Giordano Bruno e la metafora dell’asino

Prigionieri del ritmo incalzante della vita, quante volte lasciamo che fatti ed eventi che dovrebbero esigere la nostra attenzione passino inosservati o ci lascino indifferenti? Probabilmente non ce ne accorgiamo perché ci siamo assuefatti al modus vivendi dell’inerzia mentale: non vogliamo perdere tempo e allora scegliamo di non voler sapere e ci accomodiamo nello stato della “beata ignoranza”. Forse lo facciamo per una questione di quieto vivere o forse perché abbiamo bisogno di anestetizzarci emotivamente, dal momento che la vita già “ci regala” preoccupazioni in abbondanza.

Il filosofo nolano Giordano Bruno, nella Cabala del Cavallo Pegaseo (1585), definiva questa forma di ignoranza «asinità di semplice negazione», ritenendo che sia propria di coloro «che non sanno, non presumono di sapere» e nondimeno vogliono sapere (cfr. G. Bruno, Cabala del Cavallo Pegaseo con l’aggiunta dell’Asino cillenico, 1985)

L’asinità di semplice negazione è una sorta di moderno analfabetismo di ritorno, da cui ciascuno di noi può essere affetto quando, pur essendo in grado di comprendere, valutare e agire scientemente, per pigrizia intellettuale o per non affaccendarci in problemi che crediamo non ci riguardano, disconnettiamo la ragione e da animali pensanti regrediamo allo stato di asini insipienti, «che tutte le facoltà dell’anima uniscono nella sola capacità di ascoltare e credere» (ibidem).
Così ci disabituiamo a pensare autonomamente e diventiamo bisognosi di una guida spirituale o di un leader carismatico che pensa e decide per noi. Deleghiamo la nostra libera facoltà di ragionare e di agire a delle autorità che ci sovrastano, alle quali, come asini consenzienti, crediamo e obbediamo.
Quante volte ci siamo fatti abbindolare dalle cangianti tendenze della moda, dalla legge del mercato o dagli influencer del momento, che ci instillano gusti che non sono i nostri e bisogni che non abbiamo? E noi, similmente a marionette, mettiamo nelle mani altrui il senso e la direzione della nostra vita, perché non abbiamo elaborato un pensiero nostro, non sappiamo cosa vogliamo, cosa sia giusto o vero, perché, in realtà, non ci soffermiamo a guardare dentro noi stessi, dal momento che farlo costa fatica e coraggio.

L’asinità ha anche il volto della presunzione. Lo sapeva bene Bruno che aveva dovuto scontrarsi con i dogmatici saccenti del suo tempo, che aveva etichettato come «asini per cattiva disposizione». I saccenti, ingabbiati nei “paraocchi mentali” di una dottrina, presumono di essere i depositari dell’unica e incontestabile verità e dunque di non avere più nulla da imparare. E, ostentando un’intransigente quanto sterile superiorità intellettuale, si sentono autorizzati ad avversare, perseguitare e condannare chi è portatore di opinioni differenti dalle proprie.

Bruno aveva coraggiosamente affrontato anche la stolta follia degli «asini per divina acquisizione», gli ignoranti per fanatismo religioso, i suoi carnefici. Il fanatismo religioso non solo riduce la capacità di pensare allo stato di quiescenza, ma inebetisce finanche la coscienza morale. Per cieca fedeltà, il fanatico religioso obbedisce acriticamente all’autorità divinizzata di un leader (politico o religioso) anche quando gli ordina di violare la dignità altrui, trucidare e condannare a morte il cosiddetto nemico, che ha commesso il “reato” di pensarla in modo diverso o che ha manifestato apertamente il suo dissenso.

Ogni giorno i telegiornali ci sbattono in faccia fatti di insensata brutalità, perpetrati dagli uomini contro l’umanità tutta, in nome di un Dio che dice sante le guerre e meritevoli del paradiso gli assassini autorizzati per fede, o a causa di un despota che dispone della legge e della giustizia arbitrariamente. E noi? Non possiamo stare a guardare con un atteggiamento di imperturbabile irresponsabilità. La denuncia di Bruno va oltre il suo tempo e continua a condannare l’asinità che ancora oggi ha il volto negativo dell’arroganza e della stoltezza, dell’inoperosità e dell’indolenza. Ogni qualvolta deleghiamo o lasciamo correre, rinneghiamo la nostra natura di animali pensanti e ci imbestiamo, e, a causa dell’ottusità, diventiamo responsabili così che ricadono su di noi quelle colpe per i mali del mondo che accolliamo agli altri.

Bruno, però, individua anche un’asinità positiva, un antidoto contro quella insana e folle: l’asinità sensata. Quest’ultima, a differenza dell’altra, ha il volto dell’umiltà, perché è constatazione che siamo fallibili e non onniscienti, che rispetto alla verità siamo sempre mancanti, che c’è sempre da imparare. L’asinità sensata è inquieta, non sta comoda nello stato di mancanza, anzi è esortazione costante alla ricerca, impegno quotidiano alla riflessione per l’azione, apertura al dialogo e al confronto. È quel saper di non sapere che allerta la ragione e la coscienza morale a essere vigili, a non perdere di vista i fini, a prestare attenzione a ciò che accade e a farsene carico responsabilmente. È quel bisogno di interrogare per comprendere che ci salva da ogni errore e conflittualità.

Finché rimarremo connessi con la nostra ragione, rimarremo connessi con la nostra umanità, la sapremo esprimere al meglio e faremo del nostro mondo un posto migliore.

 

Marilena Buonadonna

 

[Photo credit hay s via Unsplash]

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La forza gentile delle donne

Quel giorno, erano le 11.30, stavo tornando a casa in macchina. Ascoltavo un po’ di musica alla radio, quando la vettura che mi precedeva si ferma di colpo. Mi accorgo di movimenti concitati nell’abitacolo. Fermo anch’io la mia corsa. Affianco l’auto. Vedo l’uomo sferrare un pugno alla donna che sedeva dietro, accanto a suo figlio. Un’altra auto sopraggiunge. Faccio segno all’uomo di fermarsi subito. Mi manda a quel paese. Scendo dalla macchina e gli vado contro. La donna, che era alla guida di quell’altra auto, mi affianca. Esce un tesserino dalla tasca. Lui cambia espressione. La donna chiede alla signora cosa stesse accadendo. Abbiamo visto tutto, la possiamo aiutare. Lei – ricordo ancora quello sguardo – mette la mano sulla spalla dell’uomo. “Nulla. Non sta accadendo nulla. È mio marito. Andiamo a casa”. L’uomo si allontana, impaurito (gigante di argilla). La donna ci ringrazia: “Grazie, ma ora andate via”.

 

Mi ricordo ancora il silenzioso urlo di dolore di quella donna, soffocato nella vergogna. La dignità offesa. E poi il figlioletto, terrorizzato, muto testimone di tutto.

