“Idda” di Michela Marzano: un viaggio sull’amore, l’identità e la memoria

A fine febbraio, in occasione dell’uscita del suo ultimo romanzo Idda, abbiamo avuto il piacere di incontrare per la seconda volta nella nostra Treviso, presso la libreria Lovat di Villorba, la filosofa e scrittrice Michela Marzano. E non c’è dubbio, la sua straordinaria capacità di trattare l’umano da vicino, cogliendone la vulnerabilità estrema e le fragilità, riuscendo a nominarla con una delicatezza e una sensibilità rara, ha nuovamente travolto e attraversato i cuori del pubblico. La sala era gremita e gli applausi si alternavano a istanti di commozione durante i quali il racconto dell’autrice lasciava spazio alle storie di vita delle persone sedute in sala.

Michela Marzano è docente ordinario di filosofia morale all’Université Paris Descartes e si occupa principalmente delle questioni legate alle tematiche di etica medica, al corpo, all’identità, alla violenza di genere e ai diritti civili. Oltre ai numerosi saggi, ricordiamo il best-seller Volevo essere una farfalla, L’Amore è tutto, è tutto ciò che so dell’amore, vincitore del 62^ premio Bancarella nel 2014 e i due primi romanzi L’amore che mi resta (Einaudi, 2017) e Idda (Einaudi, 2019).

 

Idda è il secondo romanzo che hai scritto. In precedenza ti sei dedicata ai saggi. Da che cosa ha avuto origine questo spostamento dalla precisione della struttura argomentativa propria del saggio alla libertà narrativa della fiction di un romanzo?

Credo che lavorando su questioni che riguardano la vulnerabilità dell’esistenza, la finitezza, le fratture, le contraddizioni dell’umano,  il saggio rappresenti, almeno per me, uno strumento troppo stretto, nel senso che non era più sufficientemente capace di parlare di tutti questi temi.

Quando si scrive un saggio si hanno delle ipotesi, ci si poggia su una determinata bibliografia, si argomenta e si spiega. Il problema, però, è che quando si affrontano le questioni legate alla fragilità al plurale, più che spiegare e argomentare, abbiamo bisogno di mostrare e di raccontare. Già Umberto Eco diceva che quando viene meno l’argomentazione si deve narrativizzare, cioè “narrare per mostrare”, al fine di permettere alle persone di identificarsi in determinate situazioni, che sono poi quelle che a me piacciono, di cui mi piace parlare.  Ho quindi avuto la sensazione, pian piano, che la scrittura narrativa mi permettesse di andare molto più lontano rispetto alla scrittura saggistica.

 

Puoi raccontarci da che cosa è emerso il bisogno di scrivere Idda?

Io direi che ci sono due punti di partenza dietro al bisogno di scrivere questo libro. Da un lato, ciò che mi ha spinto è stata  la domanda esistenziale-filosofica riguardante l’identità personale, cioè: chi siamo quando pezzi della nostra esistenza scivolano via? E quindi, siamo sempre le stesse persone di prima quando cominciamo a non riconoscere più le persone care oppure, quando cominciamo a non riconoscerci guardandoci allo specchio? Questi quesiti hanno costituito la guida direzionale per affrontare e dare un tassello supplementare alla questione dell’identità personale.

Dopodiché, c’è stato l’Evento, che per me è sempre importante, e che, nel caso specifico, riguarda la mamma di mio marito, Renée. Renée si è ammalata di Alzheimer e se n’è andata in punta di piedi ad ottobre dell’anno scorso. Idda nasce dall’urgenza e dall’esigenza di raccontare com’è e che cos’è la vita di una persona che comincia effettivamente a mescolare tutto, dimenticando pezzi della propria storia dove tutto dventa confuso.

Ho voluto raccontare quindi anche quello che ho scoperto confrontandomi con la mamma di mio marito, cioè il fatto che in realtà non è vero che, con una malattia come quella dell’Alzheimer, una persona cambia drasticamente. In realtà, ciò che resta è l’essenziale, l’essenziale di una vita, quegli episodi che ci hanno talmente tanto marcato da costituire la nostra identità, quegli istanti che non scivolano via, quell’affettività che noi teniamo sempre accanto, all’interno di noi anche quando razionalmente ci allontaniamo dagli altri. Quell’affettività e quell’amore che nemmeno l’oblio più profondo riesce a cancellare.

 

Nel libro si parla di quello che ciò che gli specialisti definiscono residui di sé. Come secondo te possono essere definiti questi residui del sé?

Io direi che questi residui di sé possono essere rappresentati dall’affettività, dalla familiarità con le cose care. Annie, la protagonista del libro, talvolta, non riesce più a riconosce Pierre, il figlio, come tale; tuttavia, nemmeno per un istante pensa che Pierre sia un estraneo perché egli resta sempre all’interno della sua sfera affettiva. Anche se a volte Pierre diventa il marito, altre volte il padre, dentro di lei resta quel “qualcosa” che fa sì che, di fatto, quello che c’è stato non scomparirà mai,  quell’amore resterà per sempre.

 

La filosofia in Italia solo in tempi recenti sta tentando di ridurre quella distanza esistente tra la ricerca e lo specialismo filosofico, proprio dei contesti accademici, e le esigenze culturali di un pubblico popolare. Se e in che modo secondo te la ricerca filosofica e la sua divulgazione possono dialogare in modo sinergico?

Ritengo che la ricerca filosofica e la divulgazione dovrebbero dialogare in modo sinergico. Basti pensare al pensiero di Socrate, il quale camminava per le strade della città e dialogava con i cittadini, cercando maieuticamente di far maturare la riflessione, lo spirito critico. Se dunque partiamo dal presupposto che la natura della filosofia è di essere dialogica, il pensiero stesso non può essere rinchiuso all’interno della torre d’avorio. Forse, infatti, dovrebbe dimenticare un po’ di quei tecnicismi che lo stanno facendo soffocare.

Dobbiamo tornare a dialogare e a permettere alla filosofia di essere filosofia, un pensiero alla fine incarnato. Credo che però, in questo, ci sia una grande responsabilità da parte di molti accademici che hanno immaginato di poter fare della filosofia una disciplina da laboratorio. Al contrario, fare filosofia significa trattare le questioni sull’umano, ed è per questo che un tale oggetto di ricerca non lo si può trattare se non con e attraverso gli umani.

 

Obiettivo de La Chiave di Sophia è quello di aprire la filosofia ad un pubblico eterogeneo e neofita, proponendo questioni centrali per l’individuo e connesse fortemente con la vita quotidiana. In che modo secondo te la filosofia può sempre più avvicinarsi a chi non ha mai avuto modo di approcciarsi ad essa?

