Lo straniamento tra Freud e Magritte

Teorizzato puntualmente da Freud ma già anticipato qualche decennio prima da altri studiosi (per esempio Meury e de Saint-Denis) l’inconscio e la sua scoperta hanno aperto un’intera e quasi inesplorata nuova dimensione a cui gli artisti hanno cominciato ad attingere, traducendo nel linguaggio artistico anche concetti ad esso connessi come quello di straniamento.

Particolarmente noto è il legame tra il Surrealismo e le teorie psicanalitiche freudiane, ma è interessante sottolineare che qualche movimento lo si può riscontrare anche nei decenni (forse persino nei secoli) precedenti. Ad una dimensione onirica inquietante ha fatto per esempio riferimento Francisco Goya (1746-1828), che può essere emblematicamente racchiusa nella sua famosissima acquaforte Il sonno della ragione genera mostri del 1799, a proposito della quale pare che Goya stesso abbia scritto che «la fantasia abbandonata dalla ragione genera mostri impossibili». Quella fantasia che dà sfogo agli orrori interiori è facilmente riscontrabile anche nelle “opere al nero” del pittore Odilon Redon (1840-1916), che traccia con carboncino o traduce nella stampa le impossibili e spesso mostruose creature che popolano il suo inconscio, fortemente suggestionato dalla sua infanzia solitaria e infelice.

Le opere di Redon tuttavia sono particolarmente interessanti perché anticipano, di quasi quarant’anni, il concetto freudiano di straniamento, Das Unheimliche, spesso tradotto come perturbante, da un saggio pubblicato nel 1919. Con questo termine Freud faceva riferimento a una sensazione di angoscia e paura generata da una situazione avvertita al contempo come familiare ed estranea. Così nelle opere di Redon cominciamo a trovare immagini che mescolano oggetti e situazioni reali calate in contesti e scenari impossibili, come in L’occhio come un pallone bizzarro si dirige verso l’infinito (litografia del 1882) scorgiamo un gigantesco occhio-mongolfiera che fluttua su una superficie marina. Per Freud il sogno è contaminato della realtà ma questa viene trasfigurata e da questo nasce il perturbante: la familiarità di ciò che conosciamo si mescola con qualcosa di totalmente altro, spesso fantasioso, mostruoso, impossibile. Proprio come questo occhio mongolfiera.

Il fascino dello straniamento è tale da ricorrere in un altro grande maestro del novecento, Giorgio de Chirico (1888-1978). Nelle sue visioni metafisiche, sospese nello spazio e nel tempo e dunque (forse) collocabili in una dimensione interiore, gli oggetti della vita diurna si combinano in modo assurdo: l’arte dunque non è altro che un gioco cosciente analogo all’involontaria attività onirica. Tante sono le opere che si potrebbero citare come spunto, per cui prendiamo un po’ casualmente come esempio Canto d’amore del 1914. Qui vi troviamo un guanto inchiodato, una testa statuaria, una sfera verde, un profilo cittadino sullo sfondo: elementi del tutto reali collocati in maniera del tutto innaturale, accostati in modo apparentemente casuale che, al primo impatto, non possono che farci aggrottare le sopracciglia.

Giungiamo dunque al Surrealismo citato in apertura, il cui Manifesto (1924) dichiaratamente esplicita il suo rifarsi alle teorie freudiane, anche se – come abbiamo ormai capito – il cammino dei surrealisti si colloca su un solco già segnato, o per lo meno abbozzato, da pittori precedenti. Tra i molteplici riferimenti a concetti freudiani tradotti in arte dai pittori surrealisti (Salvador Dalì e Max Ernst tanto per citarne due) torna inevitabilmente anche lo straniamento, il cui interprete più geniale è però a mio modesto parere il belga René Magritte (1898-1967). Ancora più che in de Chirico è evidente e impattante il perturbante, poiché le tele di Magritte si popolano di oggetti e paesaggi reali combinati in modo del tutto improbabile. L’artista ci costringe in una lotta corpo a corpo con gli automatismi della nostra mente, ci sfida ad immaginare una realtà totalmente altra. Si perde in parte la dimensione angosciosa freudiana (non a caso Magritte prende più volte le distanze dal Surrealismo) e i soggetti diventano quasi un puro gioco, un esercizio di domanda. Che ci fa una tromba in fiamme su una spiaggia? O tre giganteschi sonagli sospesi nel cielo? O un bicchiere in bilico su un ombrello aperto? O degli uomini in bombetta che piovono dal cielo? La nostra ragione è sotto scacco e dobbiamo sondare dei modi alternativi con cui “vincere” l’opera. Anche la tecnica iper realistica, quasi fotografica, adottata dall’artista cerca di strapparci dalla dimensione onirica ma al contempo anche dalla realtà, facendoci precipitare in una sur-realtà, una realtà diversa. Difficile dunque trovare una sorta di “morale” o di messaggio nelle tele di Magritte; certo è che anche il mondo a occhi aperti, oltre a quello onirico, è fatto di momenti e cose stranianti, che possono provocarci angosce, ma più la nostra mente è flessibile e allenata al bizzarro e all’imprevisto, più saremo in grado di sopravvivervi.