La violenza di genere è un fenomeno noto in ogni tempo. Antigone e Ipazia ci hanno raccontato le loro storie. Ma negli anni, purtroppo, poco è cambiato. Non sono mancate, certo, le motivazioni morali contro la violenza e in particolare contro la violenza su donne e bambini. Sono mancati invece quei meccanismi, quelle leve giuste per attivare nuovi processi culturali, istituzionali, politici, legislativi. Ha ragione Luisa Muraro quando, provocatoriamente, scrive: «la storia ha voltato pagina? Bene, noi le volteremo le spalle» (L. Muraro, Dio è violent, 2012).

Quella tanto cara ragione moderna, dell’uomo adulto, universale ed emancipata, si è rivelata una gabbia di ferro, funzionale al controllo generalizzato. Quel pensiero non ha solo voltato le spalle alle donne, ha aggiornato i modelli di subordinazione, di sottomissione. Una razionalità tanto lontana dal privilegiare l’intersoggettività, il rapporto con l’altro, la concretezza, l’attenzione al tempo presente, il pensiero circolare. Non ne faccio una questione ideologica o di appartenenza. È un fenomeno diffuso in tutte le società del mondo.

Alcuni anni fa, l’Orchestraccia rivisitò Lella (di Edoardo De Angelis), un classico della tradizione musicale romanesca, nella quale viene raccontata la storia di un femminicidio. Nel video dell’Orchestraccia, però, la storia cambia. Ci sono donne ferite, che portano i segni delle offese, ma che si rialzano e che cancellano da sole le tracce delle percosse, i lividi e le cicatrici. Quelle che vengono rappresentate sono donne che non cedono e non hanno paura di uomini violenti. Donne forti, ma di una forza differente; non quella, per intenderci, alla quale prelude la cosiddetta “legge del più forte” ma una forza immortale, vigente, effettiva e gentile, tutta rivolta alla pace, direbbe Maria Zambrano. Questa forza cambia la storia strappando quel “velo di Maya” che nasconde la realtà delle cose, con lo stesso coraggio e la stessa determinazione delle donne iraniane che si tagliano i capelli e si tolgono il velo. Sono gesti che allargano lo spettro semantico e simbolico di tutto quello che ci circonda.

La violenza non è solo quella del sangue e del corpo. È violenza anche la sottrazione di beni, materiali e non. C’è la violenza psicologica e dei sentimenti. L’ingiustizia, l’emarginazione, l’isolamento, il pregiudizio: sono espressioni di una violenza nelle relazioni sociali, spesso accompagnata da una violenza nell’interazione comunicativa. Nessuno può dirsi estraneo, cognitivamente, a tutto ciò. Allo stesso tempo mi chiedo quanto sia motivata la nostra volontà e il nostro desiderio di uscire da questi cortocircuiti del pensare.
Me lo chiedo perché non si può cambiare la società con la violenza, anche se in fondo è quello che abbiamo sempre fatto o tentato di fare. L’azione violenta è la distruzione di ogni possibilità; è pura disperazione. Così come la legge del più forte è la negazione di ogni giustizia, di ogni bene. Io penso, invece, ad un’azione differente. Un agire non femminista, ma femminile, che liberi le donne dalla sofferenza di relazioni malate.

Una rivoluzione che è un “agire creativo”, ispirata al bene e alla giustizia, orientata da un pensiero dell’alterità e della differenza che, in una nuova alleanza donna-uomo, affermi ogni giusta pretesa e abbassi l’arroganza dei potenti, preluda a forme migliori dello stare insieme e dia parole nuove per nuovi pensieri. Mi riferisco a un’azione “disobbediente”, non alle leggi, ma al pensiero conformista della maggioranza e all’indifferenza, e che aiuti tutti ad essere persone migliori.

 

Massimo Cappellano

 

[Photo credit Katherine Hanlon via Unsplash]

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La gestione del dolore tra Ragione e Sentimento seguendo Jane Austen

La maggior parte di noi ha incontrato Jane Austen durante gli anni scolastici, un’autrice spesso liquidata piuttosto frettolosamente e della quale, in seguito, magari non ci si ricorda. Eppure i temi trattati dall’autrice sono molto più attuali di quello che potrebbe sembrare in apparenza. I personaggi di Jane Austen e, in particolare, le sue eroine sono spesso in bilico tra volontà e necessità, sogni e realtà, piaceri e doveri come emerge così chiaramente sin dal titolo in Ragione e Sentimento. Il romanzo, pubblicato anonimo nel 1811, ci presenta due figure che sembrerebbero incarnare perfettamente questa eterna lotta che ognuno di noi si è trovato ad affrontare, anche più di una volta, nella vita. Elinor e Marianne Dashwood, pur essendo sorelle, hanno caratteri opposti: se la maggiore, Elinor, si staglia come implacabile ma anche ironica paladina della Ragione, la più giovane, Marianne, è posseduta da passioni tumultuose impersonificando il Sentimento. A ben vedere, però, nel romanzo esse non sono sempre in contrapposizione venendosi, anzi, in soccorso a vicenda. Il Sentimento, con le parole e le movenze di Marianne, interviene per lambire l’animo di Elinor e farla, almeno in parte, capitolare sognante e a tratti malinconica allo stesso tempo; la Ragione, grazie al suo potere di penetrare nell’oscurità delle passioni, lenisce l’animo di Marianne, la riconduce su una via meno tortuosa, in qualche modo la protegge.

«Elinor trovava ogni giorno tempo libero a sufficienza per pensare a Edward e al comportamento di Edward, con tutta la varietà che il mutevole stato del suo spirito poteva produrre in diversi momenti: con tenerezza, pietà, censura e dubbio» (J. Austen, Ragione e Sentimento, 2004).

La difficoltà di scelta tra la ragione e il sentimento, apparentemente sempre in lotta tra loro, si traduce anche nella complessa gestione del dolore; perché se è vero che le sorelle si comportano in maniera diversa nella vita di tutti i giorni ed hanno interessi differenti, il punto focale è la loro reazione ai dolori, nello specifico a due tipi di dolore entrambi legati alla sfera dell’amore. Elinor, innamorata di Edward Ferrars, il fratello della cognata Fanny, rinuncia alla speranza di potersi sposare con lui e lavora mentalmente per poter gestire questo dolore in maniera razionale, facendo appello a quello che, genericamente, potremmo chiamare buon senso. Marianne, invece, viene sedotta e abbandonata da John Willoughby che sceglie un matrimonio più conveniente; in questo caso la gestione del dolore è del tutto opposta a quella di Elinor e Marianne si abbandona alla più totale disperazione fino ad ammalarsi gravemente.  Anche qui, però, si possono notare delle sfumature più sottili: Elinor non sembra indifferente allo stato d’animo della sorella quanto piuttosto una custode, pronta a farla riflettere maggiormente e a non abbandonarsi del tutto all’impulsività. Nelle domande che le rivolge sembra esserci anche un implicito richiamo alla coscienza e all’amor proprio:

«Ma, mia cara Marianne, non cominci a dubitare dell’indiscrezione della tua condotta, adesso che ti ha già esposto ad alcune osservazioni molto pungenti?» (ibidem).

