“Idda” di Michela Marzano: un viaggio sull’amore, l’identità e la memoria

A fine febbraio, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo Idda, abbiamo avuto il piacere di incontrare per la seconda volta nella nostra Treviso, presso la libreria Lovat di Villorba, la filosofa e scrittrice Michela Marzano. E non c’è dubbio, la sua straordinaria capacità di trattare l’umano da vicino, cogliendone la vulnerabilità estrema e le fragilità, riuscendo a nominarla con una delicatezza e una sensibilità rara, ha nuovamente travolto e attraversato i cuori del pubblico. La sala era gremita e gli applausi si alternavano a istanti di commozione durante i quali il racconto dell’autrice lasciava spazio alle storie di vita delle persone sedute in sala.

Michela Marzano è docente ordinario di filosofia morale all’Université Paris Descartes e si occupa principalmente delle questioni legate alle tematiche di etica medica, al corpo, all’identità, alla violenza di genere e ai diritti civili. Oltre ai numerosi saggi, ricordiamo il best-seller Volevo essere una farfalla, L’Amore è tutto, è tutto ciò che so dell’amore, vincitore del 62^ premio Bancarella nel 2014 e i due primi romanzi L’amore che mi resta (Einaudi, 2017) e Idda (Einaudi, 2019).

 

Idda è il secondo romanzo che hai scritto. In precedenza ti sei dedicata ai saggi. Da che cosa ha avuto origine questo spostamento dalla precisione della struttura argomentativa propria del saggio alla libertà narrativa della fiction di un romanzo?

Credo che lavorando su questioni che riguardano la vulnerabilità dell’esistenza, la finitezza, le fratture, le contraddizioni dell’umano,  il saggio rappresenti, almeno per me, uno strumento troppo stretto, nel senso che non era più sufficientemente capace di parlare di tutti questi temi.

Quando si scrive un saggio si hanno delle ipotesi, ci si poggia su una determinata bibliografia, si argomenta e si spiega. Il problema, però, è che quando si affrontano le questioni legate alla fragilità al plurale, più che spiegare e argomentare, abbiamo bisogno di mostrare e di raccontare. Già Umberto Eco diceva che quando viene meno l’argomentazione si deve narrativizzare, cioè “narrare per mostrare”, al fine di permettere alle persone di identificarsi in determinate situazioni, che sono poi quelle che a me piacciono, di cui mi piace parlare.  Ho quindi avuto la sensazione, pian piano, che la scrittura narrativa mi permettesse di andare molto più lontano rispetto alla scrittura saggistica.

 

Puoi raccontarci da che cosa è emerso il bisogno di scrivere Idda?

Io direi che ci sono due punti di partenza dietro al bisogno di scrivere questo libro. Da un lato, ciò che mi ha spinto è stata  la domanda esistenziale-filosofica riguardante l’identità personale, cioè: chi siamo quando pezzi della nostra esistenza scivolano via? E quindi, siamo sempre le stesse persone di prima quando cominciamo a non riconoscere più le persone care oppure, quando cominciamo a non riconoscerci guardandoci allo specchio? Questi quesiti hanno costituito la guida direzionale per affrontare e dare un tassello supplementare alla questione dell’identità personale.

Dopodiché, c’è stato l’Evento, che per me è sempre importante, e che, nel caso specifico, riguarda la mamma di mio marito, Renée. Renée si è ammalata di Alzheimer e se n’è andata in punta di piedi ad ottobre dell’anno scorso. Idda nasce dall’urgenza e dall’esigenza di raccontare com’è e che cos’è la vita di una persona che comincia effettivamente a mescolare tutto, dimenticando pezzi della propria storia dove tutto dventa confuso.

Ho voluto raccontare quindi anche quello che ho scoperto confrontandomi con la mamma di mio marito, cioè il fatto che in realtà non è vero che, con una malattia come quella dell’Alzheimer, una persona cambia drasticamente. In realtà, ciò che resta è l’essenziale, l’essenziale di una vita, quegli episodi che ci hanno talmente tanto marcato da costituire la nostra identità, quegli istanti che non scivolano via, quell’affettività che noi teniamo sempre accanto, all’interno di noi anche quando razionalmente ci allontaniamo dagli altri. Quell’affettività e quell’amore che nemmeno l’oblio più profondo riesce a cancellare.

