Il caldo amore di un genitore, asfissiante

A un certo punto ci siamo svegliati la mattina del 25 dicembre senza attesa per i regali, senza quel senso di curiosità straripante che ci faceva volare giù dal letto. Non ci siamo più fiondati dai regali che un misterioso Babbo Natale ci aveva lasciato di notte.

Non è più accaduto perché quei due che di solito si prendevano cura di noi ci hanno dato una delusione straziante.
Non esiste alcun simpatico signore che vola con le renne di casa in casa.

Li abbiamo odiati, probabilmente, se ci ricordiamo il momento della scoperta.

Quella forse è stata la prima volta in cui abbiamo messo in discussione i nostri genitori. D’un tratto non erano più il riferimento massimo per la nostra vita, ma una minaccia, una fonte di delusione.

Da allora è stato un susseguirsi di litigi, lotte per ottenere un gioco, un motorino, un’uscita con la compagnia.

I figli sono sempre scontenti, sembra che ogni comportamento non sia quello giusto, che si sbagli sempre qualcosa.

Eppure i genitori fanno sempre tutto per amore dei figli. Non c’è momento in cui non siano davanti a ogni cosa, nel gradino più alto del podio. Ogni atto è un modo per dar loro qualcosa di buono: un’istruzione, un’educazione che li supporti. Un sostegno e una struttura per affrontare il resto della vita nel migliore dei modi.

Dall’altra parte però non tutto viene visto allo stesso modo. Spesso si crea un solco e da una parte e dall’altra schierate due visioni opposte di una realtà impossibile da valutare in modo unilaterale.

L’unico punto di contatto sta nell’intenzione ultima: entrambe le parti vogliono il benessere e la realizzazione del figlio, a qualunque età. Ma in modi diversi.

Il modo, appunto, fa la differenza. Non basta l’aiuto economico, non bastano le scuole migliori, il cibo e i regali. Tutto molto interessante, direbbero gli adolescenti. Ma sterile.

Il rapporto poi non decolla, i figli cercano altro e i genitori si perdono a distribuire beni di qualunque tipo, come fossero un’Ikea di articoli di sussistenza.

Ma in fondo il figlio di che ha bisogno? La maggior parte dei tentavi dei genitori finisce per soddisfare bisogni del genitore stesso, per placare paure e timori di mamme e papà.

Eppure l’articolo 315 bis del Codice Civile è piuttosto chiaro sulla modalità con cui un figlio dovrebbe essere cresciuto. Per una volta la legge non è fredda e sterile, ma ci indica la via di un comportamento che cambierebbe le sorti dell’educazione.

«Il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. (…)
Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano».

Ai ragazzi interessa questo, ai bambini ancora di più. Non è tanto il regalo da scartare, l’entusiasmo dei figli è legato alla presenza. Alla condivisione del tempo. L’affetto che percepiscono sapendo che i genitori sono lì da qualche parte pronti ad avvolgerli.

Se non ci fidiamo della legge, chiediamo alla natura, che non sbaglia mai.

L’esperimento di Harry Harlow (psicologo statunitense del Novecento) ci illumina su quello che un cucciolo di scimmia può provare rispetto alla presenza di un genitore. Harlow ha preso delle scimmie e con un gesto di temporanea crudeltà le ha separate dalla mamma. Questi cuccioli di scimmia sono stati poi lasciati in una gabbia: da una parte una “mamma metallica”, cioè un fantoccio in metallo con un biberon annesso, e dall’altra una “mamma morbida” fatta di panni di stoffa su cui appoggiarsi.

Niente, non è il cibo la cosa che le scimmie hanno voluto.

Non è la sopravvivenza fisiologica che istintivamente viene cercata da una piccola scimmia. Questi esemplari si stringevano al fantoccio di stoffa per trovare conforto.

Una coccola non vale un sorso di latte.

Le scimmie al massimo correvano a bere per pochi secondi, e poi tornavano a cercare affetto da quella cosa morbida, calda, accogliente.

Insomma, che sia Babbo Natale o un genitore a portare regali o biberon di latte, la cosa importante è assecondare i bisogni e le inclinazioni dei figli, o, mal che vada, ricoprirsi di stoffa.

 

Giacomo Dall’Ava

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La terza via probabilistica

Lo avvertite? Riuscite a sentire questa strana sensazione? Voglio fermarmi qui con voi, su questa pagina ancora bianca. Perché siamo qui? Che valore ha questo spazio che ci è concesso? Provo una sensazione e credo che la sentiate anche voi, potete negare e mentire ma non potete sfuggirvi. Cerco di scrivere le parole migliori, come voi, ogni volta che cercate di farvi comprendere, di far risultare sensato e comunicativo un discorso attraverso una selezione di parole, in un incredibile gioco linguistico che vorrebbe accomunarci tutti, direbbe Wittgenstein. Eppure siamo qui, sono qui e ancora devo dire qualcosa. L’insicurezza gioca un gran ruolo nelle nostre vite, nelle nostre possibilità. L’insicurezza può addirittura negare, uccidere la dimensione potenziale, basti pensare che il non agire è da considerarsi comunque un agire. Sono qui e agisco, su di me, su di voi, su questo testo, e mi pongo mille domande, mille dubbi su ciò che potrei creare ed esprimere.