 

Giorgia Favero

 

[Photo credit: immagine quadro di Magritte da flickr]

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Sei cappelli per pensare: la proposta di Edward de Bono

Nel suo libro Sei cappelli per pensare lo scrittore Edward De Bono non denigra, ma mette in crisi l’indagine dialettica, uno dei principali metodi di cui il pensiero occidentale si avvale per affrontare una questione. «Con la discussione», afferma l’autore, «si perde molto tempo e l’argomento non viene analizzato esaurientemente perché ognuna delle parti è interessata solo alla difesa della propria posizione. Il metodo dialettico produce una riflessione sterile che non lascia spazio alla creatività e alle nuove idee» (E. de Bono, Sei cappelli per pensare, 2013).
Non a caso la proposta di De Bono viene anche definita “pensiero laterale”, uno sguardo prospettico che lascia la strada principale per osservare il corteo da una via secondaria.
L’immagine del cappello rimanda poi al gioco. L’Io deve divertirsi a indossare abiti nuovi, a guardare le cose dall’alto come fanno i funamboli, camminando su fili sottili e mai sicuri.

Ma in cosa consiste questo metodo? Come si indossano i sei cappelli?
Quando si affronta una questione o si vuole trovare una soluzione a un problema, è inevitabile che ognuno abbia il suo modo di pensare. In genere c’è chi è ottimista e vede soluzioni ovunque, chi preferisce non rischiare e chi, magari, aspetta sempre di sentire il parere altrui.
Ebbene, con il metodo dei sei cappelli, ognuno deve rinunciare al proprio Iomandarlo in vacanza», afferma  l’autore), alle solite modalità di approccio e sperimentarne di nuove.
Il cappello bianco rappresenta l’obiettività, ti fa vedere i fatti così come stanno, senza giudizi né riflessioni. È l’analisi dei dati, di ciò che è sotto gli occhi di tutti. Indossare questo cappello significa sforzarsi di vedere la realtà come si presenta, senza particolari interpretazioni.
Se si indossa il cappello rosso, invece, si vuole dare voce a emozioni e sentimenti. Frasi come: «Non chiedermi perché. Questa faccenda non mi convince. Puzza», non forniscono verità, ma permettono di rendere manifesti sentori che influenzerebbero in modo occulto qualsiasi decisione.
Il cappello nero ci offre il punto di vista pessimistico, quello giallo l’atteggiamento congetturale-positivo. Poi c’è il cappello verde da indossare quando si ha bisogno di un cambiamento: «Lei ha illustrato i metodi tradizionali per affrontare il problema. Ci torneremo sopra. Ma prima facciamo dieci minuti di pensiero col cappello verde per vedere se riusciamo a trovare un metodo nuovo» (ivi).
Infine il cappello blu, che ha il colore del cielo. Esso ci porta in alto e ci permette di guardare l’insieme, di mettere a fuoco la questione osservandola nella sua interezza. Spesso questo occhio aiuta  a riunire i singoli sguardi, quelli dei diversi cappelli indossati.

Da un punto di vista operativo, le potenzialità di questo metodo sono evidenti; ma io trovo che siano i risvolti psicologici a risultare ancora più interessanti.
Spesso in una discussione una buona parte dei partecipanti fatica a esprimere le proprie idee per paura del giudizio altrui. Ebbene, «la parte concede libertà», scrive l’autore; «Può essere difficile vedersi scemi, dalla parte del torto o messi nel sacco. Ma dato un ruolo ben definito possiamo godere della nostra abilità nel recitare tutte queste parti, senza che il nostro Io ne risulti danneggiato» (ivi).

Immaginiamo di trovarci a scuola e che l’insegnante entri in classe proponendo ai suoi alunni la seguente questione: “È risaputo che in Italia si legge poco. Secondo voi quali sono i motivi di questa carenza?” Ovviamente i ragazzi diligenti e impegnati tenderanno a difendere l’importanza della lettura, magari elencando gli ultimi libri letti e sapranno argomentare con abilità. Chi non ama leggere cercherà di non esporsi più di tanto e chi è in seria difficoltà se ne starà in silenzio ad ascoltare.
Diverso sarebbe entrare in classe e dire: “Ragazzi, si sa che in Italia si legge poco. Cosa ne dite se proviamo a comprendere insieme i motivi di questo rifiuto? Per farlo, fingeremo di indossare una serie di cappelli che rappresentano altrettanti punti di vista. Dovremo sforzarci di entrare di volta in volta nella parte, analizzando la questione da diverse angolazioni, in modo da vederla nella sua interezza”.
Lo stesso può avvenire in una riunione aziendale, in palestra o in ufficio: il luogo non ha molta importanza. Quello che conta è l’approccio, la disponibilità a guardare un po’ più in là, a esplorare nuovi territori dove spesso si nasconde l’idea giusta.

 

Erica Pradal

 

[photo credit Clem Onojeghuo via Unsplash]

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“Non si è affamati soltanto di pane”: il mondo dei giovani visto da Viktor Frankl

«Non si è affamati soltanto di pane, ma anche di senso. Ci si preoccupa troppo poco di quest’aspetto nello stato sociale odierno» (V. Frankl, Logoterapia. Medicina dell’anima), così si era espresso lo psichiatra e filosofo Viktor Frankl in una conferenza al Politecnico di Vienna nel 1985. Queste parole risuonano con maggior intensità alla luce delle manifestazioni umane, giovanili in particolare, del tempo presente. Le cronache quotidiane riportano eventi che interessano adolescenti e giovani, i cui comportamenti sono espressione di un marcato vuoto interiore. Bullismo, sopraffazione reciproca, violenza reale e virtuale – quest’ultima ancor peggiore per la vastità della propria eco e delle proprie conseguenze psicologiche –, dipendenze tecnologiche, perversioni sessuali, depressione, omicidi e suicidi, sono cifre tragicamente ricorrenti che ritraggono una parte, malauguratamente crescente, della popolazione giovanile.