Ritengo che alla base della filosofia ci sia, nonostante tutto, una grande domanda di senso, una richiesta di strumenti per trovare una propria direzione verso cui andare. Per questo, penso che possa essere anche “facile” avvicinarsi alle persone. Queste, infatti, non aspettano necessariamente delle risposte, anche perché non è proprio lo scopo della filosofia sempre e solo dare delle risposte; al contrario, trovare il modo di porre delle buone domande e poter elaborare degli strumenti critici per poi costruire il proprio futuro: questa è la ragione dell’esistenza del pensiero che poi non è altro che ciò che accomuna ciascuno di noi. Proprio per questo, può diventare “semplice” avvicinarsi al pubblico: in questo momento storico, le persone dispongono di domande di senso e esprimono il bisogno di strumenti capaci di permettere loro di dare un senso alla propria esistenza.

 

Greta Esposito e Sara Roggi

 

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L’enigma della terza via: un racconto filosofico

Doxa era la capitale del regno.
Florida, ricca e felice, tra i suoi abitanti annoverava i migliori scienziati e i filosofi più rinomati. Ogni giorno qualcosa veniva scoperto e qualcosa veniva modernizzato. Non c’era ostacolo, non c’era impedimento che gli abitanti non riuscissero a risolvere in velocità, con un’abilità fuori dal comune.
Un giorno – però, o forse purtroppo − alle porte di questa città si presentò un viaggiatore che si fermò proprio sotto l’arcata che permetteva il passaggio, bloccando l’accesso e costringendo le persone che venivano dopo di lui ad arrestarsi. Le guardie cercarono di farlo smuovere dall’entrata ma egli non ne voleva sapere. Non faceva altro che bisbigliare sottovoce, come se non si rendesse conto di ciò che intorno gli accadeva. Fu convocato quindi il governatore della città, il Principe Firmissimum, e lo straniero fu portato a forza al suo cospetto per essere interrogato.
«Chi sei?»
Silenzio.
«Da dove vieni?»
Ancora niente.
«Perché sei qui?»
Dall’uomo non uscì neanche un suono, ma era la sua espressione a catturare l’attenzione dei presenti: sulla sua faccia infatti, fin da quando era arrivato al cospetto del regnante, era stampato un sorriso di pura felicità, che riempiva il cuore di allegria; ma i suoi occhi emanavano una tristezza così profonda che le persone non riuscivano a fissarli per più di qualche secondo senza che le lacrime iniziassero a rigare loro le guance.
Perfino il Principe era soggetto all’incantesimo ed iniziò ad infuriarsi: era impossibile provare due emozioni contemporaneamente, come poteva lo straniero non saperlo?
«Come ti permetti? Ma lo sai IO chi sono? Tutta la gente, dal tutto il Mondo, viene al mio cospetto per essere rassicurata. Io illumino la vita degli uomini, io sono infallibile, io sono immortale!» Niente da fare, l’uomo continuava a sprizzare gioia e a trasmettere disperazione ad ogni angolo della sala.
«Chiudetelo nelle segrete! E che ci rimanga fino a che non decida di togliersi quel sorriso e parlare!»
L’uomo non oppose resistenza e fu rinchiuso in una piccola cella, illuminata da una fievole candela. E lì trascorse i successivi giorni, senza toccare né cibo né acqua e continuando il suo misterioso silenzio. Era come se le regole di questo mondo non gli appartenessero. Era un estraneo. Era solo.

Intanto la vita aveva ripreso a scorrere nella città ma – non si sa come, non si sa perché – i suoi abitanti sembravano cambiati.
Ora gli ostacoli impiegavano molto tempo per essere superati. Le scoperte tardavano ad arrivare e anche il Principe, un tempo faro per il Mondo, sembrava iniziasse a perdere colpi.
Un giorno un bambino, si chiamava Ousia, giocando a nascondino nel castello si perse nei suoi meandri e si ritrovò nei sotterranei. Nella città le celle non erano mai state usate, non ce n’era bisogno, erano solo un capriccio dell’architetto, che non poteva concepire un castello senza una prigione; quindi anche la sicurezza era pressoché nulla.
Cercando la strada per tornare indietro, la sua attenzione fu catturata da una piccola luce che proveniva da una cella nelle vicinanze. Si diresse quindi in quella direzione − com’è risaputo la luce è migliore del buio per i bambini.
La cella era quella del misterioso viaggiatore e il bambino iniziò ad osservarlo. Dopo qualche minuto disse: «io sono Ousia e non dovrei essere qui, eppure ci sono arrivato».
Uno scintillio attraversò gli occhi dell’uomo che alzò lo sguardo e concentrò la sua attenzione verso il bambino.
«Tu come ti chiami?» continuò il piccolo.
«Io ho un nome, ma i miei genitori non hanno voluto darmelo. Io non ho un nome. Avevano paura».
«E perché?»
«Perché non si può dare un nome a chi non dovrebbe averlo, eppure si dovrebbe».
«Certo che sei proprio strano».
«Stavo per dirlo io. Fai domande a cui non si può dar risposta. Eppure ti sto rispondendo».
Ci fu una pausa di silenzio ed uno sguardo prolungato tra i due. Era come se non potendo intendersi con le parole provassero a farlo con gli occhi.
«Devo andare. Penso di aver vinto a nascondino, ormai mi daranno per disperso. Arrivederci» «Addio e a presto».
«Sì, sei decisamente strano» pensò Ousia allontanandosi. Eppure era come se in qualche modo le non-risposte dello sconosciuto invece che bloccare avessero fatto scattare la serratura che teneva chiusa la porta della sua curiosità.
«Ci rivedremo di nuovo» decise.