 

Nel libro si parla di quello che ciò che gli specialisti definiscono residui di sé. Come secondo te possono essere definiti questi residui del sé?

Io direi che questi residui di sé possono essere rappresentati dall’affettività, dalla familiarità con le cose care. Annie, la protagonista del libro, talvolta, non riesce più a riconosce Pierre, il figlio, come tale; tuttavia, nemmeno per un istante pensa che Pierre sia un estraneo perché egli resta sempre all’interno della sua sfera affettiva. Anche se a volte Pierre diventa il marito, altre volte il padre, dentro di lei resta quel “qualcosa” che fa sì che, di fatto, quello che c’è stato non scomparirà mai,  quell’amore resterà per sempre.

 

La filosofia in Italia solo in tempi recenti sta tentando di ridurre quella distanza esistente tra la ricerca e lo specialismo filosofico, proprio dei contesti accademici, e le esigenze culturali di un pubblico popolare. Se e in che modo secondo te la ricerca filosofica e la sua divulgazione possono dialogare in modo sinergico?

Ritengo che la ricerca filosofica e la divulgazione dovrebbero dialogare in modo sinergico. Basti pensare al pensiero di Socrate, il quale camminava per le strade della città e dialogava con i cittadini, cercando maieuticamente di far maturare la riflessione, lo spirito critico. Se dunque partiamo dal presupposto che la natura della filosofia è di essere dialogica, il pensiero stesso non può essere rinchiuso all’interno della torre d’avorio. Forse, infatti, dovrebbe dimenticare un po’ di quei tecnicismi che lo stanno facendo soffocare.

Dobbiamo tornare a dialogare e a permettere alla filosofia di essere filosofia, un pensiero alla fine incarnato. Credo che però, in questo, ci sia una grande responsabilità da parte di molti accademici che hanno immaginato di poter fare della filosofia una disciplina da laboratorio. Al contrario, fare filosofia significa trattare le questioni sull’umano, ed è per questo che un tale oggetto di ricerca non lo si può trattare se non con e attraverso gli umani.

 

Obiettivo de La Chiave di Sophia è quello di aprire la filosofia ad un pubblico eterogeneo e neofita, proponendo questioni centrali per l’individuo e connesse fortemente con la vita quotidiana. In che modo secondo te la filosofia può sempre più avvicinarsi a chi non ha mai avuto modo di approcciarsi ad essa?

Ritengo che alla base della filosofia ci sia, nonostante tutto, una grande domanda di senso, una richiesta di strumenti per trovare una propria direzione verso cui andare. Per questo, penso che possa essere anche “facile” avvicinarsi alle persone. Queste, infatti, non aspettano necessariamente delle risposte, anche perché non è proprio lo scopo della filosofia sempre e solo dare delle risposte; al contrario, trovare il modo di porre delle buone domande e poter elaborare degli strumenti critici per poi costruire il proprio futuro: questa è la ragione dell’esistenza del pensiero che poi non è altro che ciò che accomuna ciascuno di noi. Proprio per questo, può diventare “semplice” avvicinarsi al pubblico: in questo momento storico, le persone dispongono di domande di senso e esprimono il bisogno di strumenti capaci di permettere loro di dare un senso alla propria esistenza.

 

Greta Esposito e Sara Roggi

 

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Dalla tradizione ebraica e celtica al cinema: l’albero della vita

Elegante e rigoglioso, l’albero della vita è un simbolo ed un archetipo che accompagna molte religioni e credenze, soprattutto la Cabala e la tradizione celtica. L’albero della vita viene generalmente considerato come sorgente dell’esistenza stessa, luogo in cui ogni forma di vita trae la propria sussistenza, seppur con qualche distinzione tra una cultura e l’altra. È ciò che dona ossigeno e permette ad ogni forma di vita di avanzare nelle sue diverse fasi di sviluppo e crescita.