Nell’attuale mondo occidentale non si può certo affermare che gli stomaci siano vuoti, ma alla luce di questi indicatori certamente lo sono le esistenze, tormentate da un vuoto interiore senza precedenti. È possibile comprendere queste manifestazioni – il che non significa certamente giustificarle – soltanto se analizziamo il fenomeno in profondità, andando alla radice di quei comportamenti e del loro movente. Esse sono espressione della noia, che implica un’assenza di passioni e interessi per il mondo e dell’indifferenza che richiama ad una mancanza di iniziativa costruttiva e proattiva. La noia e l’indifferenza affiorano nel vuoto esistenziale che pervade le giovani generazioni, le quali sembrano aver smarrito compiti e impegni nobili che possono inondare di senso la propria esistenza.

Il senso dell’esistenza non è un concetto astratto, come spesso e banalmente si vuol far credere, ma è estremamente concreto, calato nell’esigenza dell’ora. Il significato riguarda quanto la vita si attende da noi, giorno per giorno, di ora in ora. Esso può essere scoperto soltanto interiormente, contattando l’organo esistenziale per eccellenza: la propria coscienza. Invero, attraverso essa scopriamo i valori che attendono di essere da noi realizzati ed è proprio tale concreta realizzazione che proiettandoci nel futuro, riempie di senso anche il nostro presente. Altresì, è nella coscienza che possiamo percepire e riconoscere la sottile ma fondamentale differenza fra valori, che promuovono la vita e la sua dignità, secondo libertà, responsabilità, solidarietà e dis-valori, tutto ciò che ergendosi sulla distruttività tende a negare il valore della vita, poiché esclude dal proprio agire i fondamenti dell’umanesimo.

L’isolamento, la depressione, la dipendenza e la violenza sono l’espressione di una generazione marcata da un abissale vuoto di senso. Un vuoto che esige, in ogni modo, di essere riempito. Proprio laddove la volontà di significato viene frustrata proliferano comportamenti distruttivi per sé e per gli altri, i quali contrastano la vita nella sua espressione umana più nobile. Per questo è necessario che la comunità educativa degli adulti riconosca anche in un giovane delinquente, in un tossicodipendente, in un depresso o in un dipendente patologico, la volontà di trovare uno scopo e dare un senso alla propria vita. I giovani d’oggi non sono senza valori, hanno bisogno che il mondo adulto ritorni ad adempiere al proprio compito educativo, sfidandoli a realizzare significati nella propria esistenza. Facendo sentire loro la responsabilità per la vita, che si configura come impegno concreto per un’opera da realizzare, per una causa, per un alto ideale civile, politico o religioso, o come amore per un altro essere umano. Solo riscoprendosi responsabile per qualcosa o per qualcuno, l’essere umano può sperimentare che la propria esistenza, unica e irripetibile, ha un significato altrettanto unico e irripetibile. Precisamente, scrive Frankl, «la ricerca di senso ha un orientamento […] è diretta verso quei valori che ogni singolo uomo ha da realizzare nell’unicità della propria esistenza e nella singolarità del proprio spazio vitale» (V. Frankl, Logoterapia. Medicina dell’anima).

Queste no future generation hanno bisogno di riconoscere che la vita si configura come un appello, un compito unico e irripetibile, al quale ciascun essere umano è invitato a rispondere personalmente. Riconoscendosi responsabile dinanzi a tale compito, il singolo individuo profonderà il proprio impegno fisico, psicologico e spirituale, per realizzarlo. Invero, sperimentare che vi è uno scopo nella vita, che vi è un obiettivo da perseguire, una causa da servire o una persona da amare, permette di superare anche le circostanze più arcane, senza precipitare nel nichilismo che induce a fare cose senza senso (dis-valori). Aiutare i giovani in questo difficile cammino di educazione esistenziale, implica invitarli a sentire interiormente il desiderio di significato, quel motore che aiuta a muoversi da obiettivi conseguiti a valori che ancora attendono di essere realizzati nel futuro, in una sana e necessaria tensione verso il significato che anima fattivamente l’esistenza.

 

Alessandro Tonon

 

[Photo credits su unsplash.com]

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Adolescenti e giovani in cerca di senso

Adolescenti e giovani del tempo presente veleggiano nell’incertezza come “navi in gran tempesta”, avendo perso la direzione della loro esistenza. La fatica che attanaglia le nuove generazioni è caratterizzata, molto più che da una frustrazione sessuale o da una frustrazione sociale, da una frustrazione esistenziale. La crisi economica del nostro tempo è senz’altro un indicatore che non può essere omesso nel tentativo di spiegare le esistenze stanche e lacerate di moltissimi adolescenti e giovani. Ma la spiegazione più sottile e profonda è da ricercarsi in una crisi esistenziale che attraversa come una lama affilata mente e cuore di ragazzi e ragazze in cerca del proprio posto nel mondo.

La società ipermoderna ha cercato in tutti i modi di affermare il principio di piacere e la volontà di potenza e prestigio, ma ha dimenticato di riconoscere il motore principale della vita dell’uomo: la volontà di significato. Dare un senso alla propria esistenza precede, e non segue, il principio di piacere o la volontà di potenza. L’uomo infatti ha bisogno di uno scopo che dia direzione alla propria vita, ha bisogno di un perché per poter vivere.

