigaglia, con cui collaboro già da diversi anni, lui ha imparato molto in neuroscienze, quindi è in grado di discutere con competenza e questo è molto importante perché i filosofi spesso – i grandi filosofi – hanno anche conoscenze in qualcos’altro come fisica, matematica, biologia, per cui quando fanno filosofia hanno anche una parte scientifica.

Con tutto questo interesse per il cervello, è esplosa una “neuromania” che ha coinvolto anche chi – a differenza sua – non dovrebbe essere stato interessato così tanto alla scienza e alle dinamiche del cervello. In che modo le neuroscienze possono dare un valore aggiunto anche alle altre discipline, come ad esempio alla psicologia?

La psicologia in generale descrive i fenomeni, se questi fenomeni poi possono essere descritti in modo più approfondito immettendoci i meccanismi, non toglie niente alla descrizione psicologica. Per esempio sull’attenzione ci sono dei lavori di Michael Posner, che ha inventato un paradigma che dimostra che l’attenzione c’è, è un fatto vero e non è solo una speculazione. Bene, molte cose che abbiamo fatto noi ed altri, mostrano quali sono i meccanismi alla base dell’attenzione. Quindi dirigiamo lo sguardo su cose interessanti o meno. Io direi dunque che c’è un arricchimento. Certo, poi ci sono delle esagerazioni, se uno pensa che può spiegare le religioni guardando il cervello, allora è semplicemente uno stupido.

Se i neuroni specchio sono neuroni sensorimotori che si attivano osservando un’azione senza compierla e senza aver avuto intenzione di farlo, quando vediamo un’azione che rientra nel nostro bagaglio di potenzialità attuabili, significa dunque che il nostro cervello ne sta facendo esperienza? Se vedo un padre che dà uno schiaffo ad un figlio, è come se il mio cervello abbia fatto esperienza dell’azione violenta? O forse del gesto subìto?

Qui è vera l’interpretazione. Nel caso specifico che ha citato c’è anche una componente emozionale, comunque quando io vedo un atto come quello che dice lei, capisco l’azione mediante un certo circuito dei neuroni specchio e capisco anche l’aspetto emozionale che ci sta dietro, cioè la violenza fatta sul bambino e li comprendo entrambi automaticamente. Poi quello che faccio dipende dalla mia cultura, la mia volontà, i miei rapporti con questa coppia, ci sono molti fattori. Se vedo che è un papà buono, che semplicemente dà uno schiaffetto al bambino, non agisco; ma se vedo che è un criminale che dà un schiaffo ad una signora, allora se sono una persona per bene intervengo.

Si sente spesso collegare il concetto di empatia con quello di neuroni specchio: è possibile che la ricerca futura possa direzionarsi verso scoperte utili all’essere all’uomo nel mondo delle relazioni con il prossimo? Si può intervenire o educare il cervello abituandolo con la sola vista e contaminandolo quindi con caratteristiche e situazioni vitali e positive?

Innanzitutto l’empatia, come la usiamo noi scienziati o perlomeno nel mio gruppo, è semplicemente la capacità di capire mediante un meccanismo fenomenologico, quindi automaticamente, senza ragionamenti, l’azione ed emozione altrui. Quindi l’empatia è un meccanismo di comprensione. Poi come si possa gestire, io non l’ho studiato, ma penso che sicuramente ci siano dei meccanismi di controllo. Ad esempio un chirurgo quando opera vede sangue, ma non gli suscita l’emozione che porterebbe ad una persona non abituata. Di conseguenza ci sono certamente dei meccanismi di controllo, ma ancora non è conosciuto come questi meccanismi si possono sviluppare: sentire di meno le emozioni oppure per potenziare la capacità empatica. Alcuni hanno provato dei farmaci come l’ossitocina, che sugli animali effettivamente migliora il rapporto tra esseri. Nonostante ciò, siamo ancora lontani da una soluzione e l’utilizzo di farmaci rimane pericoloso.

In che modo il mondo virtuale può sfruttare il meccanismo dei neuroni specchio e aumentare le potenzialità di un essere umano?