La vita viene rappresentata dai quattro elementi che compongono l’albero e ognuno di essi indica un particolare momento o aspetto dell’esistenza stessa. Le radici, ciò che è invisibile all’occhio, si snodano in profondità per essere ben salde. Rendono immutabile il legame che unisce l’albero alla terra, che lo nutre e lo fortifica. Il tronco, solido e resistente, è il sostegno dei rami e delle foglie. A questi ultimi, che si protendono verso il cielo, sono associate proprietà curative. I frutti, abbondanti solo in taluni periodi, sono preziosi, nutrimento per il corpo e per lo spirito. Intrecciando questi elementi, si crea l’auspicio per una vita basata su solide e nodose radici. Radici che, come la famiglia e gli affetti più cari, avvolgono la persona creando un rifugio e una rete di protezione e di sostegno. Le numerose e rigogliose foglie, invece, custodiscono l’augurio per una vita piena e ricca, la cui intensità si rivela nell’opportunità di cogliere istanti od occasioni, tanto preziosi quanto i frutti maturi.

Talvolta l’albero della vita assume anche il significato di albero della conoscenza, il quale svolge un ruolo di mediatore tra il mondo terreno e quello ultraterreno o spirituale. È a quest’ultimo significato che il film Un monstruo viene a verme si ispira. Diretto da Juan Antonio Bayona e tratto dal libro Sette minuti dopo la mezzanotte (titolo italiano) di Patrick Ness, il film mostra con chiarezza come non tutte le storie siano per bambini e, al contempo, come ci siano narrazioni che i bambini farebbero meglio a non conoscere. O a non sperimentare. Eppure, ecco che Connor, a soli dodici anni, si ritrova ad affrontare la malattia della madre, la solitudine ed il bullismo dei compagni di scuola. Si rifugia così in un mondo che solo apparentemente è fantastico in quanto privo di un lieto fine. Non vi è nessun chiarimento e nessuna panoramica circa la vicenda in cui il giovane fanciullo si trova a muoversi: ogni accadimento, anche quello più insignificante, è visto attraverso i suoi occhi.

Possiamo così scorgere quella che lentamente si modella come la sua verità: la condizione esistenziale di isolamento dettata dalla malattia della madre, dal rifiuto del padre a portarlo definitivamente con sé oltreoceano, dal rapporto conflittuale con la nonna e dagli scontri con i bulli. È alla sua personale verità che fa riferimento il mostro originatosi dal tronco di un tasso una notte, appena sette minuti dopo la mezzanotte. Questi gli racconterà tre storie, al termine delle quali Connor dovrà rivelargli la sua verità, la sua storia. L’albero gigante sembra minaccioso, pronto all’ira. Nei suoi tre racconti − quella della morte misteriosa di un re, di uno speziale e di un prete, di un bambino che nessuno vedeva − non c’è una morale scontata e assoluta, il lieto fine non esiste. La lezione che vuole insegnare è difficile tanto da spiegare quanto da comprendere. E Connor non può capire se quel mostro sia lì per aiutarlo.

Questo albero-mostro, che mostro infine non è, nelle sue nodosità cela la formula complessa dell’esistenza. Seguendo la Cabala ed il misticismo ebraico, esso, formato da dieci nodi interconnessi tra loro, custodisce il segreto della creazione, il cui flusso si muove dal Divino alla Terra e presuppone il ritorno al Divino stesso.

Dal canto suo, il popolo celtico, nel suo stretto legame con la natura, definiva l’albero della vita come Crann Bethadh, composto da numerosi rami che si intrecciano, si avvicinano e si allontanano formando una trama complessa. Nella simbologia celtica, il tronco dell’albero della vita rappresenta il mondo in cui viviamo. Le sue radici sono la strada verso i mondi inferiori mentre i rami dell’albero rappresentano una guida verso i mondi superiori. I rami, che nel loro diramarsi indicano la complessa trama della vita, guardano ai propri nodi come ai diversi eventi che compongono l’esistenza e agli ostacoli che si frappongono lungo il cammino di ciascuno. Vi è un’intrinseca differenza tra i nodi e i rami. Mentre i nodi rappresentano gli ostacoli e le avversità che chiunque presto o tardi si troverà ad affrontare, il movimento e l’estensione dei rami denotano l’evoluzione spirituale della persona, la quale può elevare il proprio corpo e il proprio spirito dalle profonde radici fin dove l’aria diviene rarefatta ed ogni cosa cessa di essere tale.

