Giovani e azzardo

Amato come il rischio, odiato comea prigione.

Il gioco d’azzardo è da sempre qualcosa che affascina l’uomo, facendo credere di essere alle redini del comando, avvolgendolo nel caldo manto del “tin-tin” ripetuto delle macchinette che fingono di regalare soldi.

È un vizio, ma non di quelli da una notte e via, così sarebbe semplice avere il coltello dalla parte del manico; il gioco d’azzardo è un cannibale che ti divora piano piano, pezzo per pezzo, partendo dalle cose materiali che possiedi, fino a sbranarti l’anima.

Eppure, ben sapendo tutto questo, il gioco d’azzardo si diffonde a macchia d’olio e purtroppo anche tra i più piccoli; non parlo solo di figli di accaniti genitori (magari! Almeno ci sarebbero una spiegazione logica e un capro espiatorio), ma anche di bambini provenienti da famiglie normali, ma forse talmente normali da sfociare nell’ingenuità più profonda, tanto da portare loro stessi i figli a giocare dopo la scuola.

Il gioco è una condizione umana dettata dal bisogno di fuga dalla realtà e perciò visto come qualcosa di innocuo, divertente e rilassante. Non si scorge quasi mai il pericolo che esso possa diventare una droga di cui si avrà continuamente bisogno.

È noto ormai che il numero di giovani, soprattutto dai 12 ai 18 anni, gioca spesso d’azzardo, sia online che offline, adducendo scuse quali ‘per divertimento’, ‘per vincere soldi’ o, peggio ancora, ‘lo fanno anche mamma/papà/nonno’, dunque l’emulazione che è caratteristica tipica degli adolescenti.

Il gioco d’azzardo è, oggi, una realtà in forte espansione e la crisi economica, insieme alla mancanza di prospettive, hanno aumentato il ricorso a questa attività, che è diventata patologica per i più giovani, anche a causa della facilità di accesso ai siti internet dedicati o per la diffusione di video poker o simili in luoghi frequentati soprattutto da adolescenti.

Una domanda, però, sorge spontanea: perché si arriva alla patologia tra i giovani? L’ossessione per il gioco d’azzardo è sicuramente da intendersi come amplificatore di un disagio e, come dice il Dott. Paolo Bagnare, psicologo, in un’intervista:

“la vincita facile ha in sé un aspetto magico che fa presa in giovani individui che non si sono del tutto lasciati alle sole il pensiero magico infantile. Questa difficoltà innesca però il meccanismo che ci dice alla dipendenza. L’adolescenza è un periodo  border  caratterizzato  da una forte fragilità, durante il quale spesso si cerca un appoggio esterno per supplire alla mancanza di definizione e di forza interiore. Il giovane è anche incline a sfidare il mondo degli adulti pur non avendo ancora piena consapevolezza delle sue azioni. La Rete è sicuramente un modo per entrare in contatto con un’attività tipicamente da adulti e il denaro non è la molla principale. Gli adolescenti apprezzano l’eccitazione del gioco e la capacità di entrare in un mondo altro dove perdersi e dimenticare tutti i problemi della quotidianità.”

Il gioco, dunque, come motivatore, come aggancio da trovare in mezzo alla bufera adolescenziale che caratterizza ogni essere umano di quell’età, e come dimostrazione dal fragilità e debolezza emotiva.

Iniziare a giocare per caso, spinti dai propri genitori che come ‘premio’ di buon comportamento portano i figli in sala giochi, dimostra sempre di più l’assenza di valori e la vacuità morale che pervade la nostra società odierna, perché è palese la mancanza di dialogo genitore-figli, l’inadeguatezza dei primi nel non cogliere la gravità delle conseguenze del loro gesto alla loro apparenza innocuo e il totale oblio che mescola in un tutt’uno non impegno-divertimento-soldi-patologia (non omogeneo perché tutti e tre gli elenementi sono ben distinguibili, se ‘ascoltati).

Il morboso inseguimento del ‘soldo facile’ è una piaga ben estesa tra i giovani di oggi che, pur di comprarsi qualunque cosa, sono disposti a pagarla sempre e sempre di più, combattendo battaglie impari con delle macchinette programmate solo esclusivamente per vincere.

La nostra società ha il dovere di monitorare questa patologia sempre più diffusa, collaborando con la famiglia che per prima deve assicurare al giovane un’educazione votata al valore e al rispetto dei soldi, alla soddisfazione di sudarseli, alla capacità di guadagnarseli, sia con la scuola attraverso i racconti reali di chi la ludopatia l’ha vissuta sulla propria pelle, perché il manifesto appeso alla bacheca non serve, servono le testimonianze di chi ha vissuto l’inferno, divorato ogni giorno dalle fiamme, per poi riemergere e comprendere che la schiavitù del gioco è una dipendenza subdola ma anche superabile.

Valeria Genova 

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Storia di una vera amicizia

 

Ognuno ha un amico in ogni fase della sua vita, ma poche persone hanno lo stesso amico in tutte le fasi della loro vita.Anonimo

Succede rare volte che una persona entri nella tua vita e non ne esca più. Nonostante i tuoi problemi, le tue mancanze, i tuoi difetti. Nonostante il cambiamento a cui siamo destinati.

Nonostante la vita.

Succede rare volte nella vita che una persona ti prenda esattamente per quello che sei -per tutto quello che sei- e non se ne lamenti, non ti accusi, non te lo faccia pesare.

Succede rare volte e quando la incontri non lo capisci subito.

Non capisci subito che quella persona lì non se ne andrà mai. E che puoi essere così come sei perché in ogni caso quella persona saprà leggere oltre le mille maschere che porti. Non lo capisci subito, semplicemente impari a conoscerla, un giorno alla volta.

Era successo questo a Sara e Zoe. Si erano conosciute in prima superiore, all’inizio della loro adolescenza. Sara era espansiva e solare, un uragano di vita. Aveva una massa di capelli ricci e biondi, gli occhi azzurri e un corpo che somigliava già a quello di una donna. Zoe, invece, era introversa e riservata, guardava il mondo di sottecchi e lo dipingeva sul suo blocco notes. Era esile e longilinea, coi capelli lunghi e neri. Ognuna aveva qualcosa che all’altra mancava. Non avrebbero potuto essere più diverse ma, allo stesso tempo, non avrebbero potuto attrarsi di più.

