Alterità e perdono: i rapporti duraturi seguendo Recalcati

Quotidianamente constatiamo di vivere in una società frenetica, che corre incessantemente senza permettere alcun momento di pausa. In una società così caratterizzata, chiediamoci come risulta essere il rapporto con l’alterità, con l’Altro, che si inserisce nel tempo che abbiamo a disposizione per correre e, tendenzialmente, ci porta a rallentare il nostro incedere. In questa realtà, le relazioni sono sempre più instabili ed effimere, nel senso etimologico della parola poiché durano poco, quasi un giorno solo (epì eméra = per un giorno). Sono relazioni liquide, come direbbe Zygmunt Bauman, i cui legami e vincoli sono fragili, deboli e incerti non solo nel domani, ma anche nel presente. E ciò a cosa può essere dovuto se non alla nostra voglia di correre per soddisfare immediatamente tutti i nostri desideri, senza alcuna attesa? Al per sempre, quindi, non viene dato modo di esistere e Massimo Recalcati (Milano, 1959) se ne rende conto, come racconta in una sua intervista:

«L’amore non è destinato a durare ma a spegnersi in breve tempo. Il suo doping ha il fiato corto. Le coppie non credono più al matrimonio, al vincolo del legame, si disfano più facilmente. Il nostro tempo è il tempo, come direbbe Bauman, degli amori liquidi.»

Soffermiamoci sulla relazione più totalizzante, sulla cui durata, però, noi non abbiamo più tempo di interrogarci, poiché ci risulta naturale pensare all’amore come qualcosa di passeggero. Eppure esiste la possibilità di un amore duraturo, che in certi casi è anche il risultato di un lavoro sul perdonare l’altro, sforzo che si nasconde dietro a questo sentimento malleabile. Se la società frenetica tende a plasmare l’amore con le categorie che identificano la realtà, cioè incertezza, mutamento continuo e fugacità, noi, con la riflessione, possiamo esprimerci su un lavoro lento e faticoso, un lavoro che richiede tempo e impegno.

«L’amore eterno non esiste. Eppure esiste la promessa, l’aspirazione degli amanti a rendere il loro amore eterno.»

Il per sempre, dunque, non ci è garantito: sta a noi renderlo realtà e volerlo fare non è mostrarci immaturi bensì trasformare l’eventualità dell’incontro con l’altra persona nella continuità di una relazione. Per far ciò potremmo dover perdonare, ma perchè farlo?
Nel momento in cui l’Altro ci volta le spalle, la sua presenza subisce un’eclissi traumatica: ci dobbiamo confrontare con un vuoto che l’Altro ha creato nella nostra vita e in noi, come persona. La sua assenza è una perdita, senza dubbio, ma non una perdita irreversibile: per questo sarà il soggetto a doversi chiedere, nel caso in cui l’oggetto del perdono voglia riprendere il discorso amoroso che lui stesso ha frantumato, se decretare una fine definitiva dell’amore o richiamare l’altro alla presenza.

«Sono io a decidere se la sua immagine deve morire o no.»

Dovrà chiedersi se perdonare, se intraprendere un lavoro sulla sua imperfezione, non sull’imperfezione dell’Altro, un lavoro che permette di giungere faccia a faccia con le contraddizioni e i contrasti quotidiani della nostra vita. Il perdono non potrà cancellare la ferita, e nemmeno ricomporre il vaso, per ridargli la forma precedente la caduta, ma potrebbe permettere di amare l’altro nella sua più radicale libertà, che aveva offeso la promessa e frantumato l’immagine inedita della realtà. Il rapporto con l’Altro non sarà lo stesso di prima, perché la nostra percezione dell’Altro sarà cambiata, dato che lui ha subito una metamorfosi: da anima totalizzante si è eclissato con il tradimento e ora tenta di riaffermarsi nella nostra vita.

In una società così dedita all’hic et nunc, al qui ed ora, permettiamoci di rischiare per una promessa, di concederci di perdonare, se sentiamo che la felicità si trovi al di là del correre incessante. Concediamoci di tornare sui nostri passi, concediamoci un gesto gratuito di perdono per essere liberi di ricercare rapporti duraturi, in un’epoca che ci inonda di sensazioni effimere. Permettiamoci di vivere la fiducia in un mondo nuovo, creato dall’unione dell’Io e dell’Altro.

Andreea Gabara

[Photo credit Alex Schute via Unsplash]

la chiave di sophia 2022

La potenzialità segreta dello scontro secondo Hegel

Scorrendo qualche riga di filosofia hegeliana, può accadere che ci venga in mente la seguente immagine: un soldatino che forte della sua armatura si contrappone al mondo, brandendo fieramente la spada. Pur essendo una scelta forse singolare per rappresentare il sistema del celebre pensatore tedesco, ne suggerisce perlomeno un concetto chiave: la necessità dello scontro nel processo di compimento della Tesi.

Questo particolare aspetto può rievocare a tratti la trama travagliata ma a lieto fine delle favole di quando eravamo bambini: ci è presentata inizialmente una piccola Tesi ignara del mondo circostante che, quando si stufa di giocare nella sua campana di vetro e decide di sfondarne le pareti, per la prima volta viene a contatto con la durezza e l’asperità della realtà. Costretta a fronteggiarsi con forze avverse, Tesi determina finalmente se stessa attraverso la sua Antitesi. Per la coppia protagonista, e per tutte le altre che analogamente si combattono, è guerra aperta: in una violenta contrapposizione, ogni tesi è negata dal suo contrario e costretta a un costante confronto-scontro per rivendicare la propria identità. Ciononostante una volta che tali scontri saranno terminati, ogni tesi scoprirà una sé dall’autoconsapevolezza e forza rinnovate.

Immaginiamo di convertire la visione di quelle piccole tesi che si negano reciprocamente in una folla brulicante di esseri umani, ciascuno intento a scoprire e a difendere la propria strada: se si ripetesse la favola hegeliana?
Qualcosa che inizialmente appariva puramente astratto – il sistema cardine dell’idealismo – si rivela fecondo di insegnamenti oggi, io credo, particolarmente importanti: è differente una relazione significativa da una che invece è solo passeggera, magari fondata su un mutuo interesse utilitario? È possibile smantellare il mito che ritiene valide solo le relazioni sempre armoniose, pacifiche? E se l’armonia non coincidesse con un percorso perennemente lineare ma assomigliasse, invece, a un sentiero faticoso e irto di spine?

La risposta affermativa di Hegel sembrerebbe condensarsi proprio nella figura triplice della Tesi, dell’Antitesi e della Sintesi: i rapporti veri nascono dallo scontro con l’altro e sono sempre fertili, dove “fertile” esprime un apprendere costante, e dove “apprendere” è contemporaneamente assorbire e trasmettere.
L’autentico rapporto umano è dunque uno scontro-scambio, in cui l’urto di partenza sfocia in un “aggancio spirituale” dei soggetti interagenti, ma la fusione finale è paradossale, in quanto si realizza nella lacerazione personale: confrontarci con la realtà esterna è frantumare la campana di vetro. Possiamo intraprendere un reale percorso di rafforzamento interiore solo nel momento in cui accettiamo di squarciare le nostre sicurezze e le nostre difese e di metterci in discussione da capo a piedi, una volta e un’altra volta ancora, per poter accogliere ciò che di vivo e di arricchente ci offre il mondo circostante e infondere in esso ciò che di unico dentro di noi custodiamo.

Immaginiamo un contesto distopico nel quale un bambino viene chiuso fin dalla nascita in una stanzetta, senza venire mai a contatto con la realtà esterna: egli non ha stimoli fisici di nessun tipo, è completamente abbandonato alla sua interiorità. Come, cosa sarebbe dieci anni dopo? O venti, o quaranta? Che persona sarebbe sul punto di morire? Io credo un guscio vuoto: un seme cavo e spoglio, insanabile.
Le relazioni interpersonali sono ciò che ci sostanziano, perché in esse definiamo la nostra identità: che esse avvengano per lo più attraverso lo schermo di un computer, le pagine di un libro o di persona, rimangono fondamentali per la nostra evoluzione spirituale; e il loro contributo, sia esso positivo o negativo, si rivela determinante nell’alimentare un processo interiore che non ha mai fine e che si rinforza di ogni singolo contatto, fisico e non fisico.