La frustrazione delle giovani generazioni è dunque e primariamente esistenziale. Una fatica nella ricerca del senso della propria vita che spesso finisce per essere rinuncia, resa, abbandono, cedimento sul proprio desiderio. In merito, si rileva troppo superficialmente come la psico-apatia, la noia e la depressione siano i moventi di gesti estremi. Mentre, con maggior coraggio e profondità, si dovrebbe sottolineare che queste manifestazioni dell’esistenza sono originate da un abissale vuoto di senso, che si erge di fronte alla comunità degli adulti come un grido che invoca ascolto. Se esso non viene riconosciuto, se non si presuppone che, anche in un giovane delinquente, in un annoiato, in un depresso, in un tossicodipendente, in un suicida, scorre profonda come una corrente carsica, la volontà di strappare un senso alla vita, allora renderemo giovani uomini e giovani donne eternamente frustrati e apatici. Comprendere nella nostra antropologia anche la volontà di significato implica edificare una filosofia, un’etica, una psicologia e una pedagogia che puntano alla pienezza e alla bellezza dell’esistenza dell’uomo. Fu proprio il poeta Goethe ad affermare:

«Se tratti una persona per come è, resterà quello che è, ma se la tratti per ciò che potrebbe essere diverrà ciò che dovrebbe e potrebbe essere».

In linea con questa “antropologia dell’altezza” lo psichiatra viennese Viktor Frankl riteneva opportuno superare ogni tipo di riduzionismo umano in favore di una visione comprensiva e integrativa di tre fondamentali dimensioni: corporea, psichica e noetica. Quest’ultima, è la dimensione attraverso la quale è possibile scoprire quotidianamente il senso della propria esistenza. Essa riguarda il nostro intelletto e il nostro spirito. La personale capacità di deciderci sempre ciò che vogliamo essere, per quale motivo siamo disposti a vivere, soffrire e morire. È questa la dimensione specificatamente umana attraverso la quale anche corpo e psiche possono trovare equilibrio, per questo è fondamentale riconoscerla, alimentarla e non frustrarla. La tensione verso il significato, per quanto impegnativa, è decisiva e indispensabile per la salute e il benessere olistico di ciascuno. Scrive infatti Frankl: «Non c’è nulla al mondo, oserei dire, che può aiutare qualcuno a sopravvivere così efficacemente anche nelle condizioni più diverse come sapere che c’è un significato nella propria vita»1.

Ascoltiamo il disperato grido dei giovani alla ricerca di un perché. Solo avendo un perché potranno sopportare quasi ogni come. Aiutiamoli a scoprire di ora in ora il senso della propria esistenza. Sfidiamoli a realizzare il potenziale significato della loro vita, incentiviamoli a ravvivare il fuoco di questa sana tensione, affinché si muovano da ciò che hanno compiuto verso ciò che ancora attende di essere da loro realizzato nel futuro. È proprio questo desiderio di attuare un valore nel futuro che, secondo Frankl, ha tenuto in vita lui stesso e molti altri internati nel secondo conflitto mondiale.  Egli scrive: «quando fui portato al campo di concentramento di Auschwitz, mi fu confiscato un manoscritto pronto per la pubblicazione. Di certo, il mio profondo desiderio di riscriverlo ex novo mi aiutò a sopravvivere alle difficoltà dei campi dove mi trovavo»2.

Il vuoto interiore delle giovani generazioni non va dunque sottovalutato. È un segnale. È il richiamo ultimo ad affiancarli nella fatica, non per imporre loro il significato, ma per mostrargli che esso si presenta come un appello unico e irripetibile che la vita pone nell’esigenza dell’ora. «Ogni uomo viene interrogato dalla vita; alla vita lui può solo rispondere in modo responsabile»3 afferma Frankl. Scoprendo verso chi o che cosa si sente responsabile, un’altra persona, un alto ideale, la propria coscienza, oppure Dio, l’uomo può inondare di senso la propria esistenza. Il significato è peculiare per ogni uomo, invero «il compito di ciascuno di noi è tanto unico quanto unica è la nostra capacità di raggiungerlo»4.

I giovani, seppure spesso in modo inconsapevole, comunicano questa profonda crisi e reclamano ascolto attivo e partecipe alla loro angoscia esistenziale. Gridano, talvolta con pensieri e comportamenti (solo) in apparenza incomprensibili, per sottolineare agli adulti che il vuoto, non va riempito con oggetti, protezione soffocante, libertà di godimento senza limiti, illusioni a buon mercato, ma con un’attenzione rivolta alla speranza di una vita ricca di significato, nonostante le ombre (o proprio  grazie a esse) che la contraddistinguono. Adolescenti e giovani invocano cura per le loro fragilità e chiedono che si vada alla radice del vuoto che sentono. Solo un ascolto paziente e uno sguardo profondo permettono di riconoscere e raggiungere questa radice, questa fragilità alla quale è sotteso il desiderio ancestrale di una vita piena di senso. Solo se si sentiranno ascoltati e se vedranno riconosciuto e valorizzato il loro primario bisogno di dare significato alla propria esistenza, i giovani potranno ritrovare la rotta della loro “nave in gran tempesta”.