Il tempo però non era evidentemente d’accordo con il bambino, perché scelse di presentare alle porte della città un esercito invasore.
Due messaggeri si incontrarono nella terra di nessuno fra l’accampamento e le mura.
«Sappiamo che qualche tempo fa è arrivato da voi un viaggiatore e che lo tenete in custodia» esordì il messo degli invasori. Poi continuò: «vogliamo che ce lo consegnate, il nostro mondo è caduto in disgrazia dopo la sua visita e così abbiamo deciso di allontanarlo. Ma da quando se n’è andato le cose sono peggiorate ed ora pretendiamo da lui delle risposte. Se non ce lo affiderete raderemo al suolo la vostra città e lo preleveremo in ogni caso».
Firmissimum fu messo al corrente della richiesta e decise di incontrarsi da solo con l’altro sovrano, inviandogli la proposta. Egli accettò.
Il viaggiatore fu condotto in catene dal Principe sulla cima della collina vicino alla città, che dava una visone di tutta la pianura circostante. Ben presto furono raggiunti dal terzo uomo: «voglio quest’uomo e voglio delle risposte. Consegnamelo!»
«Anche io pretendo delle risposte, ne ho bisogno: la mia città ed il mio regno non sono più le stesse e se lo allontano la mia sorte non sarà diversa dalla tua».
«Entrambi vogliamo delle risposte, interroghiamolo insieme. Ma se quello che ci dirà non sarà soddisfacente procederò come ho deciso: attaccando la tua città».
«E sia» disse il Principe, poi si rivolse minaccioso allo straniero: «Voglio sapere cos’hai fatto e non ci muoveremo da qui finché non ce lo dirai, a costo di morire di fame!»
L’uomo tacque.
«Vogliamo una risposta!»
«Eccola dunque» fece una lunga pausa e per la prima volta la sua espressione mutò, diventando indecifrabile «questa risposta è falsa. Io non ho fatto nulla».
«Cosa significa?» domandò il sovrano invasore «ci stai dicendo che non hai colpe?»
«Certo che no» disse il Principe «altrimenti la sua risposta sarebbe vera, mentre ci ha detto che è falsa. Vuol dire che ha fatto qualcosa!»
«Non può essere» replicò l’altro «se quello che ha detto fosse falso, allora la sua risposta diventerebbe vera, ma ci ha detto che è falsa!»
Continuarono così a lungo tempo, dibattendo sulla verità o falsità della sua affermazione, e lui nel frattempo volgeva lo sguardo all’orizzonte ammirando il sole al tramonto che salutava la Terra per un altro giorno e nel frattempo dava il benvenuto alla sua cara amica notte.

Si fece buio e poi fu di nuovo luce. Il nuovo giorno portò con sé una novità: Ousia, che aveva voluto raggiungere il suo nuovo amico.
Fu messo al corrente della situazione perché desse la sua opinione su chi avesse ragione, ormai i due uomini erano stremati.
Appena saputo l’argomento della disputa il bambino si mise a ridere e rispose con semplicità disarmante a Firmissimum: «Papà, quest’uomo, non facendo niente, ha fatto tutto. Quindi la risposta è che nessuno di voi ha ragione».
«Non è possibile!» risposero in coro «una cosa deve essere o vera o non vera, tra i due non è possibile una terza via».
Ousia rispose: «quando capirete che una terza possibilità invece c’è e che il problema delle vostre città non è lui ma voi, allora forse riuscirete a risolvere l’enigma». E così dicendo prese per mano il viaggiatore e scesero insieme la collina, felici di essere finalmente riusciti ad intendersi.

 

Massimiliano Mattiuzzo

 

[Nell’immagine di copertina: opera di Caspar David Friedrich]

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Vivere e scrivere la montagna: intervista a Paolo Cognetti

<p>Scrittore Paolo Cognetti fotografato a Estoul in baita</p>

Paolo Cognetti ha vinto il Premio Strega 2017 con il suo romanzo Le otto montagne (Einaudi). Nel libro la montagna è uno sfondo, ma anche un collante, una meta, il luogo del ricordo. Cognetti racconta di un’amicizia tra due ragazzi, Pietro e Bruno, che si snoda attraverso gli anni. Pietro è un ragazzino di città, che ogni estate viene portato dai suoi genitori a Grana, paesino valdostano ai piedi del monte Grenon. Qui egli incontra Bruno, pastore e montanaro, destinato a diventare per lui un amico speciale – quello della vita.
Cognetti ha scritto di montagna anche ne Il ragazzo selvatico (Terre di Mezzo, 2013), una sorta di diario personale in cui narra di come trasferirsi in montagna lo abbia aiutato a superare una crisi personale e creativa. Lo scrittore ha inoltre pubblicato il “romanzo di racconti” Sofia si veste sempre di nero (Minimum fax, 2017), Manuale per ragazze di successo (Minimum fax, 2017), ma anche dei saggi su New York (New York è una finestra senza tende, Laterza, 2017), città da lui molto amata.
Milanese di nascita, vive da anni in montagna, in una baita a 2000 metri. Lo conosciamo al festival letterario Pordenonelegge il 14 settembre 2017, dove ha tenuto una conferenza assieme a Enrico Brizzi dal titolo Camminare, scalare, vivere; da questo incontro è nata, nei giorni successivi, questa intervista.

 

Lei dedica Le otto montagne a un amico che l’ha ispirata, guidandola «dove non c’è il sentiero»: è grazie a questo amico che è nato il personaggio di Bruno? Che rapporto ha questa amicizia reale con quella letteraria?

L’amicizia reale ha ispirato quella del romanzo; questo libro non è un’autobiografia però tutto quello che c’è dentro ha un certo grado di verità – come succede sempre nella narrativa. Sono veri i personaggi, sono veri i luoghi, sono vere le relazioni. Scrivendo un romanzo succede che la vita diventa qualcosa di “sognato”, si discosta dalla realtà per diventare qualcos’altro. Inoltre, vari aspetti di alcune mie amicizie reali confluiscono nel personaggio di Bruno.

La montagna è un ambiente puro, schietto, elimina il superfluo e va all’essenziale. Secondo lei, quanto influisce l’ambiente montano sui rapporti umani? Parlo di rapporti familiari (penso ad esempio a Gianni, il padre di Pietro ne Le otto montagne) ma anche sentimentali e d’amicizia (mi viene in mente Lara, che si lega a Bruno, alla quale l’essenzialità sembrava non bastare).

Dipende da come uno sceglie di vivere in montagna. È anche possibile vivere in montagna così come in città. Non vorrei descrivere la montagna come un mondo in cui tutti vivono in maniera diversa e più pura. È possibile condurre un’esistenza da cittadini in un paese montano provvisto di tutti gli agi, di tutto il superfluo: mezzi di comunicazione e di intrattenimento, auto, televisione, computer e via dicendo. Ci sono invece alcune persone che vivono la montagna come luogo più semplice, più autentico, ed essi stessi si spogliano di diverse cose. Io ho veramente pochissime cose su (in montagna, nella mia baita, N.d.R.) e faccio una vita il più possibile semplice, e questo in effetti entra nei rapporti, che diventano anch’essi spogliati di tante sovrastrutture o canali di comunicazione che abbiamo oggi a disposizione. Le amicizie si fondano sullo stare insieme, sul camminare, sul lavorare e poco altro. Mi sembra in questo modo di riuscire a creare rapporti più schietti e più profondi al tempo stesso. Per quanto riguarda i rapporti familiari, quello che è successo a Pietro e Gianni è ciò che è accaduto a me: questo padre in città non c’è, perché dedica la parte migliore di sé a quello che fa fuori di casa, al lavoro. Diventa un padre reale col quale è possibile parlare e avere una relazione solo in montagna. Nel mio romanzo accade questo, ma io non ho tanta esperienza di famiglia, non me la sono costruita, mi piacciono di più i rapporti di amicizia piuttosto che quelli familiari.