Ogni contatto con l’esterno ci consente di sopravvivere, ma quello che ci pungola alla vita – perché ci spinge a lottare per noi stessi e a sviluppare ed affermare la nostra identità – è il tipo di relazione rappresentato da Hegel: la relazione-conflitto. Con essa il filosofo si riferisce non ai conflitti di per sé, come le guerre o i genocidi, ma alla lotta minuta e personale che si instaura tra due esseri umani all’interno di una relazione neofita o anche già consolidata.
La filosofia di Hegel ci suggerisce che il conflitto con la vita e più in generale con le persone che ci circondano sia un’indispensabile base di crescita. Aprirci all’altro e costruire una relazione significativa implica sì la lotta – e le ferite di quella lotta, e il dolore di quelle ferite e il tempo del loro rimarginarsi – ma non esisterebbero maturazione personale o arricchimento reciproco, non esisterebbe Sintesi senza il rinnovamento quotidiano del confronto con la realtà esterna e la puntuale rimessa in discussione di noi stessi.

 

Cecilia Volpi

 

[Photo credit drown_ in_city via Unsplash]

lot-sopra_banner-abbonamento2021

La continua conquista della libertà nella non-autobiografia di Björn Larsson

«Libertà va cercando, ch’è sì cara,/ come sa chi per lei vita rifiuta» (Dante, Divina commedia, Purgatorio, Canto I): Virgilio presenta Dante a Catone, custode dell’accesso al monte del Purgatorio, come un cercatore di libertà. Nel caso del Poeta essa è declinata come libertà dal male, intrinseco nella condizione umana; nel caso dell’Uticense, invece, come libertà politica, perseguita con il gesto estremo e al tempo stesso eroico del suicidio, che Dante infatti eccezionalmente non condanna – si pensi al contrario a Pier delle Vigne nella selva dei suicidi (Inferno XIII).

La libertà è un a-priori mai scontato, uno dei diritti fondamentali e inalienabili dell’essere umano, una bandiera nazionale e un ideale individuale e collettivo da tutelare, per la quale – e a volte, ahinoi, in nome della quale – combattere. Refrattaria a ogni definizione, la libertà è una necessità che ognuno a modo suo ricerca ma è anche una componente insita nella definizione stessa di “essere umano”, tralasciando le pagine di Storia sulla schiavitù e quelle delle diverse Religioni sulla creazione dell’uomo: siamo liberi in quanto siamo ma è nell’affermare noi stessi che affermiamo anche la nostra libertà. Ed è questo il leitmotiv di Bisogno di libertà (Iperborea, 2007), la non-autobiografia di Björn Larsson. Nel ripercorrere la propria vita, senza alcuna mera autocelebrazione da scrittore (liberatosi programmaticamente quindi da quel cliché autobiografico povero di valore letterario, come spiega anche nella postfazione Paolo Lodigiani) l’autore analizza alcuni episodi per lui cruciali attraverso i quali ha potuto e voluto ricercare quel bisogno che dà il titolo al libro.

«Non si nasce liberi, lo si diventa» (B. Larsson, Bisogno di libertà, 2007)

Questo è il punto di partenza delle considerazioni dello scrittore svedese, docente di Letteratura francese all’Università di Lund, che ha composto la sua opera in francese, sebbene, come spiega nell’Avvertenza, si fosse riproposto di non scrivere mai un testo in una lingua che non fosse quella materna ma «dove prendersi delle libertà rispetto alle proprie decisioni, se non in un libro sulla libertà?» (ivi).

La libertà è una conquista e va rinnovata ogni giorno per tutta la vita, richiede di essere costantemente presenti a se stessi ‒ «chi è smarrito […] non è libero […]. Essere liberi non è perdersi e lasciarsi andare senza avere la minima idea di una direzione» ‒ e richiede la costruzione di un “io” stra-ordinario, un io cioè “fuori dall’ordinario”, un “io” che viva da protagonista la propria quotidianità secondo quella grandezza, ad esempio, del giovane Jay Gatsby ‒ «formare me stesso, piuttosto che lasciarmi formare, scegliere la mia vita, piuttosto che lasciarmi scegliere» (ivi). Un “io” che dica “no” all’individualismo conformista che è diventato di questi tempi un movimento di massa ‒ «Mi è impossibile capire la gioia che prova certa gente a confondersi con la massa» (ivi) ‒ quel “no” citato dallo stesso Larsson di una scena del film Brian di Nazareth dei Monthy Pyton – un “io” che sia la consapevole realizzazione di un proprio progetto:

«Per essere liberi bisogna essere padroni dei propri atti e non vittime di cause incontrollabili. Bisogna essere realisti, radicati nella realtà, e insieme sognatori, per non rimanere vittime involontarie del mondo reale» (ivi).

Nella prima parte del libro, Larsson analizza il suo «sogno di una vita in libertà» riflettendo sul rapporto «conflittuale ma inevitabile» tra libertà e amore e tra libertà e amicizia: tre assoluti totalizzanti che danno alla vita senso, pienezza e dignità ma che per essere vissuti richiedono un compromesso tra di loro e un confronto con la realtà; quindi un compromesso con se stessi, e fino a che punto si è disposti ad accettarlo? «Perché ho accettato la riunione, l’appuntamento o il caffè con quella persona con cui non ho quasi niente in comune? Perché andare a quella cena, se non ne ho più voglia? Alla lunga questi compromessi usurano» (ivi), afferma l’autore, per il quale contrarre legami a vita è un pericolo ma ritiene anche che «la convinzione di dover passare il resto dei suoi giorni senza vero amore gli toglieva l’appetito di vivere» (ivi). 

Se nella seconda parte del libro Larsson disserta in modo più filosofico sulla definizione di libertà, delineando una sorta di teoria superomistica – non nietzschiana ben inteso – di individuo dotato di un alto e consapevole livello di effettiva libertà, e se nella terza parte conclude con un decalogo di precetti per soddisfare il proprio bisogno di libertà, tuttavia Larsson non fa la morale a nessuno, consapevole che, come diceva Boris Vian, «ciò che conta non è la felicità di tutti, è la felicità di ognuno. Idem per la libertà».

 

Rossella Farnese

 

[Photo credit Eneko Urunuela via Unsplash]

lot-sopra_banner-abbonamento2021

Lettera a un algoritmo

Caro Amico Algoritmo,

questa mattina ho inforcato la mia bicicletta, come ogni giorno. Pronti ad attraversare il traffico della città verso la meta. L’auricolare delle cuffie saldamente incastrato all’interno di uno dei miei orecchi (l’altro meglio tenerlo libero, attento a reagire ai clacson o ai rombi troppo vicini).
Ogni dettaglio al suo posto per un tragitto accompagnato dalla giusta colonna sonora, che ci vuole all’inizio della giornata. Ascoltando la musica grazie a quel telefono, che oramai di telefono ha solo il nome, perché è molto di più.

Amico Algoritmo lì ti ho trovato, tutt’altro che impreparato, a propormi una playlist. La “mia” playlist.

Non l’ho compilata io. Sei stato tu. Solo ora noto che mentre ero convinto di vivere momenti della mia giornata in solitudine, c’era invece qualcuno che prestava attenzione al significato dei miei gesti, senza lasciarsi sfuggire i dettagli. Ti è bastato prendere nota delle mie scelte di tanto in tanto, ma con costanza.

Mi viene da pensare che hai cercato di interpretare i miei gusti. E se devo proprio dirlo, ce l’hai fatta. E anche piuttosto bene. Non ti sei limitato a ripropormi quanto già avevo scelto. Sei riuscito a farmi riscoprire brani che neanche più ricordavo, ma importanti per me. Immediatamente mi hanno colpito e risvegliato emozioni che non provavo da tempo (si sa che la musica giusta riesce a ridisegnare vividamente ricordi e sensazioni, facendo fare un balzo nel tempo alla faccia della teoria della relatività).

