Dewey e la democrazia radicale, tra complessità e intenzionalità comune

La società umana si evolve nel segno della complessità. I saperi diventano più settorializzati e corrispondentemente meno accessibili e possiamo raffigurarci la crescita della complessità come una moltiplicazione di vocabolari i quali, a mano a mano che si sviluppano, diventano reciprocamente intraducibili, se vogliono mantenere la propria specificità. Una delle conseguenze più lampanti di tale processo è la frammentazione dell’opinione pubblica, cristallizzata in spaccature politiche a tratti mai tanto evidenti, che trova casa nell’individualismo montante nelle nuove generazioni, che si spinge fin nel cuore di quei mezzi che, idealmente, rispondono a un crescente bisogno di connessione e comunicazione (leggi: social media, ma anche l’internet in generale), ma che finiscono per rimanere intrappolati nelle distorsioni cognitive che ci portiamo appresso.

Parallelamente a tale frattura, possiamo riconoscere un trend interno al processo democratico che ha progressivamente allontanato l’elettorato dal legislatore e (a tratti) dalla figura dell’esperto, alleanza sempre più frequente e ben esemplificata dai numerosi governi tecnici cui abbiamo assistito nel recente passato.

Il tema fu portato al grande pubblico grazie al dibattito tra il filosofo americano John Dewey e il giornalista Walter Lippmann: quest’ultimo negava che il pubblico avrebbe potuto mantenere il proprio ruolo privilegiato all’interno della democrazia, poiché l’avvento dei mass media lo stava rendendo sempre più manipolabile e di conseguenza incapace di prendere decisioni autonome. La soluzione? Virare verso la tecnocrazia.

Nulla di tutto ciò suonerà particolarmente nuovo al lettore; Dewey fu un accanito difensore della democrazia, e propose utili riflessioni in proposito: nel suo Comunità e potere1, egli si concentra in particolar modo sulla transizione tra ciò che egli chiama «Grande Società» e la «Grande Comunità». Nel prosieguo dell’esposizione, tenterò di rendere intelligibile questo passaggio e di come questo si agganci alle tematiche attuali.

Innanzitutto, la democrazia per l’autore americano è da intendersi come etica, riprendendo l’idea greca di ethos come insieme di costumi, norme, atteggiamenti, sentimenti e aspirazioni che caratterizzano la vita di un popolo. Lo Stato non deve le proprie origini a una qualche causa trascendentale, bensì al fatto che la comunità di persone, diventando più numerosa e di conseguenza più vulnerabile alle manchevolezze dei propri membri, decide di tutelarsi dalle conseguenze indirette delle azioni individuali; vengono eletti dei pubblici ufficiali affinché gli interessi comuni vengano protetti e gli ufficiali, a loro volta, vengono vigilati dal pubblico, il quale controlla i loro appetiti egoistici attraverso il meccanismo dell’elezione periodica.

Il processo decisionale, tuttavia, non è riuscito a tenere il passo di una crescente complessità. Quella natura processuale della democrazia, ben descritta da Tocqueville nel suo La democrazia in America, si è ridotta progressivamente alla conta delle preferenze degli elettori, come su di un pallottoliere. Non che la democrazia come calderone di tutto ciò che porta alla definizione, sempre dinamica e a circolo aperto, di quelle opinioni sulle quali gli elettori si esprimono, sia venuta a mancare; ma il battage dell’expertise ha oscurato ulteriormente tale processualità, spostando i riflettori sulla figura dell’esperto e lasciando al pubblico il “mero” esercizio del voto.

Questo scollamento tra policy makers e pubblico annebbia la visione d’insieme: in primo luogo, come il recente caso Trump ammonisce, problematiche scientificamente ovvie – il riscaldamento globale – possono essere così lontane dalla coscienza del pubblico, che la sola conoscenza accademica non riesce a smuovere l’impasse. Rischiamo di alimentare un intellettualismo privo di braccia. In seconda battuta, la figura stessa dell’intellettuale e dell’esperto è stata a tratti sopravvalutata, non quanto alla risoluzione di teoremi o ad avanzamenti nanotecnologici, bensì quanto alla risoluzione di problemi pratici; attualmente, impieghiamo risorse mentali vergognosamente insufficienti per rispondere alla difficoltà dalle sfide contemporanee.

Allontanandosi da qualsiasi contrattualismo semplicistico, la società per Dewey non è un aggregato di individui, non una necessaria frizione di soggetti: si tratta di un organismo che agisce, guidato da intenzioni comuni. All’intenzione è pregiudiziale la comunicazione; di conseguenza, un volere diviso si rispecchia in una trasmissione di saperi altrettanto frammentaria. «Abbiamo strumenti materiali di comunicazione che non abbiamo mai avuto nel passato; ma i pensieri e le aspirazioni conformi a tali strumenti non si comunicano e quindi non diventano comuni a tutti. Senza tale comunicazione d’idee il pubblico rimarrà oscuro e informe, cercandosi spasmodicamente, ma afferrando e trattenendo la sua ombra anziché la sua sostanza. Finché la Grande Società non si convertirà in una Grande Comunità, il Pubblico rimarrà in uno stato di eclisse. […] La nostra non è una Babilonia delle lingue, bensì dei segni e dei simboli, in mancanza dei quali è impossibile un’esperienza comune»2.

Queste parole sono cariche di suggestioni e lasciano aperte molte questioni. Quali sono “i pensieri e le aspirazioni” dell’interconnessione contemporanea, forse la comunicazione universale, oltreché istantanea ed efficiente? Quali le forme che realizzano un’esperienza comune, oggi che abbiamo innalzato algoritmi a cementare le nostre tensioni monadiche? La complessità avanza, la velocità incalza, ma la dimensione dell’umano ci richiede di ritornare pazientemente sui nostri passi e di confrontarci con le questioni che ci toccano più da vicino: la nostra capacità di costruire in comune, accordando l’intenzione dei singoli a una visione più ampia, smuovendo le coscienze dal proprio torpore individuale, stando attenti a non sacrificare la ricchezza della particolarità singolare.