L’adolescenza, si sa, è l’età della “migliore amica”. Sono gli anni in cui si costruiscono quelle relazioni così intense ed esclusive. Gli anni in cui si fa tutto insieme. Gli anni in cui ci si imita, per acquisire quella sicurezza che ci manca. Gli anni in cui amicizia è stare insieme, senza uno scopo preciso, a parlare. Parlare di come si è e di come si vorrebbe essere; parlare delle strategie per farsi notare da un ragazzo e del perché è proprio lui a piacerci e non un altro; parlare per lamentarsi dei propri genitori, troppo severi, troppo invadenti, troppo distanti; parlare del proprio corpo che cambia o che, al contrario, stenta a cambiare. Si passano ore a parlare e a condividere segreti, ci si confida e ci si rassicura, ci si sente finalmente capite. L’amicizia in adolescenza è quel tipo di relazione che ci permette di cercare e capire chi siamo e che ci accompagna nella costruzione della nostra identità.

E Sara e Zoe non facevano eccezione. Sempre insieme, invincibili. Affrontavano il mondo, forti l’una della presenza dell’altra. Si raccontavano tutto, certe di essere capite.

E l’adolescenza era passata. Sara e Zoe erano cresciute e la loro amicizia aveva perso quel carattere di esclusività e “simbiosi”. Per dirla con le parole di Plutarco

Non ho bisogno di un amico che cambia quando cambio e che annuisce quando annuisco; la mia ombra lo fa molto meglio.

Le loro aspettative reciproche erano più realistiche e meno idealizzate. Il loro rapporto aveva lasciato spazio alle loro individualità e avevano imparato a conoscersi di nuovo, non per quello che una rispecchiava dell’altra ma per l’identità che ognuna aveva acquisito anche grazie all’altra. Avevano imparato ad apprezzare ogni loro sfumatura, per quanto scomoda. E a stimarsi. E ad avere fiducia l’una dell’altra, che per Zoe soprattutto non era cosa facile perché non era certo una che si buttava a capofitto nel voler bene a qualcuno o che si lasciava conoscere davvero. La loro amicizia non era più uno strumento per avere uno specchio di se stessa che confermasse le scelte l’una dell’altra, ma era diventato uno scambio, un confronto. Ognuna con le proprie vite. Avevano imparato che anche quando erano in due parti del mondo diverse c’erano lo stesso l’una per l’altra. Avevano imparato che la vera amicizia non consiste nell’essere inseparabili quanto piuttosto nel riuscire a separarsi senza che questo cambi qualcosa. Avevano scoperto che pur avendo fatto scelte diverse il loro rapporto non si era allentato, era solo cambiato. Avevano scoperto che essere amiche voleva dire non essere amiche “se…”, ma essere amiche “nonostante”.

Questo sono Sara e Zoe: una storia di vera amicizia. Un’amicizia che si sviluppa negli anni, intrecciando due destini, a dispetto della vita.

Non esistono moltissimi studi psicologici sull’amicizia e non è stato ancora affrontato il problema di come distinguerla dalle altre forme di amore. Quello che però confermano quelli esistenti è l’importanza dell’amicizia per il nostro benessere psicologico in tutto l’arco della nostra vita in termini di sostegno sociale e benessere emozionale e identitario. Nonostante durante il nostro ciclo di vita gli amici cambino e cambi anche il valore che attribuiamo all’amicizia stessa, ogni tanto succede che qualcuno ti prenda per mano e non ti lasci più, anche quando molli la presa: per me questa è la vera amicizia, quella che quando voli troppo in alto o quando stai sprofondando tiene la presa e ti fa rimanere te stesso, ti aiuta ad avere radici senza impedirti di volare.

Giordana De Anna

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Travel is my therapy.

Sono felice. Quando lo dico, la gente mi guarda sconvolta.

Francesca è la perfetta sintesi di tutto ciò per cui noi de La Chiave di Sophia lavoriamo da quasi un anno.
E’ cambiamento, coraggio, viaggio, ricerca, scelte, infinite possibilità di essere.
E’ riuscita a fare ciò che tutti vorremmo: non relegare le proprie passioni e la proprie indole in una piccola sezione del cv “hobby ed interessi”. Ma prenderle e farne un lavoro.
Quanti di voi hanno scritto in questo piccolo e dimenticato riquadro del curriculum “ Viaggiare”’? Tutti.

Ecco, Francesca Di Pietro.

Noi ci presentiamo a te così: “ Di sogni non si vive, ci dissero tempo fa. Di insoddisfazione si muore, avemmo la prontezza di rispondere”.
Tu quando hai avuto questa prontezza?
Credo che come in tutte le cose, si prende coraggio quando davanti a se nn si vede scelta. Io anni fa ho vissuto un momento molto buio, sia lavorativo che personale, tutto quello in cui credevo si è sbriciolato, o meglio non è andato come avrei voluto e come ho sempre creduto che andasse, in quel momento ho capito, che forse se la vita prende una piega diversa, dovremmo seguire il flusso invece di incaponirci per cambiarla. Così ho colto un’opportunità e ho lasciato il lavoro, da lì ho iniziato a viaggiare, senza sapere cosa avrei fatto una volta finiti i soldi, e come sempre mi accade in viaggio, ho avuto un illuminazione.

Hai studiato psicologia. Perché? Le motivazioni di questa scelta di Francesca a 18 anni e le motivazioni di Francesca adesso, nel 2015.
Perché ho studiato psicologia?? Oddio ora mi dirai anche tu “perchè avevo qualcosa da risolvere”, beh ci mancherebbe, tutti i ragazzini di 18 anni hanno qualcosa da risolvere. Con il senno di poi, io ero una ragazza più sensibile del comune e diciamo che quasi nessuno se ne era accorto, così al liceo mi sono chiusa in molti libri e pensieri filosofici, questo mi ha avvicinato alla psicologia come “scienza” e arte. Poi nn so perché, mi ero fissata che avrei lavorato nelle risorse umane, volevo fare la manager con il tailleur e i tacchi alti, così ho sempre avuto le idee chiare: laurea, master, altro master, corsi di specializzazioni come se nn ci fosse un domani, ma poi mega- frustrazioni al lavoro.
La psicologia è la mia passione, ho un dono, o forse una sfiga, di leggere molto bene i comportamenti umani, li leggo, ma non li curo, questo sia chiaro. Gli uomini sono la cosa più bella che Dio abbia mai creato, negli ultimi anni sono solo diventata più curiosa e ho ampliato il mio interesse fuori dalle aziende … nel mondo.