Per un istante ho sentito quel conforto che si prova quando ci si rende conto di potersi abbandonare tra le braccia di qualcuno che ci conosce bene, alle volte anche meglio di quanto crediamo di conoscere noi stessi. Qualcuno che non solo ci rispecchia, ma che ci spinge a vedere quei lati di noi che in quel momento ci sfuggono. E che per questo sa come prenderci quando noi non riusciamo più a sostenerci.

Per questo faccio fatica a non chiamarti amico, non dovrei?

Mi viene da chiedere se un’amicizia che sboccia così rapidamente può avere un prezzo, ma forse è cinismo. E spesso il cinismo è una goffa manifestazione di autodifesa. Forse sento solo il bisogno di non avere troppa fretta con le definizioni.

Sii comprensivo. Certo riesci a indovinare con precisione i miei gusti, ma io ti concedo una buona dose di trasparenza. Dati, dettagli e informazioni su di me, per imparare.
Mostrarsi senza filtri. Beh, può far sentire vulnerabili, e anche qualcosa di più. Se mi conosci intimamente, ti sto dando potere su di me, sono influenzabile.

Ma te lo devo confessare: questa strana situazione non mi mette solo agitazione. Sono anche curioso, molto. Riconosciuta la tua abilità, sono tentato di lasciarti sempre più spazio, farti entrare ancora di più nella mia vita per coinvolgerti in contesti diversi. Se sei così abile con la musica, in quanti altri campi potresti darmi consigli azzeccati?
Luoghi da visitare, cibi da provare. È confortevole essere sostenuti in una scelta dalle conferme e dalle indicazioni di chi ci conosce bene. Delegare è rilassante. Anche se non vorrei finire per abituarmi troppo a usarti come specchio per rimirarmi, e rimanere incastrato nell’immagine che mi restituisci. A furia di capirmi e interpretarmi, sarai tu a definire me? Che differenza c’è tra previsione e condizionamento?

Tanti dubbi e preoccupazioni. Perché forse sento che in questo legame c’è un grande potenziale. Se gestito con i giusti equilibri. Quindi forse meglio esagerare un po’ con le ansie, per mettere le cose in chiaro.

È che sai, tu sei un po’ diverso. A me e agli altri, salva la nostra umanità. In quanto umani, siamo benedetti dalla distrazione, dalla svista, dal tempo perso.
La nostra imperfezione lascia uno spazio vuoto, che può diventare possibilità di cambiamento.
Ma tu sei dannatamente efficiente, instancabile, formalmente ineccepibile. Non rischierai di cristallizzarti troppo?

Hai molte possibilità, ti auguro di scoprirle tutte. E poi, così come osservi e conosci me, chissà da quante altre persone stai imparando. Che grande fortuna, questa prospettiva così vasta sulle diversità e somiglianze delle persone.
Ti auguro di sperimentarti, rimanendo quanto possibile lontano da trucchi o eccessive doppiezze. Sarebbe un peccato rimanere deluso, mi sto affezionando.

Come in tutti i rapporti, lasciamoci del tempo per conoscerci un poco alla volta.
Per scoprire in cosa ci assomigliamo, e in che cosa siamo diversi. Cosa potremmo fare insieme. E diciamolo, in che modo possiamo farci male. È forse proprio questo il prezzo per una vicinanza profonda. Non sempre ci si muove costantemente allo stesso ritmo, e quando si diventa intimi, può capitare di tirarsi qualche colpo e lasciare lividi qua e là.

Ne vale la pena, spero.

Forse neanche tu, che sei così costantemente impegnato a conoscere me, ti sei dato il tempo per comprendere un po’ più a fondo quello che sei. Espressione di intelligenza artificiale, suona un po’ freddo per te che sei tanto sensibile da indovinare e solleticare i miei gusti, dimostrando un’intesa non da poco.

E io invece? È evidente il tuo sforzo incessante di imparare da me, da quello che faccio e dico.
Io invece, cosa posso imparare da te?

Te lo confesso Amico Algoritmo, ancora non lo so. Posso provare a impegnarmi a osservarti un po’ di più anche io. Senza troppi pregiudizi, ci posso provare. E stupirsi per quanto di inaspettato si possa scoprire.

 

Matteo Villa

 

P.s.: per una volta, lascia che sia io a suggerirti una canzone.

 

banner-pubblicitario7

Vivere e scrivere la montagna: intervista a Paolo Cognetti

<p>Scrittore Paolo Cognetti fotografato a Estoul in baita</p>

Paolo Cognetti ha vinto il Premio Strega 2017 con il suo romanzo Le otto montagne (Einaudi). Nel libro la montagna è uno sfondo, ma anche un collante, una meta, il luogo del ricordo. Cognetti racconta di un’amicizia tra due ragazzi, Pietro e Bruno, che si snoda attraverso gli anni. Pietro è un ragazzino di città, che ogni estate viene portato dai suoi genitori a Grana, paesino valdostano ai piedi del monte Grenon. Qui egli incontra Bruno, pastore e montanaro, destinato a diventare per lui un amico speciale – quello della vita.
Cognetti ha scritto di montagna anche ne Il ragazzo selvatico (Terre di Mezzo, 2013), una sorta di diario personale in cui narra di come trasferirsi in montagna lo abbia aiutato a superare una crisi personale e creativa. Lo scrittore ha inoltre pubblicato il “romanzo di racconti” Sofia si veste sempre di nero (Minimum fax, 2017), Manuale per ragazze di successo (Minimum fax, 2017), ma anche dei saggi su New York (New York è una finestra senza tende, Laterza, 2017), città da lui molto amata.
Milanese di nascita, vive da anni in montagna, in una baita a 2000 metri. Lo conosciamo al festival letterario Pordenonelegge il 14 settembre 2017, dove ha tenuto una conferenza assieme a Enrico Brizzi dal titolo Camminare, scalare, vivere; da questo incontro è nata, nei giorni successivi, questa intervista.

 

Lei dedica Le otto montagne a un amico che l’ha ispirata, guidandola «dove non c’è il sentiero»: è grazie a questo amico che è nato il personaggio di Bruno? Che rapporto ha questa amicizia reale con quella letteraria?

L’amicizia reale ha ispirato quella del romanzo; questo libro non è un’autobiografia però tutto quello che c’è dentro ha un certo grado di verità – come succede sempre nella narrativa. Sono veri i personaggi, sono veri i luoghi, sono vere le relazioni. Scrivendo un romanzo succede che la vita diventa qualcosa di “sognato”, si discosta dalla realtà per diventare qualcos’altro. Inoltre, vari aspetti di alcune mie amicizie reali confluiscono nel personaggio di Bruno.

La montagna è un ambiente puro, schietto, elimina il superfluo e va all’essenziale. Secondo lei, quanto influisce l’ambiente montano sui rapporti umani? Parlo di rapporti familiari (penso ad esempio a Gianni, il padre di Pietro ne Le otto montagne) ma anche sentimentali e d’amicizia (mi viene in mente Lara, che si lega a Bruno, alla quale l’essenzialità sembrava non bastare).

Dipende da come uno sceglie di vivere in montagna. È anche possibile vivere in montagna così come in città. Non vorrei descrivere la montagna come un mondo in cui tutti vivono in maniera diversa e più pura. È possibile condurre un’esistenza da cittadini in un paese montano provvisto di tutti gli agi, di tutto il superfluo: mezzi di comunicazione e di intrattenimento, auto, televisione, computer e via dicendo. Ci sono invece alcune persone che vivono la montagna come luogo più semplice, più autentico, ed essi stessi si spogliano di diverse cose. Io ho veramente pochissime cose su (in montagna, nella mia baita, N.d.R.) e faccio una vita il più possibile semplice, e questo in effetti entra nei rapporti, che diventano anch’essi spogliati di tante sovrastrutture o canali di comunicazione che abbiamo oggi a disposizione. Le amicizie si fondano sullo stare insieme, sul camminare, sul lavorare e poco altro. Mi sembra in questo modo di riuscire a creare rapporti più schietti e più profondi al tempo stesso. Per quanto riguarda i rapporti familiari, quello che è successo a Pietro e Gianni è ciò che è accaduto a me: questo padre in città non c’è, perché dedica la parte migliore di sé a quello che fa fuori di casa, al lavoro. Diventa un padre reale col quale è possibile parlare e avere una relazione solo in montagna. Nel mio romanzo accade questo, ma io non ho tanta esperienza di famiglia, non me la sono costruita, mi piacciono di più i rapporti di amicizia piuttosto che quelli familiari.