 

Alessandro Veneri

Mi piace pensare. Cerco di distillare i contenuti che mi attraversano la coscienza, affaccendandomi talvolta per metterli su carta o codici binari. 
Un mantra di questo periodo è sperimentare se le scelte difficili rendano la vita un po’ più facile. In attesa di scoprirlo, le giornate si arricchiscono di studio filosofico, copywriting, passeggiate, e della presenza di cari amici.

 

NOTE:
1. Cfr. J. Dewey, Comunità e Potere, La Nuova Italia, Firenze 1971. L’edizione originale in inglese, dal titolo The public and its problems, è del 1927.
2. J. Dewey, Op. cit., p.112.

[Immagine tratta da Google Immagini]

Arte e fenomenologia delle emozioni: la prospettiva di Andrea Bruciati

In occasione della doppia mostra trevigiana Lost in Arcadia, allestita al Museo Bailo e da TRA – Treviso Ricerca Arte, intervistiamo Andrea Bruciati, curatore, storico dell’arte e nuovo direttore di Villa Adriana e Villa D’Este a Tivoli. Riferimento della scena artistica italiana, Bruciati ci racconta la sua idea di arte come fondamentale strumento di lettura della realtà e macchina di pensiero, ed invita il pubblico a sviluppare un dialogo più soggettivo ed intimo con le opere.

 

Nella sua professione di storico dell’arte e di curatore deve essere capace di trovare i giusti riferimenti nel passato, ma anche di rielaborare e presentare questi stessi stimoli in un’ottica attuale. Come si può dunque costruire il dialogo tra storia e contemporaneità?

L’artista è sempre un pioniere, deve essere in grado di sperimentare e fare ricerca, spingendosi aldilà delle conoscenze prestabilite, mettendosi in discussione e cambiando i canoni del nostro immaginario. Ma questo lavoro sono in grado di compierlo solo i grandi maestri che sanno da dove vengono e chi sono. La storia e la memoria sono i punti di partenza fondamentali perché solo con profonde radici si possono costruire grandi architetture di pensiero. L’importante è che il passato non rimanga un riferimento passivo ma che si faccia vivo ed edificante. L’artista infatti deve compiere una rielaborazione personale della storia, per rispondere ad inquietudini del presente e cercare risposte per il futuro.

Spesso i giovani artisti scelgono la strada del facile consenso, ovvero percorrono istanze già sperimentate per inserirsi nella moda del momento. In questo caso possiamo parlare di contemporaneità derivativa perché manca la parte di ricerca e rielaborazione personale. E non è il tipo di lavoro che personalmente mi interessa.

L’hanno spesso definita difensore e promotore di un fare dell’arte tutto italiano, ma in un mondo globalizzato come quello attuale, può esistere una realtà italiana in grado di confrontarsi come corpus unitario con modelli esteri? D’altronde i grandi movimenti storici che si sono generati in Italia con risonanza internazionale, come l’arte povera o la transavanguardia, fanno ormai parte del passato.

Oggi l’artista ha un linguaggio trasversale e internazionale, poiché viviamo in un mondo dove ovunque possono arrivare le informazioni e nuovi stimoli. Però, riprendendo anche il precedente discorso sull’importanza dei riferimenti storici, dobbiamo sempre sapere chi siamo. Se un artista ha successo all’estero è perché trae in maniera vivificante dei semi, una koinè (lingua comune, n.d.e), dalla sua storia. Prendiamo ad esempio Maurizio Cattelan, Francesco Vezzoli, o Vanessa Beecroft. Sono tutti artisti italiani che hanno rielaborato delle specificità attraverso la nostra cultura: tramite l’ironia, nel caso di Cattelan, che si presenta come una specie di Pinocchio del Ventunesimo secolo, o parlando della donna attraverso la moda, come nel caso della Beecroft; o ancora, affrontando un discorso legato ad un vintage del nostro immaginario, ad un passato perduto, come con Vezzoli.

Poi da curatore posso anche fare un altro tipo di discorso. Ci troviamo in un sistema internazionale in cui tutti difendono i loro artisti, quindi è naturale per me cercare di portare avanti i nostri. In questo caso è puramente una questione di politiche culturali: certamente artisti anglosassoni e tedeschi in un panorama internazionale si trovano spesso più avvantaggiati. Poi, aldilà di tutto, credo che la qualità della ricerca sia sempre la cosa più importante, ed è un valore che non ha bandiera.

In una precedente intervista ha affermato che la cultura è il valore etico su cui una comunità sana si costruisce. In che modo si crea un dialogo con il pubblico senza scendere a troppi compromessi con scelte commerciali?

Secondo me la responsabilità è degli organi di formazione della collettività, a partire proprio dalle basi, quindi dalle scuole. Oggi il linguaggio visivo è la nuova forma di analfabetismo. Non riusciamo spesso a distinguere lo stimolo che ci proviene da una bella immagine pubblicitaria da quello di un’espressione artistica, perché non abbiamo dei parametri valutativi. L’educazione è quindi la risposta per conferire all’individuo gli strumenti per capire quando un’espressione è ricerca, che va aldilà di quello che noi vediamo, e quando invece è massificazione dell’immagine. Un’immagine che in questo caso ci deve piacere e sedurre per vendere. L’arte deve essere invece uno strumento che ci aiuti a interpretare la realtà che ci circonda e non estetica fine a se stessa.

Se l’arte deve essere in grado di dirci qualcosa, quali sono i valori che rendono un’opera costruttiva in una prospettiva sociale? Dal suo personale punto di vista, vale di più la partecipazione collettiva, forse oggi la scelta più diffusa o comunque con più risonanza mediatica, o la riflessione autonoma?