Nei meandri del gioco letterario dello scrivere, ogni scrittore ha dei pensieri fissi, delle cose da donare al mondo e alle infinite pagine bianche che si presentano nella nostra vita. Un fine c’è, insieme ad un’idea che ci corrompe, che si insedia in noi, che guida i nostri discorsi e ci fa dire quel che lei vuol dire. Certe visioni del mondo possono essere davvero pessimistiche, realistiche, o peggio semplicemente passive. Io stesso sono qui a combattere certe mie idee, certi agenti di corruzione. Eppure sto scrivendo e lo faccio sì con delle immagini, ma soprattutto con delle sensazioni. La psicologia divide la nostra topografia mentale in tre grandi zone: la zona del pensiero, la zona dell’azione, ed infine la zona che rappresenta l’incredibile spazio del “sentire”. Sto sentendo tutto questo, la sensazione di cui vi parlavo all’inizio vorrei condividerla con voi: una tensione verso un qualcosa di indefinito, di irrimediabilmente sfuggevole. Mi verrebbe in mente una sorta di “élan vital”, per dirla alla Bergson, che ci fa tendere verso… verso cosa? Inconoscibile, noumenico, ignoto, dategli l’interpretazione che volete, ma datela. Date un contributo anche voi, perché so che lo state facendo durante questa lettura, come si fa con ogni cosa che leggiamo, viviamo, o appunto sentiamo. Siamo in costante ricerca, siamo animali migratori che non si danno pace finché non trovano quella che potranno definire “casa”, anche se, probabilmente, per molto meno tempo di quanto si potrebbe immaginare. Siamo nomadi mentalmente, non abbiamo una casa, non siamo mai soddisfatti del qui ed ora, di ciò che ci fa stare qui, in questo esatto punto in cui si è o si dovrebbe essere. È la costante ricerca di un’ideale, di un’immagine, o di una sensazione mai provata e che speriamo di poter scoprire; un pensiero da scartare come un regalo inaspettato. Qui mi insedio, qui il pensiero che mi corrompe si fa passivo e subisce quel che voglio dire, cioè che voglio agire nell’unicità dell’azione che ci è concessa, prendere le redini di me stesso, della mia vita. Scelgo la terza via in un bivio, vado controcorrente, o meglio mi ritaglio quella possibilità che ad ognuno di noi è concessa, ma che molto spesso non si vede o non si vuol vedere.

In una condizione tale, in un’infinita tensione verso qualcosa di indefinito possiamo riscoprire noi stessi, il nostro senso di stare nel mondo e di porci nella dimensione del rischio. Mi piace molto quest’idea di territorio inesplorato, pericolante, che dà meno certezze di quel che si potrebbe sopportare come essere umani razionali. Ed è proprio entrando nella logica probabilistica che riscopriamo valori, identità e identità dell’azione. Ci banalizziamo e consegniamo tutta la nostra dimensione ontogenetica a quella filogenetica senza rischiare, senza essere. Una scommessa pascaliana sulla vita, sulla formazione, ci apre lo spazio, la trascendentalità della dimensione incerta, del rischio umano e della probabilità che non ci darà mai la perfezione statistica. La formazione, un concetto incredibile che è insito in noi, sul quale scommetto, sul quale addosso il titolo di terza via che sopprime la logica biunivoca, il bianco e il nero attraverso i quali vogliamo vedere una vita vera o una vita falsa. Attraverso il sentiero che dobbiamo avere il coraggio di tracciare, scavando tra le mille inutilità che si presentano davanti a noi come verità, ma che verità non sono. La formazione non cerca la verità, non si pone come risoluzione ma come percorso. «Non un traguardo da raggiungere ma strade da attraversare», volendo rileggere Nietzsche in chiave pedagogica. Già nella modernità le varie dispute religiose, le riforme, e le revisioni dei concetti di fede, hanno portato l’uomo a sviluppare qualcosa. Un’originaria incapacità e la mancanza di strumenti hanno portato a realizzare che gli strumenti erano già in noi e che andavano cercati nell’interiorità, andavano sviluppati al nostro interno attraverso una via non immediata. Penso che questo possa essere il punto di partenza per capirci, per ripensare la pedagogia e la formazione proprio ora che ne abbiamo più bisogno, ora che ci siamo consegnati ad una crisi spirituale, una crisi di valori e intenzioni che svaluta noi stessi e quelli che saranno in futuro con noi. Un passo, anche se piccolo, è pur sempre un avanzamento che ti porta più avanti nella strada che si ha davanti; e lo stesso agire, se incontra la rinuncia, si perderà per sempre se non viene compiuto da noi in quel preciso momento.

Alvise Gasparini

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Al cinema dallo psicoanalista: intervista a Paolo Boccara

Il Festival della Mente di Sarzana, in Liguria, si è concluso solo pochi giorni fa e per La Chiave di Sophia si è trattato di una splendida occasione di arricchimento culturale e umano in cui c’è stato dato modo di conoscere numerosi esponenti del mondo dell’arte e della filosofia. Tra questi abbiamo avuto il piacere di incontrare anche Paolo Boccara, psichiatra romano, membro ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e dell’Accademia del Cinema Italiano. Il suo ultimo libro, pubblicato insieme a G. Riefolo, si intitola Al cinema dallo psicoanalista e, oltre a unire le due più grandi passioni di Boccara, propone una tesi forte sul rapporto tra cinema e psicoanalisi, mettendone in luce non i contenuti, ma la funzione del cinema come apparato produttore di immagini. Una riflessione acuta e mai banale, che abbiamo voluto approfondire rivolgendo a Boccara le seguenti domande:


Cinema e psicoanalisi sono due mondi da sempre molto legati tra loro, cosa l’ha spinta ad avvicinarsi alla psicanalisi e quando invece ha iniziato ad appassionarsi alla settima arte?

La mia passione per il cinema nasce molto prima rispetto a quella per la psicanalisi. Andavo in sala fin da piccolo e sono letteralmente cresciuto con i grandi film degli Anni 60. Quando ho iniziato il mio lavoro come psicoanalista non pensavo avrei mai potuto unire queste passioni ma, alla fine, due motivi mi hanno spinto a farlo: il primo è la capacità del cinema di saper raccontare il mondo della psicanalisi in modo molto caricaturale, prendendo in giro gli analisti e i loro difetti (cosa che spesso mi faceva arrabbiare). Inoltre, con il passare del tempo, mi sono accorto che il cinema riusciva a cogliere dei punti molto significativi del mio lavoro, soprattutto l’importanza dell’aspetto soggettivo dell’analista e di quanto fosse falsa l’idea di un’analista neutrale, che esprimeva giudizi sulla psiche dei pazienti come una moderna sfinge. Ciò che il cinema ha saputo cogliere è la dimensione umana dello psicoanalista ed è stato questo forse il motivo principale che mi ha spinto ad avvicinarmi alla settima arte, continuando in parallelo a sviluppare la passione per il mio lavoro.