 

Alessandro Tonon

 

NOTE:
1. V. E. Frankl, L’uomo in cerca di senso. Uno psicologo nei lager e altri scritti inediti, tr. it di N. S. Sipos e M. Franco, Franco Angeli, Milano, 2017, p.119.
2. Ivi, p. 119.
3. Ivi, p. 123.
4. Ibidem.

[Photo credits: Jessica Ruscello via Unsplash]

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Che cosa significa amare i propri figli? La parola a Erich Fromm

L’arte di amare è un libro di Erich Fromm da tenere sempre con sé e da sfogliare ogni qualvolta se ne abbia la necessità.

Nella società attuale infatti molto spesso si leggono sui quotidiani o si sentono per televisione casi di tragedie familiari, quali sono sintomo di un’assenza di una reale consapevolezza delle dinamiche dei rapporti che intercorrono tra genitori e figli. Per questo l’analisi dell’amore dei genitori verso i propri figli realizzata da Fromm in contesto terapeutico può essere molto utile per tutti coloro che vogliano comprendere di più loro stessi e il loro modo di rapportarsi con i propri cari, al fine di favorire il benessere del vivere quotidiano all’interno della famiglia stessa.

Secondo Fromm la madre per il bambino costituisce una sorgente di calore, serenità e pace. Nella prima infanzia il bambino presenta un carattere prevalentemente narcisistico, tanto che la realtà ha senso solo in relazione alla soddisfazione dei propri bisogni. Con la crescita invece inizia a percepire le cose come entità distinte, le nomina, vi dà un’esistenza propria. Così egli «apprende che la mamma sorride quando mangia; che lo prende in braccio quando piange; che loda quando va di corpo»1. Il bambino è tutto il mondo per la madre, è l’oggetto esclusivo della sua attenzione. «Sono amato perché sono il bambino della mamma»2 pensa il bambino; per questo motivo egli nutre nei confronti della propria madre un amore passivo. «Sono amato perché sono indifeso. Sono amato perché sono bello e bravo. Sono amato perché la mamma ha bisogno di me»3, pensa.

L’amore materno è incondizionato e in quanto tale non vi è nulla che si possa fare perché possa essere raggiunto dal bambino con i propri sforzi, non può essere conquistato dal bambino in alcun modo. Per dirla con Fromm stesso: «sono amato per ciò che sono oppure, più precisamente, perché sono. Tutto ciò che devo fare è essere – essere il suo bambino»4. La madre o ama in maniera disinteressata fin da quando si è nati o non vi è modo di ottenerlo.

A questo amore incondizionato però il bambino non risponde con altrettanto amore, bensì con una semplice gratitudine.

Il bambino inizia invece ad amare quando insorge in lui il desiderio di produrre amore in maniera attiva attraverso la propria creatività. «Per la prima volta nella vita del bambino l’idea dell’amore è spostata dall’essere amato in amare; in amore creativo»5 dice Fromm.

I bambini fanno così un disegno o una poesia da regalare ai genitori.

Da adolescenti l’egocentrismo lascia spazio all’altruismo: dare è diventato più bello che ricevere. Fromm infatti distingue l’amore infantile che dice: «ti amo perché ho bisogno di te»6 da un amore maturo che dice: «ho bisogno di te perché ti amo»7. Se nei primi i primi anni di vita importanti sono  i rapporti con la madre, nella crescita del bambino altrettanto importanti sono quelli con il padre. L’amore paterno differisce dall’amore materno, in quanto non è possibile cercare nel padre un amore incondizionato: quello paterno è un amore meritato, il quale può «lasciare un senso di amarezza perché non si è mai amati per se stessi, ma si è amati soltanto perché si piace»8.

Il padre diviene così colui che indica il sentiero per divenire adulti al bambino. La condizione dell’amore paterno è la soddisfazione delle aspirazioni del padre stesso. L’amore paterno dice: «io ti amo perché tu soddisfi le mie aspirazioni, perché fai il tuo dovere, perché sei come me»9. Sebbene sia un amore che va meritato, quello paterno, a differenza di quello materno, può essere conquistato. Può essere anche perso, se si disobbedisce al padre. Il padre è una guida per il bambino, deve educarlo alle regole, affinché possa affrontare un giorno le sfide che la vita gli porrà davanti. Fromm non manca di ammonire i genitori: per essere delle buone madri è necessario desiderare che il bambino raggiunga l’indipendenza e l’autonomia, non lasciando spazio a forme di amore simbiotici; di converso l’amore paterno non dovrebbe fare ricorso ad alcuna forma di coercizione e lasciare spazio ad una più libera autodeterminazione.

Per Fromm la persona matura è tale esclusivamente nella misura in cui sono state abbandonate le figure esterne del padre e della madre e sono state interiorizzate in noi, fanno parte di noi, ovvero «la persona matura è arrivata al punto in cui è la madre e il padre di se stessa»10. Questo passaggio è molto importante in quanto è strettamente legato alla salute mentale al momento del raggiungimento della maturità. Nel caso in cui questo processo non andasse a buon fine si correrebbe certamente il rischio dell’insorgere di qualche patologia, certamente non auspicabile, come la nevrosi.

I comportamenti che i genitori adottano nei confronti dei figli quando sono in tenera età sono perciò determinati circa la formazione della psiche del bambino e il suo raggiungimento dell’età adulta. Secondo la saggezza popolare alcuni problemi concernenti l’esperienza vissuta e il modo di rapportarsi agli altri da parte degli adulti andrebbe proprio ricondotta a sua volta ad un infanzia travagliata.