Chi era Francesca prima di diventare psicologa?
Intendi prima dei 23 anni?? Oddio questa è personale… Diciamo che sono cresciuta molto da sola, assorbendo paure e pregiudizi come una spugna, ho sofferto molto dell’essere rossa e riccia in una città del sud dove venivi etichettata per molto poco. Ho avuto un’ educazione molto rigida che non mi ha permesso di fare quello che faceva il mio gruppo di pari, mi piaceva studiare, l’università è stata una liberazione, venire a Roma una grande decisione anche se non molto facile. Ho misurato la mia forza ogni giorno di più, capendo sulla mia pelle di cosa ero capace, ma direi che non si è fermato alla laurea, spero non si fermi mai.

Chi era Francesca prima di diventare travel blogger?
Una ragazza che ha sempre viaggiato tantissimo, grazie innanzitutto ai miei genitori e che poi ha scoperto il suo modo di viaggiare, che era molto, molto diverso dalle persone che le stavano attorno. Ho scoperto di essere brava ad organizzare i viaggi e mi sono accorta che tutti i miei amici mi scrivevano prima di partire, così per ottimizzare tempo, ho messo tutto sul web, ma solo dopo anni ho capito cosa era un travel blog.

Chi è Francesca?
Quanto tempo hai?? È una persona complessa, piena di contraddizioni, molto fisica e di contatto, ma anche molto distante. Non amo le formalità, mi piacciono i rapporti veri e soprattutto molto intensi, non amo il conflitto, mi fa soffrire tanto, per questo a volte lo evito, sono sincera. Credo che nella vita tutto quello che dipende solo da te lo puoi raggiungere se lotti, il problema sono quando entrano in ballo altre persone. Ho visto cambiare la gente introno a me, il contesto intorno a me, ed è molto difficile condividere quello che penso e quello che faccio. Il web mi ha dato tanto, in molti ambiti, non solo lavorativo, ma anche umano, le persone che al momento mi sono più vicine e che amo di più (esclusi pochi) li ho incontrati sul web, ad iniziare dai miei soci.

Quanto ti sei sentita giudicata nelle tue scelte e come hai reagito?
Ma la psicologa tra i due chi è? Una domanda a caso… Purtroppo mi sono sentita giudicata, non dalla mia famiglia, che invece mi ha appoggiato senza mai titubare, ma da una persona che ritenevo il centro del mio cuore, dalla mia “persona” per citare una serie tanto amata da noi trentenni, lei non mi ha capito, ha visto la realtà con i suoi occhi senza mai mettersi dal mio punto di vista, questo mi ha ferito nel profondo e mi ha allontanato da lei per sempre. La sua assenza ha lasciato un vuoto che ancora non riesco a colmare, ma la vita va avanti e come ho fatto in altri ambiti, ho “spezzettato” il mio bene dividendolo con altre persone.

Quanto ti giudichi?
Il mio super IO è sempre stato più grande del Monte Bianco, ma onestamente credo che negli ultimi anni, ho imparato a giudicarmi di meno, ad essere più buona con me stessa. Io chiedo sempre il massimo da me, io combatto sempre, fino alla fine, ma se poi fallisco, pazienza, per me l’importante è provarci, la staticità rappresenta la morte!

Quante Francesca convivono dentro di te?
Beh almeno 2, anche se sto cercando di integrarle. Diciamo che c’è quella “sensibile” e diciamolo pure, “vulnerabile” che non so integrare con l’altra, o meglio a volte esce troppo l’una o troppo l’altra e questo spaventa.

Di tutti i momenti della tua vita, ci parli di quello in cui hai sentito realmente la libertà di poter essere ciò che volevi?
Ogni momento dopo il 17 giugno del 2011, giorno in cui ho lasciato l’azienda, sono rinata! È stata la decisione migliore della mia vita.

La tua paura più grande quando sei in giro per il mondo?
Mi credi se ti dico che non ho paure? Per un periodo, avevo paura che chi era a casa potesse dimenticarmi, e a dire il vero è successo, ma poi ho pensato che è anche una mia scelta se vivo così. Le relazioni sono incastri, chi si incastra con me non mi dimentica e onestamente ho potuto notare che le persone che amo e che mi amano, hanno trovato strategie per rimanere sempre in contatto anche quando sono in viaggio.

La tua paura più grande quando sei sul tuo divano?
La noia. Ho paura di annoiarmi , specialmente a Roma, dove, esclusi i miei amici, non trovo più molti stimoli. Ho sempre amato questa città, ma ora la vedo ferma, si fanno le stesse cose che si facevano nel 2004, solo che io non sono più la stessa. Sto seriamente pensando di trasferirmi, mi serve solo un motivo scatenante… o una scusa 😉

Il tuo rapporto con famiglia e amici prima, durante e dopo i tuoi viaggi?
Io vivo da sola da 16 anni, o sono a Roma o a Lima faccio sempre la stessa cosa, chiamo i miei tutti i giorni, cerco di non farli preoccupare. Con i miei amici, dipende, alcuni come ti dicevo, li ho persi quando ho deciso di intraprendere questa vita, con gli altri non cambia niente. Io non sono una che telefona, o una da smancerie, preferisco i messaggi concisi e puntuali. Quindi mi sento praticamente con la stessa frequenza con cui mi sento a Roma, forse li vedo un po’ meno, ma dopo tutto, anche loro hanno delle vite molto complesse. Non esiste più la simbiosi adolescenziale, della serie “tutto insieme-sempre insieme”, ma in fondo non siamo più adolescenti no?

Parlaci di te, qualsiasi cosa ti venga da dire, come fosse un vero e proprio flusso di coscienza per due minuti…da adesso:
Oddio, mi sembra di aver già parlato tanto di me, e poi nn mi dite che sono egocentrica, sei tu che mi hai chiesto tutte queste cose. Che dirti, sono complicata, nn facile da gestire, devo avere il controllo di “molte” situazioni, ma sentirmi protetta. Mi piacciono i cani e i bimbi piccoli, quando sono degli altri, spero sempre che qualcuno guardi oltre quello che sono diventata sul web. Vorrei un’assistente o una tata 2.0,  insomma qualcuno che mi aiuti. Sono felice, quando lo dico la gente mi guarda sconvolta, è come se le persone avessero timore a dirlo, o forse siamo tutti superstiziosi. Le cose brutte della mia vita, mi hanno aiutato a capire quanto sono fortunata; sono felice che il mio lavoro ispiri altra gente, mi fa bene al cuore.

Nel tuo zaino puoi mettere solo 5 “qualcosa”, tra pensieri, emozioni, parole, oggetti, persone. Qualsiasi cosa, ma solo 5. Cosa metteresti?
Lo stupore, la passione, la fiducia, i tappi per le orecchie e il passaporto.