Credo che l’arte debba sempre rivolgersi alla fruizione in modo attivo, invitando il pubblico a riflettere. Ma nelle mie scelte come curatore prediligo un pensiero suggerito, a partire dal singolo artista, dalla sua soggettività e intimità. È una forma di comunicazione fortemente diversa da quella del manifesto d’avanguardia, per esempio, ma non per questo meno efficace, penso che il fruitore debba avere la libertà di interpretare ciò che vede. Quando organizzo una mostra mi piace considerarla una piattaforma di pensiero propedeutica alla cittadinanza, quindi funzionale alla riflessione, ma dove ognuno è libero di intraprendere il percorso di ricerca che preferisce e più consono al suo essere.

Che cosa consiglierebbe a quei pochi giovani coraggiosi che scommettono ancora sulle carriere umanistiche e che desiderano inserirsi nel settore dell’arte in qualità di storici, teorici o curatori?

Bisogna avere molto coraggio, tracciare delle nuove strade. È un po’ lo stesso discorso fatto con gli artisti: o ti adegui a quello che il sistema dominante ti impone, oppure sviluppi delle ipotesi di pensiero personali.  Direi di non aver paura di indagare diversi campi di studio e di avere una certa versatilità, il settore va preso da tanti punti di vista.

In una realtà come quella italiana in cui le istituzioni sono le prime che sembrano non credere nel valore e nel potenziale della cultura, c’è ancora spazio per questa sperimentazione di cui parla?

È vero che in Italia la situazione è difficile, il sistema del Paese non aiuta. Andarsene però è una sconfitta, per quanto mi riguarda ho una forma mentis un po’  “Don Chisciottesca”, e credo che anche tra le difficoltà basti un piccolo passo per offrire un po’ di linfa vitale. Noi, che lavoriamo in questo settore, in fondo trattiamo di elaborati culturali ed estetici, oltre che certo dati scientifici e storici, ma dobbiamo soprattutto imparare a muoverci con altri strumenti, forse più legati alla nostra soggettività. Da una parte penso sia sempre arricchente fare un’esperienza di studio o professione all’estero, dall’altra se l’arte contemporanea necessita di problematicità, forse questo è il Paese ideale dove l’arte può svilupparsi. I limiti possono rappresentare uno stimolo.

Oltre ad una ricerca estetica personale che è l’essenza stessa della sua professione, come si relaziona nel quotidiano il suo lavoro con un’indagine di tipo filosofico?

L’arte è conoscenza emotiva e inintelligibile, la mia è una ricerca rivolta alla fenomenologia delle emozioni. Non mi interessa la logica fine a se stessa, ma piuttosto se funzionale al miglioramento della condizione dell’uomo.

 

Claudia Carbonari

[Immagine tratta da Artribune.com]

 

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Biennale di Venezia e concime culturale

Basta assaporare un po’ l’aria che si respira a Venezia, l’aria della Biennale fuori dai salotti buoni e dalle feste esclusive, per capire che più che di fronte a un humus culturale si sta sprofondando nella stagnazione culturale.

Interessante è anche il titolo Viva Arte Viva, che sembra più una preghiera che una sua concretizzazione, un auspicio disatteso, perché solo delle cose che sono già morte ne si invoca la vita, le cose vive sono vive e non hanno bisogno di qualcuno che lo rimarchi.

La Biennale è diventata, e una volta non lo era, la peggior incarnazione di quello che Adorno definisce l’«industria culturale», e l’epifenomeno che ne consegue è la proliferazione di radical chic, mai propositivi, detentori di rendite che si riversano nei tristi rigagnoli di una manifestazione che rischia di non aver più nulla da dire in termini autenticamente artistici.

Lucca Comics almeno è un ritrovo di nerd abbastanza simpatici che si vestono da supereroi, alla Biennale orde di radical chic fanno i cosplayer con l’eccentricità finendo solo per essere delle brutte parodie di esseri umani mettendo in scena la tristezza che solo lo svilimento della creatività può cagionare.

Scrivono a proposito Horkheimer e Adorno:

«Parlare di cultura è sempre stato contro la cultura. Il denominatore comune cultura contiene già virtualmente la presa di possesso, l’incasellamento, la classificazione, che assume la cultura nel regno dell’amministrazione».

La Biennale di Venezia è ridotta ad una Gardaland della cultura, che di culturale non ha quasi più nulla, la cultura che diventa sistema non è già più cultura. Negli anni ho visto quanti giovani artisti promettenti giacciano dimenticati con le loro opere in qualche Accademia delle Belle Arti solo perché quello che fanno è o troppo visionario o troppo fuori dal mercato del circuito delle relazioni “giuste” del business culturale.

L’industria culturale arriva a designare, innanzitutto, una fabbrica del consenso che ha liquidato la funzione critica della cultura, soffocandone la capacità di elevare la protesta contro le condizioni dell’esistente. Essa fonda la sua funzione sociale sull’obbedienza, lasciando che le catene del consenso s’intreccino con i desideri e le aspettative dei consumatori. La cultura oggi esalta il narcisismo, l’individualismo, l’accettazione dell’esistente e da modalità creativa di sfuggire dalla consuetudine stesso diventa invece precondizione della sua riconferma.

L’arte di oggi, messa in scena in questi grandi eventi mondani dove il pubblico è più interessato agli aperitivi che alle opere, mette in atto la trasformazione dall’arte come liberazione e critica a riconferma del sistema di valori della società, disinnescando ogni criticità, rendendo l’arte e l’artista gregario della conservazione di ciò che è, glorificandola, non modificandola, eliminando il concetto di progresso.

Ha fatto bene Piero Manzoni a esporre la “merda d’artista”: adesso assistiamo a una nuova categoria il concime culturale, perché la cultura, quella vera, sta al di là di queste manifestazioni ormai grottesche, sta oltre i brindisi, sta nel tormento di Van Gogh, sta nell’Urlo di Munch che cerca ancora oggi di gettare l’umanità oltre l’ovatta del tempo, una voce soffocata che chiunque che abbia a cuore la cultura dovrebbe ascoltare, sostenere e portare avanti, andando a cercare la cultura là dove si nasconde, perché l’arte, quella vera, non si mostra, si nasconde e al massimo si scopre, con fatica, come del resto la libertà.