Spesso accade che le persone mettano in atto dei comportamenti, anche inconsciamente, che risultino lesivi per i più piccoli, comportamenti quali esito di traumi che in questo modo potrebbe influenzare negativamente la prole. In particolar modo Fromm indaga nello specifico quali atteggiamenti sono da evitare, portando come esempio una madre che certamente è amorosa, ma che faccia dell’autoritarismo il proprio strumento educativo, o come un padre che non ha sviluppato una sufficiente virilità, la quale si traduce in ultima analisi in debolezza e non curanza dei figli.

 

Davide Vardanega

 

NOTE:
1. E. Fromm “L’arte di amare”, Il saggiatore, Milano 1977, p. 55 
2. Ibidem
3. Ibidem
4. Ibidem
5. Ivi, p. 56.
6. Ivi, p. 57.
7. Ibidem
8. Ivi, p. 58.
9. Ivi, p. 59.
10. Ivi, p. 61.

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La morte e l’eterno: intervista a Ines Testoni

L’Occidente ha un problema ingravescente con la morte. Non perché stia scendendo l’aspettativa di vita, che anzi, è piuttosto alta rispetto a tutto il resto del mondo. A partire dal ‘900 è cominciato il processo di estraniamento della morte dalla nostra quotidianità, mentre fino a prima essa è sempre stata, per quanto fenomeno individuale, un evento di comunità. I riti attorno all’ultimo passaggio hanno permeato tutte le culture fin tanto che l’unico antidoto contro la paura della morte sono state la solidarietà, la vicinanza, la relazione con i prossimi più cari. Questa storia di accompagnamento è stata improvvisamente interrotta dall’intromissione della tecnica medica, grazie al progresso della scienza. Abbiamo dovuto abbandonare le buone pratiche di accompagnamento al fine vita per mandare i malati a curarsi, fino alla morte, in luoghi protetti, specializzati, governati da professionisti determinati a lottare contro la malattia, ma che del malato spesso conoscono ben poco. Il luogo di cura per eccellenza, l’ospedale, è anche il luogo dell’occultamento della morte.

Attraverso il nichilismo, la filosofia ha già fatto i conti con la caduta dei valori, ma è forse necessario indagare come la morte, spesso definita come l’implosione di ogni valore, possa essere essa stessa un valore da salvaguardare.

Può la morte essere un orizzonte che, una volta riconsiderato sotto un’altra ottica, dona un nuovo senso al nostro rapporto con l’eternità? Per fare luce su questa possibilità e sulle questioni di fine vita che stanno cambiando la nostra società, abbiamo interpellato una grande esperta: Ines Testoni, professoressa di Psicologia delle relazioni di fine-vita, perdita e morte, nonché direttrice e fondatrice del master Death Studies & the End of Life dell’Università degli Studi di Padova.

 

Professoressa, la gestione della morte è diventata nell’ultimo secolo un problema peculiare. Quali sono le esperienze che sono venute meno nella vita degli individui da quando la morte è stata allontanata?

Da sempre l’essere umano cerca di dare senso alla perdita e in particolare a quella scomparsa che ritiene assoluta, come è quella causata dalla morte. Nella storia dell’umanità, la civiltà comincia ad apparire proprio a partire dalla costruzione di parole e simboli in grado di conferire senso a questa esperienza. Molti studi descrivono come fino alla fine del diciannovesimo secolo la ritualità religiosa regolasse le relazioni sulla base di rappresentazioni condivise di ciò che sta oltre la vita. Con la morte di Dio, che non consiste semplicemente nella perdita della fede quanto piuttosto nella consapevolezza della necessità di ridefinire i costrutti in cui affondano le radici dell’atto di fede, le persone non sanno più come gestire questo momento tanto importante quanto abissale. Nonostante l’essere umano si caratterizzi tutt’oggi per la consapevolezza della finitudine, viviamo in un’epoca che, avendo estinto la capacità di performare collettivamente il cordoglio, innanzitutto sembra voler rincorrere la celebrazione del corpo e della vita biologica, nascondendo l’evidenza del fatto che siamo comunque destinati a morire. Ci troviamo infatti immersi in una società che ha interamente esternalizzato dal soggetto e dalle relazioni familiari l’esperienza della malattia e della fragilità, affidando il momento del distacco al linguaggio della tecnica piuttosto che a quello degli affetti e della ricerca interiore. Anche la Chiesa cattolica sembra colludere con, se non addirittura promuovere, l’idea che l’amore si dimostri attraverso l’uso di ciò che il linguaggio bioetico internazionale chiama extraordinary meanings. Dinanzi alla morte, la pietas cattolica sembra volersi identificare con l’uso di dispositivi tecnologici sempre più raffinati ed invasivi, anziché proporsi come esperienza di condivisione della sofferenza nella vicinanza, attraverso abbracci, ascolto e ricerca intorno al significato che la vita già vissuta ha espresso o mantenuto segreto. In realtà, le cure palliative permetterebbero proprio questo tipo di conclusione, resa possibile dalla soppressione del dolore fisico che lascia aperto interamente il vissuto dell’angoscia che la consapevolezza della morte disvela. Al contrario, la disputa su come garantire fino all’ultimo, magari appellandosi alla speranza, il “rimedio vitale” distoglie dal compito di mantenere il focus sullo strazio del morire. E questo accade proprio perché sembra che nessuno voglia più scommettere su qualcosa che ci riguardi dopo la vita biologica.