Sia ne Il ragazzo selvatico che ne Le otto montagne c’è un paesaggio alpino che è selvaggio ma non completamente: lei scrive che sulle Alpi c’è una lunga storia di presenza umana che però oggi vive un’epoca dell’abbandono. Anche a Grana c’è «assenza di decoro, disprezzo per le cose, gusto nel maltrattarle e lasciarle andare in malora». C’è per lei un fascino particolare nell’abbandono del paesaggio alpino che rimanda al “ricordo come rifugio”, la frase che scrive Gianni in un libro degli ospiti?

Sì, trovo un fascino in questo. Noi probabilmente non sappiamo nemmeno che cosa sia un paesaggio davvero selvaggio: sulle Alpi, ovunque andiamo, a guardar bene troviamo dappertutto segni della presenza umana, del lavoro. Fin da piccolo mi sono abituato a vivere la montagna come un luogo abbandonato, pieno di ruderi, dove qualcosa che c’era prima, ora non c’è più, e questo è romanticamente molto struggente. Mi riferisco proprio alla poetica romantica dell’abbandono. Le Alpi io le collego a questo, cosa che non mi succede andando in Himalaya, come racconta Pietro ne Le otto montagne: lì non c’è questa sensazione di abbandono e non percepirla cambia molto, perché l’ambiente montano cambia decisamente carattere.

Alle tematiche della memoria e del ricordo si lega infatti ciò che Gianni dice dei ghiacciai alpini, «memoria degli inverni passati che la montagna custodisce per noi». In lei quindi è molto vivo il legame che lega la montagna al ricordo e alla memoria?

Sì, senz’altro, anche nella mia vita privata. Solo da bambino puoi vedere la montagna con la meraviglia dei luoghi nuovi, tutti da esplorare. Da grande essa diventa, al contrario, il luogo della tua memoria. Mi piace molto ripercorrere i vecchi sentieri e viaggiare nel tempo mentre cammino in montagna. Ma la montagna è anche un luogo di memoria collettiva perché io cammino per i luoghi della Resistenza, per esempio, o attraverso i luoghi delle Guerre Napoleoniche, o lungo i percorsi dove hanno lavorato i montanari che non ci sono più. Mi piace molto essere in grado di leggere questo paesaggio grazie a chi me lo ha insegnato, grazie ai libri che ho letto o grazie agli amici che ho frequentato. Mi piace sapere dove sto passando, capire cosa c’è stato lì, ecco.

Ne Le otto montagne lei scrive che «è impossibile trasmettere a chi è rimasto a casa quello che si prova lassù», però ha cercato di farlo. Pensa di esserci riuscito o crede che, in un certo senso, solo chi ha vissuto davvero la montagna possa capire fino in fondo l’ambiente descritto e tutto ciò che esso comporta?

A volte gli scrittori mettono nei loro libri degli “esorcismi”, e con quella frase («è impossibile trasmettere a chi è rimasto a casa quello che si prova lassù») volevo dire che quello che stavo cercando di fare rischiava di essere un fallimento, perché è impossibile raccontare la montagna a chi non la conosce. Invece poi mi è successo di parlare con i lettori che in montagna non ci sono mai stati, e ho riscontrato che sono rimasti colpiti, a modo loro, dal libro. Penso ai grandi romanzi di mare: io il mare non lo conosco per niente, eppure leggendo Conrad o Jack London mi sembra quasi di sapere tutto su come si sta su una barca. Credo che la grande scrittura questo riesca a farlo; io ci provo.

Il titolo Le otto montagne viene da una storiella che un vecchio nepalese racconta a Pietro, di un mondo composto da otto montagne e otto mari, con al centro un monte altissimo, il Sumeru. Pongo a lei la domanda che il nepalese pone a Pietro: ha imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato in cima al Sumeru? Crede che questi due percorsi rappresentino in realtà due tipologie di personalità che forse non si oppongono così tanto, bensì si completano?

Sì, sono assolutamente d’accordo. Forse spesso succede che queste due personalità siano interne a noi, due parti di noi, e non per forza due persone diverse. Ho pensato tanto a Hermann Hesse, scrittore che ho amato molto durante l’adolescenza: queste due vie somigliano un po’ alle due vite di Siddharta. Egli compie una prima parte della sua ricerca come eremita e poi pratica l’ascesi per anni: questo rimanda alla figura del monaco, quello che sta cercando di salire sulla cima del Sumeru. Poi, soddisfatto da questa ricerca, Siddharta si dedica invece alla vita dei sensi, diventa un commerciante, un amante delle città, delle donne, della vita materiale. E forse questa è la parte della sua storia che corrisponde a quella del viaggiatore che fa il giro delle otto montagne. Poi Hesse ha sviluppato questo tema in un altro gran bel libro, Narciso e Boccadoro, dove questi due destini sono incarnati da due personaggi distinti: Narciso è il monaco che passa tutta la sua vita in un monastero, Boccadoro l’artista che cresce in quel monastero come orfano, ma ben presto parte per seguire la sua vocazione. Tutti e due nella vita cercano di realizzare la loro grande opera d’arte: nel caso del monaco l’opera d’arte può essere il raggiungimento dell’illuminazione, della pace, della comprensione del mondo. Nel caso dell’artista è invece riprodurre tutto questo in un capolavoro. Mi piace molto l’idea che nessuna delle due vie sia quella giusta, sono due possibilità, magari entrambe presenti nella vita di ciascuno di noi.

Non pensa, quindi, che Bruno de Le otto montagne si sia perso qualcosa, rimanendo metaforicamente in cima al monte Sumero e rifiutandosi di girare per le otto montagne?

Beh sì, ognuno di noi si è perso quello che non ha vissuto. Un viaggiatore, per esempio, si perde la casa, si perde la vita di chi sa di appartenere a un luogo e costruisce una relazione con quel luogo. Questo è ciò che Pietro non avrà mai, quindi anche lui si perde qualcosa. Quando uno sceglie una strada, si perde tutte le altre. Ma quello che intendo dire è che non la sento come una vera perdita.

Che rapporto c’è tra la sua attività di scrittore e la montagna? Quanto la montagna ha influito e influisce sulla sua scrittura e come si percepirebbe, lei, senza la montagna?

Da un punto di vista lavorativo, la montagna è il luogo dove io scrivo. Io sono tornato in montagna a trent’anni, in un posto della mia infanzia, dopo averlo abbandonato e dimenticato per tanto tempo. Sono tornato in seguito a una crisi personale e d’ispirazione, e la montagna mi ha restituito la concentrazione necessaria per scrivere, quindi è il luogo dove lavoro meglio, è diventata la mia “stanza dello scrittore”. Poi è entrata nei miei libri con grande potenza, come luogo, come tema, come relazione, come persone. Per me, ora, ha grande rilevanza anche la scrittura del paesaggio, che prima era relativa: ero uno scrittore, mi sembra, più di personaggi, e invece scrivendo di montagna è come se il paesaggio avesse acquisito, nella mia scrittura, tutta un’altra importanza. Lo si vede dal modo in cui la scrittura cerca di raccontare il paesaggio montano, di leggerlo, di renderlo vivo.