Vi lascio non con una citazione aulica, ma con questo video sulla Biennale 1978 di Umberto Sordi che vi farà, spero, un po’ capire meglio di quanto io non sia riuscito a esprimere quanto la nostra deriva culturale stia prendendo una piega ridicola, ma anche triste e preoccupante.

Matteo Montagner

[Immagine tratta da Google Immagini]

 

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Comunicare l’intimità: il rapporto artista-pubblico nell’epoca dell’industria dell’arte

Qual è la cosa più importante quando sei un artista emergente, estremamente valido ma sconosciuto alle masse? Farti conoscere, è ovvio! Arrivare al pubblico. Farti vedere. Farti sentire. Raggiungere più persone possibile. Internet può aiutarti in questo: posta, condividi, invita, linka, spamma il tuo contenuto ovunque, fai in modo che gli occhi si rivolgano su di te. Diventa famoso, diventa una star. Un giorno forse potresti essere in televisione. Cattura il tuo pubblico, hai tutto quello che ti serve per farlo!

Oppure fermati. Forse ti sei già fermato. E l’hai fatto per un motivo preciso: ti stai chiedendo “perché?”. Sei di fronte alla tua opera, la guardi – o la ascolti, o la rileggi – e senti che dentro a quella cosa ci sei tu. Una parte della tua storia, del tuo sentire, del tuo pensiero è lì dentro. Senti il bisogno di comunicare agli altri quello che sei, quello che hai fatto; senti il bisogno di essere riconosciuto da loro e di essere guardato, di aprire la porta per lasciar vedere uno scorcio di te, di quello che hai a cuore, di quello che affolla la tua mente. Per questo hai deciso che vuoi condividere tutto questo con un pubblico.

A questo punto, la strada da prendere sembra molto chiara: è quella descritta qui sopra, quella che passa per internet, quella che può portarti al più vasto numero di persone. I media ce lo insegnano da sempre: quando si tratta di raggiungere il pubblico la massima universale è “the more, the better”.  Più pubblico significa più soldi, più visibilità, più sguardi. Ma tu sei pronto a sostenere tutti questi sguardi? Il tuo pubblico conoscerà una parte di te che tu forse hai considerato profonda ed essenziale. Tu non vedrai mai, probabilmente, i loro occhi.

Alcuni artisti di fronte alle grandi masse si sentono come prodotti in vetrina. È una sensazione che può essere capitato di provare ad ognuno di noi: quella di sentirci impotenti di fronte a sguardi che non possiamo controllare, che hanno la possibilità di guardarci come se fossimo cose. C’è chi non lo desidera. C’è chi non vuole essere semplicemente un prodotto.

Gli esempi di artisti contemporanei che decidono di abbandonare la prospettiva della fama e della grande diffusione per un approccio più intimo con il pubblico sono moltissimi, e continuano ad aumentare: dalla performance art, legata a quell’unico qui ed ora, io e te in cui si svolge, alla scelta di pubblicare le proprie opere tramite canali indipendenti e diffonderla solo entro una cerchia limitata di persone conosciute – o che fanno parte di uno stesso gruppo, di uno stesso movimento, che si trovano ad uno stesso evento.

Durante una delle mie frequenti peregrinazioni nel mondo della musica indipendente mi è capitato recentemente di imbattermi nei lavori di un giovane dj danese, Loke Rahbek – in arte Croatian Amor – che nel 2014 ha portato avanti un progetto molto particolare per il lancio del suo album The Wild Palms: vendere le copie dell’opera, disponibili in formato audiocassetta, durante un periodo di tempo limitato (dal 22 giugno al 22 luglio 2014) unicamente a coloro che gli avessero inviato una richiesta accompagnata da una foto che li ritraesse nudi e con la scritta “The Wild Palms” presente da qualche parte sul proprio corpo. Ogni copia era autografata dall’autore e accompagnata da una lettera con il suo speciale ringraziamento.

Lo scambio si basava su una mutua promessa: l’acquirente non avrebbe fatto ascoltare a nessun altro l’album, e l’artista non avrebbe mai mostrato a nessuno le fotografie. Lo scopo era quello di creare un rapporto di intima condivisione tra chi ascoltava la musica e chi l’aveva composta – un rapporto privato, unico, un rapporto di fiducia tra persone che non si conoscono, ma si mettono a nudo l’una di fronte all’altra. Io nudo nella mia musica, voi nudi nelle fotografie.

È un progetto sicuramente strano, e forse molti potrebbero trovarlo discutibile; ma in un mondo che vediamo sempre più sottoposto alla mercificazione di qualunque cosa, in cui l’industria musicale genera prodotti il cui unico scopo è incassare il più possibile durante quei due mesi in cui saranno ricordati, in cui la pubblicità dei contenuti li rende irrimediabilmente freddi e inumani, in cui la maggior parte delle immagini di nudo che circolano sono pura pornografia – nel mondo in cui insomma ci troviamo immersi ogni giorno, mi è sembrato un progetto straordinario.

Uno spunto di riflessione che non può fare a meno di farci ripensare il nostro rapporto con l’arte, con il suo significato. Davvero merita di diventare un prodotto industriale? Davvero possiamo permettere che istituisca rapporti tanto asimmetrici tra la “star” e i suoi fans? Davvero possiamo accettare che questa somma forma dell’espressione dell’umano e della connessione intersoggettiva sia consegnata ad una dimensione che ne sopprime il carattere intimo e profondo?

Ho saputo dell’esistenza di questa realtà solamente nel 2016. Il progetto The wild palms era concluso da due anni.