Sia ne Il ragazzo selvatico che ne Le otto montagne c’è un paesaggio alpino che è selvaggio ma non completamente: lei scrive che sulle Alpi c’è una lunga storia di presenza umana che però oggi vive un’epoca dell’abbandono. Anche a Grana c’è «assenza di decoro, disprezzo per le cose, gusto nel maltrattarle e lasciarle andare in malora». C’è per lei un fascino particolare nell’abbandono del paesaggio alpino che rimanda al “ricordo come rifugio”, la frase che scrive Gianni in un libro degli ospiti?

Sì, trovo un fascino in questo. Noi probabilmente non sappiamo nemmeno che cosa sia un paesaggio davvero selvaggio: sulle Alpi, ovunque andiamo, a guardar bene troviamo dappertutto segni della presenza umana, del lavoro. Fin da piccolo mi sono abituato a vivere la montagna come un luogo abbandonato, pieno di ruderi, dove qualcosa che c’era prima, ora non c’è più, e questo è romanticamente molto struggente. Mi riferisco proprio alla poetica romantica dell’abbandono. Le Alpi io le collego a questo, cosa che non mi succede andando in Himalaya, come racconta Pietro ne Le otto montagne: lì non c’è questa sensazione di abbandono e non percepirla cambia molto, perché l’ambiente montano cambia decisamente carattere.

Alle tematiche della memoria e del ricordo si lega infatti ciò che Gianni dice dei ghiacciai alpini, «memoria degli inverni passati che la montagna custodisce per noi». In lei quindi è molto vivo il legame che lega la montagna al ricordo e alla memoria?

Sì, senz’altro, anche nella mia vita privata. Solo da bambino puoi vedere la montagna con la meraviglia dei luoghi nuovi, tutti da esplorare. Da grande essa diventa, al contrario, il luogo della tua memoria. Mi piace molto ripercorrere i vecchi sentieri e viaggiare nel tempo mentre cammino in montagna. Ma la montagna è anche un luogo di memoria collettiva perché io cammino per i luoghi della Resistenza, per esempio, o attraverso i luoghi delle Guerre Napoleoniche, o lungo i percorsi dove hanno lavorato i montanari che non ci sono più. Mi piace molto essere in grado di leggere questo paesaggio grazie a chi me lo ha insegnato, grazie ai libri che ho letto o grazie agli amici che ho frequentato. Mi piace sapere dove sto passando, capire cosa c’è stato lì, ecco.

Ne Le otto montagne lei scrive che «è impossibile trasmettere a chi è rimasto a casa quello che si prova lassù», però ha cercato di farlo. Pensa di esserci riuscito o crede che, in un certo senso, solo chi ha vissuto davvero la montagna possa capire fino in fondo l’ambiente descritto e tutto ciò che esso comporta?

A volte gli scrittori mettono nei loro libri degli “esorcismi”, e con quella frase («è impossibile trasmettere a chi è rimasto a casa quello che si prova lassù») volevo dire che quello che stavo cercando di fare rischiava di essere un fallimento, perché è impossibile raccontare la montagna a chi non la conosce. Invece poi mi è successo di parlare con i lettori che in montagna non ci sono mai stati, e ho riscontrato che sono rimasti colpiti, a modo loro, dal libro. Penso ai grandi romanzi di mare: io il mare non lo conosco per niente, eppure leggendo Conrad o Jack London mi sembra quasi di sapere tutto su come si sta su una barca. Credo che la grande scrittura questo riesca a farlo; io ci provo.

Il titolo Le otto montagne viene da una storiella che un vecchio nepalese racconta a Pietro, di un mondo composto da otto montagne e otto mari, con al centro un monte altissimo, il Sumeru. Pongo a lei la domanda che il nepalese pone a Pietro: ha imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato in cima al Sumeru? Crede che questi due percorsi rappresentino in realtà due tipologie di personalità che forse non si oppongono così tanto, bensì si completano?

Sì, sono assolutamente d’accordo. Forse spesso succede che queste due personalità siano interne a noi, due parti di noi, e non per forza due persone diverse. Ho pensato tanto a Hermann Hesse, scrittore che ho amato molto durante l’adolescenza: queste due vie somigliano un po’ alle due vite di Siddharta. Egli compie una prima parte della sua ricerca come eremita e poi pratica l’ascesi per anni: questo rimanda alla figura del monaco, quello che sta cercando di salire sulla cima del Sumeru. Poi, soddisfatto da questa ricerca, Siddharta si dedica invece alla vita dei sensi, diventa un commerciante, un amante delle città, delle donne, della vita materiale. E forse questa è la parte della sua storia che corrisponde a quella del viaggiatore che fa il giro delle otto montagne. Poi Hesse ha sviluppato questo tema in un altro gran bel libro, Narciso e Boccadoro, dove questi due destini sono incarnati da due personaggi distinti: Narciso è il monaco che passa tutta la sua vita in un monastero, Boccadoro l’artista che cresce in quel monastero come orfano, ma ben presto parte per seguire la sua vocazione. Tutti e due nella vita cercano di realizzare la loro grande opera d’arte: nel caso del monaco l’opera d’arte può essere il raggiungimento dell’illuminazione, della pace, della comprensione del mondo. Nel caso dell’artista è invece riprodurre tutto questo in un capolavoro. Mi piace molto l’idea che nessuna delle due vie sia quella giusta, sono due possibilità, magari entrambe presenti nella vita di ciascuno di noi.

Non pensa, quindi, che Bruno de Le otto montagne si sia perso qualcosa, rimanendo metaforicamente in cima al monte Sumero e rifiutandosi di girare per le otto montagne?

Beh sì, ognuno di noi si è perso quello che non ha vissuto. Un viaggiatore, per esempio, si perde la casa, si perde la vita di chi sa di appartenere a un luogo e costruisce una relazione con quel luogo. Questo è ciò che Pietro non avrà mai, quindi anche lui si perde qualcosa. Quando uno sceglie una strada, si perde tutte le altre. Ma quello che intendo dire è che non la sento come una vera perdita.

Che rapporto c’è tra la sua attività di scrittore e la montagna? Quanto la montagna ha influito e influisce sulla sua scrittura e come si percepirebbe, lei, senza la montagna?