Dove possono contattarti i nostri lettori?
Beh ho 3 siti quindi direi che basta digitare il mio nome su google. Ad ogni modo ovunque mi contattino, li rassicuro che rispondo sempre e solo io. www.viaggiaredasoli.net   www.chetiporto.it   www.francescadipietro.com

Grazie mille per questo viaggio assieme Francesca.

Donatella Di Lieto

[Le opinioni espresse sono a carattere strettamente personale/ Views are my own]

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La paura della paura

 

La paura è una cosa indefinibile, un’emozione ingannevole e insidiosa che può causare distruzione e devastazione, se le si permette di crescere. Rosemary Altea

Avete mai pensato a cosa vuol dire avere paura della paura? A cosa significhi vivere nell’attesa che arrivi quell’attimo che ti farà perdere completamente il controllo? Io non ci avevo mai pensato, fino a quando non mi è capitato.

Ed è stato terribile.

È iniziato tutto in una serata tra amici, a cena. Ancora non me lo so spiegare. Stavo mangiando quando all’improvviso non riuscii più a deglutire. Mi sentivo soffocare. Mi mancava l’aria. Il cuore prese a battermi così forte che pensavo mi uscisse dal petto. Iniziai a sudare. Non avrei mai immaginato che nella vita si potesse stare così male, che esistessero delle sensazioni così terribili. In quel momento pensai che sarei morto e che nessuno mi avrebbe potuto salvare.

I miei amici, spaventati, mi portarono in ospedale. Fu una nottata di esami, elettrocardiogrammi e visite con numerosi dottori, fino a quando mi fu detto che quello che avevo avuto era stato un “comune” attacco di panico. E in un certo senso fu sconcertante scoprire che non avevo nulla, che era stato tutto frutto della mia mente. Sarebbe stato meglio scoprire di aver avuto qualcosa. Perché da quella sera la mia vita si è fermata.

Sarebbe successo di nuovo? E se sì, quando? Dove? Sarebbe stato sempre uguale? Ero tormentato. Avevo paura. Paura di me, della mia mente, di quello che poteva succedere. Mi vergognavo da morire e non sapevo cosa fare. Mi sentivo un malato immaginario. Era impossibile da capire per gli altri, pensavo. Era impossibile credermi.

È così che ho iniziato a convivere con uno scomodo me stesso, che ho iniziato a cercare di controllare qualcosa che per me era assolutamente incontrollabile. È così che mi sono messo agli arresti domiciliari. Ho iniziato a evitare qualunque cosa: uscire da solo per strada, guidare, frequentare luoghi affollati. Ho il terrore che l’attacco si manifesti di nuovo. E così evito di uscire. Tengo sempre il cellulare vicino.

La mia vita è completamente cambiata. La mia vita non è più vita.

Mi sono sempre considerato una persona libera. Mi piaceva stare insieme agli altri, uscire, divertirmi. Ero uno sportivo. Adesso… adesso non sono più niente se non uno spettro di me stesso. Vivo nella paura della paura.

Ed è terribile.

Un attacco di panico, secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei disturbi mentali (DSM), corrisponde a un periodo preciso durante il quale vi è l’insorgenza improvvisa di intensa apprensione, paura o terrore, spesso associati a una sensazione di catastrofe imminente. Durante questi attacchi sono presenti sintomi come dispnea, palpitazioni, dolore o fastidio al petto, sensazione di asfissia o soffocamento, e paura di “impazzire” o di perdere il controllo. In presenza di ricorrenti attacchi di panico inaspettati, rispetto a cui si ha una preoccupazione persistente, si parla di Disturbo di Panico. Può esordire in qualunque momento della propria vita, all’improvviso e in circostanze inaspettate, mentre si sta compiendo una qualsiasi attività. L’attacco di panico non è pericoloso per la salute ma le sensazioni che si sperimentano sono così intense e coinvolgenti da far sviluppare in chi le prova l’intensa paura che si possano ripetere. Il primo episodio porta al timore di rivivere le stesse drammatiche sensazioni e di sperimentare nuovamente quel malessere. Nasce così la paura della paura. Quella stessa paura che porta chi ne soffre a chiudersi sempre più in se stesso e a non riuscire ad avere una vita sociale, a rinchiudersi in una gabbia da cui non riesce più ad uscire. I disturbi d’ansia sono estremamente comuni e tendono a essere sempre più frequenti nella popolazione. Sebbene le cause non siano ancora note, quello che è importante sapere è che da questa gabbia se ne può uscire e tornare a vivere, senza più mostri sulle spalle a tarparci le ali.

Giordana De Anna

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La mia vita apparentemente perfetta

Sono Ginevra. E la mia vita è apparentemente perfetta. Ve la racconto.

Ho ventisei anni. Sono già laureata e vivo da sola in un delizioso bilocale a Milano.  Mi sono laureata con il massimo dei voti alla London School of Economics e ora lavoro nel campo finanziario. Non male per una della mia età. Sono intelligente e ambiziosa. Mi definiscono “una di successo”. Appaio molto sicura di me stessa, ma socievole e aperta, mai supponente. Sono attraente, non una bellezza classica forse, ma agli uomini piaccio. Sono figlia unica, il fiore all’occhiello dei miei genitori. Mi hanno sempre spinto a credere in me stessa e a spingermi oltre quelli che pensavo fossero i miei limiti. Sembrerebbe che abbiano avuto ragione a guardare la mia vita ora. Sembrerebbe che tutto nella mia vita funzioni. Neanche l’ombra di un minimo sospetto.

Sono Ginevra. E la mia vita è apparentemente perfetta. Apparentemente, appunto. Ecco cosa non vi ho detto.