Rahbek non ha mai reso pubbliche le fotografie che ha ricevuto. Qualcuno ha caricato l’intero album su Youtube – non senza polemiche da parte di chi ne conosce la storia – e io l’ho ascoltato. Rahbek non ha mai avuto una mia foto.

Mi sono chiesta se abbia un senso così.

Eleonora Marin

Eleonora Marin è nata nel 1996 ed è attualmente iscritta al corso di laurea in Filosofia presso l’università Ca’ Foscari di Venezia.
Nel quotidiano cerca di far interagire il suo percorso di studi con la passione per la letteratura, la musica e le arti in generale.

[Nell’immagine, tratta da Google Immagini, la performance The Artist is Present di Marina Abramovič al MoMA di New York nel 2010]

Il contratto sociale: Rousseau e la contemporaneità

<p>defocused crowd of people --- Image by © Images.com/Corbis</p>

È indubbio che l’Occidente stia vivendo un momento molto interessante della sua storia politica: anche grazie al concretizzarsi di alcuni scenari socio-politici che si credevano impossibili, assurdi, si ha un risveglio – forse lento, forse ancora iniziale – della coscienza politica dei cittadini occidentali. C’è voglia di occuparsi di politica e si è tornati a parlarne quotidianamente: quel che manca, a volte, son le categorie con cui interpretare alcuni fenomeni politici e la discussione pubblica diventa chiacchiericcio. In un sistema di mondi possibili ve n’è uno in cui ogni cittadino è adeguatamente informato a proposito di ciò di cui parla, in cui il discorso pubblico si colloca opportunamente rispetto ai fenomeni di cui si fa interprete. Questo mondo è ben lungi dall’essere identificabile con il nostro, in cui viviamo una tensione, un conflitto tra la voglia di partecipare al discorso pubblico e l’inadeguatezza della formazione generale dei cittadini: tra gli esiti di questo conflitto, vi sono alcune forme insane di partecipazione politica. Diciamo insane per intendere quelle forme di partecipazione alla cosa pubblica che mancano l’obiettivo, che illudono il cittadino di avere una qualche influenza sulla dimensione politica del mondo in cui vive.

Come si può risolvere questo conflitto e rendere possibile per tutti, cioè per chiunque abbia voglia di formarsi adeguatamente, la partecipazione al discorso pubblico?

Bisogna tornare a riflettere sulle origini della comunità politica in cui il cittadino si propone di agire, tentare di comprendere le ragioni di questa estraneità che la generalità delle persone vive rispetto ad essa, per poi ricalibrare adeguatamente le forme di partecipazione: la politica – intesa qui in senso ampio – va evolvendosi a ritmi serrati e non è pensabile che i cittadini non elaborino forme di azione e discorso politico altrettanto evolute, a meno che non si voglia rinunciare del tutto a questa dimensione. La qual cosa significherebbe accettare tacitamente una qualsiasi forma di dispotismo, poiché verrebbe meno la forza politica del cittadino e, con essa, il principale limite di ogni limite costituito.

Per riflettere circa la formazione della comunità politica, è opportuno farsi guidare da quei pensatori che hanno dedicato a questo tema il meglio della loro riflessione filosofica.

Uno tra questi è senza dubbio Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che ha riflettuto a proposito dei momenti costitutivi della comunità politica, quelli in cui gli esseri umani entrano a far parte di un grande e unico corpo politico, attraverso la stipulazione di un contratto sociale. Quanto v’è di peculiare nella riflessione di Rousseau, a ben vedere, è il fatto che il cittadino debba rinunciare del tutto alla propria sovranità, di cui godeva in stato di natura, senza con ciò subire alcuna diminuzione: la cittadinanza riconsidera tutti e sana ogni deficit di potere. È nella partecipazione alla vita della comunità che l’essere umano è pienamente autonomo e libero: e ciò è possibile per il fatto che il cittadino partecipa alla nascita della comunità di cui sarà parte, esercitando in prima persona il proprio potere.

Ciò che sembra mancare alla nostra contemporaneità è la disponibilità ad assumersi, da parte di troppi singoli, porzioni seppur ridotte di responsabilità: a tale resistenza fa da contraltare, ad ogni modo, la richiesta sempre più forte di spazi d’azione critica rispetto alla vita politica. Sembra, cioè, che alcuni cittadini vivano una relazione posticcia con la propria comunità, alla cui ideale fondazione non prendono parte, restando inevitabilmente in una situazione conflittuale tra i propri desideri e le condizioni di attuabilità degli stessi.

Emanuele Lepore

[Immagine tratta da Google Immagini]

La storia sotto analisi: intervista a Alessandro Barbero

Alessandro Barbero non ha bisogno di grandi presentazioni: docente di Storia Medievale presso l’Università del Piemonte Orientale, autore di numerosi saggi e articoli contenenti temi relativi alla storia militare e sociale nel Medioevo, è famoso per le sue costanti partecipazioni a trasmissioni televisive di carattere culturale, tra cui Superquark e Il tempo e la storia.
Lo abbiamo incontrato al Festival della Mente di Sarzana, in provincia di La Spezia, dove è ospite dal 2007; gli abbiamo fatto qualche domanda relativa proprio alla storia, la materia spesso considerata – al pari della matematica – uno scoglio duro per gli studenti di scuole medie e superiori, in altri casi addirittura inutile  – al pari della filosofia – per gli amanti della “pratica a tutti i costi” e dello studio come mezzo di guadagno materiale.

 

Forse è una domanda che molti hanno già fatto, ma pur essendo banale lascia spazio a pensieri piuttosto profondi: in un periodo come questo dove i giovani compiono spesso percorsi di studio “utili”, dettati cioè dalla possibilità di trovare lavoro in futuro, dove colloca lei lo studio della storia? Può tradursi in termini pratici e quotidiani oppure è destinata a rimanere nel mondo della teoria divenendo sempre più materia di nicchia e per pochi?