Se per realtà aumentata intende internet, è molto preoccupante. Internet è splendido come fonte di conoscenza: se non ricordo quando è nato il ministro Richelieu in pochi istanti posso sapere tutto su di lui; ma per quanto riguarda i rapporti interpersonali, è un grosso problema. Non c’è più quel rapporto corporeo e immediato che ci dicono le neuroscienze essere fondamentale. Una volta, 30 anni fa, quando si pensava che fossimo semplicemente elaboratori e computer, non c’era un’attenzione a questi dettagli. Invece oggi sappiamo che il rapporto corporeo, umano, tra persone è fondamentale per lo sviluppo della personalità.

Ad esempio, una persona, un genitore, che invece di parlare col bambino parla al telefono, trascura il bambino e anche lei si inaridisce. Quindi c’è un notevole rischio che questa realtà estesa diventi un pericolo per i rapporti sociali, per creare rapporti sani, tra individui o tra genitori e figli.

Giacomo Dall’Ava

[Immagine tratta da Google Immagini]

La contraddizione come condizione dell’esistenza

<p>La Trahison des images (Ceci n'est pas une pipe). 1929. Oil on canvas, Overall: 25 3/8 x 37 in. (64.45 x 93.98 cm). Unframed canvas: 23 11/16 x 31 7/7 inches, 1 1/2 inches deep, 39 5/8 inches diagonal. Purchased with funds provided by the Mr. and Mrs. William Preston Harrison Collection (78.7).</p>

Sembra quasi un ossimoro, un’affermazione paradossale.
E proprio un paradosso può essere l’inizio della nostra indagine. È uno dei più famosi nella storia dell’uomo: il paradosso del mentitore, articolato tramite una proposizione auto-negante del tipo “questa frase è falsa”. Nessuno potrà dimostrare se essa sia vera o falsa dato che se fosse vera allora non sarebbe falsa; mentre se fosse falsa si capovolgerebbe in “questa frase è vera”, quando si è appena affermato il contrario.

Contraddizione. Questo concetto attraversa tutta la storia della filosofia occidentale. Ai suoi albori, Aristotele formulò il famoso principio di non contraddizione, che è diventato la base più solida della nostra logica e del nostro linguaggio, una città amica dove sappiamo di poterci sempre rifugiare insieme ad un alleato pronto a sostenerci. E con un alleato come il “principium firmissimum” – come è stato più volte chiamato – la vittoria sembra certa.
Ma come dovremmo comportarci di fronte ad una situazione paradossale? Una soluzione può esserci suggerita attraverso il principio del terzo escluso, ovvero che non è possibile una terza via tra due proposizioni tra loro contraddittorie: “tertium non datur”. È necessario però fare una precisazione: questo principio non scandisce che non può esserci una terza possibilità tra vero e falso – che sono contrari –, il che aprirebbe la strada all’indeterminato, come spesso è stato interpretato, ma tra vero e non-vero (o falso e non-falso), che sono appunto contradditori. Sembra quindi che all’interno del non-vero possa essere posto sì il falso ma, ad esempio, anche l’indeterminato.
Un’altra soluzione può essere quella – condivisa anche da Aristotele – che tramite i paradossi non si stia dicendo propriamente nulla, e quindi la (non-)proposizione va tralasciata senza nessun problema.