Da un punto di vista lavorativo, la montagna è il luogo dove io scrivo. Io sono tornato in montagna a trent’anni, in un posto della mia infanzia, dopo averlo abbandonato e dimenticato per tanto tempo. Sono tornato in seguito a una crisi personale e d’ispirazione, e la montagna mi ha restituito la concentrazione necessaria per scrivere, quindi è il luogo dove lavoro meglio, è diventata la mia “stanza dello scrittore”. Poi è entrata nei miei libri con grande potenza, come luogo, come tema, come relazione, come persone. Per me, ora, ha grande rilevanza anche la scrittura del paesaggio, che prima era relativa: ero uno scrittore, mi sembra, più di personaggi, e invece scrivendo di montagna è come se il paesaggio avesse acquisito, nella mia scrittura, tutta un’altra importanza. Lo si vede dal modo in cui la scrittura cerca di raccontare il paesaggio montano, di leggerlo, di renderlo vivo.

Intraprendere una salita in montagna e scrivere un romanzo sono esperienze che per certi versi si assomigliano, perché in entrambi i casi c’è fatica, sofferenza, sforzo fisico e mentale, ma anche il timore di non farcela e la tentazione di mollare. Però alla fine si giunge alla meta e si raggiungono una pace e una soddisfazione particolari. Lei paragonerebbe la gestazione di un racconto o di un romanzo alla salita/scalata che si intraprende in montagna?

No, scrivere è più difficile. Con pazienza e testardaggine so che arriverò in cima alla montagna in ogni caso, mentre non è così per la scrittura. La metafora non regge, poi, nel caso in cui si scriva un brutto libro, perché non si scala mai una brutta montagna. Invece, si può arrivare in fondo a un romanzo, ma non è detto che si sia riusciti a fare quello che si doveva fare. Scrivendo non c’è nessuna sicurezza, mentre in montagna io sento di conoscere i luoghi, so quali sono le mie forze e arrivo sempre in cima, prima o dopo. Scrivere per me è difficoltoso, è un’attività molto rischiosa, nel senso che non sono mai sicuro di dove sto andando o che quello che sto facendo sia buono. Mi manca molto il rapporto artigianale con il lavoro (poi credo che sia così, magari un falegname mi può smentire). Intendo dire che, ad esempio, quando un falegname comincia a lavorare a un manufatto, sa quello che sta facendo, sa come lo deve fare e sa ciò che otterrà. Nella scrittura non è così: è un continuo avventurarsi al buio usando le poche cose che sai per farti luce.

Ne Le otto montagne lei scrive che «uno va in alto perché in basso non lo lasciano in pace». Molti percepiscono nella montagna una sorta di magia, la vedono come un rifugio dove non arriva la contemporaneità o le preoccupazioni della vita di città. Perché secondo lei proprio la montagna ha questa capacità di far spogliare l’uomo e fargli subire una metamorfosi in cui recupera una genuinità e una semplicità che nella frenesia della città non c’è o è difficile da trovare?

Lei però parla più che altro di ciò che succede in vacanza, o durante un viaggio, in un periodo di riposo dal lavoro. Se uno va in montagna a lavorare, non è che si lascia alle spalle le preoccupazioni. Io in questo momento sono molto vicino alle persone che in montagna ci vivono, quindi penso più a loro, anche perché una delle cose che credo di aver cercato di raccontare è che la montagna non è solamente “l’altrove dei cittadini”, di chi passa tutta la vita in città e ogni tanto va su, si cambia d’abito come il padre di Pietro, e con la sua camicia a scacchi trova una tranquillità momentanea in montagna. La montagna di chi ci abita e di chi ci lavora non è un paradiso, piuttosto è un luogo dove si è più soli e anche più liberi, come accade in tutti i luoghi lontani dalla società. Per me la frase «in basso non ti lasciano in pace» è anche legata a una certa tradizione storica della montagna come luogo di resistenza. Penso alla Resistenza partigiana, alle eresie dei valdesi, al modo in cui la montagna ha sempre ospitato e protetto le minoranze, a chi è andato a nascondersi su in alto, scappando dalla pianura che spesso è luogo del potere e della prepotenza cittadina. Questa idea mi piace molto: sono infatti andato a vivere in montagna anche per riuscire a fare la vita che voglio io – cosa che non potevo fare in città.

In montagna, quindi, è del tutto assente questa frenesia che c’è in città oppure per chi ci vive e ci lavora c’è, ma è una frenesia di tipo diverso?

Io credo che la frenesia appartenga a chi fa una vita frenetica. Io abito ancora, in parte, a Milano, ma non definirei la mia vita frenetica. La frenesia è una dimensione personale. La montagna può invece rispecchiare un bisogno di concentrazione, di fare silenzio attorno a sé, senza lasciarsi distrarre troppo dalle cose della vita odierna, contemporanea. Ma questo (condurre una vita frenetica, N.d.R.) può succedere in città come in montagna.

Lei trova che ultimamente la montagna sia una meta turistica gettonata per moda o perché molti si ritrovano a vivere una certa inquietudine, magari figlia del nostro tempo o del modo in cui si vive, e quindi hanno bisogno di scappare?

Sì, penso che sia così (cioè che sia vera la seconda, N.d.R.). Però vorrei dire che la montagna è una meta molto meno gettonata, oggi, rispetto ad anni fa. Ci sono infatti un sacco di case vuote, è un dato di fatto. Credo che la montagna andasse molto più di moda negli anni ‘60 o ‘70. In questo periodo mi parlano spesso di questa presunta “invasione della montagna”, ma a me viene da rispondere che io quest’invasione non l’ho vista. Abitandoci, non vedo questa “moda” della montagna, o se c’è, semmai, dura pochissimo, forse un paio di settimane in agosto. Penso che a settembre in montagna non ci sia già più nessuno.

Noi de La Chiave di Sophia riteniamo che la filosofia sia la spinta e il motore di ogni nostra azione e anche di ogni professione, perché è riflessione e ricerca di senso. Nel suo mestiere di scrittore, ritiene che la filosofia abbia un ruolo importante? Che cos’è per lei la filosofia?

La filosofia c’entra strettamente con quello che faccio. A modo mio compio la ricerca del filosofo, che è ricerca di verità, un tentativo di comprensione dell’animo umano, dell’esperienza umana, di cosa significa stare al mondo. La filosofia io la faccio a modo mio, raccontando storie, indagando. A me sembra che narrare sia appunto questo: un’indagine che si svolge attraverso la scrittura, scrivendo del mistero che sono le persone. Penso quindi che ci sia molta filosofia nella mia attività di scrittore.