Un tempo, in nome di Dio, gli esseri umani sacrificavano la stessa vita, perché erano convinti che così facendo avrebbero guadagnato la salvezza eterna. La morte non era il temibile, lo era invece il peccato e il dedicare al corpo più attenzioni di quelle dedicate all’anima.

 

Quali conseguenze derivano dall’occultamento della morte, dal suo allontanamento dalla società?

I riti di passaggio hanno sempre segnato il cambiamento dell’individuo da una condizione ad un’altra nel ciclo della sua vita all’interno della comunità. Prima del secolo scorso, anche la ritualità funebre assolveva a siffatto compito, definendo il passaggio dalla condizione della vita biologica all’esistenza ultraterrena. Oggi questo non accade più e la ritualità funebre sta progressivamente tramontando, lasciando spazio a mode e complesse espressioni di manipolazione della salma con funzione apotropaica.

A causa di questo cambiamento, che ha caratterizzato la seconda metà del secolo scorso, chi muore si trova spesso in solitudine e dipende da sempre più complessi dispositivi medici, all’interno di strutture sanitarie che sostituiscono le relazioni interumane con sostanze chimiche e apparecchiature elettroniche. Questo comporta che, intorno al morire, si sviluppi un deserto meccanizzato che isola i sofferenti, peggiorando drammaticamente la loro condizione esistenziale. L’esito potenzialmente infausto che tale stato determina è caratteristico di tutte quelle malattie sempre più numerose che prevedono un esito fatale a decorso prolungato. Se un tempo esse causavano una morte rapida, come per esempio il cancro o le malattie neurodegenerative, oggi grazie alla medicina vengono cronicizzate e la loro terminalità è sempre più estesa. Quando diviene evidente che solo la morte può porre fine a tale condizione, allora l’angoscia prende il sopravvento e con essa le strategie di negazione, rimozione e inautenticità messe in essere tanto dal malato quanto dai suoi famigliari e dalla comunità curante. Tale periodo, che inizia con l’annuncio della bad news, ovvero da quando viene data la notizia dell’impossibilità di porre rimedio alla patologia destinata ad avanzare irresistibilmente, in realtà potrebbe essere, come ritenevano gli antichi, un tempo utile per chiudere bene la vita in accordo con gli dei e con i propri simili. Invece è esattamente ciò che più si teme: una lunga sofferenza che toglie progressivamente facoltà e potere, lasciando il malato in balia di macchine e sostanze chimiche, spesso percepite come intrusioni violente che non ripristinano affatto il benessere.

 

Quali sono le strategie che filosofia e psicologia propongono per la gestione di questo problema?

A partire dal secolo scorso, insieme alla pedagogia e alla sociologia, la psicologia ha costruito delle procedure relazionali che hanno fatto corrispondere ai riti di passaggio i cosiddetti “compiti evolutivi”. Dopo Nietzsche, la diffusa convinzione che Dio sia solo un atto di fede e dunque un’illusione perché siamo profondamente certi che l’esistenza della realtà sia indipendente dalla volontà (credenza, desiderio, speranza) individuale, la parte finale della vita, essendo considerata affacciata al nulla e dunque non un momento importante di passaggio, ha perso il proprio compito evolutivo. Siamo drammaticamente incapaci di offrire senso alla sofferenza perché non ci aspettiamo che al di là dell’ultimo respiro ci attenda una realtà che ci riguarda interamente.

Ciò che innanzitutto la filosofia può mettere a disposizione della psicologia è la consapevolezza di come la sofferenza che precede la morte sia un prezioso periodo di passaggio. Per quanto, infatti, esso sia caratterizzato da dolore, molto simile al lutto completo (anticipatory mourning), si tratta comunque di una fase in cui è possibile prepararsi al distacco e negoziare nella relazione il senso dell’esperienza passata. Ciò che la filosofia può restituire alla disperazione dell’umanità è la consapevolezza che si tratta di un momento oltre il quale altro ci attende e non perché dipenda dalla nostra fede, quanto piuttosto perché è necessario e non esiste alcun nulla che possa annientare ciò che è. Quando parlo di filosofia, ovviamente mi riferisco non alla metafisica, definitivamente confutata dal pensiero contemporaneo, che ha avviato l’inclemente pensiero del disincanto su cui la crisi del senso del morire affonda le proprie radici. E non mi riferisco neppure a una filosofia neo-positivista o debole, da ultimo modellate sulla sostanziale coerenza di tutto il pensiero occidentale, grazie al quale il sapere medico e scientifico-tecnologico guadagna il proprio valore, ovvero il credere che la morte significhi annientamento assoluto per cui ogni strumento che garantisca la moltiplicazione dei giorni di permanenza nel mondo è a priori dotato di senso. Il punto di non ritorno del pensiero filosofico da cui può prendere origine una rivoluzione scientifica e anche ermeneutica è quello di Emanuele Severino, ovvero l’indicazione della necessità dell’eternità dell’essente. A partire dalla comprensione di siffatto concetto imperniato nella “struttura originaria della verità” che ha modificato il linguaggio, in quanto esso non può più essere identico a sé stesso da quando è apparsa la testimonianza del destino della necessità dell’eternità dell’essere, la rappresentazione della morte non può che considerarsi irreversibilmente cambiata.

Sapere che morte non può significare annientamento non è come non saperlo e saperlo significa lavorare seriamente per dare senso all’ultimo tratto della vita.