La sua recente pubblicazione Al cinema dallo psicoanalista, scritta a quattro mani con Giuseppe Riefolo, si propone di teorizzare un “nuovo cinema dell’immaginazione”. Quali sono stati i film che hanno influenzato di più il suo immaginario di spettatore?
Il mio immaginario è stato influenzato principalmente dai film western che avevano per protagonista John Wayne. Ho sempre identificato il suo personaggio come il mio eroe d’infanzia. Crescendo sentivo molte persone criticarlo per il suo essere di destra e per le posizioni molto forti e schierate dei suoi film, ma ciò che amavo di John Wayne erano i personaggi che interpretava sul grande schermo. Figure ideali che hanno segnato molti momenti chiave della mia vita. Poi, senza dubbio, molte produzioni hollywoodiane mi hanno permesso di conoscere aspetti sconosciuti e mondi lontani. Ho amato il cinema italiano e i film degli Anni 80 diretti da Nanni Moretti, perché in essi ho sempre ritrovato tantissimi aspetti della mia vita personale e professionale.

Paolo-BoccaraIn questi ultimi mesi si sta discutendo molto sulle possibilità che potrebbe offrire il cinema raccontato attraverso la realtà virtuale. Da dove nasce, secondo lei, il bisogno dello spettatore di vivere un’esperienza di questo tipo, in cui si preferisce il fotorealismo alla realtà che ci circonda tutti i giorni?
Il vero problema, secondo me, è come utilizzare la realtà virtuale. L’uso che ne possiamo fare in questo momento è, in realtà, molto delicato e limitato. Io penso che la realtà virtuale sia molto simile all’idea tradizionale di cinema. L’importante è riuscire a uscire dalla realtà virtuale e utilizzarla per vivere al meglio tutte le emozioni che questa nuova tecnologia riesce a creare in noi. E’ molto importante capire quali emozioni riescono a suscitare in noi le immagini e se esse riescono a farci scoprire qualcosa di nuovo sulla nostra personalità. Una volta dopo averne preso coscienza però, dobbiamo stare attenti a non rimanere intrappolati nella realtà virtuale. Quello, a mio modo di vedere, è il rischio più grande che corre lo spettatore usando questa nuova tecnologia.

In alcune occasioni ha dichiarato che lei ha sempre visto la psichiatria come un modo perfetto per avvicinarsi e relazionarsi con le persone. Che cos’è invece per Paolo Boccara il cinema e qual è la funzione sociale che possiede quest’arte?
In realtà la psichiatria per me è sempre stata un mezzo attraverso cui conoscere parti di me che posso utilizzare per scoprire gli aspetti più fragili della mia personalità. In questo contesto la funzione sociale del cinema diventa molto importante perché grazie alle miriadi di storie che può evocare, ti permette di conoscere qualcosa che noi non pensavamo di poter provare o di sapere già. E’ un mezzo rapido, che si può condividere e il suo potere socializzante aiuta non solo a conoscere sé stessi ma anche a scoprire molti aspetti delle persone con cui ci confrontiamo al termine di una proiezione.

Esiste un regista o un attore che avrebbe voluto psicanalizzare? Se sì, quale?
Allora, non avrei voluto psicanalizzare nessun attore o regista in particolare. Mi sarebbe piaciuto incontrare molti di loro, uno su tutti Billy Wilder. Nato come giornalista (aveva anche cercato di intervistare S. Freud senza successo, n.d.r.) è diventato uno dei più grandi registi del secolo scorso, riuscendo a raccontare aspetti umani che all’epoca nessuno aveva mai avuto il coraggio di raccontare sul grande schermo. Uno spirito unico e acuto. Poi sa, penso che conoscere gli attori di persona sia sempre una piccola delusione perché spesso tendiamo a idealizzarli e a identificarli con i loro personaggi. Psicanalizzare la gente di cinema è sempre molto difficile: se si facessero analizzare sul lettino di uno psicologo, si dice, non sarebbero più dei grandi artisti.

La nostra rivista crede molto all’interdisciplinarità della filosofia. Lei cosa ne pensa di questo argomento?
Penso che la filosofia sia una scienza attraverso cui si può conoscere molto l’uomo e, grazie al contributo di molti filosofi e pensatori, ognuno di noi può scoprire qualcosa di nuovo su sé stesso. E’ un aspetto che lega molto la filosofia a quello che è il mio lavoro di analista. Se la filosofia riuscisse, come in parte sta facendo, a essere avvicinabile da un pubblico sempre più grande e ampio, si riuscirebbe senza dubbio a creare un mondo sempre più interessante. L’interdisciplinarità risiede in tutte le cose della vita, quindi l’idea di declinare la filosofia a tutte le discipline è di sicuro un’idea che non va solo lodata ma anche incoraggiata e sostenuta.

Alvise Wollner

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La fine della psicologia e l’avvento delle scienze cognitive come strumento irrinunciabile per l’operatore giuridico

Trattare il tema dei risvolti cognitivi, cerebrali, neurologici e mentalisti che possono avere ricadute sul processo penale, sia per ciò che attiene il soggetto destinatario del giudizio di colpevolezza (od innocenza) sia per i “protagonisti tipici” della “contesa togata” (accusa, difesa e, in ultima analisi, il giudice) non deve rimanere un esercizio di stile o una “chiacchiera” più o meno colta; è necessario cogliere le ricadute di detta materia nuova “nel pratico” e ciò al fine di gestire meglio la materia processuale e, se possibile, individuare una nuova frontiera al tema della legalità e del giusto processo (il “due process of law” della Costituzione americana ed il “giusto processo” del nostro articolo 111 della Carta Costituzionale).