Nella nostra vita, allora, la Ragione non appare solo come qualcosa di rigido ed austero ma anche come aiuto concreto nell’affrontare la quotidianità delle giornate, con le sue gioie e i suoi dolori. Allo stesso tempo, il Sentimento non è solamente irrazionalità ma anche passione, tumulto benefico dell’animo, entusiasmo e curiosità. È proprio grazie alla delicata commistione tra i due elementi, quindi, che riusciamo a reagire ai dolori, alle delusioni, ai piccoli e grandi tormenti ed è, perciò, necessario appellarsi ad entrambi, Ragione e Sentimento, lasciarli dialogare per cercare un equilibrio senza soffocare né l’una né l’altra parte; in fondo Marianne non potrebbe vivere senza Elinor e viceversa. Come fratelli, Ragione e Sentimento, possono sostenerci soprattutto in un periodo storico come questo, fatto di contraddizioni enormi, fragilità ormai evidenti e crisi che sembrano moltiplicarsi di giorno in giorno. Affinché lo sconforto non prenda il sopravvento, dobbiamo davvero fare appello a questi due fratelli così da poter sì analizzare, comprendere, informarci, agire con raziocinio, ma senza perdere quella tenerezza che ci fa umani e che, pure, ci rende capaci di andare avanti senza paura di scoprire il cuore. Imparando a dar voce a entrambi, dopo un primo momento che potrebbe apparire confuso, riusciremo ad ascoltarli e a cogliere il meglio dell’uno e dell’altro.

 

Veronica Di Gregorio Zitella

 

[photo credit Piret Ilver via Unsplash]

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Hybris alimentare: mangiare carne secondo Plutarco

Se qualcuno ancora pensa che la questione del non mangiare carne animale sia una moda nata non più di qualche decennio fa, occorre che sia prontamente smentito. Sono molti gli intellettuali della storia che hanno deciso di privarsi della carne o che si sono dichiarati pubblicamente contrari, tra cui Tolstoj, Leonardo, Darwin, Gandhi, fino a Plutarco e ancora prima a Pitagora.

Al tema Plutarco, autore e filosofo greco del I secolo d.C, ha dedicato tre scritti contenuti nei Moralia, gli scritti morali. I componimenti, secondo la lettura che ne dà il critico Dario Del Corno, intendono «promuovere una rivalutazione dell’universo animale, che sia ispirata da criteri di giustizia, comprensione e solidarietà, tali da contrastare nell’abitudine degli uomini gli impulsi allo sfruttamento e alla crudeltà» (Plutarco, Del mangiare carne. Trattati sugli animali, Adelphi 2001, p. 34). I tre scritti non possiedono un piano omogeneo e affrontano la questione con una propria prospettiva, uno stile e un espediente narrativo diversi.

Il primo, Sul mangiare carne, è una polemica contro l’uso alimentare della carne, avvalorata anche dalla teoria pitagorica della metempsicosi1 (ma senza elevarla ad argomentazione principale). Nel secondo, Gli animali usano la ragione, la cosa interessante è che a perorare la causa sia un maiale, uno dei compagni di Ulisse trasformato in animale da Circe, Grillo, che della sua nuova condizione non si dispiace poi tanto. L’ultimo s’intitola Tra gli animali sono più intelligenti i terrestri o gli acquatici? ed è un dialogo sul modello platonico tra più personaggi. L’idea di Plutarco qui è che gli animali siano dotati di ragione, benché “imperfetta” rispetto a quella dell’essere umano, e che tra i tanti animali esiste semplicemente una differenza di grado.

Ciò che colpisce, soprattutto i più scettici, è che se non si sapesse nulla di Plutarco e ci si tuffasse nella lettura, si potrebbe anche pensare che sia vissuto poco tempo fa. Il motivo è la straordinaria attualità delle sue principali argomentazioni.

La prima riguarda l’uso smodato della carne da parte dei suoi contemporanei, una vera e propria «hybris alimentare» come la definisce ancora Dario Del Corno, scrivendo che Plutarco manifesta il suo sgomento nel trovarsi «al centro di un’attualità devastata dal delirio del consumo […] un’epoca che ha scelto di abbandonare la via maestra della natura e della misura, lasciandosi travolgere dall’ansia dell’eccesso» (ivi, p. 17). In sostanza, ci dice il pensatore greco, siamo ben lontani da quegli esseri umani che si nutrivano di animali per necessità e che la fame portava a fare qualcosa di contrario alla loro natura. «Ma voi, uomini d’oggi, da quale follia e da quale assillo siete spronati ad avere sete di sangue, voi che disponete del necessario con una tale sovrabbondanza?» (ivi, p. 57). E ancora: «ancora più terribile è vedere […] che gli avanzi sono più abbondanti di quanto è stato consumato. Queste creature dunque sono morte inutilmente!» (ivi, p. 60). Plutarco punta il dito contro i suoi contemporanei e li taccia di tracotanza (hybris): non uccidete per necessità ma per diletto, «per mangiare in modo più raffinato», un atto insolente, ingiusto, eccessivo, ingiustificabile. Sono parole scritte quasi duemila anni fa ma si sposano perfettamente nel mondo contemporaneo occidentale in cui finisce nel cestino quasi il 40% di quello che si produce a livello alimentare2.

Ma perché dovrebbe essere “ingiusto” cibarsi di carne? E qui arriviamo alla seconda argomentazione di Plutarco, secondo il quale gli animali sono dotati di ragione, sebbene non come quella dell’essere umano che è perfezionata «dalla cura e dall’educazione». Chi più chi meno, così come tra noi umani, gli animali hanno ragione, provano sensazioni, hanno coraggio, amore, viltà, socialità, paura, astuzia, stoltezza. Lo asserisce facendo numerosissimi esempi in tutti e tre gli scritti, echi di neonata zoologia. Ma Plutarco va anche oltre: gli animali sono più virtuosi degli uomini, ed ecco perché il greco Grillo preferisce la sua forma di maiale. Sono più virtuosi dell’uomo perché «la vita di noi animali è governata in genere dai desideri e dai piaceri necessari, mentre con quelli non necessari ma soltanto naturali abbiamo un rapporto che non conosce sregolatezza né eccesso» (ivi, p. 92). La soddisfazione dei piaceri dunque non ha a che fare con la violenza. «Se poi credete che non si debba chiamarla ragione né intelligenza,» conclude il filosofo «è il momento di cercare un nome più bello e più onorevole per definirla» (ivi, p. 98).

«Non è semplice estrarre [dall’essere umano] l’amo del mangiare carne, impigliato e conficcato com’è nella brama del piacere» scrive Plutarco; ma nel 2021, quando il consumo di carne è così strettamente legato anche alla crisi climatica e sociale che ne consegue, vale la pena renderlo un costante argomento di conversazione.