La risposta non è semplice, ci sono diversi aspetti da prendere in considerazione; il primo è che una società ha bisogno di un certo numero di persone che di mestiere studiano la storia, esattamente come ha bisogno di un certo numero di linguisti, di filosofi, di sociologi ecc; una società in cui si studiano queste cose funziona meglio rispetto a una società in cui non si studiano. Ci vuole quindi un certo numero di specialisti che sanno fare queste cose, naturalmente tutto deve essere graduato: di specialisti in storia azteca qui in Italia magari ne basta uno, di specialisti della storia romana ce ne vuole qualche centinaio se non di più.
Inoltre una società che non avesse storici sarebbe debole, la gente sarebbe più fragile, la democrazia stessa sarebbe più fragile: non a caso le dittature si preoccupano in primis di cosa scrivono gli storici e non i chimici ad esempio.
Detto questo sorge un problema: questo piccolo gruppo di specialisti che la società deve mantenere, quanti studenti deve poi educare? Quanti ne deve formare? Io credo che una conoscenza di base della storia dovrebbe far parte della preparazione di tutti i cittadini; Piergiorgio Odifreddi mi direbbe: “Anche una preparazione della matematica!”, e avrebbe ragione pure lui probabilmente.
Laureare gli studenti in storia invece è un po’ un altro discorso, oggi ci sono degli sbocchi lavorativi per un ragazzo che giustamente fa l’università perché si aspetta di trovare un lavoro in futuro, ma sicuramente non sono così tanti; il nostro Paese ha bisogno, e avrà ancora bisogno, di gente che lavora nelle fondazioni, nei musei e che abbia una preparazione storica, perché il nostro territorio è stato plasmato dalla storia, ed è una delle risorse – anzi forse è la risorsa – dell’Italia, quindi anche dal punto di vista dei posti di lavoro la storia è produttiva. Chiaramente avremo sempre bisogno di medici in quantità maggiore che non di storici, ma questo non mi dà nessun fastidio ammetterlo.

La storia è considerata da molti una materia “noiosa”: troppe date, troppi nomi… persino troppi avvenimenti – parere che stona con la noia – che tuttavia sembrano non avere una trama di sfondo; secondo il suo parere, dato che è considerato da molti un abile divulgatore ma soprattutto un abile comunicatore, quale potrebbe essere il toccasana per renderla interessante e fruibile anche a chi non vi si immerge per professione?

Il problema è che la storia è già interessante e fruibile per chi vuole godersela dall’esterno, magari leggendo un libro oppure ascoltando una conferenza, e la prova è che al festival di Sarzana vengono mille persone a sentire una conferenza di storia, pagando un biglietto, e alcuni rimangono addirittura fuori perché non hanno trovato posto. Un’altra prova sono gli ascolti di Rai Storia: quando ogni sera centomila persone in Italia guardano un programma di storia, programmi di nicchia rispetto al pubblico di Rai 1, mi sembra che sia una cosa di per sé non irrilevante.
La storia è una materia considerata noiosa di solito a scuola, e quello è il problema perché nessuno ha ancora trovato la ricetta per insegnare le informazioni di base senza che siano noiose. E’ vero, la storia è lunga, oltretutto purtroppo diventa sempre più lunga man mano che andiamo avanti, e non è possibile comprenderla senza avere una conoscenza di base delle date, dei nomi, dei re, degli imperatori, dei papi, delle battaglie, dei trattati di pace. E’ necessario sapere queste cose. D’altra parte però se ai ragazzi a scuola si insegna solo quello, lo troveranno noioso; tutto questo succede perché le ore sono poche, anzi sempre meno dato che abbiamo ministeri dementi che non sanno a cosa serve la scuola e fanno di tutto per distruggerla – quella pubblica almeno – di conseguenza non se ne esce, il rischio è che la storia continuerà a sembrare noiosa agli studenti fino a quando non arrivano all’università e alla prima vera lezione di storia che sentono spalancano gli occhi e dicono “ma non avevo capito che era questa la storia!”

Lei è professore di Storia Medievale presso l’Università del Piemonte Orientale, dunque ci siamo sempre chiesti com’è il professor Barbero a lezione, se utilizza gli stessi metodi che adopera in televisione o negli interventi nelle scuole superiori (come quello bellissimo che fece sulla disfatta di Caporetto), e se sì, da dove nasce questo modo di raccontare la storia? Si è ispirato qualcuno o è “invenzione” sua?

No non mi sono ispirato a nessuno e non ho la minima idea da dove nasca, devo dire che ho avuto dei professori all’università che appartenevano a una generazione a cui non veniva chiesto di fare la divulgazione in TV, erano i grandi storici degli anni ’60 ’70 ’80: il mio maestro Giovanni Tabacco, Massimo Salvadori ecc, erano grandissimi storici, magari non avrebbero mai parlato ad un pubblico di mille persone una sera in una piazza, ma quando avevano davanti trecento studenti sapevano tenerli in pugno, quindi per me fin dall’inizio è stato chiaro che la storia è un percorso intellettuale affascinante e che bisogna saperlo rendere affascinante.
Oggi ci viene chiesto appunto di raccontare queste cose non solo a studenti che hanno deciso di fare l’esame di Storia Medievale, ma a un pubblico composto da persone di tutti i tipi e pian piano molti di noi si sono attrezzati per fare anche questo, trovandolo abbastanza divertente e stimolante.

Domanda personale: come mai si è appassionato al Medioevo e cosa ci ha lasciato in eredità? E’ un mare magnum ancora da esplorare o è stato già detto tutto?