Al fine di evitare che la sponda giuridica spazzi via le nuove conoscenze è importante non rischiare di cadere nella trappola (quasi un bias cognitivo-processuale) in cui è cascata la psicologia: questa infatti si è affermata con forza nella società come un aspetto determinante del decidere dell’uomo, ma le regole giuridiche l’hanno relegata ai margini della vicenda giudiziaria, stabilendo, sia in ambito sostanziale che processuale, la sua irrilevanza. Valgano ad esempio due dati normativi: gli “stati emotivi e passionali” non incidono sulla libertà di scelta e dunque sulla volontà dell’agire criminale e, dall’altro, il decidere del giudice è, sempre e comunque, libero (e dunque non influenzato o influenzabile dalla psiche) salvo le patologiche e quasi paradossali condizioni soggettive di cointeressenza con la vicenda del giudizio, così come statuito dalla disciplina sulla ricusazione e l’astensione. Come dire: chi delinque e chi deve giudicare sono soggetti che, nel loro “fare” specifico, si distaccano dall’uomo comune, il cives di tutti i giorni per il quale, al contrario, i giudizi (e talvolta le giustificazioni) di ordine psicologico sono il consolidato e normale metro di valutazione rispetto alle condotte prescelte (purché extragiuridiche). E’ ultroneo scomodare il filosofo Popper per affermare che la psicologia non è una scienza in quanto i suoi assunti sono (forse) affascinanti ma del tutto privi di falsificabilità e dunque mai potranno entrare nell’Olimpo delle conoscenze “vere”.

E’ indimostrabile che l’uomo agisca in virtù di moti dello spirito o di impalpabili reminescenze della propria vita inconscia. In questo senso le scienze cognitive (considerate nella globalità delle discipline che compongono lo studio del cervello) riportano il pensiero interiore (la mente) ad analisi molto più “terrene” e concrete. Il cervello è come una montagna innevata e le connessioni neurali come le tracce che gli sciatori lasciano sulla neve. Più un percorso viene solcato, maggiore ed automatica sarà la scelta a favore di quei solchi già impressi che saranno la pista prescelta per una nuova “discesa dalla montagna” (metaforizzando così il tema del sistema decisorio del cervello). Modificare i percorsi neurali è possibile (per la plasticità del cervello) ma è, allo stesso tempo, quasi impossibile in quanto, “electa una via”, il cervello, che è una macchina a risparmio energetico, adotterà, in via intuitiva, sempre quella sperimentata. Da qui le euristiche ed i bias che sono proprio il frutto degli automatismi con i quali la corteccia decide “saggiamente”, secondo una modalità paragonabile al sistema del “copia e incolla”. Ma la diversità delle situazioni reali costituisce un pericolo di errore nella scelta del percorso; la bibliografia esperienziale può infatti azzeccarci oppure no, rilevare assonanze e similitudini più o meno reali. I passaggi della psicologia sono, dunque, messi in crisi, non solo dal diritto, ma anche dalle scienze cognitive. Al posto degli “umori soggettivi” vi sono gli stati fisici da cui possono derivare gli stati mentali ma senza che questi ultimi possano avere vita autonoma (semmai l’aspetto emotivo della memoria bibliografica è data da un altro stato fisico, quello offerto dal “condimento” – positivo o negativo – che i neurotrasmettitori “spruzzano” nel momento in cui si ha una connessione neurale e dunque la formazione di un “pattern” bibliografico nel cervello).

Ed ancora: in luogo dell’inconscio si ha la memoria bibliografica che è composta da queste “stampe esperienziali” che si accumulano quotidianamente nel cervello (con il sistema dei “like” operato dai neurotrasmettitori) e che vengono riesumate dai neuroni al momento del fare. Questi, a velocità altissima ed in modalità precosciente, pescano dalla memoria neurale l’azione da compiere (quella con il miglior “rating”) e danno vita al copia e incolla del fare. Il diritto teme che tutto ciò vada ad intaccare il libero arbitrio. In effetti la gamma delle scelte, alla luce di questo funzionamento cerebrale, non è assoluta e kantianamente universale, ma è il frutto del vissuto e dunque parziale e limitata. Ma ciò non deve far temere per la tenuta del dolo: questo infatti diviene il prodotto delle micro-scelte quotidiane, non spostando la responsabilità dal soggetto agente verso scelte deterministiche e neolombrosiane.

In ogni caso, per evitare che le scienze cognitive siano respinte dal diritto (nel timore che queste possano sconvolgerne i dogmi) non bisogna forzarne l’inserimento nel tessuto normativo ma debbono diventare uno strumento da utilizzare “sotto traccia”, al fine di “leggere il processo” nei suoi passaggi salienti. Al pari di come lo sportivo “legge” la gara e sa adattarsi alla realtà per raggiungere la mossa vincente, così l’operatore del diritto deve muoversi nell’agone giudiziario tenendo sempre per mano, da un lato, la norma e la sua interpretazione, dall’altro, il funzionamento del cervello, le modalità operative delle euristiche e dei bias e ciò per cogliere, attimo dopo attimo, la mossa migliore sulla scacchiera processuale. Questa non è psicologia (che, come scienza, è ormai divenuta un utensile del passato): è conoscenza del funzionamento del cervello.

Certamente anche le scienze cognitive ed in specie la prammatica delle neuroscienze possono avere dei risvolti pratici. Basti pensare alla scoperta di lesioni della corteccia cerebrale tali da influenzare in modo patologico il decidere. Ma questi risvolti, al pari di quelli psichiatrici, operano in via eccezionale e, come detto, sulla patologia (l’infermità). Mentre la conoscenza della materia cognitiva opera sulle modalità ordinarie del fare umano. Che non cambiano e non possono cambiare per il solo fatto della commissione del reato o dell’indossamento della toga. Ma non solo: anche il tema probatorio può far emergere la materia cognitiva: basti pensare alle euristiche ed alle trappole mentali che può causare la prova scientifica. Ancora una volta: non è psicologia, è il prodotto di ciò che il cervello sa di una determinata materia. Per tutte queste ragioni, talune di ordine “tattico”, altre di ordine più tipicamente probatorio, il diritto penale cognitivo, materia introdotta da Justice of Mind come pilastro del diritto del Nuovo Millennio, deve divenire lo strumento fondamentale per chiunque voglia approcciarsi ai temi giuridici.