 

Giorgia Favero

 

NOTE:
1.La reincarnazione, la trasmigrazione dell’anima da un corpo a un altro.
2.Si riporta una delle innumerevoli fonti. L’industria della carne si pregia di essere la virtuosa in termini di sprechi: solo il 5% di ciò che viene buttato dal consumatore. Sarebbe utile consultare qualche dato sullo spreco durante la filiera, anche se l’utilizzo degli scarti di macellazione come ossa, teste, organi ecc. vengono effettivamente reimpiegati in altre industrie.

[Photo credit unsplash.com]

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Filosofia, pensiero critico e verità. Una disciplina antica per uno sguardo sempre attuale

La filosofia in Francia è considerata una materia fondamentale, al pari del francese o della matematica, e viene insegnata in tutti i licei (più o meno come in Italia). La novità è che, sempre in Francia, a breve potranno aderire a un progetto di inserimento esteso della filosofia anche gli istituti professionali. La motivazione? Per chi nutre stima e passione per la filosofia non sarebbe nemmeno necessario dare una spiegazione, ma la riposta di Fréderic Le Plaine è eloquente. In qualità di presidente dell’associazione di promozione dell’insegnamento della filosofia Acireph ha dichiarato su Le Monde: «Tenere gli alunni dei professionali a distanza da una disciplina come questa, che ha in sé una vocazione universalista ed emancipatrice, è ingiustificabile. A meno che non li si consideri meno capaci degli altri»1.

La filosofia è dunque un sapere che abilita gli esseri umani a pensare in modo razionale, fornendo strumenti per provare a pilotare le proprie esistenze, piuttosto che subirle. A molti può suonare incomprensibile il fatto che la filosofia abbia questo potere, infatti molto dipende anche da come viene insegnata. La storia della filosofia, come di solito si configura questa materia nei licei, può essere un trampolino di lancio verso un vasto mondo di conoscenza oppure, se insegnata senza passione, una mera sequela di “chi ha detto cosa quanti anni fa”. In ogni caso, rimane pur sempre una possibilità di aprire un sentiero verso la forma di sapere più dignitosa, come la definiva Aristotele2, in virtù del fatto di non servire a niente. E qui il gioco di parole è illuminante, perché Aristotele ci dice che non serve a niente perché la filosofia non è serva di nessuno, semmai regina e quindi siamo noi a doverla servire. Il primo servizio che dovremmo tributarle è quello di tramandarla e quindi non allontanarla dal mondo dell’istruzione. I filosofi greci hanno fondato questa disciplina come territorio della ragione contro altre forme di sapere, in primis l’opinione, che ancora oggi ci tormenta come falso simulacro della verità. Quanti ancora di noi oggi hanno problemi a distinguere le opinioni dai dati oggettivi?

La realtà in cui viviamo si è fatta estremamente complicata perché già viviamo da sempre immersi in un sistema di reti intrecciate la cui portata non siamo in grado di cogliere fino in fondo, ma a questo intreccio abbiamo aggiunto complessità noi stessi, con le nostre pratiche. Il mondo dell’informazione e della comunicazione sono ormai, per quanto artificiali, altamente complessi, perché numerosissimi individui possono perturbare il sistema globale dell’informazione. Questo diventa chiaro se pensiamo il potere che le tecnologie digitali consegnano a ciascuno in termini di comunicazione. Si tratta di un potere che può essere speso bene, per creare reti di cooperazione basate su fiducia, onestà e ricerca della verità. Tuttavia, questo potere oggi è troppo spesso usato con conseguenze nefaste. Un uso sbagliato della comunicazione confonde opinioni con fatti di verità, mescola scienza con giudizi personali, diffonde idee che allontanano dalla ricerca delle vere cause degli accadimenti. È pericoloso non avere idea di come funziona la ragione che prova a farsi strada nell’intricata rete della vita depurando la verità dalle menzogne, oggi note anche come fake news.

La filosofia insegna a discriminare le forme della conoscenza, perché non tutto può accedere al soglio della verità. Laddove la conoscenza si fa oggettiva, fattuale o empirica sappiamo che la scienza possiede preziosi strumenti per svelare la verità. È importante anche sapere dove questa disciplina si ferma per lasciare spazio ad altre forme di conoscenza. La scienza procede con un metodo rigoroso; tutti, in teoria, potremmo darle un contributo se accettiamo il suo metodo e le sue regole, che prevedono anche che la verità dei suoi contenuti possa non essere definitiva, infatti la scienza è un sapere dinamico. Potremmo dire che la scienza, in qualche modo, ha implicitamente fatto proprio il motto socratico “so di non sapere” proprio mettendo in conto che qualcosa di ignoto potrebbe emergere in futuro e smentire una teoria. Questa è una grande verità, perché la nostra capacità umana sarà, sì, sempre limitata di fronte alla potenza dell’universo, ma anche potentemente migliorabile. L’idea insita di progresso in questa possibilità di rivedere i contenuti di verità alla luce di nuove scoperte è un invito che dovrebbe condizionare tutti noi nei confronti del nostro approccio al sapere. Questa non è un’esaltazione del relativismo assoluto, ma un’esortazione al pensiero critico, che valuta continuamente di chi fidarsi. La filosofia può ancora fare molto in questo senso e insegnarla può essere una questione di giustizia, proprio come sostiene Fréderic Le Plaine.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
1. Versione online del 2 marzo 2021.

2. cfr. Aristotele, Metafisica.

[Photo credit Michael Carruth via Unsplash]

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“Timore e Tremore” di Kierkegaard: salvezza umana e individualità

Timore e Tremore (1843) di Kierkegaard è un’opera magistrale perché offre una delle più interessanti considerazioni filosofiche su che cosa sia la fede in relazione alla ragione e alla morale. Lo scrittore in questione è il padre ante litteram dell’esistenzialismo e l’opera affronta in maniera dettagliata il sacrificio a Dio da parte di Abramo del suo unico figlio Isacco, descritto nell’Antico Testamento e rappresentante una delle massime religiose più influenti del credo cristiano. Kierkegaard con quest’opera cercò, inoltre, di opporsi alla chiesa danese, cercando di riportare il culto cattolico alle origini. Non a caso il titolo dell’opera riprende una frase tratta dalla Seconda lettera ai Corinzi dell’apostolo Paolo: l’individuo deve affrontare da sé Dio, riflettendosi in esso e passando attraverso laceranti passioni. Timore e Tremore rappresenta perciò un nuovo modo di intendere il sentimento in relazione al rapporto con l’altro e ai propri desideri.