 

Francesca Plesnizer e Elena Casagrande

 

[Credit: Stefano Torrione]

 

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Le “Istantanee” di Claudio Magris: raccolta di suggestioni

Uno scrittore è – soprattutto e prima di tutto – un osservatore. Nel suo ultimo libro Istantanee (La nave di Teseo, 2016), Claudio Magris osserva l’umanità che lo circonda e, al contempo, se stesso, offrendoci un potente collage fotografico-letterario che tocca le tematiche più svariate. Nell’incipit cita – per esplicare la scelta del titolo – il Grande dizionario della lingua italiana: un’istantanea viene «eseguita con un tempo di esposizione molto breve senza l’impiego di un sostegno». Magris presenta infatti circa una cinquantina di scatti “letterari”, brevi, intensi stralci delle esistenze altrui nonché della sua.

claudio_magris_istantanee_cover_la-chiave-di-sophiaGli scorci raccolti fanno parte di un arco temporale che va dal 1999 al 2016, ma a volte scavano ancora più in profondità, nella memoria storica collettiva: è il caso dell’istantanea “Il Muro durerà ancora anni…”, dove egli ricorda una giornata passata in Francia, ad un convegno dedicato all’Europa dell’Est, all’inizio del novembre 1989. In quel mentre una epocale protesta sta prendendo vita a Berlino Est, ma lì si discute pacatamente; è presente anche un regista berlinese. L’uomo è in fibrillazione, e prima di ripartire per unirsi alle contestazioni, afferma di essere convinto di una sola cosa: «il Muro durerà purtroppo ancora per anni». Eppure, solo un paio di giorni dopo esso «era ridotto a qualche rovina scalcinata, un’anticaglia del passato». Magris mette l’accento sulla nostra cecità conservatrice: «Scambiamo la facciata del reale per l’unica realtà possibile, definitiva». In questo prezioso scatto, attraverso parole memori di una rivoluzione passata, il proverbiale velo di Maya viene squarciato un po’.

Leggiamo anche d’amore e dei diversi modi di concepirlo: si sottolinea la differenza tra “stare con” e “andare con” qualcuno. Il primo è programmatico e pone obblighi a prescindere, il secondo è invece «un eros schietto e onesto» che non fa promesse, viene vissuto liberamente e per questo può dare e durare molto di più.

In “Scene mute di un matrimonio” troviamo invece una coppia in un’osteria carsolina: entrambi sono presi dai loro rispettivi smartphone. Le persone attorno, con voyeuristico godimento, constatano quanto due persone che hanno una relazione di lunga data possano non avere più nulla da dirsi. Magris però non è un censore, bensì un osservatore discreto, attento: nota che gli sguardi dei due ogni tanto si incrociano, in «un istante di tranquilla, misteriosa tenerezza», e che la donna tocca il braccio dell’uomo. Per quale motivo, si domanda lo scrittore, «stare insieme in silenzio dovrebbe essere sempre segno di aridità e lontananza?». Ci invita a rispettare quello che degli altri non sappiamo, poiché: «Amare significa anche comprendere e proteggere quella solitudine di cui l’altro ha bisogno», la necessità di «stare unicamente con i propri pensieri e con il loro randagio vagabondare e perdersi».

Sono presenti anche riflessioni sulla soggettività e sull’identità: in “Ritratto di gruppo con giurista addormentato” siamo trasportati in una soporifera riunione accademica, durante la quale un illustre giurista si addormenta. Magris vede «il suo viso allentarsi, come se le singole parti si lasciassero andare, ognuna per conto proprio, e quello non fosse più un viso, ma un insieme casuale di bocca, naso, guance, palpebre». Quel volto «sembra perdere la sua individualità, i suoi tratti irripetibili, e diventare il viso di ognuno, di tutti e di nessuno, generico e inespressivo». Il sonno ha momentaneamente derubato il giurista della sua identità, ha scolorito il suo io: il manto di Morfeo ci livella tutti. Eppure, dormire è necessario: Magris ci suggerisce fra le righe che abbiamo bisogno di sprofondare in un abisso di indistinzione, smettendo per un po’ i nostri panni, forse per sopportare meglio gli ostacoli della vita.

C’è anche il tema del riconoscimento – in questo caso grottesco: nell’ultima istantanea, “Selfie”, un uomo è inferocito perché un’auto si è parcheggiata abusivamente davanti al suo garage bloccandogli l’uscita. In essa c’è una bambina che attende la madre, animaletto impaurito di fronte alle irose invettive dell’uomo, che d’un tratto si vede riflesso nel finestrino: «non mi sono mai visto così brutto e sgradevole». È Magris stesso, quell’uomo, abbrutito dalla situazione.

Istantanee è un’opera antropologica: l’essere umano viene osservato e rappresentato, ma senza che l’autore si cristallizzi mai in alcuna delle sue interpretazioni. Magris legge segni – verbali, mimici – e azioni con una buona dose di autocritica e con una risata liberatoria – che si può sentire sfogliando le pagine – che dice semplicemente: “Siamo fatti così”. Leggiamo la sua mostra fotografica, a tratti tenera, a tratti selvaggia, che ci permette di respirare il mondo attraverso la sua persona, conducendoci ad una riflessione continua, destinata forse a rimanere incompiuta. Scopriamo di sentirci a volte comodi e al sicuro fra le pieghe dei suoi pensieri, ma poi incappiamo in verità scomode e imbarazzanti – come il fastidio provato quando in autostrada si crea una coda a causa di un ferito, o quando un conferenziere viene interrotto da qualcuno in preda a un malore forse mortale.

È un libro corale e al contempo diaristico, che ci sussurra l’incanto, la regalità, ma anche l’invidia, la bruttura, la pochezza dell’essere umano, e lo fa tramite la scrittura, che – come la definisce Magris – è un donarsi agli altri aprendo un dialogo, ed è in esso, «nell’uscire da se stessi e nell’incontrare l’altro, che consiste il senso dell’esistenza».

Francesca Plesnizer

Francesca Plesnizer, classe 1987. Sono nata e vivo a Gorizia, ho conseguito la laurea magistrale in Filosofia presso l’Università degli Studi di Trieste nel 2015. In passato ho scritto per due quotidiani locali – “Il Piccolo” e “Il Messaggero Veneto di Gorizia” – e da alcuni mesi collaboro con due riviste: “Charta sporca”, periodico culturale per il quale scrivo recensioni cinematografiche e articoli su tematiche filosofiche, e “Friuli Sera”, per il quale analizzo e interpreto – per una rubrica dedicata – opere di Street Poetry e Street Art. La scrittura è il mio più grande amore (scrivo anche racconti, poesie, saggi), ma adoro anche passare il tempo a leggere e a guardare film. Un’altra mia passione è l’insegnamento, specie della filosofia.