Luca D’Auria

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Convinzioni adolescenziali. Storia di un moto rettilineo uniforme

Egon Schiele fu solo uno fra i tanti che cercava, lui a colpi di pennello, di fissare nella tela un attore sociale ancora libero da qualsiasi compagnia teatrale: il giovane, colui che non è un infante ma nemmeno un adulto. Per farlo, il pittore austriaco si servì di contorni sfumati, colori contrastanti e volti androgini segnati da turbamenti esistenziali tanto estremi quanto ingenui. Una volta intrappolato in dei confini, si passò alla catalogazione: un metodo utile per riordinare gli scaffali dell’ordine mondiale. Sezione? Psicologia genetica. Autore? Stanley Hall, uno psicologo americano che nel 1898 coniava il termine “adolescens” per descrivere i giovani tra i 14 e i 24 anni.1 Improvvisamente un nemico interno, sconosciuto e formato da sessuomani psicotici si vide trasformato in una massa pronta da sfruttare o mandare al macello per mano di padri frustrati per la propria inettitudine. Tutt’altro che un’invenzione quella degli adolescenti, ma un piano accurato di sicurezza interna e riorganizzazione del corpo della nazione che proveniva da lontano.2  

Una delle possibili radici di questo, quanto mai forzato, piano inclinato venne scoperta nel 1835 da sprezzanti giuristi e famelici psichiatri nel comune di Aunay, in Normandia. Qui un giovane contadino (doppio grado di subalternità), Pierre Rivière, era stato condannato alla pena di morte per aver sgozzato sua madre, sua sorella e suo fratello. In questo micro-contesto dove l’alto (gli studiosi) venne morbosamente ad invadere il basso (il villaggio) in cerca dell’indicibile, Pierre Rivière venne assunto come caso studio.

Ancora una volta la scienza si appropria indebitamente di una personalità fluttuante, fissandola scrupolosamente in una nota a piè di pagina.

Inoltre, poiché considerato un contadino bifolco, Pierre Rivieré verrà riposto ai margini velocemente dopo un’insperata popolarità che molte volte la cronaca nera trascina con sé. Ad interessare non è tanto la persona, quanto sono le sue azioni, le sue pulsioni e il suo aspetto, tutti elementi plasmati a piacimento secondo le diverse logiche che caratterizzano narrazioni pronunciate da svariati attori. Vi è il giurista che descrive Pierre Rivière come una persona malvagia e capace di commettere qualsiasi crimine a causa di una educazione ricevuta ritenuta non adeguata. Vi è il medico con la sua onnipotenza professionale che bolla il giovane come un alienato mentale in base a principi ereditari e comportamentali, i quali a loro volta si basano su aneddoti raccontati dalle persone del villaggio; ma questo non ditelo agli studiosi, ne va della loro presunta imparzialità. Vi sono infine, per l’appunto, i testimoni incalzati da domande che portano in serbo risposte già previste. Ecco allora fuoriuscire dal ventre della Normandia racconti di episodi che certificano come il giovane fosse destinato fin dall’infanzia a commettere un tale esecrabile delitto.

Pierre Rivière e l’adolescente di Stanley Hall sono segni rivelatori di una tendenza di stampo paternalistico volta ad assicurarsi ripetutamente il controllo delle loro creazioni, i figli. Entrambi i tentativi si basano su discorsi, quello medico-sociale e quello giuridico, volti a prevenire e a bloccare pulsioni capaci di scardinare gerarchie solitamente basate su quante rughe segnino il volto. In ogni caso per quanto queste due storie possano offrire diversi parallelismi o addirittura una delle tendenze di fondo che portarono alla periodizzazione “adolescente”, state in guardia a non fare come lo psicologo, il medico o il giurista. Ciò che ricerchiamo paradossalmente potrebbe non esistere. Ciò che crediamo è plausibile che non sia mai avvenuto. Teniamoci le nostre convinzioni a patto di essere consapevoli che sono solo un frammento della Verità. Non livelliamo sempre per togliere le increspature, uniche tracce di vitalità intellettuale.

Marco Donadon

NOTE:
1. Se il termine venne coniato nel 1998, “Adolescens” sarà utilizzato da Stanley Hall come titolo del volume che verrà pubblicato nel 1904.
2. Riprendendo le tesi del volume L’invenzione dei giovani del giornalista Jon Savage. Per arrivare al termine “adolescente” ci son voluti fior fiore di articoli e dibattiti scientifici.

BIBLIOGRAFIA:
Io, Pierre Rivière avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello … . Un caso di parricidio nel XIX secolo, a cura di Michel Foucault, Einaudi, Torino 2007.
– Savage Jon, L’invenzione dei giovani, Feltrinelli, Milano 2012.

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L’amore. Frankl, oltre Freud e Adler

«Amare è un’angusta occasione per il singolo di maturare, di diventare in sé qualche cosa, diventare mondo, un mondo per sé in grazia d’un altro» M. Rilke.

Se la psicoanalisi si è preoccupata di studiare l’istintività, l’analisi esistenziale frankliana ripone la propria attenzione sulla ricerca di significato della vita. Ciò che attraeva Viktor Frankl e che continua ad interessare i suoi seguaci è propriamente il senso dell’esistenza, l’orientamento dell’uomo verso il significato. La massima esistenziale del senso viene proposta da Frankl attraverso la tesi del filosofo e teologo Hans Urs von Balthasar, il quale afferma che «il senso dell’essere sta nell’amore»1. Commenta Frankl: «Affermare fin dall’inizio che l’amore costituisce il senso dell’essere implica che “amore” vuol dire sempre “amore verso un tu”. Posso amare soltanto qualcosa di concreto, mai qualcosa di astratto e, quindi, non un valore come tale, in se stesso»2.

L’amore vero, rivolgendosi alla concretezza di una persona, non riguarda un’attenzione generica all’altro, al suo carattere psicofisico, alle sue facoltà, alla sua superficie. Esso ha come obiettivo scorgere la persona spirituale presente nell’altro. Perché «solo alla persona spirituale si dice tu»3 e l’amore chiama alla relazione con un tu. L’amore, pertanto, o è un rapporto fra un Io e un Tu, intesi come unità indivisibile di corpo, mente e spirito, oppure non è vero amore.