 «”E Dio mise alla prova Abramo e gli disse: Prendi Isacco, il tuo unico figlio che tu ami, e va’ nella terra di Moria e sacrificalo ivi in olocausto sul monte che ti mostrerò” [Gen, 22, 1-2] camminando tre giorni in silenzio [scrive Kierkegaard nell’opera] la mattina del quarto giorno, Abramo non disse parola ma, alzando gli occhi vide in lontananza i monti di Moria. […] Si fermò, pose la sua mano sul capo del figlio in segno di benedizione […] ma Isacco non riusciva a capirlo, la sua anima non poteva elevarsi tanto»1.

In parallelo alla descrizione del sacrificio di Abramo a tratti romanzata dal filosofo, c’è anche una lucidissima e profondissima analisi sul valore e il significato di questo sacrificio, sulle conseguenze che da esso scaturirono, sull’immensa angoscia che questa scelta ha generato, ma soprattutto sullinaudito paradosso della fede. Il sentimento religioso emerge così in tutta la sua forza ed evidenzia in prima battuta due concetti molto chiari. Il primo consiste nella libertà di scelta che l’uomo possiede e in secondo luogo affronta la terribile angoscia che può scaturire da questa grandissima libertà. Abramo personifica entrambi gli aspetti, tra ragione e fede.

Dopo il comando di Dio, Abramo obbedì. Pose sull’altare Isacco e mentre si apprestava a compiere l’azione sente la voce di un angelo che lo intima a fermarsi, mentre la sua mano stringe ancora saldamente il pugnale, esattamente un attimo prima che lo stesso ricada su Isacco. Questi non viene dunque sacrificato e Abramo ha superato la prova: riavrà così suo figlio per la seconda volta.
Qui s’innesca il primo terribile paradosso: egli è un omicida mancato oppure il migliore dei figli di Dio?
La questione è basilare ma viene liquidata facilmente tanto dagli atei quanto dai credenti, sostiene Kierkegaard. Il pensatore tuttavia non ha dubbi. Ammira il gesto di Abramo, lo esalta, lo capisce, non lo condanna e scrive: «io non sono in grado di fare il movimento della fede: non posso chiudere gli occhi e precipitarmi fiducioso nelle braccia dell’assurdo, questo è per me impossibile ma non me ne vanto»2.

Il paradosso della fede si racchiude «in questa in virtù dell’assurdo, poiché qui non potrebbe esserci un calcolo umano, e l’assurdo è che Dio, il quale esigeva quel sacrificio, un istante dopo avrebbe revocato la richiesta […] credette che Dio non avrebbe preteso Isacco. Egli fu sicuramente sospeso dall’esito […] e così egli ricevette con una gioia maggiore Isacco rispetto alla prima volta»3. Ogni calcolo umano deve essere abbandonato e il Singolo deve rifiutare la mediazione e trovarsi davanti a Dio con la sola fede senza l’appoggio di istituzioni come la Chiesa. È qui che può avvenire la sua perdizione o la sua salvezza. In questo modo Kierkegaard cerca con tutte le sue forze di salvare il Singolo, vedendo nell’individualità la risposta ai dilemmi del mondo. Il Singolo, infatti, una volta entrato nel paradosso verrà a toccare l’affanno e l’angoscia per diventare veramente individuo. Ciò traccia le linee del Cavaliere della Fede: una figura quasi mitologica. Abramo dopo la prova lo diventa, rappresentando così l’uomo più divino di tutti.

«Lui sa della sicurezza ch’è data dal generale. Sa quanto è bello nascere come Singolo che ha nel generale la sua patria […]. Ma sa anche che al di sopra di questo si snoda una vita solitaria, stretta e dirupata; sa com’è terribile esser nato solitario fuori dal generale, e dover camminare senza incontrare nessun compagno di viaggio»4.

Concludendo, la strada romantica indicata da Kiekregaad in Timore e Tremore presuppone la salvezza dell’uomo, che paga però a caro prezzo. L’individuo, infatti, non solo deve passare per passioni destabilizzanti che minano la propria identità, ma dovrà anche accettare la solitudine nei confronti del mondo. La realtà però non viene sacrificata dal filosofo in nome dell’isolamento individuale perché se siamo qui, qui dobbiamo restare. In tal senso la fede non è una mera promessa d’eternità dopo la morte ma la prova continua dell’uomo su questa terra.

 

Simone Pederzolli

 

NOTE
1. S. Kierkegaard, Timore e Tremore, Rusconi, Santarcangelo di Romagna, 2011, p. 7.

2. Ivi, p. 25.
3. Ivi, p. 27.
4. Ivi, p. 62.

[Photo credit Josh Boot via Unsplash]

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Seneca, “Lettere a Lucilio”: essere schiavi della felicità degli altri

«[…] Possiederai il tuo vero bene il giorno in cui capirai che gli uomini cosiddetti felici sono i più infelici»1.

È questa la conclusione dell’ultima lettera di Seneca a Lucilio, e l’ultimo consiglio che il maestro dà al suo amico. Mai, come nell’epoca odierna, esso si rivela più pertinente. È infatti innegabile che, attraverso i mezzi di comunicazione, gli uomini vivano come perennemente affacciati alla finestra, a osservare gli altri, ma senza esperirli davvero e dunque senza conoscerli.

Le immagini di uomini e donne che ci passano continuamente sotto gli occhi non sono che frammenti di vite, delle quali in realtà non sappiamo nulla. Credendo che intere esistenze felici siano racchiuse in scatti durati meno di un secondo, e delle cui restanti ore non resta niente, subito si sente il bisogno non solo di emularli ma anche di superarli in sorrisi più smaglianti, in foto più sgargianti.

Tuttavia, l’ostentazione della felicità ci distoglie dal ricercare che cosa sia realmente il nostro bene. Ecco perché l’ultima lettera di Seneca non è rivolta soltanto a Lucilio ma alla nostra stessa epoca storica e al suo malessere.

In quest’ultima lettera Seneca riflette sul fatto che il bene appartenga alla ragione, alla mente. Il bene, cioè, non è una pura soddisfazione dei bisogni o un accumulo di piaceri. Se così fosse, i visi sorridenti che scorrono sui nostri schermi sarebbero sinonimo di felicità; se il posto del bene si trovasse nei sensi, nel materiale appagamento, la società di massa sarebbe stata la mossa vincente per raggiungere e tenere stretta a sé la felicità. Al contrario, avere tutto a portata di mano, ottenere prima ancora di dire “vorrei”, non ci ha garantito il nostro bene. Siamo invece più fragili, insicuri, peggio che sulla corda di un equilibrista.

È perciò evidente che il bene si trovi altrove e Seneca individua appunto come suo luogo la ragione. Perché la ragione e non qualsiasi altra cosa? Perché il bene è «un’anima libera e retta, che pone tutto sotto di sé, niente al di sopra»2. La schiavitù di questo tempo è di certo la felicità altrui; così, gli uomini si sono privati in un nuovo modo di una vecchia libertà, quella di trovare ed essere se stessi. Il bene, che conduce così alla felicità, è restare saldi in se stessi ed esserne conformi. In altre parole, trovare il bene significa non essere a disagio nella propria pelle e non essere schiavi delle ostentazioni altrui. Inseguire e superare gli altri, in bellezza, ricchezza e possesso, ci fa dimenticare di noi stessi, e la lettera di Seneca fa emergere che questo è in realtà un antico problema, che i tempi odierni hanno solo esasperato.