L’idea di fondo, che il film fa propria, è dunque di un miglioramento della persona attraverso gli ostacoli da affrontare nella vita. È l’albero animato che, come coscienza universale, porta Connor a far nascere la sua stessa verità e, soprattutto, ad accettarla. Essa, come le tre storie precedenti, si struttura in perenne bilico tra gli umani compromessi, così estranei alla concezione fanciullesca fatta di dogmi precisi, di bianchi e neri, di assenza di grigi, di bene e male. Compromesso e contraddizione si annidano nel giovane animo di Connor, la cui verità altro non è se non la necessità di accettare quei sentimenti di dolore, collera e senso di colpa che richiedono lo sforzo maggiore: perdono e comprensione.

 

Sonia Cominassi

 

 

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Metamorfosi in primavera

Sono stata radici. Resistenti radici che sentivano di dover sostenere il mondo.
Sono stata un leone. Un forte leone capace di resistere, anche quando avrebbe voluto tanto nascondersi.
Sono stata una farfalla. Una farfalla leggera e desiderosa di appoggiarsi di fiore in fiore, per poterne assaporare la dolcezza e la delicatezza.

Le radici, però, con il passare di giorni, hanno mollato la presa, facendo precipitare l’albero che sostenevano.
Il leone si è ferito, ed ha iniziato a zoppicare. Morente, si è trascinato fino a raggiungere un luogo nascosto.
E la farfalla, con un’ala spezzata, non ha più potuto volare ed è caduta a terra.

Non sono più stata né radici, né leone, né tanto meno farfalla.
Eppure, sono stata tutti e tre nello stesso momento per troppo tempo, insensibile a quel peso che portavo dentro, ma che aveva spezzato le mie ali di farfalla e rotto quelle radici che mi ero costruita, per sopportare la pesantezza di un mondo esterno che non ero capace di decifrare. O semplicemente che rifiutavo di capire, tanto che, come per automatismo, era diventato sempre più facile riprendere le sembianze di quel leone pronto a ruggire. Cambiando identità, con la stessa facilità con cui mi adattavo al mondo esterno e alle aspettative di chi mi circondava. Rincorrendo quella perfezione e quel bisogno di essere tutto e di resistere alla fatica.

Ricordo di aver continuamente trattenuto le lacrime alla morte del nonno. Ricordo anche di averle versate nel buio della notte. Come quel giorno, quando a scuola non trovai nessuno a prendermi per mano, e ascoltai il vuoto; a quel punto mi si riaprì dentro qualcosa che già risuonava da tempo, ma che non volevo ascoltare.
Perché il leone deve essere più forte, non deve ascoltare, deve insistere, deve farcela. Soltanto tanti doveri che mi sono costruita per proteggermi dalla paura della nientificazione. Anche se tuttavia, a forza di dovere essere e di corrispondere all’immagine di chi mi circondava, è stata la trasparenza a diventare il mio codice di sopravvivenza. La mia delicata capacità di posarmi di fiore in fiore, senza nemmeno farmi vedere, senza farmi sentire.

Ancora oggi ci ricado. Cambio colore continuamente, come un camaleonte. Giallo, rosso, verde, nero, grigio. Mi mimetizzo. E talvolta, ho davvero l’impressione di riuscirci bene.
Divento trasparente agli altri, come a me stessa, così da rendermi conto che quello spazio vuoto che lascio dietro non è nemmeno percettibile allo sguardo altrui. Non esisto. Nessuno può vedermi.
A meno che, e talvolta accade, non mi lascio andare a ciò che la vita mi presenta, abbandonando la pretesa di non essere nulla. Abbandonando doveri e programmi. E, all’improvviso, senza programmare, divento qualcosa e mi materializzo. Mi muovo e sento muovermi dentro.

Si muovono le ali. Si muovono le radici. E nasce quel cucciolo di leone che riceve la vista dalla madre.
Avevo tanto freddo, anche al sole. Eppure, inizio a scaldarmi. Le mani perdono quel colore violaceo, così come le labbra.
Sento il ritmo della vita e le note che compongono il pentagramma sono le mie.
La farfalla apre le sue ali rosse e riprende a volare.
Ricostruisco radici, non per sostenere il peso di un tronco, ma per nutrirmi.
Faccio i miei primi passi, un po’ zoppicando, ma riesco a muovere quegli arti atrofizzati e freddi.
Penso sia primavera, ma non ne sono certa.

Ho bisogno che qualcuno mi guardi, che dia conferma della mia esistenza. Che mi muovo perché sono io la fonte del mio movimento; che respiro perché sono uscita dall’affanno del pianto.  Che il mio battito ha ripreso il suo ritmo normale. Che ho di nuovo radici, ma le mie radici, che sono un leone perché ho trovato la mia forza, che sono leggera perché libera.