La psicoanalisi freudiana e la psicologia individuale adleriana, diversamente dall’analisi esistenziale, non prendono in considerazione la dimensione ontologica e spirituale della persona. Esse si soffermano sulla sola dimensione istintuale dell’essere (lo stesso Freud, scrivendo all’amico Binswanger, ammette di essersi dedicato solamente “al piano terra” dell’edificio uomo) che non viene integrata con le altre. Per questo risolvono l’amore o partendo dall’Es, dagli istinti, oppure partendo dal complesso di inferiorità sociale. In questo modo però viene meno l’essenza stessa dell’amore. Freud e Adler non parlano d’amore, bensì di un surrogato di esso, legato unicamente alla datità psicofisica o a quella sociale. «Sono ben note – scrive Frankl – le modalità carenti dell’amore: la libido ed il sentimento di inferiorità; questo è ciò che resta dell’amore, ciò che esso diviene nelle loro mani: da una parte pura sessualità, l’istintualità sessuale della persona, e dall’altra sola società, puro rapporto sociale»4. La volontà di piacere e di potenza, sono così in aperta opposizione con la volontà di amare. Se il valore ontologico sta nell’amore e questo viene deviato verso altre mete, si finisce per far degenerare la volontà di significato, appunto perché si smarrisce il senso dell’essere per eccellenza. Proprio per questo il filosofo viennese afferma: «Il potere cerca il valore d’uso di una cosa, mentre l’amore preserva la dignità della persona. Il potere lascia che si diventi egoisti, interessati, mentre l’amore rende attenti al valore»5.

Il nostro tempo sembra aver smarrito il significato profondo dell’amore. Le relazioni affettive non vengono vissute in pienezza, bensì vengono consumate fugacemente perché mosse solamente dal gioco del godimento immediato. La mercificazione dei rapporti comporta legami fragili e personalità altrettanto deboli. Infatti, l’atteggiamento puramente sessuale ha come fine il fisico del partner e in questo aspetto rimane imprigionato. Ugualmente l’atteggiamento erotico è finalizzato all’aspetto psichico, ma anche quest’ultimo non permette di conoscere l’intimità dell’altra persona. Solo chi assume l’atteggiamento dell’amore vero può incontrare l’altro, nella sua intimità pluridimensionale. In proposito Frankl si esprime così:

«L’amore (nell’accezione più stretta della parola) è la forma più elevata dell’erotismo (nell’accezione più estensiva del termine), in quanto offre la possibilità di penetrare il più profondamente e completamente possibile nella struttura personale di un Tu, entrando in una relazione squisitamente spirituale. Il rapporto immediato con lo spirito di un altro rappresenta la più completa forma di partnership. Colui che ama in tal modo non è più eccitato nel proprio fisico o scosso nella propria emotività: è commosso nel profondo dello spirito, toccato dall’umanità di un altro. L’amore è l’essere rivolti alla persona spirituale dell’amato, con la sua irripetibilità e singolarità»6.

Frankl sostiene che l’essere umano è animato dalla volontà di dare un senso alla propria vita e dal desiderio della massima pienezza esistenziale. La scelta d’amore è una delle mete che maggiormente permette di inondare di senso la propria esistenza, proprio perché integrando i diversi piani dell’essere (corpo, mente e spirito) può condurre alla completezza. Nell’epoca ipermoderna, l’uomo fatica a strappare un senso alla propria esistenza, talvolta sembra averlo smarrito e cerca di riempire il vuoto interiore abbandonandosi al soddisfacimento delle proprie pulsioni. Questo accade in particolare nei rapporti che profumano poco d’amore e molto di istintività narcisistica. Ecco che l’uomo e la donna si fanno guidare dal desiderio di godimento laddove:

«la volontà di significato rimane inappagata. Vale a dire che la volontà al piacere fa la sua apparizione quando l’individuo rimane frustrato nella sua volontà di significato; è allora in genere che egli comincia a essere sottoposto al principio del piacere secondo la psicoanalisi. La libido sessuale cresce rigogliosamente soltanto nel vuoto esistenziale!»7.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, Homo patiens, tr. it. Di E. Fizzzotti, Brescia, Queriniana, 20012, p. 47.
2. Ivi, p. 47.
3. Ivi, p. 48.
4. Ivi, p. 49.
5. Ivi, p. 50.
6. V. E. Frankl, Logoterapia e analisi esistenziale, tr. it di E. Fizzotti, Brescia, Morcelliana 20056, p. 161.
7. V. E. Frankl, Come ridare senso alla vita,  tr. it. di G. Garbelli e E. Schreil, Milano, Paoline 20122, p. 114.

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La casa del sonno – Jonathan Coe

Terry era un oniromane: i suoi sogni costituivano la parte più pura, preziosa e necessaria della sua vita, e per questo trascorreva almeno quattordici ore al giorno dando loro la caccia attraverso la sua mente addormentata.

Gregory, Veronica, Terry, Robert e Sara sono studenti universitari nei primi anni ottanta. Molto diversi tra loro ma accomunati da un rapporto particolare con il sonno: ossessivo, nevrotico, patologico, inquietante. C’è chi soffre di narcolessia e fatica a distinguere i sogni dalla realtà, chi guarda al sonno con occhio scientifico e vorrebbe carpirne le dinamiche più recondite, chi si abbandona al sonno per trovare la radice della propria creatività artistica.

La-casa-del-sonno_CoeL’austera e grigia Ashdown è il dormitorio che ospita i ragazzi e che, dieci anni più tardi, diverrà una clinica specializzata nei disturbi del sonno, che rimane il filo conduttore di tutta la storia. Storia dalla struttura molto particolare. I capitoli dispari sono infatti ambientati negli anni ottanta, periodo in cui i protagonisti sono studenti alla ricerca della propria strada, mentre i capitoli pari ci conducono oltre un salto temporale di quasi dodici anni, le loro personalità si sono definite, le loro vite sono mutate, imboccando direzioni differenti, alcune prevedibili, altre inaspettate.

Il libro è diviso in sei parti, ognuna delle quali rappresenta un diverso stato di coscienza: veglia, fase uno, fase due, fase tre, fase quattro, sonno REM, ed ogni capitolo si conclude con una frase spezzata che prosegue nel capitolo seguente, con connessioni arbitrarie che in principio destabilizzano il lettore.