La via che conduce al bene, e dunque a una vita che sia degna di essere vissuta, è in se stessi. Solo quando ci si troverà al centro di se stessi, il bene sarà autentico.

«È, senza dubbio, un animo casto e puro, […] che tende ad elevarsi al di sopra delle cose umane e si concentra tutto in se stesso»3. Questo è il bene che Seneca cerca di trasmettere a Lucilio ma, insieme a questo, emerge nello stoico anche una certa preoccupazione. Che utilità ha, infatti, ricercare la natura del bene? Non basta davvero possedere e soddisfare ogni desiderio? La risposta è che non può essere sufficiente, perché tradirebbe la natura stessa dell’essere umano, che è ragione, sentimento, meraviglia e non un puro e semplice groviglio di sensi.

In che modo si saprà di essere sulla giusta strada verso il bene?

«Non considerarti felice che il giorno in cui tutte le tue gioie nasceranno in te; quando, alla vista di quegli oggetti che gli uomini cercano ad ogni costo di conseguire e di tenere bramosamente per sé, non troverai niente che ti sembri, non dico preferibile, ma neppure desiderabile»4.

 

Fabiana Castellino

 

NOTE
1. Seneca, Lettere a Lucilio, BUR, Milano 2014, p. 1067.

2. Ivi, p. 1063.
3. Ivi, p. 1067.
4. Ibidem.

[Photo credit Aziz Acharki via Unsplash]

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Inconcludenza come amore della condizione: un assaggio

L’inconcludenza è sostanzialmente il fastidio di essere infinito. Io mi rendo conto di essere in-finito, e per questo mi infastidisco. Non concluderò mai nulla perché la mia natura me lo impedisce. Essendo io libero nella mia essenza, non lo sarò mai per davvero.

Se esuliamo dalla libertà civile e legale, la libertà diventa qualcosa di etereo, perché respira. La mia libertà è la libertà di essere nel mondo, che per quanto mi ponga dei limiti dettati dalla biologia e dall’ecosistema, mi permette di fare della mia presenza qualche cosa. E questo è già di per sé fondamentale e fondante per essere libero, perché quel “qualche cosa” non ha dovere di esistere, ma solo diritto – e il diritto è qualcosa che l’universo, come grande sistema naturale vincolato a se stesso, non può conoscere. Dunque la libertà dell’essere è già nella fatalità della sua esistenza.

Questa libertà non può essere però soddisfatta, giacché se lo fosse non si potrebbe più parlare di essere vivente e quella libertà diverrebbe anonimia, cioè universalità, formula compiuta e a-diplomatica. Partecipare alla vita invece significa passare sempre attraverso il particolare, dove scorre il tempo, in virtù di un principio che risiede al di fuori del sé. Ciò che mi completerebbe è ciò che distruggerebbe la condizione in cui sono e mi conosco – l’unica, perché fatale.

Si capisce allora come io, quale essere vivente, sia destinato a non concludere nulla; la conclusione è una giustificazione, che riduce il nome e le parole alla chiarezza di senso, all’impersonalità. Semplicemente si potrebbe dire che una volta raggiunta la cima devo scendere la china, o affrontare chissà cos’altro, ma in un senso più profondo l’inconcludenza rappresenta il consolidamento della mia assurdità e una rivelazione traumatica per la ragione stessa. La ragione scopre, sgranando gli occhi, che quanto ha edificato è relativo a chi edificava, che gli ordini da essa disposti hanno il carattere della convenienza e della convenzione, e che dunque non ha fatto altro che servirsi dell’immaginazione fino ad immedesimarsi totalmente con essa. Sotto la prospettiva inconcludente, la ragione scopre di inventare mondi.

L’universo e il mio rapporto con esso inizia a disilludersi. Si manifesta invece una circolazione indifferente che coinvolge ogni fenomeno senza privilegiarne nessuno. L’inconcludenza comincia così, nella delusione di essere se stessi, quindi nella stizza di non poter comprendere nulla, che infine può sfociare nella pura angoscia. L’inconcludenza non scompare nemmeno quando mi concentro su un contesto specifico che richiede determinate competenze: retrospettivamente mi sarò ingannato per potermi concentrare, avrò cioè ignorato le mie ridondanze per esser libero di immaginare, e quindi avrò affermato la stessa inconcludenza da cui volevo fuggire. Prima del lavoro c’è l’immaginarsi che quel lavoro abbia valore per un altro scopo immaginato. E se invece mi limito a cercare di soddisfare la mia fame, cioè i miei vincoli biologici, senza perdermi nella riflessione infinita, mi sarò totalmente calato nella cosmologia inconcludente, perché sarò divenuto creatura che esiste senza fine assorbita nel mare magno della materia che semplicemente si trasforma e fa.

La ragione del mondo non esiste. Il suo unico principio è l’elevatissima improbabilità di essere così com’è. Ma questa stessa inconcludenza, essendo appunto indefinibile e leggerissima, non può soffermarsi a lungo; deve presto ripartire. Se io sono inconcludente, sono subito rimesso al mondo. Se io sono inconcludente, l’esistenza che interpreto è ontologicamente innocente. La metafisica è la dimensione cosmica che giustifica tutto senza impedire alcunché. All’orizzonte di un lungo inverno, sembra scorgersi un fievole bagliore: la vita può ritrovare la sua primavera. Se non sarà mai libera, lo sarà sempre, forse anche dopo l’ultimo dei suoi giorni. La sua realtà è quella immaginativa, che contenta di rinunciare è contenta di accogliere. La ragione, si dice, con tutte le sue impalcature, è il vero gioco sociale. Esagerando ed estendendosi dove non dovrebbe, l’inconcludenza diventa Agape, e allora diventa anche una profonda lezione politica.

Non si deve pensare che l’inconcludenza sia un incitamento alla sregolatezza. Piuttosto è un incitamento a comprendere quella sregolatezza, a comprenderne le ragioni (!) per poterla avvicinare. La rinuncia precede l’ascolto, e ciò a cui rinuncio è la testardaggine dell’Io, che coincide col dovere di esistere, con la sua imposizione che cerca un Uomo universale. Ma l’individuo in realtà è Caos. Io non devo esistere, io posso esistere, ed è a partire da questa consapevolezza che aspiro alla pace. Per altro, nel potere di essere, posso poi anche trovare il mio dovere, subordinato una volta per tutte. Un mondo inconcludente non è allora un inferno di pigrizia, ma un mondo saggissimo in cui l’individuo è acquietato e il bisognoso è ascoltato in virtù del suo disagio. Esagerando ed estendendosi dove non dovrebbe, l’inconcludenza diventa Agape1, e allora diventa anche una profonda lezione politica.