Sono bulimica. Penso al cibo tutto il maledettissimo giorno. Mi concentro sugli studi, sul lavoro per non pensare a quella che è la mia più grande ossessione: il cibo. La mia vita in realtà ruota attorno al cibo. In realtà Ginevra non è la giovane donna attraente e di successo che tutti vedono, ma è una donna insaziabile e senza controllo, in costante guerra con se stessa. Ho una smisurata paura di prendere anche una minima quantità di peso, parlo nell’ordine degli etti, ma allo stesso tempo non riesco a smettere di mangiare. Sono tormentata da attacchi di fame vorace che mi spingono ad andare al supermercato e comprare grandi quantità di cibo. Cerco di cambiare supermercato più spesso che posso e di non andare mai in quello vicino a casa dove abitualmente faccio la spesa. Compro patatine, biscotti, gelato, cioccolata. Per mangiarli tutti insieme, tutti in una volta. Silenzio il telefono per non essere disturbata, scarto i pacchetti e mi riempio la bocca. Senza gustare, senza sapere neanche quello che ho appena ingurgitato. In quel momento non capisco più niente, sono come in trans. Sono come impazzita. Non riesco a fermarmi. Mi detesto, mi disgusto. Provo vergogna per me stessa. Solo dopo, quando mi imbottisco di lassativi, o vomito, o digiuno per giorni, riprendo il controllo e mi sento meglio. E giuro a me stessa che non lo farò mai più, ma poi quell’impulso ritorna e io non riesco a vincerlo. Non so dire come sia iniziato tutto questo. La forte pressione all’università, lontana da casa, dalla mia famiglia. Il voler essere all’altezza, il non voler deludere nessuno.  Il voler essere sempre perfetta, impeccabile. La quantità di cibo che divoro è direttamente proporzionale alla paura di fallire. E allora mi concedo alla leggerezza, all’eccitazione, allo sfogo, alla rabbia, al bisogno di controllo, al disgusto.

Sono Ginevra. E queste sono le mie due vite. A volte credo nella donna sicura di sé e di successo che ho dentro, ma poi conosco anche la mia natura oscura, quella che nascondo agli altri, ad ogni costo, perché mi piace apparire perfetta.

La bulimia nervosa è uno dei più comuni disturbi alimentari, caratterizzato da alternanza di abbuffate fuori controllo e restrizione alimentare. È un circolo vizioso che si auto perpetua di preoccupazione per il peso e le forme corporee, dieta ferrea, abbuffate e meccanismi di compenso (esercizio fisico, vomito autoindotto, digiuno, uso di lassativi e/o diuretici).

Come funziona? Le crisi bulimiche avvengono in solitudine e in segreto. Si ingerisce una grande quantità di cibo, spesso in poco tempo, fino a che non ci si sente così pieni da star male. Si ha la sensazione di perdere il controllo e non riuscire a fermarsi. A seguito dell’abbuffata si ricorre a inappropriati comportamenti compensatori per prevenire l’incremento ponderale e volendo quindi neutralizzare gli effetti della crisi. Il rapporto col cibo perde la comune accezione di forma di nutrimento e diviene carico di rabbia, di sensi di colpa, di aggressività e di frustrazione.

Perché parlarne? La diagnosi di bulimia è in genere più difficoltosa rispetto a quella di anoressia nervosa, perché i sintomi sono più facilmente mimetizzabili e il soggetto spesso rimane in normopeso o con qualche chilo in più o in meno.

La bulimia nervosa è un male che ben si nasconde dentro le persone. Donne, e molto più spesso anche ragazzi, che conducono una doppia vita: quella perfetta dove l’apparenza di normalità nasconde la parte più oscura.

Giordana De Anna

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Tutte le maschere della mia vita

 

Nascondi chi sono, e aiutami a trovare la maschera più adatta alle mie intenzioni.           William Shakespeare

Nuda davanti allo specchio mi guardo e mi risuonano ancora nella mente le sue parole. “Mi sembra di non conoscerti, Rachele. Io non so chi sei, non lo capisco. Non capisco cosa ti faccia felice e cosa ti faccia incazzare! Sembra che tutto ti vada bene, ma lo sai cosa ti piace? Chi sei veramente Rachele? Io non posso andare avanti così.”

Chi sei veramente, Rachele?

Allora inizio a spogliarmi. Tolgo i jeans e il maglione attillati che mi fanno risaltare le forme. Tolgo i tacchi che mi fanno sembrare le gambe più lunghe. Tolgo il reggiseno che mi regala un seno alto e pieno. Tolgo le calze che mi appiattiscono la pancia. Tolgo le extension che mi rendono i capelli più voluminosi. Tolgo il rossetto che fa sembrare le mie labbra più grosse. Tolgo il rimmel che mi dona uno sguardo da cerbiatta. Tolgo tutto quello che non sono io e guardo negli occhi l’involucro di me stessa. Guardo il mio corpo in tutte le sue imperfezioni che quotidianamente mi costringo a correggere e a voce alta mi domando:

Chi sei veramente, Rachele?

Chi sono non lo so più. O forse non l’ho mai saputo.

Mi ricordo la prima volta che salii sul palco da bambina. Per tutta la durata della recita mi sentii bene, come mai prima. E da allora forse iniziai a recitare in tutto il resto della mia vita nella convinzione che, se mi fossi comportata come gli atri volevano, sarei stata accettata, sarei stata amata.  E da allora a casa sono stata una bambina ubbidiente e rispettosa. Un’adolescente studiosa e sorridente. Una giovane donna forte e proiettata alla carriera. Con gli amici sono stata estroversa e spavalda, sempre pronta a provare cose nuove, senza mostrare mai paura; un’amica premurosa ma mai turbata dagli sgarbi. Con gli uomini mi sono sempre mostrata forte ma al tempo stesso accomodante, mai un segno di risentimento, di dolore. Nel lavoro mi sono mostrata passionaria e competente.

Ho passato una vita a essere quello che pensavo gli altri volessero. Mai un cedimento. Mai niente che rivelasse che quella non ero io. Sono apparsa ma non sono mai stata. Mi sono vista vivere senza vivere mai. Ferma in uno stato di gelo senza che niente mi potesse toccare. Con la testa svuotata, sorridente per sembrare spensierata. Un manichino tra tanti. I giorni sono passati, senza colori né sapori. Ho vissuto nel carnevale del mondo, indossando una, cento, mille maschere. Me ne sono stata in bilico fino a quando la vita mi ha travolto. E la risata mi si è smorzata.

Mi sono sentita infelice e stanca, senza mostrarlo mai, neanche a me stessa. Piuttosto che piangere mi sono impegnata, ho dedicato me stessa a costruire il mio personaggio. Mi sono sentita vuota e infelice e allora ho lavorato di più, ottenendo traguardi sempre più importanti. Mi sono dedicata alla scalata del successo per non sentire niente, lottando e servendomi della logica del potere e della competizione per prevalere, per arrivare prima. E ogni volta che ho raggiunto un nuovo obiettivo, il vortice di euforia e soddisfazione è sempre durato lo spazio di un momento, un uragano che poi mi lasciava vuota, come prima.