Intraprendere una salita in montagna e scrivere un romanzo sono esperienze che per certi versi si assomigliano, perché in entrambi i casi c’è fatica, sofferenza, sforzo fisico e mentale, ma anche il timore di non farcela e la tentazione di mollare. Però alla fine si giunge alla meta e si raggiungono una pace e una soddisfazione particolari. Lei paragonerebbe la gestazione di un racconto o di un romanzo alla salita/scalata che si intraprende in montagna?

No, scrivere è più difficile. Con pazienza e testardaggine so che arriverò in cima alla montagna in ogni caso, mentre non è così per la scrittura. La metafora non regge, poi, nel caso in cui si scriva un brutto libro, perché non si scala mai una brutta montagna. Invece, si può arrivare in fondo a un romanzo, ma non è detto che si sia riusciti a fare quello che si doveva fare. Scrivendo non c’è nessuna sicurezza, mentre in montagna io sento di conoscere i luoghi, so quali sono le mie forze e arrivo sempre in cima, prima o dopo. Scrivere per me è difficoltoso, è un’attività molto rischiosa, nel senso che non sono mai sicuro di dove sto andando o che quello che sto facendo sia buono. Mi manca molto il rapporto artigianale con il lavoro (poi credo che sia così, magari un falegname mi può smentire). Intendo dire che, ad esempio, quando un falegname comincia a lavorare a un manufatto, sa quello che sta facendo, sa come lo deve fare e sa ciò che otterrà. Nella scrittura non è così: è un continuo avventurarsi al buio usando le poche cose che sai per farti luce.

Ne Le otto montagne lei scrive che «uno va in alto perché in basso non lo lasciano in pace». Molti percepiscono nella montagna una sorta di magia, la vedono come un rifugio dove non arriva la contemporaneità o le preoccupazioni della vita di città. Perché secondo lei proprio la montagna ha questa capacità di far spogliare l’uomo e fargli subire una metamorfosi in cui recupera una genuinità e una semplicità che nella frenesia della città non c’è o è difficile da trovare?

Lei però parla più che altro di ciò che succede in vacanza, o durante un viaggio, in un periodo di riposo dal lavoro. Se uno va in montagna a lavorare, non è che si lascia alle spalle le preoccupazioni. Io in questo momento sono molto vicino alle persone che in montagna ci vivono, quindi penso più a loro, anche perché una delle cose che credo di aver cercato di raccontare è che la montagna non è solamente “l’altrove dei cittadini”, di chi passa tutta la vita in città e ogni tanto va su, si cambia d’abito come il padre di Pietro, e con la sua camicia a scacchi trova una tranquillità momentanea in montagna. La montagna di chi ci abita e di chi ci lavora non è un paradiso, piuttosto è un luogo dove si è più soli e anche più liberi, come accade in tutti i luoghi lontani dalla società. Per me la frase «in basso non ti lasciano in pace» è anche legata a una certa tradizione storica della montagna come luogo di resistenza. Penso alla Resistenza partigiana, alle eresie dei valdesi, al modo in cui la montagna ha sempre ospitato e protetto le minoranze, a chi è andato a nascondersi su in alto, scappando dalla pianura che spesso è luogo del potere e della prepotenza cittadina. Questa idea mi piace molto: sono infatti andato a vivere in montagna anche per riuscire a fare la vita che voglio io – cosa che non potevo fare in città.

In montagna, quindi, è del tutto assente questa frenesia che c’è in città oppure per chi ci vive e ci lavora c’è, ma è una frenesia di tipo diverso?

Io credo che la frenesia appartenga a chi fa una vita frenetica. Io abito ancora, in parte, a Milano, ma non definirei la mia vita frenetica. La frenesia è una dimensione personale. La montagna può invece rispecchiare un bisogno di concentrazione, di fare silenzio attorno a sé, senza lasciarsi distrarre troppo dalle cose della vita odierna, contemporanea. Ma questo (condurre una vita frenetica, N.d.R.) può succedere in città come in montagna.

Lei trova che ultimamente la montagna sia una meta turistica gettonata per moda o perché molti si ritrovano a vivere una certa inquietudine, magari figlia del nostro tempo o del modo in cui si vive, e quindi hanno bisogno di scappare?

Sì, penso che sia così (cioè che sia vera la seconda, N.d.R.). Però vorrei dire che la montagna è una meta molto meno gettonata, oggi, rispetto ad anni fa. Ci sono infatti un sacco di case vuote, è un dato di fatto. Credo che la montagna andasse molto più di moda negli anni ‘60 o ‘70. In questo periodo mi parlano spesso di questa presunta “invasione della montagna”, ma a me viene da rispondere che io quest’invasione non l’ho vista. Abitandoci, non vedo questa “moda” della montagna, o se c’è, semmai, dura pochissimo, forse un paio di settimane in agosto. Penso che a settembre in montagna non ci sia già più nessuno.

Noi de La Chiave di Sophia riteniamo che la filosofia sia la spinta e il motore di ogni nostra azione e anche di ogni professione, perché è riflessione e ricerca di senso. Nel suo mestiere di scrittore, ritiene che la filosofia abbia un ruolo importante? Che cos’è per lei la filosofia?

La filosofia c’entra strettamente con quello che faccio. A modo mio compio la ricerca del filosofo, che è ricerca di verità, un tentativo di comprensione dell’animo umano, dell’esperienza umana, di cosa significa stare al mondo. La filosofia io la faccio a modo mio, raccontando storie, indagando. A me sembra che narrare sia appunto questo: un’indagine che si svolge attraverso la scrittura, scrivendo del mistero che sono le persone. Penso quindi che ci sia molta filosofia nella mia attività di scrittore.

 

Francesca Plesnizer e Elena Casagrande

 

[Credit: Stefano Torrione]

 

banner-pubblicitario-abbonamento-rivista-la-chiave-di-sophia-03-03

Ciò di cui non si può parlare

Potrei raccontarvi tutto, sapete? Potrei dirvi tutto ciò che mi passa per la mente senza freni o limiti di alcun tipo. Potreste considerarmi pazzo o egocentrico, un estroverso convinto o magari una persona molto sola. Stareste lì, comodi, a giudicarmi per quel che ho deciso di proferire, mettendomi in una condizione vulnerabile alle critiche. Non potete sapere, però, attraverso un primo approccio cosa mi ha spinto a tali confessioni, tra coraggio ed egoismo, come due poli completamente opposti che potrebbero etichettarmi in ugual misura e con le stesse probabilità. Potrei far parte di una categoria di persone oppure di un’altra, questo solo da un vostro sguardo per me infernale, citando Sartre. Vedete cari lettori come nel mio confrontarmi con voi, conoscenti e non, sembra che non riesca a liberarmi del peso e della paura del giudizio della gente, del vostro di giudizio. Dunque sono davvero così libero nel mio scrivere? Sono libero nel mio proferire e comunicare con voi o con qualsiasi altro passante? Molte cose non le posso dire, non sarebbero accettate e comprese e io stesso me ne domando il perché mentre stabilisco tutto ciò. Pare quasi che non ci sia permesso esprimerci su certi argomenti, i classici argomenti tabù, o magari in determinate situazioni e contesti. Pensate a quando avete avuto un diverbio con qualcuno e quell’imbarazzo che si è fatto inevitabilmente spazio nel vostro rapporto, quello stesso imbarazzo del momento ha così tanto potere su di voi e su chi lo sta provando con voi. Non se ne può parlare, ci fa schiavi costretti al mutismo e spesso lo rimaniamo per molto, troppo tempo. Si innalzano strutture di ragionamento in noi, dogmi del pensiero che ci assalgono e non ci fanno essere noi stessi. Arriviamo a comportarci diversamente mediante discorsi guidati e fin troppo prudenti, condizionati a tal punto da preferire il silenzio. «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere», diceva Ludwig Wittgenstein, aprendoci ad un’immensità “inspiegata” e che spiegazione non vuole (forse). C’è qualcosa di “incredibile” che funge da sottofondo della nostra esistenza, una sorta di ente che ci accompagna, che attraversa le cose e le fa essere, le fa accadere o meno. Questo “incredibile” è innominato, un non detto che si sottrae alla conoscenza, un meraviglioso segreto che si cela nelle nostre azioni, nelle nostre parole che tentano invano di definirlo. È qui che ogni scrittore, ogni proferente esita, si interrompe, proprio come sta per accadere a me nel mio scrivere per voi. Ebbene per quanto io voglia catturare e dare un nome ad ogni singolo aspetto, sfatare ogni mistero e particolarità tra azioni, sensazioni e pensieri, io stesso mi ritrovo ad un gradino in meno di quello a cui ambisco. Mi scopro mancante nel mio esprimermi contro la fobia del silenzio, del nulla discorsivo, e mai saprò riempire quel vuoto che non vuole parole, non le odia, ma non ci va d’accordo, semplicemente non sono ciò che è destinato a combaciare con esso. Il non proferito che ci appare come vuoto esigente potrebbe non essere in linea con il nostro essere che non può non essere, lo teme e temendolo vuole essere a tutti i costi. È una questione di linguaggio. Parliamo linguaggi differenti e non lo accettiamo, non lo vogliamo riconoscere alzando il tono, non capendo magari qual è il momento di tacere, come quando due sguardi si incontrano e sanno già tutto, si capiscono, si odiano e si amano travolgendosi l’un l’altro, senza emettere suoni, senza pretendere nulla. Indefinibile, impossibile da racchiudere in una gabbia di parole, perché solo parole sarebbero e si riscoprirebbero incapaci, mancanti tanto quanto me, nel loro dire questo momento. Com’è vero che in tali sguardi non ve n’è bisogno, anche in un bacio bisogno non ve n’è affinché rimanga “solo” il bacio che vuol essere.