La casa del sonno è un libro insolito, psicotico, che procede ad incastri, dove ogni pagina diventa un tassello che va a completare quello precedente e ad anticipare il successivo, proprio come in un mosaico. Il lettore si trova  a tratti smarrito, con la netta sensazione di essersi perso qualcosa, ma proprio quando sta per cedere alla tentazione di sfogliare le pagine a ritroso per chiarirsi le idee, Coe si dimostra bravissimo a sciogliere i suoi dubbi, facendo luce su quella porzione narrativa. E’ uno stile al quale bisogna abituarsi ma che, entrati nella giusta ottica, si fa avvolgente, a momenti anche inquietante, trasportandoci nella psiche dei protagonisti, nelle loro nevrosi e nei loro turbamenti interiori.

Mi sentivo più felice quando dormivo che da sveglio. Facevo sogni bellissimi.

La scrittura è dettagliata, ironica, con una forma pulita che non contempla il superfluo.

Il sonno rimane il protagonista assoluto del romanzo, quello stato in cui non siamo pienamente consapevoli, in cui siamo più fragili e forse anche più veri, privati delle sovrastrutture che guidano le nostre azioni durante la veglia.

Quella condizione di vulnerabilità del cuore in cui anche i dettagli più minuti e banali assumono un carattere luminoso, trasfigurante.

Le storie dei protagonisti muteranno negli anni, a volte deviate per sempre da un destino quasi perverso, che userà malintesi e fraintendimenti per prendersi gioco di loro.

Un libro che saprà coinvolgervi e stupirvi, con un’atmosfera surreale e un ritmo vorticoso che vi sospingerà fino all’ultima pagina. Consigliato agli amanti dei risvolti psicologici.

Stefania Mangiardi

[immagine tratta da Google immagini]

Le parole di un altro

<p>Le parole di un altro La Chiave di Sophia</p>

Le parole degli altri convogliano a formare il nostro Me; giudizi, pareri che ci riguardano ci formano e ci aiutano a capire chi siamo e cosa trasmettiamo al nostro prossimo: che si sommano alle iperboli dell’Io. Ognuno di noi non è il solo prodotto dei propri pensieri, del proprio agire sociale bensì per buona parte siamo formati da tutto ciò che proviene dall’esterno: dalla famiglia, dagli amici, dalle nostre avventure, dalla società. Vi siete mai chiesti come mai quando ci troviamo in gruppo – e di gruppo in gruppo, cambiamo ripetutamente modus di espressione – pensiamo, parliamo, agiamo in modo differente rispetto a quando siamo soli e/o in una stretta e fidata compagnia?

Le parole di un altro

Le mie parole sono sempre quelle di un altro,
sono tutte quelle che stanno sull’uscio,
in attesa di entrare.

Disegnano l’orlo del mio Io
e lo spacco che da in profondità.

Note stonate sul pentagramma
concertate nel modo giusto.

Le parole di un altro sono timide,
sussurrate di nascosto dalla mente.

Le parole di un altro
sono quelle che non calzano perfettamente:
di larga manica e strette alla vita.
Sono risposte mai date,
speranze e sentimenti di nuovi cantautori.
Sono da prendere così
da rubare per l’autunno,
da amare e da bere in compagnia.

Parole dadà, parole in toto.

Parole su parole che non sono sempre e solo parole,
ma son le stesse anche dall’altra parte del mondo.

Le parole di un altro sono rapine e furti di luce
ed anche tu che nascondi l’anima, ami prendere dal sole.

Le parole di un altro sono anche amore.

Tutte le parole senza voce,
solo quelle,
diventano amore dentro ogni sguardo.
Ma te voli via e già la sorte segue la tua scia.

Salvatore Musumarra

Malati di rischio? Le conseguenze della predizione genetica.

“CORO: Ma non forse tu andasti anche oltre? PROMETEO: Ho fatto desistere i mortali dal prevedere la morte?

CORO: E qual farmaco trovasti a quel male?

PROMETEO: Cieche speranze in essi collocai”

                                                                   Eschilo

Negli ultimi decenni sembra esserci stata un’evoluzione nella medicina tale da indurre, nei medici, uno spostamento dell’attenzione dalla malattia al rischio di malattia; in altri termini si è passati da una medicina prettamente sintomatico-diagnostica a quella che possiamo definire una “medicina del rischio”, il cui obiettivo è scoprire e curare le patologie ancor prima che abbiano prodotto sintomi o ancor prima che diventino diagnosticabili. In questo contesto di predizione giocano un grande ruolo la genetica e la pratica dei test genetici; infatti, mentre un test genetico diagnostico prevede l’analisi di uno specifico gene, del DNA o dell’assetto cromosomico per riscontrare o eventualmente escludere un’alterazione associata ad una malattia genetica o su base genetica, i test genetici predittivi consentono l’individuazione di genotipi che non sono direttamente causa di malattia, ma comportano un aumento del rischio (suscettibilità) a sviluppare una patologia se associati all’esposizione a fattori ambientali che la favoriscono o alla presenza di altri fattori genetici scatenanti. I test genetici predittivi non riescono ad appurare con assoluta certezza se, quando e con quale gravità la persona interessata si ammalerà, sono però in grado di individuare i soggetti con un rischio di ammalarsi considerevolmente più elevato rispetto alla popolazione generale.

Le condizioni patologiche che possono essere testate da un test genetico predittivo sono essenzialmente alcuni tipi di cancro, malattie neurologiche che colpiscono il sistema nervoso, malattie neuromuscolari e patologie cardiache. In particolare, le analisi molecolari svolgono un ruolo essenziale per la diagnosi presintomatica di soggetti con suscettibilità ereditaria ai tumori. Nel caso di patologie tumorali lo scopo dei test genetici predittivi è essenzialmente quello di cercare di garantire un attento controllo del rischio, di incrementare la diagnosi precoce ed effettuare i giusti interventi per evitare che si sviluppi la patologia, quindi, eventualmente, intraprendere specifiche misure di prevenzione.