La filosofia può offrire l’opportunità di riorganizzare il compito evolutivo della fase più importante del passaggio nel mondo, insieme all’esperienza più significativa, quella del distacco da chi ci lascia per raggiungere l’ulteriorità.

 

Dobbiamo educare sia le figure professionali ma anche l’intera società, per questo lei parla di diffondere una death education, addirittura nei bambini, giusto?

Sì, a partire dalla riflessione inerente al che cosa crediamo che significhi morire realizzo da anni percorsi di death education tanto con i bambini quanto con gli adulti. L’interesse per questi temi è esorbitante. Quanto più essi vengono censurati nella vita quotidiana, quanto più le domande crescono nel cuore e nella mente di tutti.  L’importanza di tali forme di riflessione, che si sviluppa intorno alla malattia grave e alla morte, è destinata a crescere, per due motivi, che renderanno sempre più significativa la death education.

Il primo motivo riguarda il fatto che verrà progressivamente inverato quanto richiesto dalla convenzione di Oviedo e dalla legge 219/17, che ci destina a diventare ammalati competenti rispetto alle cure, affinché il nostro consenso sia consapevole e autentico. Poiché non sempre gli interventi medici garantiscono il ritorno a uno stato ottimale di salute, sarà prezioso il lavoro di chi saprà sostenere psicologicamente chi deve cominciare il percorso del proprio declino proprio o di quello di una persona cara. Il secondo motivo inerisce al fatto che le carenze economiche dei servizi sanitari ridurranno drasticamente la possibilità di morire in strutture ospedaliere, e ricominceremo dunque a vivere l’ultimo periodo della vita a casa, anziché in ospedale. L’attuale inesistenza di una cultura diffusa intorno alla dimensione esistenziale dell’ammalarsi e della finitudine, in rapporto al senso della morte e del morire aggiunge al dolore e alle difficoltà concrete della malattia anche l’angoscia derivante dall’incapacità di rappresentarsi il problema e di comprendere le risposte che la tecnica sta progressivamente promuovendo in forma sempre più sistematica. L’assenza quasi totale di competenze diffuse al riguardo, relative a come si gestisce una malattia terminale e la morte a casa, abbandona tanto i morenti quanto i famigliari alla casualità dell’improvvisazione e alla contingenza delle situazioni.

La death education può aiutare ad affrontare questa situazione, aprendo gli orizzonti della riflessione al fine di supportare gli individui nella gestione dell’angoscia e nella scoperta dei significati che la sottendono. L’uomo agisce sempre in base a ciò che comprende e se la comprensione di questi temi è autentica, la death education può agevolarli nel compito di affrontare gli importanti cambiamenti e le loro ripercussioni che la morte porta con sé.

 

Prima di occuparsi della psicologia della morte si è dedicata a lungo alla psicologia delle differenze di genere e della condizione femminile, c’è qualche ponte concettuale che le viene in mente tra morte e femminile, in senso filosofico o sociale?

Questo tema mi è molto caro, in particolare mi interessa il rapporto tra le differenze di genere e la generatività. Fino a qualche anno fa sembrava che questa dimensione fosse una peculiarità femminile, in quanto la donna è stata da millenni educata ad impostare la propria vita in funzione della vita che può dare mettendo al mondo i figli ed offrendo loro la possibilità di aprirsi al mondo. Oggi questa caratteristica viene sempre più conquistata anche dagli uomini, tanto che ormai si tratta di un patrimonio che non può più essere considerato solo femminile. In Occidente, come la donna sta imparando a trasformare la società con il proprio lavoro, così l’uomo sta acquisendo una nuova competenza, ovvero quella di gestire le relazioni nell’intimità in funzione della crescita dell’altro. Su questo cambiamento ormai inevitabile e sulla diversa idea di morte hanno fatto perno le mie ricerche, ipotizzando che gli uomini siano più propensi a vedere la morte come annientamento in totalità e le donne come passaggio. La generatività entra in rapporto con questo aspetto: quando si ama qualcuno a cui si è dato la vita è difficile immaginare che possa essere annientato con la morte. In passato questo caratterizzava la donna, e mentre gli uomini si organizzavano per uccidere il nemico, le donne pregavano per i propri figli e i propri cari. Oggi tanto gli uomini quanto le donne in Occidente stanno imparando il valore della pace, anche se essa sembra sempre a rischio. Ciò che devono scoprire è che si può vivere senza guerre e che insieme si può contemplare il senso dell’eterno. Certo, detto così sembra facile, in realtà l’impegno di studio e ricerca che questa consapevolezza richiede è esorbitante. Ma se pensiamo a quanti anni dedichiamo allo studio e quanta disponibilità di informazioni è offerta a ognuno in ogni momento grazie alla tecnica, pare proprio che non ci manchi niente per poter fare sul serio nell’affrontare le questioni più importanti che riguardano il rapporto tra la vita e la morte.

 

Un’ultima domanda. Che cos’è per lei la filosofia?

Io la definirei così: la necessità dell’apparire del linguaggio che testimonia il destino, ovvero la verità dell’apparire dell’esser sé dell’essente in quanto tale (ossia di ogni essente), che implica l’apparire del suo non esser l’altro da sé. Tale linguaggio mostra l’impossibilità dell’essente del divenir altro da sé, ossia del suo essere eterno. A partire da questo fondamento, filosofia è anche tutto il lavoro di risoluzione del nichilismo, ovvero del toglimento dell’errore.

 

Pamela Boldrin

 

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