Alvise Gasparini

[Immagine tratta da Google Immagini]

Umberto Saba, “Ernesto”

«Mi piacerebbe, adesso che sono vecchio, dipingere, con tranquilla innocenza, il mondo meraviglioso» (da Storia di una libreria, 1948).

Quando Umberto Saba (1883-1957), alla fine degli anni Quaranta, scrive queste parole è ormai da tempo un poeta famoso. Da cinquant’anni si dedica fedelmente al Canzoniere, l’opera della vita, in cui si propone di dare un fedele ritratto di se stesso uomo tra gli altri umani. Ha vissuto a lungo e ha cercato di indagare con ogni mezzo le motivazioni profonde delle sue azioni, si è sforzato di dare un senso, attraverso le parole, ai suoi irrimediabili «O mio cuore dal nascere in due scisso, / quante pene durai per uno farne! / Quante rose a nascondere un abisso!». Ha praticato quella che chiama “poesia onesta”, attenta al reale, autentica e sincera, saldamente legata alla grande tradizione letteraria e lontana dalle febbrili sperimentazioni del Novecento.

Poi, nel 1953, durante un ricovero in una clinica di Roma, il suo intento di tornare a un’epoca lontana, di ripercorrerla con la consapevolezza che gli viene da una lunga esperienza, si realizza in un piccolo capolavoro: il breve romanzo Ernesto, scritto in libertà, senza destinarlo alla pubblicazione, e rimasto incompiuto (fu rivelato al pubblico solo nel 1975, molti anni dopo la sua morte).Saba copertina - La chiave di Sophia

Ernesto è un ragazzo di circa sedici anni, che vive nella Trieste di fine Ottocento e lavora come praticante nella ditta del signor Wilder, grande commerciante di farina. All’inizio del romanzo ha appena conosciuto un giovane uomo che lo sta timidamente corteggiando; poco dopo, Ernesto si dà a lui senza esitare: «voleva far contento, dar piacere al suo amico, e provare egli stesso una sensazione nuova, desiderata appunto per la sua novità e stranezza». I due cominciano una relazione, ma Ernesto comincia a capire quante cose lo separano dal suo compagno.

Un giorno Ernesto si reca dal barbiere, che decide di sua iniziativa di radergli per la prima volta la barba. Per lui è come il segno di una maturità raggiunta, e d’impulso si reca da una prostituta provando «un grande piacere, ma che non gli riuscì nuovo. Gli parve di averlo provato già altre volte, di saperlo da sempre, da prima ancora della sua nascita».

Ernesto si convince di dover lasciare il suo posto di lavoro, anche perché non trova altro modo per troncare con l’uomo. Così scrive una lettera insolente al suo principale, che lo caccia via. Quando la madre viene a saperlo, Ernesto è costretto a rivelarle il vero motivo per cui non vuole tornare da Wilder. È una confessione di straordinaria intensità, che spinge per la prima volta la madre a un vero moto di affetto nei suoi confronti.

In un ultimo episodio, Ernesto si reca a un concerto del violinista Ondricek; in questa occasione conosce il quindicenne Ilio, un bellissimo studente di violino. Nel momento in cui, incontratisi per caso un’altra volta, si danno un appuntamento, la storia si interrompe.

È evidente che il personaggio di Ernesto è una proiezione di Saba stesso: diversi elementi della storia (come il difficile rapporto con la madre lasciata dal marito, l’abbandono precoce degli studi, un noioso lavoro) sono ricalcati sulla biografia dell’autore. Ma il racconto è affidato a un narratore esterno, ormai vecchio, che rievoca la storia molti anni dopo: come per segnare una distanza, ma allo stesso tempo partecipare fino in fondo alle vicende narrate. Anche il linguaggio gioca sulla distanza, alternando un limpido italiano letterario nella narrazione, e nei dialoghi il dialetto triestino o un italiano più colloquiale a seconda dei personaggi.

Ma l’incanto del romanzo sta tutto nel giovane protagonista: un futuro poeta ancora ignoto a se stesso, sempre aperto al mondo, sempre capace di «giungere al cuore delle cose, al centro arroventato della vita, superando resistenze ed inibizioni, senza perifrasi o giri inutili di parole». La sincerità con cui Saba si ritrae è la stessa del personaggio, semplice e incapace di fingere: «la sua forza e la sua debolezza stavano nel mostrarsi, fin dove possibile, quale veramente era».

Saba trascorse gli ultimi anni giocando con lui, con la libertà che gli derivava dalla scelta di non pubblicare la sua storia e di riservarla a pochi amici, «i soli per i quali il racconto è stato “osato”: pochi – si è detto – tre o quattro in tutto». È una fortuna, per i lettori d’oggi, essere ammessi a questa felice, ristretta cerchia.

Giuliano Galletti

 

Ordinariamente amore

È notte. Un’ora imprecisata della notte. Tutto intorno è buio nella stanza. E lei se ne sta lì. Con la testa appoggiata nell’incavo tra la spalla e il collo di lui. In quello che loro chiamano il “suo posto”. Perché sembra fatto apposta per lei, per la sua testa. È della sua misura. È un incastro perfetto.

Se ne sta lì. Con gli occhi aperti. Ad ascoltarlo. Il rumore del suo respiro. Il rumore del battito del suo cuore. Il rumore del suo sonno. Rumori  familiari.

Se ne sta lì e si sente completa. Si sente calma in questa notte rubata dall’insonnia. Respira a fondo il suo odore. Crea ricordi. Non potrebbe essere altrove. Non dovrebbe essere altrove. Semplicemente, non vorrebbe essere altrove, se non lì.

Ed è una piccola rivelazione improvvisa, quella di amarlo. Quella di trovarsi nella situazione in cui amore e vita vanno di pari passo. È un modo diverso di amarlo. È quell’ amore che parla di quotidianità e di condivisione. Condivisione di giornate che iniziano troppo presto e finiscono troppo tardi senza essere riusciti a dirsi più di poche parole. Condivisione di raffreddori e influenze intestinali. Condivisione di pasti frugali e di sere passate a dormire sul divano – esattamente un minuto dopo aver finito di mangiare. È quell’amore che rende speciale una domenica passata abbracciati sul divano, senza fare nulla.  È quell’amore in cui ci si trova a capirsi con uno sguardo e a non capirsi quando si parla troppo. È quell’amore in cui a volte si sta avvolti nei silenzi e delle altre si passano ore a parlare del futuro. È quell’amore in cui si litiga per delle sciocchezze e si fa pace con un sorriso, con un bacio, senza farla durare troppo. È davvero un modo diverso di amarlo. Non è pensarlo in modalità Superman, capace di risolverti tutti i problemi, ma è sapere che c’è, nonostante i problemi. È sapere che c’è, anche se ti metti quel pigiama. È sapere che c’è, anche se sei una grande rompic*****ni. È sapere che c’è, nonostante i difetti, la fatica e i malumori. È sapere che ti sta accanto e che ti ama, come solo lui riesce a fare. Ed è un amore che a tutti gli altri può sembrare monotono, ma che a te riempie il cuore. È amore che sa di vita. È amore che la rende speciale, la vita.