[Immagini tratte da Google Immagini]

Quando l’arte si fa esperienza: la percezione come strumento d’indagine

Qualche giorno fa l’associazione TRA – Treviso Ricerca Arte ha ospitato il collettivo [I] Experience, con la sua performance artistica a 360 gradi. Un progetto complesso e ben strutturato che consiste nell’ascolto attraverso cuffie in modalità binaurale di una sinfonia rock, eseguita live da quattro musicisti e una cantante. Nelle pause tra un brano e l’altro, immerso nel silenzio ovattato delle cuffie, lo spettatore ha la possibilità di seguire sul proprio smartphone o tablet un testo che scorre. La musica è inoltre accompagnata da una visual dai toni psichedelici ed evocativi.

Un’esperienza completa, che invita all’osservazione, all’ascolto e alla rielaborazione degli input narrativi offerti dalla storia che si svolge sullo schermo. Il ritmo della performance è quindi dettato dal respiro della protagonista del racconto: una ragazza con problemi di dipendenza, solitudine e paranoia.the-experience-2_tra_la-chiave-di-sophia

Lo spettacolo ci offre, dunque, uno sguardo sul fenomeno sociale dei giovani hikikomori, particolarmente grave in Giappone, che consiste nella progressiva alienazione volontaria dalla realtà e spesso si conclude con suicidi collettivi.

Emerge un’intenzione di indagine che definirei quasi scientifica e sociologica. Le modalità proprie della fruizione ci trasportano nella dimensione emozionale di un hikikomori: l’interiorità di cui la musica si fa espressione, non coincide infatti con gli input esterni.

Un concerto che dovrebbe essere vissuto collettivamente diventa così una sinfonia intima e privata. Ci troviamo a vivere un’esperienza in solitudine, anche se all’interno di uno spazio pubblico e seduti tra la moltitudine: al di fuori di noi c’è solo silenzio e persone riparate dalle cuffie.

Parole quindi che riflettono la musica, che a sua volta restituisce le emozioni del racconto, o almeno quelle che ognuno può elaborare secondo la sua personale lettura. La propria emotività si trasforma in uno scudo, un rifugio nel quale è dolce ripararsi e ad un certo punto conveniente.

Un circolo vizioso e ipnotico, uno stato che tra l’altro si riflette nelle proiezioni psichedeliche ed oniriche.the-experience-1_tra_la-chiave-di-sophia

L’esperienza artistica forse non può dare delle risposte certe, perché è soggettiva, ma d’altra parte aiuta ad elaborare domande. Chiedersi perché un ragazzo arrivi a diventare hikikomori non ci permette però di adottare la giusta prospettiva sul fenomeno. Le ragioni di questa patologia sono così profondamente radicate nel subconscio che risultano difficili da comprendere; inoltre questo tipo di sofferenza ha una natura totalmente personale ed è impossibile da condividere. Non a caso l’unica condivisione accettata dagli hikikomori è attraverso amicizie virtuali, scambi di parole mediate da una rigida tastiera e semmai addolcite con qualche emoticon.

Bisogna invece cambiare punto di vista e fermarsi a pensare come sia possibile percepire con i sensi strettamente canalizzati, o addirittura oscurati.

Credo sia questa la sfumatura più interessante sulla quale il progetto di [I] Experience ci porta a riflettere: d’altronde si tratta di partecipare ad un concerto ma ascoltando esclusivamente attraverso delle cuffie, che non permettono al suono esterno di entrare, e con lo sguardo concentrato su uno schermo, per cui le altre persone diventano invisibili.

La performance ci invita a sperimentare una sorta di isolamento percettivo, capace di creare universi fittizi, e, senza esprimere alcun giudizio, ad entrare in empatia con la protagonista. Per poi dimostrare, invece, che questa empatia per certi versi è illusoria, poiché ognuno è solo con se stesso. Emerge come il problema sia un’errata canalizzazione degli organi sensoriali: lo sguardo rivolto verso la propria interiorità resta così intrappolato in una paura da cui è difficile uscire e contro cui è impossibile opporsi.

Essenzialmente [I] Experience − che già nel logotipo del nome ci presenta una I (un io quindi) imprigionato tra parentesi − ci invita così a riappropriarci della nostra esperienza del mondo, di sentire al di fuori di noi, come reazione all’isolamento imposto durante il concerto.

Claudia Carbonari

Piero Chiara, “Il cappotto di astrakan”

Scrittore tra i più cordiali e affabili del Novecento, Piero Chiara (1913-1986) ebbe coi suoi romanzi e racconti un meritato successo specie tra gli anni Sessanta e i Settanta. Il cappotto di astrakan, del 1978, rappresenta molto bene il suo mondo narrativo e le sue qualità di piacevole intrattenitore e insieme raffinato disegnatore di stati d’animo e sentimenti.

il-cappotto-di-astrakan-copertina_La-chiave-di-SophiaSiamo nel 1950 a Luino, il piccolo centro sul Lago Maggiore dove l’autore ambienta quasi tutti i suoi romanzi. Il protagonista, che racconta la storia in prima persona, decide di lasciare per qualche tempo la provincia e recarsi a Parigi. Con questo viaggio cerca nuove esperienze con cui farsi bello al ritorno: un soggiorno parigino «poteva dare gloria per tutta la vita anche a un tipo qualunque, solo che avesse saputo raccontare le sue gesta, immancabili, perché nessuno poteva vivere a Parigi senza capitare dentro casi e vicende degne di venir raccontate».

A Parigi, il protagonista conosce due donne. La prima è la signora Lenormand, che gli affitta una bella camera, piena di libri e occupata in pianta stabile dal gatto Domitien (un piccolo protagonista del romanzo). La signora, vedova di guerra, ha notato la somiglianza del protagonista col figlio Maurice e gliene parla molto: fidanzato con una brava ragazza, si è poi innamorato di un’altra donna che ha seguito in Indocina. Maurice ha lasciato nella camera un grosso quaderno pieno di stravaganti appunti, «tentativi di poesie, pensieri vari, spesso datati, brani d’autori celebri, minute di lettere d’amore, formule algebriche, trame di racconti e di romanzi».

L’altra donna è Valentine, che il protagonista intravede per la prima volta, nuda e intenta a fare degli esercizi, dietro le tapparelle mezzo abbassate dell’appartamento di lei. Riesce a conoscerla e i due si frequentano, trascorrendo le domeniche in tranquille passeggiate nei dintorni della città. Il protagonista è incerto su come comportarsi con Valentine, che non sembra interessata a un’avventura da poco.