Mi sono appassionato al Medioevo in realtà perché in seconda liceo (classico, ndr) un compagno che aveva molti libri in casa mi ha fatto leggere La società feudale di Marc Bloch, e io leggendo quel libro fondamentale al penultimo anno di liceo ho deciso definitivamente che avrei studiato storia medievale.
Dopodiché il Medioevo è un periodo lunghissimo, la maggior parte del nostro passato è fatto di Medioevo, è durato più di mille anni, la grande maggioranza dei nostri antenati sono vissuti lì e basta andare in giro per l’Italia per vedere che il nostro territorio sia plasmato anche in quell’epoca; quindi è uno strato fra i tanti, conta anche molto lo strato greco-romano, però è uno strato decisivo in cui tante cose son nate, tra cui la lingua che parliamo.
Nella storia non si è mai detto tutto per due motivi: i punti di vista cambiano, è una banalità che noi storici diciamo sempre ma è vera, anche le curiosità cambiano, cent’anni fa nessuno diceva “ah le invasioni barbariche… interessante! È un aspetto del problema dell’immigrazione, vediamo un po’ come gli antichi romani gestivano gli immigrati”; cent’anni fa nessuno si poneva il problema in questi termini, quindi ci saranno sempre dei modi nuovi di interrogare la storia. L’altro motivo è che gli archivi sono pieni di carte che nessuno ha mai visto: gli storici, giustamente come dicevo prima, sono pochi, quindi c’è sempre da scavare per capire meglio.

Il problema delle fonti del III millennio: ho letto in svariati articoli che in futuro ci sarà un problema per ricostruire il periodo storico che stiamo vivendo a causa dell’eccessivo uso della tecnologia, poiché i dati – di qualsiasi natura, dal documento pubblico a quello privato come una mail – prima o poi verranno persi, lasciando un “buco nero” di fonti ai posteri. Secondo lei c’è questo pericolo oppure è semplicemente un rischio presente in tutte le epoche?

No è un pericolo tipico di quest’epoca, e io non so tuttora come se ne verrà fuori. Molti esperti di informatica dicono di non preoccuparsi perché in realtà il patrimonio informatizzato sarà sempre fruibile anche in futuro; io so che ho dei floppy disk che non posso più utilizzare in nessun modo e chissà che cosa ci avevo messo dentro.
E’ vero che certe cose come internet per esempio, come la mail, appaiono più robuste di quello che io pensavo all’inizio: il mio indirizzo è lo stesso da vent’anni, però le mail le ho perse più di una volta cambiando computer, quindi il problema si pone. Indubbiamente è meraviglioso avere tutto quanto online, è un grandissimo ausilio alla ricerca, però il libro stampato è in assoluto la tecnologia più efficiente per essere sicuri di conservare qualcosa.

Concludo con una domanda che facciamo a tutti i nostri intervistati: interdisciplinarità della filosofia, cosa ne pensa lei di questa materia?

Salvemini, che era uno storico, diceva: “La filosofia non è dannosa, è semplicemente inutile, o meglio è dannosa in quanto fa perdere un sacco di tempo alla gente”. Molti storici in cuor loro pensano questo. Io devo dire che constato spesso con i miei studenti all’università che quelli di filosofia sono in media nettamente più intelligenti, i più bravi, i più motivati, ma hanno enormi difficoltà a fare bene gli esami di storia. Per qualche ragione la mentalità dello storico e quella del filosofo sono diverse e non ho mai capito in che senso, ma certamente il problema si pone, quindi io alla filosofia concedo il beneficio del dubbio, evidentemente a qualcosa deve servire!

Alessandro Basso

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Identikit del crimine (mediaticamente) perfetto

<p>Close up crime scene investigation police boundary tape</p>

Di recente è stata emessa la sentenza in primo grado del processo contro Massimo Bossetti, accusato di omicidio. Al di là del significato specifico dell’evento di cui si è parlato anche troppo e che qui non ci interessa discutere, esso mi ha portato naturalmente a riflettere su l’interessante rapporto tra mezzi d’informazione, cronaca nera e pubblico. Siamo partiti dal caso Bossetti perché, come tutti i crimini che suscitano per anni interesse mediatico, ha un valore rappresentativo ed emblematico. Trovo un fatto curioso che certi fatti di cronaca emergono prepotenti su altri fino ad entrare nell’immaginario comune, il quale, in un certo senso, li ha eletti. Non penso si possa attribuire ciò alla scelta completamente arbitraria dei giornalisti, sembra anzi sottesa una logica molto simile alla dialettica domanda/offerta che anima il libero mercato. Esistono cioè delle dinamiche e delle situazioni che favoriscono il successo mediatico di certi crimini su altri. Vediamole insieme.

Regola N.1: Il crimine deve essere spregevole e infame, la persona mediocre.
Se l’identikit del criminale è quello – banalmente – di un criminale, l’interesse non supera al massimo un paio di giorni. Se esso invece combacia con quello del vicino di casa, così normale e anonimo che tutti abbiamo, allora nessuno è al sicuro. La paura è però filtrata e sopportabile: ci fa venire i brividi, ma da lontano.

Regola N.2: Un colpevole deve esserci, ma non subito.
Se l’assassino viene colto in flagrante, si costituisce o simili, i media non hanno più novità da centellinare, niente retroscena, rivelazioni improbabili, testimoni dell’ultima ora e mitomani dilaganti. Di conseguenza l’interesse scema. Se al contrario l’assassino si tarda a trovare e infine il crimine irrisolto, lo scandalo per l’inefficienza delle forze dell’ordine viene oscurato dall’assenza di novità. Il pubblico si annoia.

Regola N.3: Uno sfondo ideologico ha valore fondamentale a fini mediatici.
I simboli hanno il potere di rendere un fatto di cronaca qualsiasi qualcosa di metastorico, il cui significato resiste in un certo senso al consumo dello spettacolo. Essi mantengono forte presa sulla nostra immaginazione, e hanno il potere di appassionarci molto più dei meri fatti. Su episodi dal forte quoziente ideologico la classe politica si sentirà in dovere di esprimersi, e il popolo dovrà a sua volta intervenire e schierarsi in base a quanto indicato dai politici. In questo caso la ruota dello spettacolo si mantiene in moto da sé.