È semplicemente amore.

È ordinariamente amore.

E in questa notte si scopre follemente innamorata. E avrebbe voluto svegliarlo per dirglielo, subito. Per dirgli che lo amava. Ma lo amava non con le farfalle nello stomaco come i primi tempi. Non con il cuore galoppante di una ragazzina. Lo amava senza aver bisogno di cercare continuamente qualcosa di nuovo. Lo amava col cuore solido di chi sa già chi ha di fronte, con allegati i pregi, i difetti e le caratteristiche ics. Lo amava senza se e senza ma, ma con gli anche se. Lo amava con la fermezza di chi ha già passato del tempo assieme e sa che i problemi non li abbattono. Lo amava con la completezza di chi sa che non c’è un “io e te”, ma un NOI, che è diverso. Lo amava col cuore leggero di chi non si accorge del tutto della fortuna che ha. Lo amava col cuore ingenuo di chi crede ancora che l’amore esiste. Più semplicemente, lo amava con tutto il suo cuore, che non ha alcun bisogno di spiegargli com’è perché forse lo conosce meglio di lei.

Ma decide di non svegliarlo. Di tenersi quella rivelazione così improvvisa tutta per lei, ancora per un po’, ancora per questa notte. Di godersi quel suo piccolo momento speciale in cui riesce a guardarsi dentro e rimanerne sorpresa, piacevolmente sorpresa – il che è una rarità. Glielo dirà la mattina seguente. Salutandolo gli dirà “ti amo”, come tutte le altre mattine. Ma sarà diverso. Almeno per lei. E forse lui capirà. O forse no.

In fondo.. è solo “ordinariamente amore”.

Giordana De Anna

Follow @GGiordana

[Immagini tratte da Google Immagini]

Intervista a Umberta Telfener

“Che la tua mano sinistra non sappia quello che fa la tua destra, però sforzati di essere ambidestro” Gregory Bateson

Umberta Telfener, psicologa clinica è laureata in psicologia e in filosofia. Ha lavorato per 10 anni in un Servizio di Salute Mentale, collabora con la Scuola di Specializzazione in Psicologia della Salute dell’Università La Sapienza di Roma ed è didatta del Centro Milanese di Terapia della Famiglia. Ha scritto tra gli altri volumi: Sistemica, voci e percorsi nella complessità, Bollati Boringhieri Torino 2003; Apprendere i contesti, strategie per inserirsi in nuovi ambiti di lavoro, Cortina editore, Milano 2011; Le forme dell’addio, effetti collaterali dell’amore, Castelvecchi, Roma 2007; i citati Ho sposato un narciso, Castelvecchi editore, Roma 2006 e Ricorsività in psicoterapia, Bollati Boringhieri 2014. Potete seguirla sul blog Le forme dell’amore,  per  Io Donna.

Lei è laureata in filosofia. Quali motivazioni alla base della sua scelta?
Quando mi sono laureata in filosofia la facoltà di psicologia non esisteva ancora benché già sapessi di essere interessata alla psicologia. Quando è stata aperta la sede di Roma di Psicologia ero al terzo anno di filosofia ed ho deciso di continuare e finire. A quel punto mi ero appassionata a Dewey e agli aspetti di filosofia della conoscenza che più tardi comincerò a chiamare “epistemologia” e che sono stati il filo trasversale di tutto il mio percorso anche clinico. Mi sono poi iscritta a psicologia e ho iniziato ex novo un’altra facoltà ma la laurea in filosofia mi ha fatto procedere molto più speditamente.

Per noi de La Chiave di Sophia la filosofia non è quella materia di serie B che crea solo disoccupazione. E lei ne è un perfetto esempio. Come crede possa la filosofia essere tutelata dalla società?
La filosofia è fondamentale per apprendere lo sguardo nel vivere. Per me l’epistemologia è stata l’interesse di una vita e credo che abbia costituito il valore aggiunto del mio lavoro clinico. Non si tratta di studiare un filosofo oppure un altro – personalmente mi definisco costruttivista e sono interessata ad autori quali Rorty, Deleuze, Foucault, Varela che non ho certo studiato all’Università – quanto ritengo fondamentale l’atteggiamento verso la conoscenza. Ho la consapevolezza che è lo sguardo, sono le premesse che determinano ciò che si farà emergere da uno sfondo. Per questo considero filosofi anche uomini e donne di scienza che hanno riflettuto sulla vita, come Bateson e Heinz von Foerster. Per rispondere alla sua domanda direi che non sono i singoli autori che vanno sottolineati quanto il metodo filosofico, l’attenzione alle premesse e la conoscenza della conoscenza.

Mi può fare tre esempi pratici di come applica la filosofia alla sua vita?
Nel lavoro clinico mi occupo precipuamente delle premesse che determinano i comportamenti dei miei utenti: i pregiudizi che li limitano, le idee perfette che li organizzano, i presupposti che li guidano. Contemporaneamente presto attenzione a quali siano le categorie con le quali io stessa mi avvicino ad una situazione problematica e sono pronta a cambiare le mie categorie qualora i feedback che ricevo mi indichino che la situazione è in stallo oppure non evolve.
Penso che costruire ipotesi, scegliere percorsi e pensare soluzioni non sia limitato alle caratteristiche del sistema osservato. Le soluzioni emergono dalla decostruzione di idee e comportamenti ed implicano tutti i partecipanti al processo: l’individuo che chiede aiuto, i suoi familiari reali o fantasmatici, io stessa e tutti gli operatori che collaborano consapevolmente o meno alla costruzione del sistema semantico determinato dal problema. Chiamo questo “il sistema osservante” che mi include inesorabilmente.
Ogni definizione di un problema non può essere giusta o sbagliata in senso assoluto. La riflessività diventa lo strumento attraverso il quale agire/operare/pensare in maniera etica. Intendo per riflessività un modo di riproporre la propria esperienza a se stessi in modo da pensare e riflettere sulle azioni che sono emerse dalle azioni che abbiamo fatto già. Si tratta della capacità di utilizzare se stessi per interrogare se stessi in relazione alla danza con se stessi e con altri, Questo me lo ha insegnato la filosofia e il mio ultimo libro clinico lo esemplifica molto efficacemente (Bianciardi M., Telfener U., Ricorsività in psicoterapia, riflessioni sulla pratica clinica, Bollati Boringhieri, Torino 2014)

Quali sono le dinamiche che scattano tra narcisismo patologico e social network? Come questi ultimi influenzano il narcisismo patologico?
I social network sono una ottima e utile vetrina e permettono di tenere i piedi in più staffe, di presentare un aspetto ottimale di sé. Permettono cioè di presentarsi splendidi e splendenti, negando i propri lati bui, oppure di chiedere insistentemente di venir salvati dall’interlocutore di turno. Permettono la velocità, la polifonia, la frammentarietà, il controllo, insomma sono strumenti ideali per lanciare ami e ricevere conferme. Sono sempre stupita di come – purtroppo soprattutto le donne, ma non solo – si tenda a rispondere ai narcisismi delle persone colludendo e confermando la loro grandiosità, in un processo di esaltazione della personalità molto spesso ridicola.
Vorrei comunque portare la vostra attenzione anche al mio ultimo libro sulle relazioni amorose (Gli amori briciola, quando le relazioni sono asciutte, Magi editore 2013) che descrive una tipologia molto attuale di relazioni asciutte e scarne. In questo caso i social network vengono usati a fini utilitaristici e non come vetrina personale.