Facciamo ora un passo oltre ai paradossi e concentriamoci sulle contraddizioni vere e proprie, quali i paradossi non sono.
Il significato di una contraddizione è molto semplice: essa si presenta quando si considera una proposizione logica attualmente identica al suo opposto (ad esempio “in questo momento piove e non-piove”).
Possiamo quindi tranquillamente soprassedere alle contraddizioni logiche e ampliamo lo sguardo alla nostra vita.
È un dato di fatto che nel corso della nostra esistenza compieremo qualche scelta e/o azione irrazionale. L’uomo infatti è sì – per dirla con Aristotele – animale razionale, ma la nostra “umanità” non si esaurisce in questo.
L’azione di andare contro il buon senso può essere considerata una contraddizione? Ed il suicidio? Perseverare in una scelta pur sapendo che non ci condannerà ad altro che all’infelicità e a ripetute delusioni è una contraddizione?
A mio modo di vedere – e con qualche necessaria precisazione – la risposta può essere positiva e negativa insieme, ed ecco che si ripropone una contraddizione.
Se consideriamo l’uomo come entità calcolante, alla stregua di un computer, la risposta è certamente affermativa: queste azioni – potremmo dire – sarebbero espressione di un malfunzionamento.
La risposta è negativa (ma ora vedremo che in realtà sarà comunque positiva) se aggiungiamo all’uomo la sfera emotiva. Seguire le emozioni, gli istinti, le pulsioni: ecco cosa ci differenzia dalle macchine, ed ecco i grandi problemi con cui ha a che vedere la robotica e lo sviluppo delle intelligenze artificiali.
Ma possiamo ipotizzare vari gradi di irrazionalità? Può esserci un’irrazionalità sempre maggiore che al suo estremo sconfini comunque nella contraddizione? Può cioè essere l’irrazionalità essa stessa irrazionale non per definizione ma per comportamento? E non stiamo parlando di due negativi che moltiplicati fanno un positivo: una irrazionalità irrazionale non diventa ragionevole, bensì si riproduce ed amplifica, sconfinando – appunto – nella contraddizione.
E ciò – a mio modo di vedere – succede ogni giorno.
Accade quando sappiamo che dobbiamo andare al lavoro ma restiamo a letto.
Capita quando vogliamo esplodere di rabbia ma ci imponiamo di stare calmi.
Succede quando siamo consapevoli che amare qualcuno potrebbe destinarci al dolore ma lo facciamo comunque.
Ciò – in sostanza – si realizza quando, nel conflitto tra ragione e passioni, una delle due prevale sull’altra. Perché entrambe le possibilità sono me.
Entrambe potrebbero, singolarmente, esprimere la mia individualità. Entrambe, isolate, sono una parte che esaurisce il tutto. Ma l’uomo non è questo Tutto, esso va oltre, ha bisogno anche di quello che circonda la Totalità, che per definizione non esiste e che la logica non riesce nemmeno ad immaginare. Eppure è proprio questa sovrabbondanza di esistenza inesistente che ci permette di domandarci cosa c’è oltre l’Universo, cos’è veramente una singolarità avvolta da un buco nero e se il tempo possa essere aggirato.
È come se fossimo inconsapevolmente consapevoli di essere altro rispetto a quello che siamo.
È una contraddizione che spiega la vita.
È La Contraddizione: vivere senza sapere il perché ma sapendo che c’è.
Vivere perché si vive. Vivere perché sono vivo.

Massimiliano Mattiuzzo

[Immagine tratta da Google Immagini]

Come ragioniamo quando agiamo

La filosofia, si sente dire, insegna a pensare. Ma cosa s’intende dire quando ci si esprime in tal modo?
Per capirlo è necessario prima esaminare cosa vuol dire pensare. Ci hanno provato diversi filosofi esaminando la questione sotto vari aspetti. Ad esempio Kant, che con la sua distinzione tra giudizi analitici a priori, a posteriori e sintetici a priori continua a far inorridire generazioni di studenti, e di cui oggi – sospiro di sollievo – non parliamo. Utilizziamo invece la distinzione introdotta da Peirce, che distingue tre tipi di ragionamenti: deduttivo, induttivo e abduttivo.

Il ragionamento deduttivo è usato dalle scienze esatte, come la matematica e la logica. Queste raggiungono la verità in modo definitivo e meccanico. Partendo da assiomi o da principi ultimi, arrivano a conclusioni altrettanto vere. Nei termini dello stesso Peirce, in questi casi, abbiamo come premesse una regola, ad esempio: la somma degli angoli interni di un qualsiasi triangolo è 180, e un caso: questo triangolo disegnato alla lavagna. Come conclusione un risultato: Questo triangolo ha come somma degli angoli interni 180.