La medicina predittiva si compone dell’interazione tra indagini di laboratorio, analisi statistiche, calcoli di probabilità, identificazione dei fattori di rischio genetici ed ambientali di malattia al fine di pronosticare la probabile storia clinica del singolo individuo o di rallentare lo sviluppo della patologia genetica che potrebbe insorgere, anche se, nella maggior parte dei casi, dopo una diagnosi predittiva non si può fare nulla per la prevenzione e la cura della patologia ad insorgenza tardiva diagnosticata. Le recenti acquisizioni ottenute dalla medicina attraverso la ricerca genetica assicurano un’elevata capacità di predizione, ma ad essa non corrisponde lo sviluppo di possibilità di intervento preventivo o terapeutico. Sono pochissimi i casi in cui i test predittivi sono in grado di garantire una possibilità di “autodifesa” monitorando lo stato di salute di soggetti portatori di un rischio genetico e offrendo l’opportunità di intervenire in modo tempestivo nel passaggio dalla predisposizione allo sviluppo di una determinata patologia all’insorgere della malattia stessa svolgendo, appunto, un’azione preventiva.

Generalmente, un risultato positivo del test indica che si è portatori del gene mutato mentre un risultato negativo significa che non si è portatori del gene mutato (ciò non implica una totale invulnerabililtà alla patologia). Tuttavia, può presentarsi una terza possibilità: anche se è stato riscontrato un gene mutato può essere estremamente difficile stabilire se in quel determinato caso si svilupperà la patologia, quando insorgerà, quanto sarà grave e quanto velocemente progrediranno i sintomi. Quando si decide di sottoporsi ad un test genetico vanno discusse con il genetista tutte queste possibilità.

I candidati ai test di suscettibilità provengono soprattutto da famiglie con una storia di comparsa frequente di una determinata patologia genetica; non conoscendo tutte le possibili mutazioni genetiche e, dunque, non essendo in grado di fare screening sui soggetti asintomatici nella popolazione generale ci si limita a identificare la singola alterazione in un malato e a ricercarla nei consanguinei. Lo scopo delle indagini genetiche predittive è avviare protocolli di prevenzione in soggetti predisposti e ciò comporta intensificare gli accertamenti, assumere medicinali, controllare lo stile di vita. Spesso, per la scarsa specificità dei test i risultati possono essere carenti e i rischi di sviluppare quella determinata patologia possono portare soggetti clinicamente normali a diventare per anni “pre-pazienti”, “non pazienti” o “malati di rischio” che ricorrono in maniera esasperata a controlli medici e sviluppano sintomatologie psicosomatiche, inoltre, la consapevolezza di poter un giorno sviluppare una patologia genetica potrebbe provocare nei soggetti psicologicamente più deboli stati d’ansia e panico difficilmente gestibili. Quale può essere, quindi, il senso di una diagnosi genetica predittiva e della sua comunicazione al soggetto se non esiste alcuna possibilità terapeutica? Comunicare una suscettibilità potrebbe portare a danni psicologici devastanti o potrebbe permettere alla persona interessata di essere più libera e consapevole nella pianificazione della propria vita futura? Ha senso poter sapere, in teoria fin dalla nascita, che abbiamo considerevoli probabilità di ammalarci, per esempio, di cancro al seno oppure il rischio è accrescere l’angoscia?

 

Silvia Pennisi

[immagine tratta da donnamoderna.com]

Inside out non è un film per bambini

Nella stagione in cui i titoli più attesi dell’anno escono nelle sale, Inside out è stato uno dei film non solo più visti, ma anche più apprezzati del mese di ottobre. Un risultato in parte prevedibile, dal momento che quasi tutti i film prodotti dalla Pixar Animation hanno sempre riscosso ottimi successi di pubblico e critica. E’ importante osservare però che Inside out, pur rientrando nella categoria “cinema d’animazione”, non può essere ridotto alla semplice definizione di: film per bambini.

Molti critici, nel corso degli anni, hanno sottolineato, a ragione, il fatto che la Pixar abbia dato una svolta netta al modo di realizzare film animati. Non solo a livello di tecnica, ma anche a livello di contenuti e di trama, grazie a storie apparentemente semplici e legate al mondo dell’infanzia, capaci però di sviluppare tematiche molto complesse e profonde, adatte a un pubblico adulto più che a un gruppo di giovanissimi. Inside out, e quasi tutti gli ultimi film firmati Pixar (Wall-E, Up e Ratatouille in particolare), sono quindi il paradigma di un’ideologia. I registi e i produttori di questi film hanno iniziato nel tempo a produrre delle pellicole i cui veri destinatari non sono più stati i bambini, bensì i genitori che accompagnano i propri figli al cinema. Cercando di produrre uno spettacolo formato-famiglia con ambientazioni ispirate alla vita quotidiana e personaggi iperreali, gli autori della Pixar hanno capito che l’importante non è avere l’attenzione dei più piccoli, ma quella dei più grandi che rappresentano il vero pubblico pagante. Se un genitore si diverte a guardare il cartone che il figlio gli ha chiesto di vedere, ci sarà una buona probabilità che con l’uscita del titolo successivo, prodotto dagli stessi autori, sarà il genitore stesso a riportare il proprio bambino in sala, perché ritiene che quello sia uno spettacolo piacevole e istruttivo non solo per il figlio ma anche per lui stesso. Ecco perché la Pixar sta puntando tutto sulla produzione di sequel dei suoi film più famosi e non su opere nuove (pensate a Toy Story 4 in uscita l’anno prossimo, Cars 2, Monster University eccetera eccetera).

Parallelamente, le trame dei film cercano di approfondire tematiche sempre più complesse: l’ecologia. il passaggio all’età adulta, le emozioni che governano l’uomo e così via, motivando anche gli spettatori nella fascia d’età tra i venti e i trent’anni a vedere questi film. Una complessa quanto efficace strategia di marketing, che sfrutta il mezzo cinematografico per produrre idee ed emozioni ogni volta più incredibili ed elaborate. “L’arte sfida la tecnologia e la tecnologia ispira l’arte” ha dichiarato il fondatore della Pixar J. Lasseter. Ed è proprio grazie alla complessità di questi meccanismi che film come Inside out continuano ad avere un così grande successo trans-generazionale. E’ la forza del cinema, ma non azzardatevi a chiamarli ancora: film per bambini.

Alvise Wollner

[immagine tratta da Google Immagini]