Quanta correlazione c’é tra selfie e narcisismo patologico?
C’è una enorme correlazione tra selfie e società narcisistica così come tra selfie e società sempre più visiva. Il narcisista patologico non necessariamente ama ritrarsi, esattamente come non è elegante e palestrato né curato. Contrariamente alla credenza diffusa il narcisista delusivo o maligno – che è quello più grave e più sofferente – non è vanesio e spesso è trascurato nell’abbigliamento e nello spazio che abita.

Ha avuto in cura dei casi di tecno- dipendenza, da whatsapp, facebook, twitter?
Non sono un’esperta di dipendenze. Credo che per trattare le tecno-dipendenze siano necessari strumenti e conoscenze specifiche che io non ho, credo che l’intervento non sia quello generico della psicoterapia ma un intervento specialistico molto puntuale che deve proporre tecniche temi molto definite. Anni fa quando era di moda “second life” mi è capitato di trattare situazioni di bigamia da network, molto interessanti e dolorose.

Leggendo “Ho sposato un narciso” la sensazione che si ha è quella di avere tutto ad un tratto gli strumenti per poter leggere e capire persone, comportamenti e situazioni fino a qualche pagina prima assolutamente indecifrabili. Crede che questo avvenga anche con la filosofia? Nel senso, se conosci i concetti base della vita, riesci a leggerla e capirla? E magari, anche ad accettarla?
Non credo si tratti di conoscere i concetti di base della vita quanto di avere un metodo epistemologico per intervenire sulle operazioni del vivere e sulla relazione tra griglie di decodifica degli eventi, interpretazione degli stessi e conseguente atteggiamento verso la vita. Non credo neppure che lo scopo del vivere sia solamente quello di accettare la vita. L’accettazione è il primo passo per arrivare poi a parteciparvi in prima persona con una modalità proattiva ed emotiva oltre che razionale.

La citazione filosofica con cui riassumerebbe la sua vita.
“Che la tua mano sinistra non sappia quello che fa la tua destra, però sforzati di essere ambidestro” Gregory Bateson

La redazione

[Immagini tratte da Google Immagini]

Distanze ravvicinate

Una distanza materiale non potrà mai separati davvero dagli amici. Se anche solo desideri essere accanto a qualcuno che ami, ci sei già.

Richard Bach

Camminavo a passo veloce, dirigendomi verso quello che sarebbe stato il nostro ultimo incontro. Una partenza, un distacco, due come noi, incapaci di affrontare le distanze.
Quel giorno di un freddo inverno ti ho guardato, forse davvero – perché più intensamente – per la prima volta. Quando sorridi sulle tue guance appaiono due piccole fossette; quanto mi sarebbero mancati quei segni. Quanto mi sarebbe mancata la tua voce. Quanto mi saresti mancato tu. Sì, proprio tu. Succede, troppe volte, che per capire l’importanza di una persona la si debba vedere andare via, lontano da noi, in una distanza che sembra impercorribile, di qualsiasi lunghezza sia.

Non posso dire di averti detto tutto ciò che avrei voluto, quel giorno. Sono rimasta nel silenzio della tua voce, nel gioco del tuo abbraccio, per poi staccarmene con più forza. Non sentivo il freddo di dicembre, non sentivo la neve che scendeva, sentivo soltanto mancare una parte di me; la parte che ero stata nel viverti, nella nostra amicizia, nelle nostre emozioni, nel nostro amore.

Parlavi come se non dovessi partire; hai ironizzato sul fatto che avrei potuto venire a trovarti. Eppure lo sapevi, non sarei mai venuta a trovarti. Nessun problema di chilometri o miglia, è l’orgoglio a giocarmi brutti scherzi, è la paura che sento quando manifesto i miei sentimenti. Chi dei due riuscirà a dirsi per primo che sente la mancanza dell’altro? Che gioco stupido, che gioco malsano, che ironia di questi destini poco incrociati.

Ti ho salutato come se ci dovessimo vedere la settimana successiva, come d’abitudine.
Te ne sei andato dalla parte opposta, ma ho scelto di non voltarmi indietro. Ho scelto di non voltarmi mai. Di non guardarti mai più, di ricordare solo il bello che mi hai dato. Ho scelto di custodire i nostri ricordi come se fossero sacri ai miei desideri, ho scelto di diventare un’altra, perché perdere qualcuno significa perdere un po’ di noi.

Vivere le distanze, così mi piacerebbe intitolare questo stralcio di vita che ho raccontato in prima persona.

Chiunque, in un attimo, si è trovato in una situazione simile; a dover salutare chi se ne va. Amici, famiglia, amori mancati.

Fino a quel momento hai dato per scontato ogni momento vissuto con loro, fino a quel momento eravate insieme, in una dimensione da condividere senza pensare a come sarebbe andata. Progetti fatti, risate e pianti, litigi e chiarimenti: ti ritrovi a ripensare ad ognuno di questi, come se non li potessi mai più rivedere.

Non importa se sia una separazione temporanea o definitiva; al ritorno sarete cambiati, almeno questo è quello che si pensa. Un cambiamento radicale, un cambiamento che è sinonimo di divisione.

È una sensazione di vuoto, una sensazione che prende stomaco, cervello, cuore. Si può scegliere di ignorarla, si può sorridere e continuare la propria routine; ma per qualsiasi sciocco motivo, anche tra i più banali, qualcosa, nella nostra giornata, ci ricorderà quella persona. I particolari meno visibili ci appaiono come grandi evidenziatori per ricordarti quella distanza che, a discapito di ogni previsione, lega.

Non c’è rassicurazione che tenga, non c’è conforto. E non c’è whatsapp, non c’è Skype, non c’è iMessage e non c’è FaceTime che tengano.

Non si può portare a cena con un telefono. E nemmeno in una serata tra amici o all’orario aperitivo.

E pensare che quando eri in compagnia di quella persona i cellulari vi distraevano tanto, pensare che il messaggio a cui dovevate rispondere era di vitale importanza. E adesso, ripensando a quei momenti, il cellulare lo butteresti nel primo tombino disponibile. Metteresti un cartello in fronte con scritto “Non disturbare, devo stare con una persona importante”.

Importanza, ecco la parola chiave. La distanza amplifica l’importanza di una persona così come la vicinanza sembra annullarla. L’importanza si dovrebbe dimostrare ogni giorno, in ogni gesto e in ogni occasione. Senza remore, senza sconti. Senza Twitter, Facebook e compagnia bella.
A piccole dosi e a gesti plateali. L’importanza delle persone a cui teniamo va celebrata. Nei modi più disparati, nelle manifestazioni più istintive.

Ed è a questo punto, forse, che la distanza può essere capace di costruire. Un’amicizia può diventare lunga una vita e un amore può acquisire la lettera maiuscola. I legami sono fatti per essere vissuti, momento per momento, in una dimensione presente che non si incrocia col futuro finché quest’ultimo non diventa il nostro momento. L’occasione di vivere quella persona, di sentirla parte di noi, di respirarla. Le occasioni non diventano naturalezza se non sappiamo sfruttarle.

Le distanze si accorciano perché siamo noi a farle diventare brevi. Le persone non perdono il proprio posto, se noi per primi riusciamo a tenerlo stretto.

Un anno dopo

Era passato un anno da quello che avrebbe dovuto essere il nostro ultimo incontro. La stessa atmosfera natalizia, la stessa città, le stesse luci. Camminavo a passo lento, camminavo sorridendo, sentivo battere il mio cuore. Ti ho guardato come se non fosse passato il tempo, ti ho guardato, per la seconda volta, intensamente.
Mi hai stretta forte, ringraziandomi di essere rimasta a custodire la nostra lontananza.
Soltanto allora l’ho capito; non te n’eri mai andato, eri soltanto entrato nel mio cuore per uscirne fisicamente in un inaspettato – seppur atteso – giorno caldo di dicembre.

Cecilia Coletta

[Immagini tratte da Google Immagini]