Utopie, certo, perché l’inconcludenza è anche questo, il progettare mondi che non esistono, ma che dimostrano quanto sia reale il ritorno alla pratica nel mondo nonostante abbia scoperto l’inconcludenza di ogni cosa. L’inconcludenza non mi vuole inerte; l’inconcludenza è una sfida, che sprona le coscienze avvelenate a cambiare direzione, cioè a perderle tutte per assumere la propria. Non sarò mai rinchiuso in me, perché ricorderò l’inconcludenza e allora mi ammorbidirò. L’inconcludenza è la categoria della gioia. Sapendo di non poter più conoscere, sarò comunque sempre consapevole.

 

Leonardo Albano

 

NOTE
1. È l’amore conviviale, capace di avvicinare ogni essere umano allo stesso focolare, annunciato dal cristianesimo che fu in vista della venuta celeste.

[Photo credit Lucas Ludwig via Unsplash]

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Tra ragione e passione. Storia culturale della differenza di genere (Parte III)

Nei miei precedenti due articoli (parte I e parte II) è stata proposta, in sintesi, una narrazione storica della differenza di genere nell’ottica di spiegare come ancora oggi siano presenti iniquità in molti aspetti della vita delle donne. Uno di questi è quello della posizione delle donne nella scienza, che, come vedremo, è nata in un contesto storico già pienamente sfavorevole a una manifestazione emancipata del femminile.
L’estrema fiducia nella ragione come strumento della conoscenza, di matrice greca, accanto alla missione di governo e disposizione di tutte le cose della natura, secondo l’idea cristiana, si amalgamano come ingredienti che confluiranno, alla fine del Medioevo, nella rivoluzione scientifica. Mentre Galileo Galilei elevava la matematica a strumento principe e determinante dell’indagine scientifica, Francesco Bacone si distingueva come quel filosofo e teorico che diede indirizzo e forma alla nascente impresa scientifica. La sua idea di scienza si esprime molto chiaramente nella metafora della mente maschile che si appropria della natura, femmina da conquistare ed esplorare a piacimento, anzi, per Bacone è la natura stessa che abbisogna di essere domata, plasmata e soggiogata dall’intelletto scientifico.

Nel 1600 l’istruzione è ancora una prerogativa dei maschi, per quelli che se la possono permettere; le donne, se riescono a studiare, comunque non possono insegnare, come ben ci dimostra Elena Cornaro Piscopia, prima
laureata al mondo, a Padova nel 1678. Se le donne non possono studiare o insegnare, chi si occupa degli interessi e delle inclinazioni del 50% dell’umanità? Quasi nessuno. Infatti, solo per fare un esempio, tutti gli argomenti della medicina al femminile sono stati molto trascurati. L’apparato riproduttivo femminile ha sofferto a lungo della visione di mero substrato, tanto che solo verso la fine del 1600 viene ipotizzata l’esistenza degli ovuli. Addirittura, la tesi viene avversata in vari modi perché per secoli si era detto che la madre era solo una specie di forno di lievitazione, e solo a metà del 1800 si capì meglio la fisiologia del concepimento. Ancora oggi disconosciamo molti aspetti della riproduzione, soprattutto femminile.
Mentre Bacone e Galilei gettano le fondamenta della nascente scienza, l’Inquisizione si occupa di mettere in atto la più grande opera di persecuzione dell’eresia, in cui verranno messe al rogo migliaia di donne accusate di essere streghe, su istruzione del Malleus malleficarum (di Sprenger e Heinrich, 1487), che spiegava come ogni stregoneria nascesse dalla lussuria insaziabile delle donne.

Nel XVII secolo le donne erano ormai state allontanate da molti lavori e occupavano esclusivamente lo spazio della casa, concretizzando sempre più l’immagine borghese della donna dedita alla vita domestica e lontana dagli spazi pubblici. Le donne sono apparse in massa sulla scena pubblica solo recentemente, e ancora troppo parzialmente. Il contributo delle donne al mondo del sapere si sta facendo sentire in molti settori, tra i quali anche l’antropologia e l’archeologia, consentendo di svelare il contributo femminile nella storia delle società, che fino a prima era stato omesso. Infatti, fintanto che in tutte le discipline gli studiosi erano uomini, il risultato delle loro ricerche non poteva essere altrimenti che imperniato di un’ottica esclusivamente maschile. Ad esempio, il paradigma del primitivo uomo cacciatore è stato così a lungo enfatizzato da venire declinato come spiegazione di molti fenomeni squisitamente umani, come le abilità di pensiero logico-simbolico o il linguaggio, non tenendo conto del fondamentale contributo femminile all’economia di sussistenza familiare e dell’imprescindibile apporto della cura delle madri nel plasmare l’educazione e la cultura umana.

A proposito di negligenza dello sguardo maschile, nel campo della medicina è particolarmente importante la questione di quanto siano state trascurate le diversità sia anatomiche che fisiologiche del corpo femminile, e questo ha avuto ovvie implicazioni di salute. Finalmente, nel corso del ‘900, la possibilità di accesso alle aule universitarie per le donne, sia come studentesse che come docenti, ha permesso di costruire i presupposti per comprendere molte questioni che si caratterizzano diversamente in base al sesso. Ma non è ancora finita con le discriminazioni, perché ancora oggi la ricerca scientifica continua a privilegiare cavie animali maschi, sia per sperimentare farmaci sia per capire le malattie, ma farmaci e malattie non si comportano ugualmente nei maschi e nelle femmine. Su questo argomento è molto apprezzabile il contributo della rivista scientifica più prestigiosa al mondo, Nature, che più volte ha dato spazio a voci di denuncia alla gender inequality.

La scienza, così come il resto delle discipline, deve fare spazio anche alle donne, sia come oggetti di studio che come soggetti della ricerca, affinché entrino in gioco, perché è ormai evidente che possono e devono dare contributi brillanti e imprescindibili. A tale proposito ricordiamo che la prima persona a vincere due Nobel nella vita fu una donna (Marie Curie). Le donne possono contribuire enormemente alla conoscenza, mettendo in luce come spesso tutto il sapere che le riguarda, che è anche quello del 50% dell’umanità, è stato trascurato o mutilato. La subordinazione della donna è una condizione storica, dunque conoscerne la storia è la precondizione per cambiare il futuro, come già abbiamo iniziato un po’ a fare. È importante anche realizzare che il sistema patriarcale è così penetrato nelle nostre menti che, per imparare a pensare più equamente, abbiamo bisogno innanzitutto di riconoscere gli errori concettuali, distruggere gli stereotipi e costruire nuove mappe di navigazione, assieme, maschi e femmine.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE
E. Fox Keller, Sul genere e la scienza, Garzanti, 1987.