Ho passato la mia vita lasciando spazio solo alla razionalità, senza mai permettermi di provare niente. Sono stata sottovuoto. Ma la domanda “chi sei veramente Rachele?” ha creato il cedimento che non c’era mai stato. E sono caduta tutta d’un pezzo. Le mie maschere sono state scoperte e si sono lasciate cadere, frantumandosi, senza darmi il tempo di capire chi io fossi, senza darmi alcun preavviso. E mi ha sorpresa che nella strada di ritorno a casa mi sia sentita nuda. E mi ha sorpresa scoprire che la cosa mi fa paura, che provo timore e vergogna al pensiero di scoprire chi sono, di scoprirmi e mostrarmi nelle mie luci e nelle mie ombre.

E ho passato un’intera nottata nuda davanti allo specchio, sgomenta, a piangere tutte le lacrime che non avevo versato, lasciando andare tutte le maschere della mia vita, per morire e intraprendere il viaggio della mia rinascita, il viaggio per conoscere me stessa. Ci saranno momenti, forse anni, bui in cui dovrò affrontare senza cercare di fuggire tutto il dolore che emergerà. Volevo solo essere amata, questa è la ferita che ho cercato di coprire con un cerotto: le mie maschere.

È in questi giorni finito il Carnevale, la festa delle mille follie, del mondo al contrario e del divertimento mascherato. Ci siamo divertiti a travestirci e interpretare un ruolo a noi obsoleto. Semel in anno licet insanire, dicevano i latini; ma, se il Carnevale è finito, quella che ci è rimasta addosso è la maschera che ancora portiamo, quello strato sottile che mettiamo tra noi e gli altri, come scudo, in modo che nessuno possa vedere le nostre debolezze, le nostre insicurezze, quel velo invisibile che portiamo per cercare l’approvazione degli altri facendo finta di non averne bisogno. Se indossare delle maschere, talvolta, può essere utile a proteggere la nostra intimità, il rischio è di dimenticarcene, di scordarci di averla ancora addosso e di non riuscire più a toglierla senza che venga via anche la pelle. Le maschere prendono a prestito i nostri corpi e a volte ce ne privano, proponendo un personaggio, con modi di pensare, di parlare, di proporre il corpo, di camminare, di respirare, facendoci perdere noi stessi. Gli indiani proverbialmente dicono: “Se tieni troppo a lungo la maschera finisci per farla diventare la tua faccia”.

Giordana De Anna

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Il profumo di un ricordo

 

Quando più niente sussiste d’un passato antico, dopo la morte degli esseri, dopo la distruzione delle cose, più fragili, ma più vivaci, più immateriali, più persistenti, più fedeli, solo l’odore e il sapore restano ancora a lungo come anime che ricordano, aspettano, sperano, sulla rovina di tutto il resto, che portano senza piegarsi, sulla loro gocciolina quasi impalpabile,l’edificio immenso del ricordo. Marcel Proust, À la recherche du temps perdu

Sveva camminava spedita verso l’università. Frettolosa, avvolta nei suoi indumenti di lana da cui spuntavano unicamente gli occhi e il naso. In ritardo, come al solito, pensava unicamente al fatto che avrebbe dovuto sedersi per terra, anche questa volta, perché tutti i posti sarebbero già stati occupati e le aule delle università italiane sono sempre troppo piccole per il numero di studenti che ospitano.

Sveva camminava senza guardarsi attorno, meccanicamente, un piede dopo l’altro, il più velocemente possibile. Camminava senza accorgersi della neve che timida e silenziosa iniziava a scendere. Senza accorgersi dei negozi che alzavano le saracinesche. Senza accorgersi di chi la salutava. Camminava energica e risoluta, come in una giornata qualunque. Camminava immersa nei rumori. Di motore, di clacson, di una sirena. Dello sferragliare del tram. Di una frenata improvvisa. Dell’abbaiare dei cani portati a spasso dai loro padroni. Di bambini che vanno a scuola e di anziani che urlano loro di stare attenti. Camminava immersa nei rumori di una città che si è svegliata già da un pezzo.

Camminava senza sentire niente, senza vedere niente. Camminava senza aspettarsi niente, Sveva.

Ma all’improvviso un odore. Un profumo. Una scia appena percettibile, nascosta tra l’odore di smog. E non è più tra i rumori, la folla e le cose da fare. Quell’odore, quel profumo l’ha colpita dritta al cuore e l’ha portata lontana verso un qualcosa che cercava di sopire. È successo questo a Sveva: ha sentito un odore, ha visto un ricordo. Le sue mani, il suo sorriso, la sua risata, la sua voce, il suo abbraccio. Il suo profumo, così caldo, così pulito, così suo. Ed è riemerso tutto per quella scia appena percettibile che le fa salire in gola quella tenera nostalgia per qualcosa che è stato e che non può più essere. Una scintilla che ha lasciato riaffiorare con tutta la dovizia di particolari possibile e con una forza prorompente quello che si era costretta a ricacciare nel fondo della sua memoria.

La memoria olfattiva, niente di più trascurato nella letteratura psicologica. Eppure l’olfatto è il più grande alleato della nostra memoria. Nessun altro input sensoriale è altrettanto memorabile quanto un odore. Nient’altro è così resistente all’oblio della memoria. Niente è altrettanto capace di rievocare il passato risvegliando al tempo stesso tutti gli altri sensi. I ricordi olfattivi sono tenaci, profondi e potenti, accompagnati sempre da una forte carica emotiva. I ricordi olfattivi sono invadenti, vanno al di là di ogni nostra volontà. I ricordi olfattivi sono imprevedibili e inevitabili. Bizzarri. Non è un caso che Kant definisse l’olfatto il senso “contrario alla libertà”. È per tutti questi motivi che l’olfatto è il senso che preferisco. È per questo che io volutamente respiro a fondo e creo ricordi. Perché un odore è quel “particolare immenso” – per dirlo con le parole di Bachelard – che riattiva i nostri ricordi autobiografici che danno i fondamenti alla nostra identità. Un odore è quel “particolare immenso” che ci permette di rivivere tutto quello a cui è associato suscitando in noi malinconia, nostalgia, gioia, a seconda del ricordo che riattiva. Un odore è quel “particolare immenso” capace di farci sentire vicino qualcosa o qualcuno che vicino non può più essere e di farcelo percepire reale, ancora per una volta.

E allora io vi consiglio di chiudere gli occhi, tapparvi le orecchie e respirare a fondo. Lasciatevi portare ovunque quell’odore vi voglia portare.

Lasciatevi andare all’edificio immenso del ricordo.

Giordana De Anna

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Ordinariamente amore

È notte. Un’ora imprecisata della notte. Tutto intorno è buio nella stanza. E lei se ne sta lì. Con la testa appoggiata nell’incavo tra la spalla e il collo di lui. In quello che loro chiamano il “suo posto”. Perché sembra fatto apposta per lei, per la sua testa. È della sua misura. È un incastro perfetto.