In realtà entrambe le donne scorgono nel protagonista il riflesso di un’altra persona. Lo scopriamo quando la signora Lenormand gli lascia usare un bel cappotto in pelliccia di astrakan appartenuto a Maurice. Valentine, vedendolo con questo indumento, appare stupita, e finisce poco per volta col rivelargli il motivo: Maurice era il suo fidanzato. E non è affatto in Indocina: si trova in prigione dopo aver compiuto rapine e furti d’opere d’arte.

E una sera, all’improvviso, Maurice torna: fa irruzione nella sua camera, ora occupata dal protagonista, prende una gran somma di denaro che teneva nascosta nell’imbottitura di una poltrona, e scappa. Il nostro protagonista decide irrazionalmente di fuggire, subito, e torna in Italia. Dai giornali viene a sapere che Maurice è stato arrestato: dopo essersi recato a prendere Valentine a casa, ha cercato di raggiungere il sud ma è stato denunciato da un camionista.

Il protagonista è ripreso dalla vita di provincia, e i suoi racconti delle esperienze parigine hanno molto successo tra gli amici. Non vuole più tornare a Parigi, ma è Valentine che lo raggiunge: è disposta a vivere con lui sul lago, rinunciando a una buona proposta di lavoro. Ma il protagonista è combattuto: se era riuscito a accettare l’antica storia di lei con Maurice, la gelosia per questo breve periodo che gli ex fidanzati hanno trascorso insieme dopo l’evasione gli è troppo penosa. Dopo un ultimo pomeriggio insieme in una camera d’albergo, lui la accompagna al treno; poi le scrive una lunga lettera, su cui il romanzo si chiude.

Il protagonista del romanzo è tutt’altro che una figura eroica: privo di grandi qualità come di gravi difetti, sembra fatto per la routine della provincia, e anche quando si reca a Parigi sembra che la viva come una provincia più eccitante, che offre occasioni insperate come una donna che si spoglia al di là delle tapparelle di una finestra. Ma le due donne, attraverso di lui, scorgono Maurice: che prima ci incuriosisce attraverso i suoi quaderni e i racconti che ne fa la madre, ma alla fine si rivela anche lui un uomo dappoco, un banale rapinatore e carcerato evaso.

In questo calcolato gioco di specchi il racconto sembra costruirsi davanti ai nostri occhi: sono i non detti fra i personaggi a nascondere e poi svelare la trama. E l’autore governa questo gioco in maniera sapiente e un linguaggio di estrema eleganza: un parlato disinvolto e calcolato, come quando vogliamo raccontare una storia e, per fare bella figura, la ripetiamo più volte a noi stessi per sentirne l’effetto. Il romanzo, nella sua vena umoristica e insieme malinconica, suggerisce sempre la presenza di un ascoltatore: i compaesani del protagonista, che si fanno incantare dalle sue storie. E, con loro, anche noi lettori.

Giuliano Galletti

Piero Chiara, Il cappotto di astrakan, Milano, Mondadori, 1999.

[Immagine tratta da Google Immagini]

C’era una volta… per davvero

«Ciò che le fiabe narrano – o, al termine della loro metamorfosi nascondono – una volta accadeva: giunti a una certa età i ragazzi venivano separati dalla famiglia e portati nel bosco (come Pollicino, come Nino e Rita, come Biancaneve), dove gli stregoni della tribù, abbigliati in modo da far spavento, col viso coperto da maschere orribili (che a noi fanno subito pensare ai maghi e alle streghe) li sottoponevano a prove difficili, spesso mortali (tutti gli eroi delle fiabe ne incontrano sul loro cammino). I ragazzi ascoltavano il racconto dei miti della loro tribù e ricevevano in consegna le armi (i doni magici che nelle fiabe donatori soprannaturali distribuiscono agli eroi in pericolo) e infine facevano ritorno alle loro case, spesso con un altro nome (anche l’eroe torna talvolta in incognito). Erano maturi per sposarsi (come nelle fiabe, che nove volte su dieci si concludono con una festa di nozze)»1.

Le parole di Gianni Rodari ci raccontano di riti divenuti fiabe. Sull’origine della fiaba, sulla sua ritualità tratterà questo promemoria filosofico.

Rodari riprende la teoria dell’etnologo sovietico Vladimir Prop secondo cui la fiaba ha cominciato a vivere come tale quando l’antico rito è caduto, lasciando di sé solo il racconto. Ciò che era presente come rito tradizionale, è diventata storia passata che gli uomini hanno trasformato in mito, fino ad abbandonarlo e lasciarlo esistere come un ricordo. Non si tratta solo di un “raccontino per bambini”, ma si tratta della nostra storia. Molti anni addietro, nelle prime comunità umane, la fiaba era un costume consolidato, un rito di passaggio che permetteva ai giovani di diventare adulti. Il caso vuole che le fiabe siano comunemente considerate adatte ai più piccoli e questo non sia del tutto sbagliato, anche se in un senso limitato. La fiaba dovrebbe essere oggetto di analisi storico-antropologica poiché ci dà gli strumenti per comprendere la storia umana in modo profondo.

Nelle tribù arcaiche la fase dalla giovinezza all’età adulta era una consuetudine sacra, che era dettata dagli déi primordiali legati alla terra. Oggi possiamo riflettere come le fiabe quindi siano nate per caduta del mondo sacro al mondo laico: come per caduta sono finiti al mondo infantile, quegli oggetti che avevano valenza culturale. Prendiamo come esempio il peluches più caro ai bimbi: l’orsacchiotto. L’orsacchiotto che stringe il bambino che vedi per strada, una volta era uno degli animali totem divinizzati dalle popolazioni antiche, come animale protettore della comunità. È assolutamente affascinante approfondire e scoprire in quello che confiniamo solo adatto ai bambini, il nucleo primitivo magico proprio e comune per l’umanità. A riguardo si ricollega il concetto di inconscio collettivo di Jung, che connette in senso meta-temporale il ragazzino primitivo che conquista la sua identità matura attraverso il rito sociale, al bambino di oggi, che mediante il racconto fiabesco entra a conoscenza delle dinamiche del mondo di cui farà parte un giorno.

Ora il mio augurio è questo: ripeschiamo tra i ricordi quella fiaba che ci faceva brillare tanto gli occhi e che abbiamo fatto nostra, e cerchiamo rileggerla con il vissuto di oggi, di vedere quanti punti di questa abbiamo realizzato o che ancora ci prefissiamo di raggiungere. Incosciamente da bambini l’abbiamo scelta anche per questo.

Al prossimo promemoria filosofico

Azzurra Gianotto

NOTE:
1. Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi Ragazzi, Trieste 2013, pg. 86

[Immagine tratta da Google Immagini]