 

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Tra ragione e passione. Storia culturale della differenza di genere (parte II)

Nel mio precedente articolo, si è introdotta, seppur per sommi capi, la questione storica della differenza di genere, che, come abbiamo già detto, è quella differenza che più di tutte si radica come originaria, infatti, tra gli esseri umani è quella più trasversale, dicotomica e ineluttabile dal punto di vista biologico. In questo articolo il focus viene posto sulla cultura greca e sull’immagine della donna da essa plasmata, sull’onda di quella che si era già in parte delineata nelle società precedenti.

La donna nella Grecia antica La donna greca, soprattutto quella Ateniese e salvo alcune eccezioni, era relegata agli spazi della casa, subordinata all’uomo e dedita alla vita domestica; era sconveniente che le donne facessero vita pubblica, salvo nelle occasioni dei rituali di culto e nelle celebrazioni di feste.

La Grecia portò le polis alla più alta forma grazie alle vittorie in guerra, rafforzando così la classe militare che poté mettere in discussione i poteri dell’aristocrazia. Questo era ovviamente fuori discussione per le donne, che non godevano di una situazione istituzionalizzata di vita in comune e di condivisione di interessi con le loro coeve. La vita militare e la guerra hanno certamente rafforzato la coesione maschile e fornito le basi fondamentali alla costruzione della vita politica. Eccezione in ciò la faceva Sparta: fin dal VII sec. la legge prevedeva l’addestramento militare anche per le donne, affinché fossero forti per partorire e crescessero figli vigorosi. L’iscrizione dei nomi dei morti sulle lapidi spartane era vietata, fatta eccezione per i morti in battaglia e per le morte di parto, due condizioni che ricevevano la medesima gloria. È interessante aggiungere che il governo spartano era oligarchico, mentre la democrazia fu inventata ad Atene, dove le donne erano totalmente escluse dalla vita pubblica.

Erodoto, nel VII sec. a.C. riscrive nelle “Opere e i giorni” il mito di Pandora, narrazione in cui è una donna, Pandora appunto, a essere causa di tutti i mali, mentre nella “Teogonia” racconta l’ascesa di Zeus al pantheon divino. Lo sfondo mitico è congruente con il panorama sociale: per il femminile non c’è più alcuna forma di potere. Un ultimo urlo di nostalgia del passato arriva dalla tragedia greca, le cui opere furono scritte nel V sec. a.C. principalmente da 3 grandi autori: Eschilo, Sofocle, Euripide. Tutti e tre hanno dato un po’ di voce al cosmo femminile legato alla passione, al mondo irrazionale, al primato della morale famigliare e all’antico culto ormai sull’orlo della rimozione: quello fondato su una teogonia al femminile. È possibile, grazie ad alcune tragedie, vedere i resti dell’antico scontro tra il sistema patriarcale e quello delle Dee Madri.

Quando la tragedia termina la sua stagione, muore anche Socrate. Platone ha 30 anni ed è il primo filosofo che fa della filosofia una materia non più esclusivamente orale, ma anche scritta, elaborata sia dall’insegnamento del maestro, ma anche grazie al contatto con altri sapienti. Particolarmente importante è il suo contatto con i Pitagorici, che avevano comunità di adepti costituita da maschi e femmine, cosa eccezionale per la società greca.

Sicuramente Platone si ispirò ai Pitagorici per la sua elaborazione del concetto di anima immortale e, dato che nella Repubblica prevedeva che il governo della città fosse affidato a dei guardiani, sia maschi che femmine, possiamo immaginare che Platone abbia avuto una visione positiva dell’esperienza pitagorica (anche se le donne pitagoriche non erano comunque uguali agli uomini). E’ importante sottolineare che Platone non riteneva la donna uguale all’uomo, semplicemente le destinava alcuni spazi. È interessante anche sottolineare l’attenzione che Platone dedica al mondo dell’irrazionalità, nonostante egli sia uno dei filosofi che ha eretto la ragione a baluardo del sapere, nonché della filosofia. Il mondo irrazionale è presente in ogni individuo e, se represso, può sfociare nelle manifestazioni più mostruose e aberranti, per questo necessita di spazi congrui alle sue manifestazioni. La religione tradizionale è il luogo che, nonostante in antitesi con la razionalità che sta diventando l’istituzione della filosofia, si pone come adatto a contenere l’irrazionalità. Platone è consapevole che la ragione è per pochi eletti, per il resto del popolo il freno sarà la religione con la superstizione. E nel mondo greco trovano ampiamente spazio i fenomeni che contengono l’irrazionale, come ad esempio i santuari degli oracoli, il più famoso e longevo quello di Delfi, in cui la Pizia emanava profezie su richiesta, dopo essere stata posseduta dal dio Apollo attraverso la trance.

Un altro momento catartico era quello del culto dionisiaco delle Baccanti, in cui le donne abbandonavano le case per lasciarsi possedere dal Dio che le portava alle manifestazioni più estreme, attraverso il ballo sfrenato, l’isteria collettiva e l’estasi dionisiaca. Le donne che rispondevano al richiamo di Dioniso erano le menadi, perfettamente narrate da Euripide nella tragedia delle Baccanti. La tragedia, in generale, afferma l’impotenza morale della ragione e dà voce a quella forza potente, misteriosa e paurosa che era in mano agli dei: la passione. Non a caso spesso gli ideali della passione sono incarnati da protagoniste femminili.

Arrivati a questo punto della storia, la dicotomia ragione/passione, è ormai obbligata. Le donne sono state escluse da tutti i campi applicativi della ragione, in particolare dall’istruzione e dalla vita politica. Il loro mondo è per forza quello delle passioni. La loro dimensione legata, per esclusione, esclusivamente alla fisicità accentua l’appartenenza all’irrazionale e alle sue manifestazioni più tipiche, come la medianità e la trance; anche le forze dell’irrazionalità vengono associate a divinità femminili. L’esclusiva fisicità della donna viene ancora più esaltata da Aristotele: la femmina appartiene alla categoria inferiore, che per Aristotele è la materia, mentre il maschio appartiene alla forma, che è la categoria che attribuisce il valore alle cose. Per Aristotele, quando il seme maschile feconda la donna, pone l’intero embrione, mentre la madre è solo substrato materiale che fornisce le risorse per crescere. Con la filosofia aristotelica la donna è definitivamente consegnata all’inferiorità attraverso le argomentazioni della ragione filosofica. La religione cristiana incorpora la metafisica aristotelica, investendo di autorità religiosa solamente i maschi, coerentemente con il pensiero aristotelico ed ebraico.

Nella prossima parte, che sarà conclusiva, si vedrà come le basi di una cultura ormai profondamente patriarcale, confluiranno in un progetto di scienza che ancora oggi pone ancora problemi e incomprensioni all’obiettivo di una cultura di genere più equa.

 

Pamela Boldrin

 

NOTE

Cfr. N. Loraux, Il femminile e l’uomo greco, Laterza, Bari, 1991.

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