Se ne sta lì. Con gli occhi aperti. Ad ascoltarlo. Il rumore del suo respiro. Il rumore del battito del suo cuore. Il rumore del suo sonno. Rumori  familiari.

Se ne sta lì e si sente completa. Si sente calma in questa notte rubata dall’insonnia. Respira a fondo il suo odore. Crea ricordi. Non potrebbe essere altrove. Non dovrebbe essere altrove. Semplicemente, non vorrebbe essere altrove, se non lì.

Ed è una piccola rivelazione improvvisa, quella di amarlo. Quella di trovarsi nella situazione in cui amore e vita vanno di pari passo. È un modo diverso di amarlo. È quell’ amore che parla di quotidianità e di condivisione. Condivisione di giornate che iniziano troppo presto e finiscono troppo tardi senza essere riusciti a dirsi più di poche parole. Condivisione di raffreddori e influenze intestinali. Condivisione di pasti frugali e di sere passate a dormire sul divano – esattamente un minuto dopo aver finito di mangiare. È quell’amore che rende speciale una domenica passata abbracciati sul divano, senza fare nulla.  È quell’amore in cui ci si trova a capirsi con uno sguardo e a non capirsi quando si parla troppo. È quell’amore in cui a volte si sta avvolti nei silenzi e delle altre si passano ore a parlare del futuro. È quell’amore in cui si litiga per delle sciocchezze e si fa pace con un sorriso, con un bacio, senza farla durare troppo. È davvero un modo diverso di amarlo. Non è pensarlo in modalità Superman, capace di risolverti tutti i problemi, ma è sapere che c’è, nonostante i problemi. È sapere che c’è, anche se ti metti quel pigiama. È sapere che c’è, anche se sei una grande rompic*****ni. È sapere che c’è, nonostante i difetti, la fatica e i malumori. È sapere che ti sta accanto e che ti ama, come solo lui riesce a fare. Ed è un amore che a tutti gli altri può sembrare monotono, ma che a te riempie il cuore. È amore che sa di vita. È amore che la rende speciale, la vita.

È semplicemente amore.

È ordinariamente amore.

E in questa notte si scopre follemente innamorata. E avrebbe voluto svegliarlo per dirglielo, subito. Per dirgli che lo amava. Ma lo amava non con le farfalle nello stomaco come i primi tempi. Non con il cuore galoppante di una ragazzina. Lo amava senza aver bisogno di cercare continuamente qualcosa di nuovo. Lo amava col cuore solido di chi sa già chi ha di fronte, con allegati i pregi, i difetti e le caratteristiche ics. Lo amava senza se e senza ma, ma con gli anche se. Lo amava con la fermezza di chi ha già passato del tempo assieme e sa che i problemi non li abbattono. Lo amava con la completezza di chi sa che non c’è un “io e te”, ma un NOI, che è diverso. Lo amava col cuore leggero di chi non si accorge del tutto della fortuna che ha. Lo amava col cuore ingenuo di chi crede ancora che l’amore esiste. Più semplicemente, lo amava con tutto il suo cuore, che non ha alcun bisogno di spiegargli com’è perché forse lo conosce meglio di lei.

Ma decide di non svegliarlo. Di tenersi quella rivelazione così improvvisa tutta per lei, ancora per un po’, ancora per questa notte. Di godersi quel suo piccolo momento speciale in cui riesce a guardarsi dentro e rimanerne sorpresa, piacevolmente sorpresa – il che è una rarità. Glielo dirà la mattina seguente. Salutandolo gli dirà “ti amo”, come tutte le altre mattine. Ma sarà diverso. Almeno per lei. E forse lui capirà. O forse no.

In fondo.. è solo “ordinariamente amore”.

Giordana De Anna

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Dalia

Il suo nome è Dalia. E se fosse nata fiore avrebbe voluto essere proprio così. Con quei petali colorati e ricchi di complesse sfumature. Elegante e femminile. Scenografica. Colorata come il sole, come i campi d’estate. Viva.

E quel nome le ha sempre calzato a pennello, pensava.

Questa è la sua storia. La storia di una donna che emanava vita, nelle sue contraddizioni, nel suo vortice di avventure, nel suo non arrendersi mai. E questa storia vuole essere ascoltata, perché potrebbe essere la vostra. E non vuole compassione, né pietà: non le servono, non le sono mai servite.

Dalia era la seconda di tre sorelle. Era la mediana: non era mai quella grande, né quella piccola. Una posizione scomoda per la verità perché alla sorella grande davano sempre delle responsabilità, e per questo era tenuta sempre in considerazione, e la più piccola era la regina di casa, quella a cui la nonna intrecciava i capelli biondi in una corona sulla testa. Lei, per quanto si mostrasse matura o si pizzicasse le guance per farle diventare rosse come quelle delle bambole, restava sempre “quella di mezzo”. In realtà ben presto aveva tratto da questa posizione scomoda i migliori vantaggi che poteva offrire e aveva smesso di tentare in tutti i modi di occupare il ruolo che già occupavano le sue sorelle.

Incostante nelle sue passioni, sempre brevi, se ne andava in giro a esplorare il mondo, affamata. Si godeva la sua indipendenza e la apprezzava sempre di più. Questa era Dalia.

E Dalia era cresciuta, ma era rimasta sempre così. Si era sposata, aveva avuto un figlio e aveva divorziato. Poi si era risposata, un matrimonio lampo. Dopo sei mesi arrivò il secondo divorzio. Così Dalia aveva capito che il matrimonio non era adatto alla sua sete di indipendenza. Era partita col circo, un giorno, perché le andava; le sembrava la sua strada, una delle tante. Presto era tornata, come sempre, già annoiata dal mondo parallelo in cui aveva vissuto e pronta a ricercarne un altro.

Cercava continuamente qualcosa senza forse riuscire a trovarla mai. Dalia era così. Colorata, eccentrica, impegnata a vivere. Viveva fuori dalle righe. E questi erano anche i suoi peggiori difetti perché Dalia era solo capace di pensare a se stessa e di vivere per se stessa. Cambiava continuamente amici, lavoro, passioni e poi gettava via.

Dalia ha vissuto impegnata a far bruciare la sua vita. Baricco ha scritto

perché dove la vita brucia davvero la morte è un niente.