E forse è questa la mia primavera.

Sara Roggi

[immagine tratta da Google Immagini]

La paura della paura

 

La paura è una cosa indefinibile, un’emozione ingannevole e insidiosa che può causare distruzione e devastazione, se le si permette di crescere. Rosemary Altea

Avete mai pensato a cosa vuol dire avere paura della paura? A cosa significhi vivere nell’attesa che arrivi quell’attimo che ti farà perdere completamente il controllo? Io non ci avevo mai pensato, fino a quando non mi è capitato.

Ed è stato terribile.

È iniziato tutto in una serata tra amici, a cena. Ancora non me lo so spiegare. Stavo mangiando quando all’improvviso non riuscii più a deglutire. Mi sentivo soffocare. Mi mancava l’aria. Il cuore prese a battermi così forte che pensavo mi uscisse dal petto. Iniziai a sudare. Non avrei mai immaginato che nella vita si potesse stare così male, che esistessero delle sensazioni così terribili. In quel momento pensai che sarei morto e che nessuno mi avrebbe potuto salvare.

I miei amici, spaventati, mi portarono in ospedale. Fu una nottata di esami, elettrocardiogrammi e visite con numerosi dottori, fino a quando mi fu detto che quello che avevo avuto era stato un “comune” attacco di panico. E in un certo senso fu sconcertante scoprire che non avevo nulla, che era stato tutto frutto della mia mente. Sarebbe stato meglio scoprire di aver avuto qualcosa. Perché da quella sera la mia vita si è fermata.

Sarebbe successo di nuovo? E se sì, quando? Dove? Sarebbe stato sempre uguale? Ero tormentato. Avevo paura. Paura di me, della mia mente, di quello che poteva succedere. Mi vergognavo da morire e non sapevo cosa fare. Mi sentivo un malato immaginario. Era impossibile da capire per gli altri, pensavo. Era impossibile credermi.

È così che ho iniziato a convivere con uno scomodo me stesso, che ho iniziato a cercare di controllare qualcosa che per me era assolutamente incontrollabile. È così che mi sono messo agli arresti domiciliari. Ho iniziato a evitare qualunque cosa: uscire da solo per strada, guidare, frequentare luoghi affollati. Ho il terrore che l’attacco si manifesti di nuovo. E così evito di uscire. Tengo sempre il cellulare vicino.

La mia vita è completamente cambiata. La mia vita non è più vita.

Mi sono sempre considerato una persona libera. Mi piaceva stare insieme agli altri, uscire, divertirmi. Ero uno sportivo. Adesso… adesso non sono più niente se non uno spettro di me stesso. Vivo nella paura della paura.

Ed è terribile.

Un attacco di panico, secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM), corrisponde a un periodo preciso durante il quale vi è l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati a una sensazione di catastrofe imminente. Durante questi attacchi sono presenti sintomi come dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto, sensazione di asfissia o soffocamento, e paura di “impazzire” o di perdere il controllo. In presenza di ricorrenti attacchi di panico inaspettati, rispetto a cui si ha una preoccupazione persistente, si parla di Disturbo di Panico. Può esordire in qualunque momento della propria vita, all’improvviso e in circostanze inaspettate, mentre si sta compiendo una qualsiasi attività. L’attacco di panico non è pericoloso per la salute ma le sensazioni che si sperimentano sono così intense e coinvolgenti da far sviluppare in chi le prova l’intensa paura che si possano ripetere. Il primo episodio porta al timore di rivivere le stesse drammatiche sensazioni e di sperimentare nuovamente quel malessere. Nasce così la paura della paura. Quella stessa paura che porta chi ne soffre a chiudersi sempre più in se stesso e a non riuscire ad avere una vita sociale, a rinchiudersi in una gabbia da cui non riesce più ad uscire. I disturbi d’ansia sono estremamente comuni e tendono a essere sempre più frequenti nella popolazione. Sebbene le cause non siano ancora note, quello che è importante sapere è che da questa gabbia se ne può uscire e tornare a vivere, senza più mostri sulle spalle a tarparci le ali.

Giordana De Anna

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[Immagini tratte da Google Immagini]