Regola N.4: Tempismo.
Anche Jack lo Squartatore sarebbe stato eclissato da una vittoria ai mondiali di calcio. Il crimine mediaticamente perfetto avviene nei caldi pomeriggi di agosto.

Regola N. 5: Il fattore X.
Poiché questo tipo di informazione si fonda sull’appeal mediatico che il fatto suscita, non tutto si riesce a spiegare razionalmente. Alcuni elementi riposano sul fondo oscuro dell’immaginario comune: alcuni tratti fisici, alcune situazioni – variabili per latitudine e contesto storico – colpiscono e perturbano oltre quanto riesce facilmente spiegabile, risultando così l’ingrediente segreto della ricetta qui brevemente abbozzata.

Francesco Fanti Rovetta

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AC/DC on the highway to hell?

La riflessione appartiene ad ogni ambito della vita umana. La dimensione temporale è la caratteristica che meglio definisce l’uomo nel suo rapporto con il mondo: la storia può essere guardata da infinite prospettive. È sulla scia di questo ragionamento che abbiamo scelto di affrontare un passato particolare, forse poco accademico, ma non per questo meno degno di essere preso in considerazione, anzi. Il passato che abbiamo scelto di leggere è quello di un gruppo musicale; è quello di una band che con la sua produzione, di pagine di storia della musica ne ha scritte indubbiamente più di una. Abbiamo scelto di leggere gli AC/DC!

Iniziamo con il proporre, come consuetudine della rubrica, un testo che possa avvicinare appassionati e curiosi a questa leggenda della musica. AC/DC, scritto da Murray Engleheart e Arnaud Durieux (Arcana Edizioni, 2009) non è una semplice biografia, ma è un vero e proprio manuale sulla storia della band, ricco di curiosità, aneddoti e foto. Lo stile rockeggiante dei due autori farà assaporare tutta d’un fiato la vicenda del gruppo australiano, dagli albori a Sydney nel lontano 1973 fino al penultimo disco del 2008.

Per molti potrebbero essere un gruppo qualunque, una band come tante altre, ma i maggiori critici musicali li hanno collocati nell’Olimpo dei mostri sacri del rock’n’roll. Cos’hanno di tanto speciale? Innanzitutto, quasi mezzo secolo fa, o come dice il libro «150 milioni di dischi fa» sono stati tra i primi a sfidare le convenzioni musicali dell’epoca, proponendo uno stile e uno spettacolo fuori dagli schemi. Tra petti nudi, tatuaggi in vista, apparizioni in tv al limite del buon costume, sono stati in grado di costruirsi un’immagine inconfondibile, sempre accompagnata da melodie di qualità.

Recentemente il gruppo ha annunciato la fuoriuscita, per motivi di salute, dello storico cantante Brian Johnson. Le sue capacità uditive, infatti, dopo anni di tour in tutto il mondo e dopo miglia spese in corse automobilistiche, risultano alquanto compromesse: palco e pista avranno per lui d’ora in poi l’amaro sapore di un desiderio purtroppo proibito.

Risale a questi ultimi giorni la conferma ufficiale della voce che girava da tempo attorno alla sostituzione del cantante. Ebbene sì, le rimanenti date del tour dell’ultimo disco vedranno al microfono nientemeno che Axl Rose, frontman dei Guns N’ Roses.

Da qui ha inizio l’aspra polemica nei social. L’opinione comune di tutti i fan, da qualsiasi parte del mondo? Anziché continuare l’avventura con Axl, il gruppo avrebbe dovuto chiudere baracca; avrebbe dovuto alzare le mani in segno di resa ed annunciare consapevolmente la propria fine; avrebbe dovuto dichiarare la propria appartenenza al passato.

Ma com’è possibile accettare una tale sconfitta? Com’è possibile rinunciare all’ebbrezza del palco? Com’è possibile arrendersi all’età che avanza? Com’è possibile dirsi sorpassati se si è una delle migliori rock band di tutti i tempi?

Con più di 40 anni di carriera e 18 album, gli AC/DC hanno piazzato il loro Back in Black del 1980 al secondo posto della classifica dei dischi più venduti di sempre (dopo Thriller di Michael Jackson). No, decisamente non potevano chiuderla qui! E dunque porteranno avanti il loro tour con questa nuova formazione, sfidando le critiche dei fan che non riconoscendo più il loro stile vecchia scuola avrebbero preferito un addio al palcoscenico. Alcuni il loro tramonto l’hanno proprio dichiarato, chiudendo siti web a loro dedicati (vedi acdc-italia.com) o mettendo in vendita sui social i biglietti del tour già acquistati. Ma com’è possibile, da veri fan, voler relegare al passato i propri idoli musicali? Perché non accettare la sostituzione per amore delle canzoni con cui si è cresciuti o invecchiati? Il cambio d’immagine ha generato prese di posizione piuttosto decise: in effetti nel corso degli anni gli AC/DC non hanno mai cambiato i loro caratteri distintivi, così come hanno sempre mantenuto elevati livello ed originalità dei loro brani.

Forse è proprio per questo motivo che per i fan sarebbe più facile sopportare un loro addio. Un gruppo che ha sempre conservato invariati il proprio stile e la propria immagine, mal si presta a presentarsi in scena con un cantante che per modi di fare e carattere non risulta in linea con i canoni della band e con le aspettative dei fedelissimi. Ciò è significativo di quanto la musica non sia un semplice sottofondo delle nostre giornate, ma sia un elemento determinante del nostro stesso vivere. A questo proposito si può leggere nel libro, e con questo chiudiamo:

«La band ha segnato le avventure sessuali, le peripezie alcoliche, le battaglie, i matrimoni, le nascite, i funerali, le macchine e i tatuaggi di milioni di vite da Bruxelles a Brisbane, da Montreal a Manchester, da Tokyo a Milano, diventando molto più di un semplice gruppo rock… diventando un’istituzione».

For those about to rock we salute you!

Federica Bonisiol & Dario Zanetti