E lei ci credeva e credeva di farlo. Ma poi la morte si è avvicinata anche a lei e si è domandata se la sua vita alla continua ricerca di qualcosa senza trovarla mai fosse stata bruciata davvero. Cosa voleva dire bruciare la vita? Cosa voleva dire vivere davvero, fino in fondo, godendosi e assaporando ogni istante? E nel rispondersi qualcosa si era incrinato. Non era più sicura che volesse dire eliminare gli aspetti più ordinari e ridurla ad un continuo inseguimento del piacere e ad una continua fuga da quello che reca, o che si teme possa recare, noia o dolore. Per lei il presente aveva sempre escluso il ricordo del passato e l’attesa del futuro. Il presente per lei è sempre stato una tessera strappata via da un mosaico. Si era resa cieca e sorda davanti al mondo, davanti agli affetti per vivere il presente. Si era resa cieca e sorda davanti ai bisogni dell’anima. E si era insinuato in lei il dubbio che la vita da bruciare non fosse fatta solo di grandi imprese, grandi viaggi e di esperienze fuori dalle righe ma di piccole cose, ordinarie, rese degne di essere vissute perché colorate di emozioni, sentimenti e volte anche dolore. Si era insinuato in lei il dubbio che la vita vissuta, quella davanti a cui la morte è un niente, è quella in cui non ci si è risparmiati nel viverla col cuore.

Dalia era stata come un fiore appassito, morto dentro ma ancora in piedi fuori. L’amore era la sua acqua. E di acqua ne aveva avuta troppo poca.

E fu così che una sera d’inverno Dalia perse tutti i suoi colori.

Giordana De Anna

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Anno nuovo, vita nuova: lista buoni propositi 2015

Si sta avvicinando il Capodanno e insieme alla fatidica domanda “cosa facciamo a Capodanno?”, la ricerca del vestito adatto e l’acquisto dell’intimo rosso, iniziamo anche a pensare a tutte le buone intenzioni da realizzare.

Perché il cambio d’anno diventa ogni volta quel momento catartico in cui si deve dare una svolta alla propria vita. E ogni primo gennaio ci sembra sempre un nuovo inizio, ci fa credere che non saranno altri 365 giorni uguali ai precedenti.

Quello di cambiare è un desiderio comune. È difficile che di noi e della nostra vita ci vada bene tutto. C’è chi vorrebbe essere più ottimista, chi più deciso e determinato, chi meno pigro. Ottimismo, entusiasmo e speranza ci invadono nel passaggio da un anno all’altro.

Io ogni anno ce la metto tutta. E anche quest’anno non sono stata da meno. Ho già stilato la mia “Lista buoni propositi 2015”– così da poterla ignorare il prima possibile.

  1. Smettere di fumare. Forse uno dei buoni propositi più gettonati – sono poco originale, ahimè. E sarò poco originale anche quando non lo riuscirò a portare a termine e penserò di riciclarlo per l’anno dopo.
  2. Leggere di più. Voglio riuscire a passare qualche ora al mese in libreria, per respirarne l’atmosfera, per perdermi nell’inconfondibile odore di libro nuovo.
  3. Dormire. Questo proposito mi piace. Dormire nel modo giusto fa bene. Fa bene alla pelle ( e quindi mi rallenta la formazione delle rughe), dona un aspetto sano (con la mia carnagione olivastra è difficile a volte apparire sani in inverno, ho sempre quell’aspetto grigio/verde…), regola il buon umore e migliora il metabolismo (Grazie!!). Forse sarà l’unico proposito che riuscirò a mantenere, non ho mai avuto problemi di insonnia…
  4. Risparmiare. Ecco, mi viene già da ridere.
  5. Viaggiare. Anche solo per un giorno. Con poco bagaglio ma tante speranze e aspettative. Un pacchetto regalo confezionato con cura. Lasciando a casa pregiudizi e preoccupazioni, ma riempiendo il bagaglio di curiosità e di immaginazione. Partire, volare, sognare, sperare.
  6. Mettermi a dieta dopo le feste e Andare più spesso in palestra. Ma poi chi l’ha detto che l’anno nuovo debba iniziare all’insegna della tristezza della dieta e del proposito di uccidersi in palestra? Mangiare sano mi suona meglio…
  7. Trovare un lavoro. Questo mi crea ansia. Lo cancello. Vivere con coraggio il presente mi piace di più.
  8. Assaporare ogni momento della mia vita. Ci si può provare… in fondo è un’opportunità, non una condanna.

È una bella lista, ma, molto probabilmente, non farà una fine diversa dalle altre. Ogni anno sull’agendina nuova attacco sempre in prima pagina i miei propositi, che poi diciamocelo in fondo rimangono più o meno sempre drammaticamente gli stessi. Ecco, appunto, sempre gli stessi. È mai possibile che, arrivata a fine gennaio, prendo il foglio dei buoni propositi, lo butto nel cestino e fingo di non averlo mai scritto?

Il fatto è che la vita prende il sopravvento, accadono cose che non ci aspettiamo e che ci distraggono dalla nuova rigida disciplina che ci siamo imposti. A volte poi cerchiamo a tutti i costi di essere completamente diversi da quello che siamo e nel lungo periodo non funziona. Riguardare i propositi che avevamo scritto ci fa sentire sopraffatti o intimiditi dalla difficoltà dell’impegno che ci siamo presi e poi i nostri propositi sono piuttosto vaghi e non contengono un vero e proprio piano d’azione concreto. L’entusiasmo del 1 gennaio ci fa spendere tutte le nostre energie e il 31 (sempre dello stesso mese) ci ritroviamo senza volontà e determinazione. Insomma, ci sono veramente tanti, troppi motivi che ci rendono incapaci di rispettare la nostra lista.

È qui che mi viene in aiuto il libro The Power of Less di Leo Babuta che ha creato il cosiddetto “metodo delle 6 modifiche”. Secondo questo metodo bisognerebbe concentrarsi solo un cambiamento di abitudine per volta, lesinando così la nostra attenzione. Il libro parla di identificare l’essenziale, collocarvi il nostro obiettivo ed eliminare il resto. Un solo compito importante alla volta, mi piace! Facciamo spazio per l’essenziale e creiamoci la vita che vogliamo. Creiamo le abitudini necessarie per renderla realtà. Vedere i primi risultati non farà altro che rinvigorire le nostre energie e il nostro entusiasmo per la soddisfazione.

Quindi… ho sbagliato tutto. Straccio la lista precedente. Ne rifaccio una nuova.

Lista Buoni propositi 2015:

  1. comprare il libro “The Power of Less”

 può bastare, no?

Mi sa che quest’anno ce la faccio.

Giordana De Anna

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