Al contrario nel caso dell’induzione partiamo da un caso: “piove”, e da un risultato: “esco e per strada scivolo”. Se la cosa si ripete e se sono mediamente intelligente, inizierò a pensare che ci sia sotto una regola del tipo: “quando piove le strade sono scivolose”. È evidente che abbiamo già di molto sporcato la purezza della verità dell’inferenza deduttiva. Ci sono infatti buone possibilità che io sia in errore servendomi di questo tipo di ragionamento. Esso è il metodo proprio delle scienze naturali come la fisica, la biologia etc. La possibilità di errore è radicalmente intrinseca a queste scienze, al punto che Popper ha con successo proposto di utilizzarla come criterio definitorio di ciò che è scienza: una scoperta scientifica quindi, deve portare con sé la possibilità di principio di essere negabile da nuove osservazioni.

Il terzo tipo di ragionamento, l’abduzione, è quello utilizzato principalmente nella vita di ogni giorno, in situazione, nel concreto. Esso fra tutti è il più lontano dalla luce della verità: è il più rischioso dei metodi. Si basa sull’applicazione di una regola: “Se c’è odore di pane nell’aria deve esserci del pane nelle vicinanze” ad un risultato: “sento effettivamente, entrando in casa, il dolce aroma del pane appena sfornato” in modo da ottenere un caso: “in qualche modo deve essere comparso del pane in casa mia”. Il problema di questo tipo di ragionamento, risiede proprio nel fatto che benché il risultato sia certo, forse stiamo applicando ad esso la regola sbagliata. Rimanendo sull’esempio di prima, potrebbe darsi il caso che il mio coinquilino abbia deciso di provare un bizzarro nuovo profumo, o l’odore potrebbe venire dall’appartamento del vicino.
Cosicché se sentendo l’odore di pane mi metto a cercarlo, agisco in forza di un’interpretazione della situazione; in poche parole sto scommettendo sull’efficacia dell’utilizzo della regola nel particolare contesto. È inutile dire che questo tipo di scommessa, come ogni vera scommessa, non si basa completamente su una decisione ragionata, ma è esito di una sorta di sesto senso – una razionalità silenziosa perché precosciente – presente in ognuno di noi.

Torniamo allora alla domanda che ci siamo posti all’inizio: “cosa vuol dire che la filosofia insegna a pensare?”. Alla luce di questi brevi chiarimenti, possiamo concludere che la filosofia ci aiuta senza dubbio ad affinare il ragionamento deduttivo, in parte quello induttivo e in generale a riflettere su questi meccanismi nell’insieme. Ma oltre a ciò, l’insegnamento della filosofia consiste anche nel capire il funzionamento del ragionamento abduttivo, tenendo a freno certe interpretazioni superficiali e deleterie che finiscono per avere effetti negativi sulla vita di tutti i giorni. Sicché quell’imparare a pensare, è in certa misura, imparare a vivere.

Francesco Fanti Rovetta

[Immagine tratta da Google Immagini]

Difendere il pensiero umanistico: per una grammatica dell’immaginazione

Viviamo in tempi in cui trionfa il pensiero scientifico, cioè il dominio razionale, conscio, ordinato, del pensiero dell’azione. Meglio ancora se il pensiero razionale porta a risultati concreti, bisogna che il sapere sia utile. Basta con il sapere per il sapere, concretezza e immediatezza sono le parole d’ordine; perfino i filosofi per sopravvivere sono diventati consulenti di vita pratica, e quindi anche la Filosofia si piega a offrire consigli per affrontare la quotidianità. Nelle scuole vengono raccomandati corsi che “preparino alla vita” e anche se Einstein diceva “L’immaginazione è molto più importante della conoscenza” nella selezione delle discipline si continua a preferire la conoscenza utile, spendibile nel mondo del lavoro, concreta, naturalmente relegando in secondo piano Letteratura e Arte. Importanti case editrici chiudono collane dedicate alla Poesia,non perché non ci sono più poeti, ma perché nessuno le compra.

Letteratura, Poesia, Arte si stanno estinguendo e con esse una facoltà fondamentale per gli esseri umani: l’immaginazione. Gli insegnanti non dovrebbero limitarsi a insegnare nozioni prefabbricate, oppure i tanto conclamati “metodi” di ricerca, il loro è un compito molto più importante, creativo, cioè devono educare, ovvero “portar fuori” l’allievo, indirizzarlo verso la libertà di pensare e creare, aiutarlo a capire che il futuro è una potenzialità anche per lui a prescindere da ceto sociale e difficoltà della vita, un futuro che ciascuno può immaginare e costruire. Non è detto che i frutti dell’immaginazione debbano essere solo Arte e Poesia: anche le iniziative produttive più nuove sono nate da essa, cioè il saper pensare il futuro che si forgia sulla base della capacità di generare idee originali. Ma coltivare l’immaginazione significa avere del tempo libero davanti, provare desideri per un tempo lungo, desideri importanti, per realizzare i quali è necessario sforzo, riflessione e voglia di mettersi in gioco. Una società in cui ogni desiderio è creato artificialmente, e subito realizzato attraverso l’acquisto, non valorizza l’immaginazione. Una società in cui invece di leggere, ascoltare musica, andare al cinema prevale l’abitudine a dedicare la maggior parte del tempo a giocare sul tablet, a controllare i social e a fare giochetti elettronici non favorisce l’immaginazione.

Solo ciò che si immagina comincia a essere vero, anticipa la realtà, la rende possibile. Si può pensare al futuro solo se abbiamo speranza, fiducia in qualcuno, solo se ci è stata fatta una promessa. I giovani per pensare in modo creativo al futuro hanno bisogno di una promessa da parte degli adulti, i quali promettendo, promettono se stessi, il proprio appoggio, la propria solidarietà, rinnovando così il tradizionale patto tra generazioni che oggi sembra vivere senza un prima, e quindi senza un poi, in un eterno presente. Certo abbiamo conquistato una libertà assoluta da ogni senso di appartenenza, intesa come far parte di una comunità, una famiglia, uno Stato, ma questa tanto ambita libertà ci rende molto fragili, incapaci di immaginare un futuro, soprattutto dal momento che non sappiamo più vivere con calma e felicità il nostro lato contemplativo e riflessivo, l’unica condizione che ci permette di conoscere e ampliare la nostra interiorità, matrice di ogni capacità di immaginazione. Solo approfondendo la nostra vita interiore possiamo orientarci nella vita, scoprire il nostro personale cammino e credere nel futuro, cioè immaginare cosa saremo. E’ nell’immaginazione che ogni cambiamento acquista diritto e possibilità di esistenza. Oggi sembra che a questo vuoto di immaginazione umana, a questa crisi di futuro, si possa rispondere solo in modo utopico e standardizzato riproponendo la canzone Imagine, che viene suonata nelle occasioni in cui si vorrebbe far rivivere la speranza, ma non basta. Per far sperare ci vuole molto di più, ci vuole un addestramento umano, una grammatica dell’immaginazione umana che stiamo perdendo.

Matteo Montagner

Una rabbia costruttiva


La rabbia è una follia momentanea, quindi controlla questa passione o essa controllerà te.

Quinto Orazio Flacco, Epistole, 20 a.e.c.

Quante volte nell’arco della nostra vita e delle nostre giornate abbiamo sentito i nostri occhi diventare rosso sangue, i muscoli del viso contrarsi e sentito un’anomala vampata di calore nel petto? Chi a seguito di un risultato insoddisfacente, chi a seguito della perdita del proprio lavoro o vittima di ingiustizie, chi a seguito di una delusione amorosa nei confronti di un fidanzato/a o nell’aver ricevuto un torto da un amico.

È chiaro che la rabbia ci appartiene più di quanto possiamo immaginare vista la pluralità di situazioni nelle quali questa si può sviluppare, anche per coloro capaci di controllarla, gestirla e anche reprimerla.

La rabbia possiede diversi modi di manifestarsi e talvolta risulta essere la maschera di qualcos’altro. Esiste inoltre una rabbia del tutto diversa che potremmo definire “rabbia silenziosa”, priva di manifestazioni fisiche esteriori evidenti ma che si condensa in una specie di magma interiore. Read more